Una visione alternativa dell’inflazione. Francesco Saraceno contro lo spettro del monetarismo

  1. Introduzione

Il libro di Francesco Saraceno Oltre le banche centrali. Inflazione, diseguaglianza e politiche economiche, si inserisce in maniera ottimale nel dibattito sulla natura del fenomeno inflattivo che ha investito anche il nostro paese dopo la pandemia. L’autore evidenzia come per analizzare l’inflazione sia tornato di moda il monetarismo che lega questo fenomeno economico alla quantità di moneta circolante. Questa teoria economica sembrava dimenticata perché tutti ci eravamo abituati a vivere, nei paesi a capitalismo avanzato, in una permanente situazione di bassa inflazione. Gli ultimi 30 anni sembravano confermare questa illusione. Nel 2021, improvvisamente, l’alta inflazione è tornata nelle nostre vite assieme al monetarismo. Tuttavia, cercare la causa di tutto ciò solamente nella quantità di moneta circolante è sbagliato. Le cause sono molteplici e Saraceno le elenca in maniera dettagliata. Per esempio, bisogna tenere conto della ripresa dell’economia mondiale dopo le fasi più difficili della pandemia oppure le tensioni sul mercato dei beni energetici e alimentari. I prezzi energetici, nel momento in cui è stato scritto questo libro, sono ormai tornati ai livelli precedenti la pandemia e le tensioni nelle catene del valore sono state in larga parte superate. Nonostante ciò l’inflazione di fondo scende lentamente. Questa situazione sta provocando uno scontro tra sostenitori del contrasto dell’inflazione attraverso politiche di bilancio, regolamentazioni e politiche industriali e sostenitori delle politiche monetarie restrittive attraverso l’aumento dei tassi d’interesse e la contrazione dell’offerta di moneta. Al momento sembra la seconda linea teorica in vantaggio e ciò provocherà il crollo della domanda aggregata e l’aumento della disoccupazione come prezzo per ricondurre a livelli giudicati normali l’inflazione. In poche parole, a pagare il prezzo del contrasto dell’inflazione saranno i lavoratori.

2 . Criticare la teoria dominante

La spiegazione standard dell’inflazione lega questo fenomeno economico alla domanda e all’offerta globale, continuando a collegarla all’eccesso globale dei mezzi di pagamento rispetto all’offerta dei beni. Saraceno, però, invita ad osservare l’inflazione per quello che effettivamente è, ovvero un aumento dei prezzi e perciò qualcosa di legato alla loro determinazione. I prezzi sono determinati da un’eterogeneità di cause e pertanto sono ugualmente varie le cause dell’inflazione. Se vogliamo trovarle tutte dobbiamo analizzare le singole componenti che determinano l’inflazione. Per esempio, nel nostro caso troviamo gli squilibri settoriali che sono legati a cambiamenti tecnologici, la ripresa economica successiva alla pandemia, pensiamo ai vincoli della capacità produttiva che impediscono di adattare la produzione all’aumento della domanda, oppure le tensioni geopolitiche come l’invasione dell’Ucraina. Questi elementi possono avere carattere strutturale e pertanto vanno affrontati con una riconfigurazione del tessuto produttivo. Ogni spiegazione macroeconomica è incompleta se non tiene in considerazione tutto ciò.

Un altro elemento centrale nella spiegazione standard dell’inflazione sono le aspettative. Per la teoria economia dominante non importa la natura dello shock, bisogna evitare che l’inflazione venga incorporata nelle aspettative degli agenti, ad esempio con richieste di aumenti salariali che tengono conto dell’inflazione e il conseguente aumento dei prezzi praticati dalle imprese. La banca centrale deve tenere sotto controllo la situazione attraverso la sue politiche. Saraceno sostiene che non è razionale tradurre, senza utilizzare tutte le informazioni sulla sua reale natura, l’inflazione attuale in inflazione futura. L’esempio portato è quello dell’inflazione causata dal surriscaldamento dell’economia in vista della guerra di Corea.

