La domanda cardine per definire la tradizione umanistica e rinascimentale spesso può consistere nella semplice: “È possibile tornare agli antichi?” Infatti è l’Umanesimo il periodo che segna la rivoluzione nel modo di porsi od interrogarsi distane dalla “volgarizzazione” medievale dell’assoluto primato della religione sull’uomo e sulle costrizioni di questi, ponendo la storia come entità definita principalmente dall’uomo, homo faber che ha la capacità di essere artefice di se stesso.
Porre come elemento centrale del pensiero l’uomo col suo ingegno concorre ad un fatto storico d’eccezionale importanza verso la nascita della filologia. Infatti la caduta di Costantinopoli nel 1453 porta alla fuga degli studiosi bizantini dalla Turchia e dalla Grecia, con appresso i testi antichi scritti in greco. La possibilità di esaminarli integralmente porterà alla concezione mistificata del mondo antico calato a modello pratico per rendere migliore il mondo di allora, seguendo l’insegnamento degli antichi. Il mondo antico per molti è un modello perfetto da assimilare passivamente; Machiavelli invece è un umanista assestante poiché quando è davanti ai classici non ha il medesimo atteggiamento, infatti egli non assimila passivamente ma interroga la storia al fine di cercare delle risposte.
Egli nasce nel 1469 a Firenze, copia il de Rerum Natura in cui Lucrezio diffonde la spiegazione materialistica della storia affine a quella di Democrito. Nella corte medicea di Lorenzo il Magnifico si è molto vicini all’influenza platonica e neoplatonica (Plotino), Machiavelli pure in questo ambito si discosta preferendo i concetti aristotelici a quelli di Platone. Nel 1494 la remissività di Piero de Medici nei confronti di Carlo VIII suscitò il malcontento della popolazione che, guidata da Savonarola, cacciò i Medici e, sconfitti sia il partito dei Palleschi che degli “Arrabbiati”, insediò Savonarola al governo di Firenze. Tornato dal soggiorno ad Urbino ospite del Valentino (Cesare Borgia figlio di Papa Alessandro VI) e già candidato segretario di Stato del governo di Savonarola, Machiavelli si dedica con grande impegno alla riorganizzazione dell’esercito istituendo la prima milizia volontaria fiorentina. Intanto Savonarola viene scomunicato da papa Borgia e, condannato al rogo nel 1498, viene sostituito a un’assemblea di migliaia di fiorentini, il Consiglio Grande, che pone come gonfaloniere Pier Soderini, per cui Machiavelli affina la milizia locale ed esegue compiti diplomatici con la funzione di Segretario di Stato. Nel 1512 il governo Soderini cade per opera di Giovanni de Medici e Giulio II della Rovere; questo fatto segna il ritorno dei Medici a Firenze e il bando di Machiavelli da Firenze per sospetto tradimento, relegandolo nella sua Tenuta a San Casciano. È nel periodo di esilio dal 1513 al 1525 il periodo più florido sul versante filosofico per Machiavelli, in particolare con le sue due opere maggiori, Il Principe e Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.
Egli lavora sullo Stato e ne individua nel de Principatibus un tipo semplice, coerente all’oggettività del tempo e “vincente”: il principato. Infatti seppur lui privilegiasse il modello della repubblica romana, egli non la considera la soluzione efficace per un’Italia debole, frazionata, minacciata dalle potenze straniere come la Francia ed il Sacro Romano Impero, vittima della volontà della Chiesa di non creare un’unità nazionale (l’uso della religione come Instrumentum Regni denunciato nei Discorsi). Il 10 dicembre 1513 in una lettera all’amico Francesco Vettori descrive:
- Di aver scritto il de Principatibus per Giuliano de Medici (in seguito, nel 1516, a Lorenzo II de Medici con i capitoli 24–26)
- Di aver interrotto i Discorsi su cui scrisse che la Repubblica è necessaria per il mantenimento di uno Stato, sospende l’opera nel 1519
- Il fato avverso che lo perseguita con l’esilio, raccontando che durante la giornata va a caccia per tutto settembre, passa due ore la mattina tra i tagliatori litigiosi, legge presso uno specchio d’acqua Dante e Petrarca considerandoli alla pari dei classici antichi. Parla con chi passa in osteria, mangia in famiglia per poi tornare in osteria dove egli cade nel degrado; venuta la sera torna il Machiavelli del passato e studia la storia e cultura antica.
