Una risposta a Francesco Piccioni su Toni Negri

Il 16 dicembre abbiamo perso una figura fondamentale per la formazione teorica di questo collettivo. Ci stiamo prendendo del tempo per elaborare il lutto e omaggiare come si deve Toni Negri. In queste settimane sono stati pubblicati dei ricordi molto toccanti su vari siti e giornali di movimento ma sono inevitabilmente arrivate anche delle critiche alla sua figura. Non ci stupiamo di quelle provenienti dai giornali di destra o mainstream, tutte schiacciate sul lato giudiziario della sua biografia con l’eccezione dei commenti di Massimo Cacciari e Adriano Sofri. Ci stupiamo, invece, delle critiche poste malamente e con uno stile polemico ben poco accettabile provenienti da sinistra. Crediamo sia il caso dell’articolo di Francesco Piccioni Due o tre cose che vanno dette su Toni Negri uscito sul sito Contropiano il 24 dicembre. Avvertiamo, certe nostre conoscenze potrebbero lecitamente accusarci di aver preso un singolo articolo per condannare una categoria di commenti ben poco onorevoli, sovraccaricando di significato il primo per farne un capro espiatorio: assolutamente no. Prendiamo l’articolo di Piccioni perchè è, forse, l’unico articolo non tecnico ma realmente polemico che non scade in squallide volgarità e che tenta – con molta fatica – di render gli onori delle armi a modo suo. Per tanta parte degli articoli da sinistra sulla morte di Negri, li si potrebbe sotterrare senza troppe parole, magari con l’aneddotica risata. Quello di Piccioni, fino a prova contraria, rispettabilmente non è da liquidare in questo modo.

Di seguito la nostra risposta suddivisa per punti a partire da alcuni estratti dell’articolo; non sarà un articolo specialistico nè tecnico, anche per l’estensione argomentativa dello scritto di Piccioni: per qualsiasi confronto sulle tematiche specifiche, invitiamo chi vuole a farlo in separata sede.

Francesco Piccioni
  1. Il marxismo di Negri

“Per chiunque abbia provato a studiare qualche parte della produzione marxiana nella forma espositiva finale destinata alla pubblicazione (per esempio, il libro primo de Il Capitale) è palese che il Moro di Treviri fa un uso scientifico e univoco delle “categorie”, al punto da ripeterle nella loro formulazione durante tutta la trattazione, evitando con cura ogni abbreviazione, allusione, vaghezza. Per capirci: il “capitale produttivo di interesse” (da prestito, insomma) è una figura o categoria diversa dal “capitale produttivo” in generale. E non troverete mai una delle due espressioni usata al posto dell’altra o di altre categorie che pure contengono le parole “capitale produttivo…”. Visto questo metodo espositivo senza eccezioni, dovrebbe esser chiaro a tutti che se una espressione è stata da Marx usata una volta sola in tutti i suoi scritti (svariati metri cubi di carte, nella maggior parte appunti o versioni “grezze” di studi da completare) quella espressione non è una sua “categoria” analitica, ma poco più di una “battuta” buttata lì per abbreviare la scrittura, un promemoria per se stesso, mentre si tiene ferma l’attenzione sul processo che si sta osservando (“Contraddizione tra la fondazione della produzione borghese [il valore come misura] e il suo sviluppo. Macchine, ecc”, si intitola il capitolo in cui è inserito il paragrafo appena citato). Marx, del resto, è con Engels il fondatore di una teoria scientifica su come funziona il capitale, ma non l’ha “inventata” con un colpo di fulmine, già completa in ogni sua parte come Minerva dalla mente di Giove. Ha lavorato per decenni, modificando spesso in corso d’opera l’architettura generale del suo edificio teorico, man mano che a lui stesso si chiarivano alcuni processi reali del capitale in azione e la loro precisa interconnessione in un sistema teorico che deve corrispondere al processo reale. Dunque, se il buon Marx, una sera di metà Ottocento, ha messo lì un general intellect e poi, nel corso dei decenni, non l’ha più ripreso né “rielaborato”, non possiamo noi – gente del XX secolo poi sopravvissuta fino al XXI – farla diventare una “categoria marxiana” con cui colorare questo o quell’aspetto del mondo che abbiamo davanti oggi”.

