Sicuramente tutti voi conoscerete la civiltà inca, una delle cosiddette civiltà precolombiane, con le poche righe che gli scolastici vi hanno dedicato nei libri per l’istruzione: una grande civiltà, per certi versi più avanzata di quella occidentale del tempo, un grande impero, e, soprattutto, grande ricchezza per i conquistadores spagnoli.
Molte sono le caratteristiche bizzarre di questa civiltà, dall’origine sconosciuta degli Inca stessi, al linguaggio segreto utilizzato fra l’élite che i poveri nemmeno capivano. Ma fra tutte le stranezze inca, una spicca: la costituzione della società. Gli Inca (termine che propriamente indica solo la classe dominante, diversa etnoculturalmente dal resto dei popoli sottomessi) riuscirono a costruire una società che distruggeva alla base la coscienza sociale dei lavoratori. Difatti, il numero di rivolte nella storia dell’impero fu scarsissimo.
La società era divisa in classi: al vertice della piramide stava l’Inca supremo, denominato Sapa Inca (l’unico Inca), il monarca, con potere assoluto su tutti e tutti. Ogni Inca poteva diventare re, e le sue probabilità di diventarlo aumentavano di pari passo con la sua ricchezza e potenza: queste, nella società Inca, erano rappresentate dai terreni posseduti. Questo significava che per ottenere terre di propria esclusiva proprietà, ogni nuovo re doveva conquistare altri popoli espandendo i propri domini. La quintessenza dell’imperialismo. Appena sotto il re e la sua famiglia, veniva una classe di nobili, per la maggior parte discendenti dall’originaria tribù fondatrice dell’impero, che teoricamente avevano in mano l’amministrazione dell’intero impero. Ma insomma, come potete immaginare, una classe dirigente così piccola non aveva la forza di badare a un impero tanto esteso da sola: si venne perciò a formare una complessa burocrazia amministrativa che veniva incontro alle esigenze di ognuno.
L’amministrazione fu il cruccio e il capolavoro degli Inca. ll territorio era suddiviso in quattro tronconi: Chinchaysuyu (nord-ovest), Antisuyu (nordest), Qontisuyu (sud-ovest) e Qollasuyu (sud-est). I quattro angoli di queste province si incrociavano al centro, Cuzco, la capitale imperiale. Ogni provincia aveva un governatore, l’apos, che controllava gli ufficiali locali, che a loro volta controllavano le zone agricole delle vallate dei fiumi, le città e le miniere. C’erano catene di comando separate per le istituzioni religiose e militari. Gli ufficiali locali erano responsabili di dirimere le liti tra i coloni e di
tenere traccia del contributo di ogni famiglia al mita (servizio pubblico obbligatorio). Il Sapa Inca sapeva tutto. Ma nemmeno così gli amministratori erano abbastanza per il grande impero. Per far fronte alla necessità di comando a tutti i livelli, gli Inca istituirono un sistema obbligatorio di servizio civile. I maschi di 13 anni, e le ragazze in età di prime mestruazioni, dovevano sottoporsi ad un test di intelligenza da parte degli ufficiali Inca locali. In caso di fallimento, il loro ayllu (gruppo familiare esteso) avrebbe insegnato loro uno dei numerosi lavori, quali agricoltura, lavorazione dell’oro, tessitura o arte militare. Se avessero passato il test, invece, sarebbero stati inviati a Cuzco per frequentare la scuola e diventare amministratori. In sostanza, non c’era libertà di professione, né di qualunque scelta personale.
Infine, veniva la classe lavorativa. Ne abbiamo già parlato brevemente prima: avrete notato che era costituita dagli scarti, i meno intelligenti, coloro che nemmeno avevano la capacità di teorizzare una ribellione. Il popolo, come sempre d’altronde, forniva la manodopera necessaria per la sopravvivenza dell’intero sistema. Strade, ponti, case, il cibo, la soggiogazione di altri popoli tramite conquista militare; tutto in casa dell’imperatore era frutto del duro lavoro dei subalterni. La vera forza dell’impero era costituita dai contadini e dagli abitanti dei villaggi andini riuniti negli ayllu. Ognuno di questi «possedeva» un lembo di terra, che erano tenuti a coltivare da soli; almeno fino all’arrivo del funzionario imperiale che intascava la maggior parte del prodotto e lasciava all’ayllu giusto il necessario per sopravvivere. Il funzionario portava il tutto a Cuzco dove avveniva la ridistribuzione in base al bisogno per tutto l’impero. Non pensate che la ridistribuzione fosse una gentilezza dell’Inca, che comunque si teneva la maggior parte del malloppo, ma piuttosto una necessità imperativa: bisognava impedire che il popolo morisse, o l’intero sistema statale sarebbe crollato di schianto. Agli operai era garantita una serie piuttosto vaga di diritti sociali, che comunque i funzionari facevano rispettare quando e come gli pareva.
Compagni, ecco a voi il trionfo degli Inca e dell’oppressione: applaudite.
1984 si avvera con gli Inca; le velleità di ribellione non dovevano nemmeno essere sedate, dato che non esistevano. Si deve ammettere, pur con la falce e il martello nel cuore, che l’opera degli Inca fu eccezionale: eppure, noi, oggi cosa dovremmo imparare?
— Compagno Federkey
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