Nel 1527 muore dopo essere caduto di nuovo in disgrazia.
Partendo dall’assunto che per Machiavelli la politica non è potere ma è servire lo Stato, lui definisce ne Il Principe i punti cardinali della lettura critica rispetto i testi antichi fatta con le lenti del concetto di sovranità, il potere di comando e di giudizio. L’opera è costituita da XXVI capitoli, divisi a loro volta in quattro sezioni:
- La conquista dei differenti tipi di principato
- La questione delle milizie
- La figura del principe
- Le cause ed i motivi delle sconfitte dei principi italiani, la natura della fortuna e l’esortazione finale a Lorenzo II de Medici
Capitolo I
Nel primo capitolo si dimostra una catena dilemmatica in cui Machiavelli esplica le forme di governo conosciute. Il filosofo fiorentino parte dal concetto di Stato per definire le due forme di governo, ovvero o la repubblica o il principato. La prima è una realtà che sarà trattata in un secondo scritto, il secondo invece è suddiviso in ereditario o nuovo. Quest’ultimo incalza un altro processo di incarico, per cui i principati possano essere nuovi del tutto (come Milano sotto Francesco Sforza) o essere dei membri aggiunti (come Napoli a Carlo VIII di Francia). Quest’ultimi possono essere caratterizzati da una popolazione abituata a stare sotto la coercizione di un principe o da una popolazione abituata ad essere libera. Inoltre questi si conquistano con armi proprie (per ventura o virtù) o per azione di alleati, aiutanti o condizioni favorevoli per il conquistato (fortuna).
Capitolo VI
Nel capitolo sesto si parla dei principati nuovi che s’acquistano con le proprie forze e la propria virtù. L’incipit iniziale consiste nell’invito di Machiavelli a seguire sempre gli esempi dei grandi: essendo l’uomo una realtà che segue le strade battute da coloro che vissero precedentemente, l’uomo prudente deve sempre seguire gli esempi dei grandi, in un modo tale che, se la sua virtù non è tale a quella presa in esempio, almeno cercherà di tendere e di aver parvenza con questa.
Da ciò Machiavelli dice che il principe per mantenere virtuosamente dei principati totalmente nuovi deve seguire gli esempi eccellenti di Mosè, Ciro, Romolo, Teseo e simili, che trovarono grazie alla fortuna una situazione tale da far manifestare la propria virtù. Coloro che sono virtuosi diventeranno principi acquisendo il principato con difficoltà ma con facilità lo mantengono; le prime difficoltà sono date in gran parte dalla reazione al tentativo di introdurre nuove norme, nuovi ordinamenti e modi. Machiavelli pertanto considera la coercizione forzata come unico modo d’acquisizione salda finalizzata ad un facile mantenimento, facendo così una digressione su Savonarola che, non usando la forza, venne condannato al rogo. Tutt’altro discorso vale per Gerone di Siracusa, che da privato cittadino sfruttando la fortuna riuscì ad esser nominato tiranno, e da tale che era usò le virtù per innovare l’apparato amministrativo–difensivo e per farsi delle amicizie convenienti affinché questi potesse edificare lo Stato senza grandi problemi. Anche il duca Valentino (Cesare Borgia) è un esempio da seguire poiché stava cominciando a creare uno Stato unitario, però ad un certo punto sbaglia: quando il padre, Alessandro VI, muore, il figlio scosso dalla notizia non pilota l’elezione pontificia, sulla cui soglia vene eletto Giulio II della Rovere, suo nemico.