Negri ha scritto fiumi di inchiostro affermando di non essere un marxologo. Ha preso da Marx, da Spinoza, da Panzieri, da Luciano Ferrari Bravo, da Schmitt e altri autori solo le categorie che effettivamente gli potevano interessare in campo pratico.

Dare il patentino di marxista sulla base dell’ortodossia di lettura e non della tematizzazione specifica degli argomenti in campo pratico puzza di un accademismo classico-centrico piuttosto ingombrante e tipicamente italiano. Non capiamo sinceramente l’invalidazione al concetto di General Intellect portata da Piccioni. La riassumiamo: questa consiste sostanzialmente nel fatto che Marx utilizzi solo nei Grundrisse la categoria di General Intellect e non vada a reiterare la medesima categoria. Categoria questa effettivamente non presente nel momento in cui Marx espose metodicamente il processo che da astratto a concreto portava all’evoluzione della forma-valore capitalistica, prima partendo dall’ipotesi di una società mercantile semplice, aggiungendone la figura funzionale di un’estortore e definendo le prime regole di concorrenza intra-settoriale, poi facendo saltare l’ipotesi di uniformità di composizione organica intersettoriale, derivando dalla misura-valore espressa in tempo di lavoro socialmente necessario la misura-prezzo di produzione, ed infine introducendo il saggio medio quale nuovo metro regolativo dello scambio.

La filologia, disciplina nobile, ben poco può servire però nel momento in cui si parla di invalidazione operativa di un concetto, a men che non si voglia cadere nella retorica vacua dell’ ipse dixit. O si parla nei termini delle problematizzazioni odierne, andando a far saltare il legame tra tasso di sussunzione del capitale e aumento della componente tecnica di classe per rifiutare il concetto di General Intellect, oppure qualsiasi argomento polemico perde completamente il senso.

Con questo vorremmo aprire anche una piccola parentesi, da non attribuire però direttamente a Piccioni, ma a tutta una moda – specialmente delle varie organizzazioni della sinistra – consistente nell’attaccare Negri per la mancata sua coerenza alla teoria del valore-lavoro; in fin dei conti, pare che con l’operaismo non si voglia più istituire alcun legame tra sostanza di valore e misura di valore (ad esempio, la critica di Barone a Tronti e all’operaismo in generale, che fa di tutto un minestrone indistinto, la notte dove tutte le vacche sono nere), il che fa pensare che ci sia una bella dose di ipocrisia che si sviluppa coerentemente in qualsiasi organizzazione comunista con almeno un economista al suo interno.

Ovvero, fra noi sappiamo benissimo che la teoria del valore-lavoro ha tanti meriti quanti problemi. A fronte di una tra le prime analisi economiche a presentare, almeno epistemologicamente, se non matematicamente, un modello dinamico, non lineare, connaturato fisiologicamente da disequilibri e sistemi emergenti di ripartizione delle risorse e studio delle condotte, a fronte di un modello completamente rivoluzionario di agente economico sia dal punto di vista formale che dal punto di vista antropologico, a fronte, definitivamente, di una prospettiva capace di sovvertire le due basi essenziali su cui si fonda la teoria dell’equilibrio economico generale, ovvero l’atomicità degli agenti e l’assenza di relazioni di potere tra questi, vi sono molti problemi ancora aperti circa l’adozione di una teoria del valore oggettivo. Quali sono i coefficienti di trasformazione? Con quante variabili bisogna lavorare nel momento della determinazione dei prezzi?
O meglio, come determinare queste variabili (determinazione del capitale variabile e di quello costante, determinazione della trasformata tra unità-tempo di lavoro astratto e unità-misura monetaria, qualificazione di tali quantità sotto funzione del tempo rispetto ad uno schema di input-output simultaneo o sequenziale)?
Come non buttare alle ortiche la formula del saggio medio essendo pv, v e c indici con [1] unità di misura e [2] tempi di riferimento nel processo produttivo completamente diversi?

La ricostruzione del dibattito a proposito sarebbe fin troppo complesso per svilupparla in questa sede.