Le banche centrali […] non hanno reagito, preoccupate dall’occupazione più che dall’inflazione. Questo non ha tuttavia portato a fiammate inflazionistiche permanenti: l’economia è scesa ben al di sotto del tasso di disoccupazione “naturale” ma i prezzi non sono esplosi; l’inflazione si è anzi progressivamente ridotta quando le cause contingenti sono venute meno, mentre la disoccupazione continuava a calare […]. Detto altrimenti, negli anni Cinquanta negli Stati Uniti sono stati commessi tutti gli errori di politica economica da cui la narrazione convenzionale mette in guardia, e ciononostante il risultato è stato un lungo periodo caratterizzato in media da forte crescita, bassa inflazione e bassa disoccupazione. L’inflazione in quegli anni è aumentata rapidamente e altrettanto rapidamente scesa, senza che ci fossero variazioni significative dei tassi di interesse o della disoccupazione1.

Il cambiamento nella capacità produttiva per adattarsi agli shock esogeni o alla domanda che varia permette di superare le cause dell’inflazione.

Francesco Saraceno

3. L’inflazione nel 2022

L’attuale fenomeno inflattivo è da ricollegare agli squilibri settoriali e macroeconomici causati dai lockdown e dalla riprese successiva alla pandemia. Nel 2020, in assenza di vaccini e cure efficaci per contrastare il SARS-CoV-2, si è assistito al congelamento dell’economia e delle sue attività non essenziali. Fu uno shock da offerta. Le incertezze sul futuro hanno ridotto i consumi e gli investimenti, producendo uno shock di domanda. Questo è valido sia per i paesi che hanno adottato misure restrittive per contenere le ospedalizzazioni causate dal virus che per nazioni come la Svezia, le quali hanno scelto, a nostro avviso commettendo un grave errore, di non chiudere il paese.

L’intrecciarsi di shock di domanda e di offerta (e la difficoltà di misurarne l’impatto) può essere apprezzata tramite l’esperimento naturale di confrontare la spesa per consumi tra la Danimarca, dove nei primi mesi del 2020 fu imposto il distanziamento sociale, e la Svezia, uno dei pochi Paesi che invece fecero la scelta di rimanere aperti: la spesa per consumi e il Pil sono diminuiti in maniera analoga nei due Paesi.

Hanno inciso anche le conseguenze della globalizzazione, con la costituzione di catene del valore transnazionali. La Cina produce beni di consumo e intermedi per il resto del mondo. Quando ha scelto di gestire la pandemia con le sue politiche Zero Covid ha bloccato parte dell’economia europea, producendo uno shock di offerta per le nostre imprese. Quando le chiusure sono arrivate negli USA, paese dove le nostre imprese esportano molte merci, si è presentato uno shock di domanda.

C’è stata anche una ricomposizione settoriale di consumo e servizi. I consumatori chiusi in casa non potevano più comprare i biglietti per un aereo e allora hanno dirottato verso altri consumi i loro soldi. Per esempio, sono aumentati gli abbonamenti per servizi come Netflix o Twitch. Ciò ha prodotto dei colli di bottiglia nel momento della ripartenza, facendo aumentare i prezzi già a inizio 2021.

La crisi è stata affrontata tenendo vivo il tessuto produttivo attraverso la cassa integrazione per i lavoratori, le garanzie pubbliche sui prestiti, il differimento dei contributi previdenziali e delle imposte e, infine, i sussidi a fondo perduto.

