1. Introduzione
Andrés Ruggeri nel suo libro Le fabbriche recuperate. Dalla Zanon alla RiMaflow un’esperienza concreta contro la crisi descrive con estremo realismo il fenomeno delle imprese recuperate dai lavoratori (ERT) nate in Argentina all’apice della crisi economica del 2001. Si tratta di un processo in cui i lavoratori intaccano uno degli elementi centrali del rapporto di produzione capitalistico, ovvero la proprietà privata dei mezzi di produzione.
Il termine utilizzato è stato scelto dagli stessi lavoratori, preferendolo al concetto di autogestione. Soffermarsi sulla parola “recuperate” consente di descrivere in maniera sintetica lo scenario in cui tutte queste realtà sono sorte. Queste imprese nascono da una lotta per impedire la scomparsa della fonte del loro lavoro. Il recupero ha salvaguardato dei posti di lavoro e sostenuto l’economia argentina.
Non è la prima volta nella storia del movimento operaio argentino che vengono messe in atto azioni simili. Gli operai possono rifarsi alla tradizione peronista del proprio movimento sindacale ma allo stesso tempo le ERT fanno uscire questo conflitto fuori dalla cornice della semplice vertenza sindacale dal momento in cui i sindacati erano giudicati inutili in un contesto dove la domanda di lavoro era altissima e l’occupazione veniva considerata un bene di lusso.
A distinguere le ERT da qualsiasi esperienza passata è la portata del movimento e l’assenza di un vero e proprio esproprio dei capitalisti perché nella maggior parte dei casi avevano già abbandonato la loro impresa.
“Cercando di avanzare nella definizione, possiamo considerare le imprese recuperate come un processo sociale ed economico che presuppone l’esistenza di una precedente azienda, che opera come una società capitalista tradizionale (in alcuni casi come una cooperativa tradizionale e legale) ed il cui processo di fallimento, svendita dei macchinari o impossibilità di continuare la produzione ha portato gli operai ad iniziare una lotta per riattivare l’attività attraverso un processo di autogestione”1.
La reazione della politica a queste occupazioni varia dall’indifferenza, in virtù del momento di crisi vissuto dal paese e del consenso sociale accumulatosi intorno alle ERT, all’ostilità dei settori più reazionari della politica argentina che hanno iniziato a definire queste imprese come “il paradiso dei pigri”. Il sostegno della società a queste esperienze è stato molto più duraturo rispetto ad altri fenomeni emersi nel ciclo di lotte del 2001. Ad esempio la solidarietà della classe media argentina verso il movimento dei disoccupati è venuta meno nel momento in cui scomparve la paura di un avvicinamento ai settori più poveri della società. Le sfide maggiori provengono dalla magistratura che ha attaccato le ERT in nome della violazione della proprietà privata e del diritto di proprietà. Le leggi che dovevano tutelare queste imprese, bloccando sgomberi e vendita degli impianti, sono state spesso dichiarate incostituzionali perché l’utilità sociale o pubblica non è applicabile nel caso delle ERT visto che queste attività vanno a beneficio solamente di un gruppo ristretto di persone e non di tutta la società. Di conseguenza i profitti realizzati, applicando ai lavoratori delle ERT la stessa razionalità economica dei padroni e ignorando tutte le attività culturali e sociali svolte al loro interno, verrebbero utilizzati seguendo il proprio interesse.