L’importante è comprendere che voler mettere fra parentesi da un punto di vista applicativo la totalità del modello marxiano ed utilizzarne alcune parti rielaborate per i propri fini non è una cosa che fa solo Negri, ma è una pratica che ormai si esegue automaticamente, in particolare se si vogliono sviluppare tracce e punti del modello marxiano che possano aprirlo ad una costituzione ancora operativa. La situazione riguarda sempre un’assiomatica dell’economia politica tanto importante quanto bypassabile nella sua totalità in ambito applicativo. Attorno a questo argomento ormai, i problemi di onestà intellettuale son più che le variazioni accademiche sul tema.

2. Il Negri militante

Sul Negri militante si può concordare per certi versi, ma non per altri, comunque facendo mente comune alla militanza di Piccioni nelle BR, movimento da cui Negri in privato e in pubblico si è sempre dissociato.
Nel momento in cui una categoria giuridica – quella del concorso morale – diventa sinonimo di un’altra categoria, che va a discriminare il mandante effettivo di una vicenda di sangue, la ragione ci impone di fare i dovuti distinguo. Credo che serva poco per capire che vi sono differenze proprio nelle ontologie della giurisprudenza per l’assegnazione delle varie responsabilità.

All’interno di un discorso di massima, quindi astraendo dal contesto specifico, si può tranquillamente concordare con Piccioni sulla responsabilità politica – ma non giuridica – di ciò che si scrive – e non solo si esegue o si indirizza in sede operativa – e che la dissociazione in extremis è un sintomo la cui eziopatogenesi politica dovrebbe allarmarci. Per il caso specifico dovremmo interrogarci su quanto Negri effettivamente potesse realmente amministrare le file dei “Volsci”. La rapina ad Argelato può essere tranquillamente vista come un’operazione di schegge impazzite, problematica che qualsiasi organizzazione affronta e che allora ancor più di adesso andavano contro la propria autorità politica. E se questa è la cifra del contrasto tra gruppi autonomi in seno all’organizzazione e la loro stessa direzione politica, figuriamoci con che facilità questo contrasto può essere esteso ed amplificato nel mero rapporto tra militanti e direzione intellettuale (quella per cui, in fin dei conti, viene condannato a sinistra ed a destra Toni Negri). Ed in questi casi è prassi che ben pochi direttivi politici di movimento o organizzazioni, anche e soprattutto a noi coevi, in forza dell’autorità dei propri coordinatori, si prendano la piena responsabilità delle azioni di ogni loro elemento e gruppetto sparso: dei tanti militanti che hanno spesso errato (leggasi con le due lenti del civile e penale, dell’illecito e del reato), molti sono stati ostracizzati – più o meno silentemente – dai gruppi stessi, o isolati e portati a morire politicamente in silenzio, all’interno della stessa organizzazione d’appartenenza. Ciò, generalmente, senza far saltare teste di responsabili, coordinatori, corresponsabili, para-responsabili ed affini.

Spezzando una lancia in favore dell’articolo di Piccioni, circa la prospettiva dei gruppi “autonomi” è innegabile che persistano ancora forti ambiguità in seno alla storia di Potere Operaio e della successiva Autonomia Operaia; queste, in particolare, esibite nella dissociazione pubblica dalle BR (cosa per noi pure giusta), dimostrando allo stesso tempo una certa indulgenza e tolleranza nei confronti delle teste calde interne o di certi simpatizzanti; ma questa è altra storia, già messa nero su bianco da storiografi molto più competenti di noi e molto più propensi di noi, in questa ed in altra sede, a parlare di unilateralità o multilateralità del pacifismo e del rigorismo come elementi essenziali per la pratica politica.