Per facilitare questo sforzo le istituzioni europee hanno agito con sorprendente tempestività. In primo luogo, mettendo a disposizione fondi per le spese più urgenti, sanità e mercato del lavoro. Che si trattasse di meccanismi esistenti come il Mes, o di nuova creazione come il Fondo Sure per i mercati del lavoro, il principio era lo stesso: l’Europa si è indebitata a tassi di favore per girare i fondi ai Paesi a tassi di pochissimo più alti; quei Paesi che sui mercati avrebbero pagato tassi più alti hanno così potuto risparmiare sulla spesa per interessi. La Commissione ha ulteriormente segnalato la propria intenzione di sostenere lo sforzo dei Paesi membri attivando subito (a marzo 2020) la clausola di sospensione del Patto di stabilità e crescita (ancora attiva per tutto il 2023) e alleggerendo le norme sugli aiuti di Stato, in modo da non ostacolare gli sforzi dei Paesi a sostegno dei settori più colpiti dalla pandemia.

Per quanto riguarda il settore finanziario, “il Covid ha mostrato ancora una volta il ruolo fondamentale delle banche centrali nella gestione delle crisi. Di fronte al rapido deterioramento delle condizioni economiche e finanziarie globali, esse hanno eretto una diga a difesa del settore finanziario, in modo da mantenere la stabilità finanziaria e garantire che continuasse il flusso di credito a imprese e famiglie. Per raggiungere questo obiettivo, le banche centrali hanno utilizzato l’intera gamma di strumenti a loro disposizione, agendo come nel 2008, in qualità di prestatori di ultima istanza. Nonostante le cause molto diverse delle turbolenze finanziarie del 2007-09 e del 2020, le banche centrali internazionali hanno risposto con strumenti simili. Anzi, nel caso della Bce la risposta è stata molto più decisa ed efficace che nel 2007-09, quando era stato perso tempo prezioso”.

Durante la pandemia sono stati accumulati risparmi che al momento della ripresa hanno prodotto spese a ritmi inattesi. La riorganizzazione dei consumi ha provocato scarsità in alcuni settori, provocando una tensione sui prezzi. Pensiamo solamente al caso dei semiconduttori oppure alla disarticolazione del trasporto marittimo.

Nel 2020 l’improvviso crollo della produzione e degli scambi ha congelato la distribuzione dei container nei diversi porti di smistamento (i cargo che avevano portato merci fino alla fine di febbraio non sono ripartiti o sono ripartiti vuoti, lasciando dietro di sé i container). Quando l’attività è ripresa, in molti Paesi asiatici è emersa la penuria di container, allungando tempi e costi di trasporto. La redistribuzione tra punti di smistamento è tornata a livelli comparabili a quelli pre-pandemici solo nella seconda metà del 2022. A queste difficoltà logistiche si sono aggiunte le chiusure a ripetizione di importanti punti di scambio, come il porto di Shanghai, vittima della politica zero Covid del governo cinese. Il risultato è stato un aumento vertiginoso dei costi di trasporto marittimi, moltiplicati per otto tra il dicembre del 2019 e il picco del settembre del 2021. Da allora è iniziata una lenta discesa, ma i prezzi sono tornati ai livelli di fine 2019 solo a giugno 2023.

La rapida ripresa ha avuto un impatto anche sul settore dell’energia facendo aumentare i prezzi di gas e petrolio. La situazione è ulteriormente peggiorata a causa dell’invasione russa dell’Ucraina.

Subito prima dell’invasione russa dell’Ucraina, il 24 febbraio 2022, il petrolio era già superiore del 50% rispetto al prezzo medio pre-pandemico, mentre il prezzo del gas era addirittura cinque volte superiore (90 euro per MWh contro i 14 medi del 2019). L’invasione ha provocato un’impennata dei prezzi (già influenzati dalle tensioni tra i due Paesi nei mesi precedenti) sia del gas che del petrolio, che sono rimasti ai massimi (in particolare il gas) fino alla fine dell’estate del 2022.

La guerra ha condizionato anche il mercato dei cereali, come abbiamo potuto già vedere analizzando il libro di Alessandro Volpi. Tutto ciò ha inciso sull’inflazione visto che dalla primavera del 2021 l’IPCA è aumentato mentre l’inflazione core, cioè non tenendo conto di cibo ed energia, rimaneva stabile. Quest’ultima è iniziata ad aumentare quando l’impennata dei prezzi dell’energia ha iniziato a colpire i costi di produzione degli altri beni.