Occorre sottolineare altri due aspetti prima di analizzare le ERT nel dettaglio. Il primo è che non tutte le imprese recuperate sono uguali agli occhi dello Stato e dell’opinione pubblica. I media e la politica si sono spesi molto per le attività che coinvolgevano quartieri della classe media, come una catena di ristoranti o una scuola privata che sono state recuperate dai lavoratori. Contemporaneamente si sono mostrati indifferenti agli sgomberi violenti della polizia di occupazioni di operai in zone popolari. Il secondo aspetto riguarda le cause che hanno portato alla nascita delle ERT. In nessun caso analizzato da Ruggeri i lavoratori si sono mossi portando a termine un’offensiva programmata e cosciente contro il capitale. La loro è stata una necessità dettata dall’esigenza di continuare a lavorare per sostenere la propria famiglia in un contesto dove non c’erano, per via della crisi, alternative occupazionali. Inoltre non era possibile alcuna contrapposizione frontale con i padroni perché erano già scomparsi svuotando l’impresa. Si sono fatti vivi per pretendere la loro proprietà solamente quando l’impresa è stata riattivata dai lavoratori. Questo scenario è figlio della crisi economica argentina che affonda le sue radici nella progressiva introduzione di riforme neoliberali. Con il ritorno della democrazia il lavoro viene precarizzato, le imprese pubbliche vengono svendute e i salari sono congelati. Molti imprenditori chiusero i loro impianti per diventare importatori del loro stesso prodotto e per potersi gettare nel mondo della finanza. Ciò era favorito dalla legge di convertibilità del dollaro con il pesos argentino che imponeva la loro parità. L’Argentina venne inondata di importazioni a basso costo in ogni settore, compreso quello alimentare dove tradizionalmente era forte l’industria argentina. In questo contesto i padroni cercavano di svuotare le proprie imprese, smettevano di investire e cercarono di lasciarle, spesso con una serie di manovre fraudolente, al minimo costo e danneggiando lo Stato e i lavoratori.
2. Il profilo delle ERT
Al momento della scrittura del libro circa 300 imprese che impiegavano 15600 lavoratori erano coinvolte nel movimento delle ERT. Il 42% di esse è riconducibile al settore metallurgico o manifatturiero, il 19% al settore alimentare, il 22% ai servizi come ristorazione, salute e istruzione. Sono quasi tutte PMI con poco più di 30 lavoratori impiegati. Il profilo medio del lavoratore delle ERT è un operaio specializzato con poca capacità di reinserimento in un altro settore economico e che ha trascorso la maggior parte della sua vita lavorativa nella stessa impresa. A pesare su questo dato è il tempo necessario per riavviare la produzione che allontana dalla lotta coloro, specialmente il personale amministrativo e tecnico, con più possibilità di ricollocamento nel mercato del lavoro.
Per via dei settori coinvolti la maggior parte dei lavoratori delle ERT, circa il 75%, sono uomini. Le donne occupate in questo tipo di impresa si trovano nel settore tessile e nei servizi.
La loro distribuzione rispecchia la struttura economica argentina e i settori maggiormente colpiti dalla crisi economica. Circa il 50% delle ERT sono nell’area metropolitana di Buenos Aires e nella zona industriale di Santa Fe.
Il fatto di essere quasi tutte delle PMI non deve stupire. Aziende di piccole e medie dimensioni sono più facili da gestire rispetto ad imprese più grandi perché richiedono meno capitali, meno guadagni per la manutenzione, il marketing e la logistica. Inoltre le grandi imprese fanno parte di giri d’affari a cui i padroni difficilmente sono disposti a rinunciare diversamente da PMI che avrebbero comunque chiuso o sarebbero state svendute. Esistono grandi imprese autogestite ma sono frutto di conflitti molto più lunghi e complessi. È il caso della Gatic, ex concessionario di Adidas e altri marchi di scarpe sportive, dove solo 4 stabilimenti su 12 sono finiti nelle mani dei lavoratori mentre il resto dell’azienda è stato comprato da altre imprese del settore, oppure della FaSinPat, ex Zanon, una fabbrica di ceramiche di Neuquén.
La loro lotta è diventata famosa in tutta il mondo. Non solo si sono dovuti impegnare per evitare lo sgombero della propria occupazione ma hanno dovuto riconquistare anche un sindacato troppo compiacente con i padroni. Con molta fatica i giudici hanno riconosciuto, dopo 12 anni di lotta, ai lavoratori la proprietà dello stabilimento.