Capitolo XVII
L’incipit Machiavellico inizia con la provocazione alla morale, interrogandosi sulla reale validità di essere ritenuti crudeli o pietosi. Crudele è ritenuto Cesare Borgia che però riesce a riunire la Romagna, pietoso è ritenuto il Consiglio Grande con Soderini, pur avendo permesso la distruzione di Pistoia a causa del suo mancato intervento finalizzato a sedare con la forza le due fazioni rivali cause dei disordini del 1501. Crudele è ritenuta Didone che però fonda un impero e stabilisce l’importanza dell’uso della forza. Infatti un principe dev’essere temuto, ma non odiato. Temuto per la natura dell’uomo: l’amore è un vincolo d’obbligo che può esser retto per proprio tornaconto, le amicizie sono insidiose se comprate ed inservibili nel momento del bisogno se acquisite con la bontà d’animo. Al contrario il timore è una paura, un legame, che non abbandona mai. Per non essere odiato invece, il principe non deve essere troppo ingerente poiché, toccando gli interessi altrui, può farsi dei nemici. Infatti il principe è esortato a non entrare negli affari privati dei cittadini se non con giustificazione. Altra cosa è il comportamento del principe con l’esercito, con il quale deve essere rigoroso e crudele come Annibale, non permissivo come Scipione (con cui scoppiò una rivolta).
Capitolo XVIII
L’uomo ha due nature nel combattere, la forza tipica degli animali e le leggi tipiche dell’uomo. Il principe dev’essere centauro (come Achille il cui precettore era il Centauro Chirante) e saper usare l’una e l’altra natura in base alle condizioni poste. In particolare il principe deve essere sia volpe (l’astuzia nell’evitare le trappole) sia il leone (la forza nell’abbattere il lupo). Al principe non è necessario avere tutte queste nature, ma è necessario parere di averle, dev’essere simulatore e dissimulatore. Il principe non può osservare una parola data se questa va contro i propri fini, perciò il principe deve sia stare attento agli uomini non leali sia non essere leale nel caso la promessa fosse controproducente. Così come Alessandro VI, mago della dissimulazione e della simulazione, e Ferdinando, gran bugiardo per eccellenza.
Capitolo XXV
In questo capitolo Machiavelli introduce il concetto opposto alla virtù nel suo senso laico di “saper governare e giudicare”, la fortuna. La fortuna è arbitro delle nostre azioni ma lascia il 50% a noi affinché noi, costruendo gli argini al fiume, limitiamo la sua azione. La natura del tempo è ciclica come le stagioni, essa come quella dell’uomo, richiede nature umane o impetuose o riflessive. La fortuna colpisce positivamente chi ha la natura pari alla natura del tempo, quando questo è pacato vince colui che agisce col rispetto, quando è agitato vince il violento. Ad esempio papa Giulio II della Rovere ha avuto una natura conforme ai tempi impetuosi. D’altra parte la variazione della fortuna determina che è meglio essere impetuosi che rispettosi poiché la fortuna è donna, e perciò deve essere dominata con la forza.
Conclusione
L’attualità di Machiavelli è rivoluzionaria, è rivoluzionario il suo modo di scindere morale e politica. Pur essendo stato completato nel 1513, Il Principe, se riletto tutt’ora e in maniera machiavellica con “lenti critiche” determina l’analisi sopraffina dell’identificazione dello Stato con la forza, il potere, l’apparato amministrativo–burocratico e coercitivo senza il cui uso lo Stato non è tale.
Il de Principatibus è un testo che disillude, antiutopista per eccellenza in cui i poveri cristi come Savonarola sono come i Martin Luther King di turno, dei profeti disarmati che pure possono avere un bel programma, ma saranno sempre in balia dell’opinione pubblica. D’altra parte lo stesso testo crea l’identikit del politico rampante che, come un omicida seriale, viene puntigliosamente descritto da Machiavelli, un “principe per assurdo” che può divenire metro di protesta nei confronti di un élite le cui motivazioni e i cui metodi sono sempre i medesimi, sono solo cambiati i termini, come il governo indiretto tramite oligarchi descritto nel capitolo V che diventa imperialismo; sono cambiati i modi per agire e dissimulare, ma la sostanza, un’hegeliana dialettica schiavo–padrone, una nietzschianala volontà di potenza iscritta nel codice genetico della ragione strumentale, rimane la stessa.
—Compagno Elia
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