4. La stretta delle banche centrali

Nella primavera del 2022 inizia la restrizione monetaria promossa prima dalla FED e poi dalla BCE con l’intento di impedire a imprese e famiglie di incorporare l’inflazione nei loro contratti o nelle loro proposte di aumento salariale. Questo passaggio segna il ritorno dello spettro del monetarismo. Saraceno sintetizza come segua le basi di questa teoria economica:

– Il primo è la teoria quantitativa, che lega il valore delle transazioni in un certo periodo (il Pil nominale) alla quantità di moneta in circolazione. In pratica, una funzione di domanda di moneta.

– Il secondo è l’equilibrio naturale, l’attrattore per l’economia. Se l’economia se ne allontana, infatti, variazioni dei prezzi consentiranno di tornarvi senza bisogno di interventi esterni. Il fatto che l’economia graviti intorno all’equilibrio naturale nel medio periodo consente di legare la quantità di moneta in circolazione al livello dei prezzi: infatti, se il valore nominale delle transazioni è legato alla quantità di moneta da una funzione di domanda stabile, e se la quantità di beni scambiati è fissata al suo livello naturale, l’unica cosa che potrà variare con la quantità di moneta è il livello generale dei prezzi.

– Infine, l’ultimo elemento della teoria, meno importante degli altri due (in particolare del tasso naturale) è la curva di Phillips, che nel breve periodo lega il livello d’attività all’inflazione: se la disoccupazione scende sotto al livello naturale, i prezzi e i salari aumenteranno, raffreddando l’economia e riportandola verso l’equilibrio naturale.

Per Saraceno la domanda e l’offerta di moneta non sono funzioni stabili ed è dubbia la capacità dell’economia di convergere all’equilibrio naturale mentre per i monetaristi, tramite una funzione di domanda stabile, le variazioni della quantità di moneta si trasmettono ai prezzi.

L’autore prosegue nella critica di queste teorie come segue:

In un’economia moderna i pagamenti possono avvenire con una molteplicità di strumenti, dal contante alle carte di credito, passando per le app e (sì, alcuni li usano ancora!) gli assegni. Cosa sia quindi la “moneta” che la banca centrale dovrebbe provare a controllare è già di per sé poco chiaro. Ma non è finita qui. Qualunque sia la definizione di moneta che si adotta, sia la domanda che l’offerta sono piuttosto instabili e, cosa più importante, dipendono esse stesse dalle evoluzioni di reddito e prezzi che i cambiamenti nell’offerta di moneta dovrebbero spiegare. […] C’è poi un’altra ragione, più sottile e più importante, per cui la stabilità dell’offerta di moneta può non essere sufficiente perché la banca centrale la controlli, ed è che la causalità non va dalla base monetaria alla quantità di moneta in circolazione, ma nell’altro senso! In un sistema creditizio in cui le banche detengono in riserve solo una frazione dei prestiti che concedono, la stabilità finanziaria è garantita dal fatto che queste hanno accesso a liquidità potenzialmente illimitata da parte della banca centrale. È proprio questo il ruolo di “prestatore di ultima istanza” che fin dal già citato e pioneristico Lombard Street di Walter Bagehot fa della banca centrale la “banca delle banche”. La banca centrale, quindi, non ha veramente la scelta di “quanta moneta stampare”; questa dipenderà dalla maggiore o minore prudenza delle banche nel volersi dotare di riserve a fronte dei prestiti che concedono. La banca centrale può solo decidere i termini in cui queste riserve sono messe a disposizione, vale a dire del tasso di interesse. È per questo che il primo elemento teorico della dottrina monetarista a essere abbandonato è stata la determinazione della quantità di moneta da parte della banca centrale, sostituita negli anni Novanta, nei modelli utilizzati in accademia e nelle istituzioni di policy, dalla regola di Taylor per cui la banca centrale cerca di raggiungere il proprio obiettivo di inflazione manovrando i tassi di interesse.