L’unica forma di lavoro adottabile nelle ERT è quella cooperativa che impedisce ai non soci, tranne alcune particolari eccezioni, di svolgere lavori nella fabbrica. I maggiori problemi che porta questa modalità di lavoro riguardano l’assistenza sociale e la sicurezza sul lavoro. La previdenza sociale, infatti, è a carico dei lavoratori stessi e alcuni bonus che spettano anche ai disoccupati e ai lavoratori in nero, per esempio l’Assegno universale per il figlio, non possono essere riscossi dai lavoratori autonomi e delle cooperative.
3. Occupare, Resistere e Produrre
Questo è lo storico slogan del Movimento Sem Terra in Brasile ed è stato ripreso dalle ERT riunite nel Movimento Nazionale delle Imprese Recuperate (Mner). “Occupare, resistere e produrre” ricostruisce in breve il percorso che ogni impresa recuperata deve compiere per salvaguardare i posti di lavoro.
La prima fase coincide con l’occupazione della fabbrica e spesso si sovrappone alla seconda fase, quella della resistenza. Ruggeri sostiene che finiscono per coincidere. Solitamente la fase di occupazione dura nove mesi per poi lasciare il posto ad una cooperativa parzialmente legalizzata. La transizione dalla vecchia società alla nuova cooperativa può essere più o meno radicale e traumatica. Nella fase d’oro del movimento delle ERT, ad esempio, poteva avvenire attraverso un accordo tra lavoratori e vecchia proprietà senza che l’impresa smettesse di funzionare. Ci sono stati casi di imprese familiari destinate al fallimento dove la proprietà, pur di salvare la propria azienda, ha preferito cedere tutto ai lavoratori. Altre volte lo scontro ha assunto una dimensione più radicale.
“Il processo di recupero della cooperativa La Nueva Esperanza, ex Global, una fabbrica di palloncini e prodotti in lattice, ha attraversato momenti traumatici che dimostrano la mancanza di scrupoli ed il senso di impunità di alcuni imprenditori [… ]. Gli operai vennero avvisati dai vicini che avevano notato che, mentre la fabbrica era chiusa, alcuni mercenari sotto contratto dei padroni stavano portando via i macchinari. L’impianto era quindi diventato un magazzino vuote che, poco dopo, ha subito un misterioso incendio che ha distrutto quasi completamento lo stabilimento. I lavoratori iniziarono un lavoro investigativo, riuscendo a trovare il nascondiglio delle macchine, in un magazzino a 40 Km da Buenos Aires. Dopo mesi di accampamento davanti alle porte di questo magazzino ancora una volta fu decisivo l’intervento del Mner permettendo alla futura cooperativa di recuperare le macchine e riportarle al loro posto di origine per tentare un ritorno alla produzione”2.
Un altro esempio eclatante è quello dell’impresa tessile Brukman, una ERT con una forte presenza di attivisti di sinistra a suo sostegno. L’occupazione nasce nella totale ignoranza dei lavoratori che si ritrovano lo stabilimento lasciato in “custodia” dal vecchio padrone che durante la crisi del 2001 chiese agli operai di “prendersene cura” e si defilò per tornare a pretendere la sua proprietà dopo mesi di assenza e con il sostegno della polizia e di un’ordinanza del tribunale. Il motivo è abbastanza semplice: il settore tessile era in ripresa e gli operai erano stati capaci di far ripartire la produzione nonostante una condizione di partenza disastrosa, con uno stabilimento che stava cadendo a pezzi.
L’occupazione, abbiamo già detto, è legata alla resistenza che non serve solo per fronteggiare i tentativi di sgombero ma anche per trovare le risorse e la forza per riavviare la produzione. Ruggeri sostiene che il fattore decisivo per ottenere questo risultato è la creazione di un collettivo dei lavoratori solido e compatto capace di “portare avanti il conflitto, vincere le difficoltà ed i tentativi repressivi e infine affermarsi come un soggetto in grado di organizzarsi in maniera molto diversa rispetto al classico lavoro salariato”3.