3. Attorno all’operaio sociale

“Altrettanto può dirsi di un altro cavallo di battaglia della lunga narrativa negriana, quasi sempre incentrata sulla individuazione di un “soggetto spontaneamente rivoluzionario” che non abbisognava di una conoscenza scientifica del modo di produzione, di una teoria rivoluzionaria conseguente, di un’organizzazione adeguata, ecc. Dall’operaio massa perché inserito come un ingranaggio nel meccanismo infernale della fabbrica – caratteristico della fase più feconda e stimolante dell’”operaismo” italiano, poco prima e contemporaneamente all’esplosione dell’“autunno caldo” – Negri transita in un attimo alla teorizzazione di un altro “soggetto centrale”, che ha perso però molte determinazioni concrete: l’operaio sociale. Una figura che può stare un po’ dappertutto e che ognuno può riempire come preferisce, in cui “tutte le vacche sono nere”. O meglio, un qualcosa di indistinto che serve da “àncora” fisica per far apparire concreto un discorso decisamente svolazzante. Fino all’ultima trasfigurazione, all’alba del terzo millennio, le moltitudini, che non hanno più caratteristiche né forma, perse come sono nello spazio spianato dell’Impero senza più confini”.

Attaccare il concetto di operaio-sociale nasconde un doppio problema di fondo: (1) il primo di carattere dottrinale, circa il rapporto tra fabbrica, campagna e città, in cui inconsciamente si rifiuta di voler analizzare la mappa territoriale di econome come quelle di piattaforma; (2) il secondo nel rifiuto generalizzato del capacitarsi che l’avanguardia leninista, come il sindacato conflittuale o concertativo che siano, sono strutture storiche che vanno contestualizzate e vanno analizzate alla luce della loro effettiva pregnanza nella pratica politica dell’oggi.

Esempi come la GKN in grande, così come ambiti più settoriali quali CADA, CAIT o TWC per i lavoratori del settore informatico, esplicitano una cosa evidente; cioè che la reale conflittualità la si fa con un capitale intellettuale diffuso, ovvero con una classe che sviluppi le proprie realtà organizzative già dall’interno a causa della sua componente tecnica e del suo doppio cognitivo. Come già affermato da Charles Bettelheim, la genialità in Lenin si manifestava nel suo compensare l’assenza di questa componente diffusa su scala di classe, sostituendola con una creatività politica individuale, comune a ben pochi uomini nella storia.
Se vi sono esempi di emergenza e rottura dal dentro, ovvero se vi sono esempi di rottura della riproduzione sociale, questa non è più data da qualcuno esterno alla classe, ma è data da quei tipi di settori ad alto valore aggiunto che hanno innovato nella doppia linea produttività-qualificazione contrattuale (non a caso il vecchio saggio medio cadeva per aumenti di produttività) e hanno creato eredità diffuse in agenti sociali che dovevano inizialmente essere sfruttati nella disciplina produttiva post-fordista, ma le cui condotte stanno divenendo pian piano retroattive e contrastive a tale disciplinamento.

Non si vuole accettare questo perché non si vuol accettare che dei subalterni con capitali socio-culturali poco sviluppati non possano in autonomia creare dei punti di non ritorno normativizzati a livello storico. Si tratta dell’antichissima questione circa la fattibilità della rivoluzione nella Russia zarista. Per salvare l’esperienza bolscevica – e dell’intero blocco orientale – si tenta di porre come costante il dualismo spontaneismo-avanguardia, quando i corpi sociali a cui queste dottrine politiche dovevano associarsi sono cambiati radicalmente dal Che Fare? o da Riforma sociale o rivoluzione?.

4. La critica elegante di Giovanni Arrighi

L’asserzione di Hardt e Negri relativa a una progressiva riduzione della distanza tra Nord e Sud è dunque chiaramente falsa. Non tengono neppure le loro affermazioni in merito alla direzione e all’estensione dei flussi contemporanei di capitale e lavoro. In primo luogo, esagerano molto nel dire che tali flussi sono senza precedenti. Questo è vero in particolare quando definiscono “lillipuziane” le migrazioni dell’Ottocento in rapporto a quelle di fine Novecento. In realtà, in proporzione, quelle ottocentesche furono molto più ampie, specialmente se si includono le migrazioni dall’Asia e all’interno dell’Asia stessa. Inoltre, è vera solo in parte anche l’affermazione che il capitale speculativo e finanziario ha continuato ad andare “dove il costo del lavoro è più basso e dove è più alta la capacità amministrativa di garantire lo sfruttamento”. È vera soltanto se manteniamo uguali un mucchio di altre cose, e in particolare il reddito pro capite nazionale. Ma gran parte delle altre cose – e soprattutto il reddito pro capite nazionale – non sono per niente uguali nelle diverse regioni e giurisdizioni del mondo. Ne consegue che la fetta di gran lunga maggiore dei flussi di capitali avviene tra i paesi ricchi (dove il costo del lavoro è relativamente alto e la forza amministrativa in grado di garantire lo sfruttamento è relativamente bassa), e solo una quota proporzionalmente molto minore di capitali passa dai paesi ricchi a quelli poveri. Queste non sono le sole affermazioni di fatto che, nelle pagine di Empire, si rivelano false a un’osservazione ravvicinata. Eppure esse sono tra le più decisive ai fini della credibilità sia della ricostruzione delle tendenze in atto, sia delle conclusioni politiche contenute nel libro“.