Con lo scopo di indebolire la capacità di resistenza dei lavoratori, la fase precedente l’occupazione è contraddistinta dalle azioni del padrone volte a rendere la forza lavoro più precaria, dividere lavoratori manuali e intellettuali (personale tecnico e amministrativo), ricercare la complicità di delegati sindacali poco combattivi e compiacenti e in generale creare un clima di disagio e ansia tra i lavoratori con lo scopo di ridurne il numero complessivo e procedere con la chiusura della fabbrica, anche in maniera fraudolenta. Durante questa fase, inoltre, viene abbandonata la manutenzione dei macchinari o sono trasferiti in nuovi stabilimenti senza i vecchi lavoratori. Infine, vengono contratti dei debiti e gli stipendi non sono più pagati o solo parzialmente.
Il recupero della fabbrica presuppone la ricostruzione di legami di solidarietà e di eguaglianza tra i lavoratori per affrontare queste avversità che tendono a permanere anche nella fase della costruzione e dell’avvio dell’ERT che sconta l’abbandono del personale con più possibilità di essere reinserito altrove nel mercato del lavoro ma risulta di fondamentale importanza per gestire la fabbrica, in particolare i processi di commercializzazione.
Durante questo processo le vecchie gerarchie sono dissolte e la vecchia dirigenza dell’impresa e i sindacati sono messi a dura prova dal collettivo dei lavoratori che spesso tende a sostituirli completamente con un’organizzazione assembleare in cui si forma una nuova leadership, pur mantenendo delle relazioni egualitarie tra i lavoratori. Nelle imprese dove il conflitto è stato meno acuto, invece, le vecchie gerarchie tendono a conservarsi.
Dopo l’occupazione bisogna pensare alla ripresa della produzione e questo comporta l’assunzione da parte dei lavoratori di compiti di gestione normalmente affidati ai capitalisti e ai lavoratori qualificati. Questa sfida impone ai lavoratori di pensarsi come un soggetto collettivo capace di assumersi responsabilità e compiti da classe dirigente che implicano anche prendere una decisione su come impiegare le risorse accumulate con l’azienda tornata in attività.
La resistenza ha come obiettivo il riconoscimento legale della nuova impresa e l’ottenimento di un permesso formale per riprendere le attività produttive. Per ottenere questo obiettivo è vitale il coinvolgimento di sindacati, altri lavoratori e istituzioni statali ma ci sono altrettanti ostacoli rappresentati da una magistratura classista, l’assenza di norme nazionali per proteggere i lavoratori che intraprendono attività come quelle delle ERT e il ruolo marginale giocato in queste situazioni dai sindacati. Per questo motivo è fondamentale, per iniziare il processo di recupero da parte dei lavoratori, la formazione della cooperativa e il riconoscimento da parte del tribunale dov’è depositata l’istanza di fallimento della vecchia azienda della continuità con la precedente attività. In questo modo è possibile giungere all’esproprio che nella maggior parte dei casi sono temporanei con il riconoscimento della pubblica utilità dei macchinari, degli stabilimenti e delle materie prime che i lavoratori potranno utilizzare per i successivi due anni con un’opzione di rinnovo. Questa è la situazione più frequente a Buenos Aires, dove sono maggiormente concentrate le ERT. Dove sono presenti in un numero inferiore, come a Cordoba e Santa Fe, ci sono stati casi di processi interrotti a metà perché sono assenti i meccanismi presenti nella regione della capitale argentina e i lavoratori dovevano farsi carico anche dei debiti del vecchio padrone o provare ad acquistare la fabbrica nell’asta giudiziaria successiva alla dichiarazione di fallimento.
Per quanto riguarda la proprietà della fabbrica, Ruggeri sostiene che la cooperativa è l’unica forma possibile per un’impresa autogestita nel sistema capitalistico per poter arrivare ad una proprietà comune. A seguito di tutte queste problematiche legali, il risultato che il più delle volte è stato ottenuto è un controllo dei mezzi di produzione senza averne la proprietà.
4. I problemi della produzione
L’inizio della produzione porta gli operai a scontrarsi con delle condizioni di partenza molto complicate che variano da caso a caso. Ruggeri sostiene che non è la stessa cosa iniziare la produzione con un magazzino pieno e con un magazzino vuoto. Spesso i lavoratori, facilitati dalla dimensione della PMI, hanno dovuto fare i conti con una contrattazione basata sulla fiducia con ex fornitori per avere le materie prime necessarie alla produzione. Inoltre le condizioni di partenza di un imprenditore che, disponendo di capitali, decide di avviare una nuova attività non sono identiche a quelle dei lavoratori delle ERT che scontano le pressioni della magistratura e l’assenza di risorse economiche che a volte è stata parzialmente colmata da finanziamenti provenienti dallo Stato o da altre ERT in attività da più tempo.
“I lavoratori in realtà non stanno decidendo nient’altro che provare a continuare a far funzionare uno stabilimento fallito, a volte a causa di circostanze macroeconomiche che il capitalista stesso non è riuscito a risolvere, nella maggior parte dei casi per decisione volontaria dei proprietari stessi che hanno cercato di sbarazzarsi dell’investimento a spese dei propri dipendenti e, di solito, anche dei loro fornitori, clienti e dello Stato. È oltre la portata dei lavoratori la possibilità di decidere autonomamente quale tipo di attività economica creare o sviluppare. In questo senso, si sono limitati a cercare di far sopravvivere un’impresa in precedenza condannata alla scomparsa dalle regole del mercato”4.
Tutto ciò genera una situazione che, in caso di classico lavoro salariato, i lavoratori avrebbero rifiutato.
Dalle ricerche svolte da Ruggeri emerge come all’inizio del processo di recupero le ERT riescono a sfruttare tra il 30% e il 50% della loro resa potenziale che sale al 60% della capacità produttiva al termine del periodo di recupero. Questo risultato si spiega con la stato di abbandono dei macchinari che viene ereditato, la fuoriuscita dalla lotta dei lavoratori specializzati e l’assenza di risorse per sostenere la produzione che porta spesso a lavorare per un soggetto terzo che fornisce capitale, materie prime e si fa carico della commercializzazione del prodotto finito.
Il lavoro conto terzi consente di tornare a lavoro velocemente ma limita i processi di autogestione perché le decisioni strategiche vengono prese fuori dalla fabbrica e indipendentemente dai lavoratori. Il rischio è evidente: in questo modo il padrone scompare dalla ERT per riapparire fuori da essa ma senza farsi più carico della gestione della vecchia impresa a cui esternalizza pezzi della produzione. L’unica novità è l’obbligo di dover negoziare da pari a pari con la cooperativa formata dai lavoratori.
Una volta definita la produzione e iniziata l’attività produttiva vera e propria, si genera un reddito che porta alla decisione collettiva del suo utilizzo. Inizialmente l’obiettivo è la capacità di consentire ai propri membri di condurre un’esistenza dignitosa, facendosi ad esempio carico della previdenza sociale, senza pensare ai margini di sviluppo delle ERT. Questa situazione può produrre dei conflitti che il più delle volte sono superati formulando una nuova concezione della redditività dell’impresa data dalla combinazione tra reddito dei lavoratori e miglioramento delle condizioni di lavoro che non sono legati al processo di accumulazione del capitale ma alla qualità di vita dei lavoratori. Tutto ciò è evidentemente insostenibile in un sistema che si basa sull’accumulazione e la competizione dove rimanere in una fase di stagnazione equivale a condannarsi a morte. I dipendenti delle ERT non hanno, sostiene Ruggeri, una mentalità aggressiva volta ad espandere il proprio business perché continuano a ragionare da lavoratori dipendenti e giudicano la propria impresa in salute nel momento in cui riesce a garantire un salario decente.