Giovanni Arrighi citato da Francesco Piccioni

Per noi il dibattito è ancora aperto, in particolare dopo Comune e Assemblea. Due cose di certo le possiamo dire: la dimensione del Sud del mondo secondo le attuali statistiche sta avendo dei retroscena interessanti.
Ovvero molta parte delle regioni stanno divenendo i nuovi luoghi di trazione delle catene del valore internazionali (vedasi le questioni pacifica ed indiana). Inoltre, nel momento in cui nel Sud del mondo si è al minimo storico rispetto al tasso di povertà assoluta e relativa, bisogna effettivamente considerare il fatto che vi siano stati degli afflussi di capitale ingenti negli ultimi 20 anni non adducibili solamente agli impressionanti meccanismi di integrazione nel sistema di mercato del fenomeno cinese e relativi alla graduale industrializzazione dei paesi in via di sviluppo. Questo non vuol dire che il Sud del mondo si sta equiparando al Nord, ma delinea una tendenza di sfasamento di centri e periferie a cui tutti dovremmo dare ascolto, questo dato da un differente modo di amministrare lo sfruttamento di uomini e risorse, in un conflitto tra gli epicentri di accumulazione classicamente delineati dall’eredità coloniale dello scorso secolo* e i nuovi assetti di accumulazione globale del mercato con le riconfigurazioni centro-periferia interne alle stesse catene valore transnazionali. Ciò vorrebbe dire anche analizzare i fenomeni cinese ed indiano come fenomeni di mercato integrati nelle catene valore globali, senza la strana presunzione di portare avanti le strane mitologie dell’autonomia del politico sulla velocità di riproduzione del ciclo economico.

Poi, una cosa che Arrighi non capì è che la sua critica era estremamente elegante da un punto di vista, cioè la considerazione dello Stato nazionale. Ma nel momento in cui si apre ad un capitalismo di carattere transnazionale si ha sempre più la testimonianza del fatto che la forbice della ricchezza si stia aprendo in schemi centro-periferia non convenzionali né nazionali, ma completamente costruiti ad hoc sia nelle singole catene del valore che nei centri di valorizzazione cittadini ed industriali.

Per capire ciò bisogna andare allo studio sull’estrattivismo che fa rendere conto della dimensione “fluida” e non statica e compartimentata come nella teoria dei sistemi-mondo. Infine bisogna ribadire ancora una volta la condizione “tendenziale” di quel processo intravisto da Negri nella globalizzazione che apre a corsi e ricorsi storici. Vedasi la questione dell’elezione di Bush. Comunque l’argomento meriterebbe di esser affrontato in separata sede e con un maggior confronto; ed è l’unica cosa che si dovrebbe salvare in toto dell’articolo di Piccioni.

* Parliamo delle politiche di gestione del debito per i paesi in via di sviluppo, che a fine primo decennio del XXIesimo secolo manifestavano una pesantissima fuga di capitali verso i paesi del primo mondo, dei quali risultano tutt’ora creditori netti. Questa fuga, diminuita visibilmente per il decennio successivo, risulta ora problematica per l’incombente crisi del debito nel sud del mondo, questa data dalla triplice coazione delle conseguenze dell’epidemia del Covid-19, della crisi delle supply chain e della guerra in Ucraina, questa anche per l’importante ruolo dei fertilizzanti derivati dal gas naturale.

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