Il prodotto di queste imprese viene venduto secondo le regole del mercato che impongono il suo inserimento in una logica di competitività con le imprese tradizionali del proprio settore. L’eccezione di cui parla Ruggeri è l’eventuale vendita a prezzi vantaggiosi del proprio prodotto allo Stato. Molte di queste ERT si trovano in una situazione ulteriormente più complicata dal momento in cui sono parte integrante di una catena del valore la cui testa, come nel settore automobilistico, ha la forza di imporre decisioni che finiscono per condizionare lo sviluppo e le modalità di lavoro delle ERT. Tutte le attività che portano ad un rapporto con il mercato capitalistico favoriscono lo sviluppo di rapporti di produzione capitalistici al loro interno. Dalla ricerca del credito alle strategie di vendita, tutto concorre a questo esito in assenza della possibilità di isolarsi dal mercato capitalista.
Per quanto riguarda la produzione vera e propria, gli operai pensano sia sufficiente la loro dettagliata conoscenza del processo produttivo per tornare a lavorare.
“Quando i lavoratori prendono la fabbrica spesso pensano di conoscere perfettamente il lavoro, com’è e come si fa e tendono a credere, sopratutto negli impianti industriali, che tutto ciò che serve è produrre, e a considerare il lavoro non produttivo in senso stretto (cioè, al di fuori del lavoro con le macchine) superfluo, mero costo prodotto dal padrone. Quest’idea incontra presto i suoi limiti perché la fabbrica è in grado di produrre ma non di distribuire, commercializzare, acquistare gli input, vendere, programmare e rispettare le procedure contabili ed alla fine, di fatto, produce senza essere gestita”5.
Questo comporta la necessità di tappare i buchi prodotti dalla fuga del personale qualificato usando il buon senso e facendo ruotare i lavoratori rimasti nella fabbrica su quelle posizioni scoperte. Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, inizialmente si cerca di rendere il tempo passato in fabbrica il più piacevole possibile ma presto si accorgono di dover navigare dentro le regole del mercato. Bisogna rispettare i tempi delle consegne dei prodotti, occorre soddisfare i clienti e gli acquirenti per non perdere quote di mercato e fallire. Allora, accanto a norme sul lavoro certamente meno rigide del passato, emerge l’autosfruttamento inevitabile in ogni impresa autogestita inserita in relazioni di mercato capitaliste. Questo porta, ad esempio, all’imposizione di ritmi di lavoro pesanti e ad un generale allungamento della giornata di lavoro.
L’accumulazione di risorse porta l’impresa ad aumentare il numero dei propri dipendenti. Bisogna ricordare che in Argentina le cooperative quando assumono qualcuno lo devono rendere un socio che poi sarà impossibile da licenziare. Pertanto qualora l’assunzione dovesse essere fatta in base a calcoli sull’aumento della domanda di lavoro sbagliati, il risultato sarà un abbassamento del reddito di tutti i soci. Per questo motivo è una scelta complicata da compiere nelle ERT.
A livello salariale permane un’idea egualitaria della paga in circa il 50% di queste imprese.
“La grande questione tra i lavoratori risiede nel riconoscimento degli impegni e delle responsabilità. Il problema è trovare il modo in cui questa uguaglianza non finisca per premiare chi non dimostra impegno per il progetto e per punire chi invece lo dimostra pienamente. L’effetto può essere dannoso, e rinvia alla consapevolezza di esser passati da un regime di sfruttamento ad uno di autogestione. È il vecchio dibattito riguardante gli stimoli materiali e morali, la solidarietà e l’individualismo. L’unica risposta possibile rimane quella della formazione di una coscienza collettiva”6.
Su questo fronte manca la consapevolezza di essere classe dirigente in fabbrica. Affianco ad organi democratici per la sua gestione, come le assemblee, permane un atteggiamento da lavoratore salariato che porta ad atti di sabotaggio come perdite di tempo, simulazioni di malattie o spreco di materiale e la mancanza di assunzione di responsabilità nella gestione della fabbrica. Questi fenomeni si verificano con maggiore frequenza nelle ERT di maggiori dimensioni dove si finisce per identificare nel gruppo responsabile della gestione della fabbrica delle vere e proprie condotte padronali che vengono affrontate con i classici strumenti sindacali invece di rispondere con un maggiore impegno nell’autogestione.
2 Replies to “Le ERT argentine: limiti e conquiste di una lotta operaia contro il neoliberismo”