Viene attaccata l’ipotesi della stabilità dell’offerta di moneta/credito secondo cui le variazioni dei tassi influiscono sulle decisioni di spesa e l’inflazione. Le imprese e le famiglie hanno come riferimento i tassi a lungo termine e la banca centrale incide su quelli a breve termine. Se i tassi a lungo termine sono la media di quelli a breve termine, le variazioni dei secondi possono incidere sui primi ma dobbiamo ricordare che i tassi sono solo uno dei fattori presi in considerazione per investire.

A chiedere il ritorno di queste teorie piene di problemi sono economisti come Summers che si schierano a favore di politiche monetarie restrittive criticando l’iniziale cautela delle banche centrali. Questo atteggiamento nasce dallo studio dell’episodio inflazionistico che serviva per capire se le pressioni dal lato dell’offerta si sarebbero assorbite da sole. La guerra ha allineato le banche centrali al monetarismo. Si inizia a paventare una spirale prezzi-salari oppure un disancoramento delle aspettative. Ad aprire le danze è la FED. Negli USA l’inflazione può essere in parte causata dalla domanda generata dai piani di spesa delle amministrazioni Trump e Biden. Saraceno, in ogni caso, si schiera contro la compressione della domanda. In Europa, tuttavia, la domanda resta sotto il suo potenziale di crescita e ha svolto un ruolo assolutamente marginale nell’alimentare il fenomeno inflattivo. Le decisioni della FED, però, ci riguardano perché il dollaro è una moneta standard. I prezzi delle materie prime sono fissati in dollari e questo può causare inflazione importata nell’economie aperte. Negli USA l’apprezzamento del dollaro rende i beni importati più convenienti generando inflazione nei paesi partner. Inoltre l’apprezzamento del dollaro è legato al maggior rendimento degli investimenti finanziari grazie all’aumento dei tassi d’interesse. La BCE ha risposto a queste mosse seguendo la FED americana sulla stessa via, anche se non era conveniente per l’economia europea, per evitare un aumento della forbice tra tassi americani ed europei. Tutto ciò, sostiene Saraceno, dimostra il vuoto generato dall’assenza di politiche coordinate sul mercato dei cambi.

Nello spiegare il comportamento delle banche centrali, l’autore sostiene che nessuno si sofferma sul futile esercizio di individuare il colpevole dietro l’inflazione. Si cerca, invece, di piegarla per evitare l’innesco di circoli viziosi pericolosi e per sganciarla dalle aspettative attraverso la riduzione della quantità di moneta in circolazione. Questa svolta, però, non è giustificata dalle aspettative. Saraceno cita uno studio di Banca d’Italia dove viene mostrato come le aspettative si siano riancorate prima della svolta restrittiva della BCE, “mostrando indirettamente che sia le famiglie e le imprese sia gli istituti di previsione legavano l’inflazione alle difficoltà temporanee dal lato dell’offerta; difficoltà che nessuno ritiene possano persistere per sempre. Se a questo si aggiunge che l’inflazione ha passato il suo picco nell’autunno-inverno del 2022, quando gli effetti della restrizione monetaria non si erano ancora dispiegati, si può concludere che si trattava di un’inflazione temporanea, sia pur più persistente del previsto”.

Un altro motivo dietro questa svolta potrebbe essere la spirale prezzi-salari, cioè le rivendicazione salariali potrebbero spingere all’aumento dei prezzi delle imprese alimentando l’inflazione. A sostegno di ciò ci sono i dati sulla disoccupazione negli USA e in Europa. Gli aumenti dei salari, però, sono inferiori a quelli dei prezzi e i salari reali sono diminuiti. Saraceno sostiene che solo negli USA i salari nominali hanno tenuto il passo dell’inflazione.

“Il più recente Employment Outlook dell’Ocse, pubblicato a giugno 2023, oltre a confermare che l’inflazione erode il potere d’acquisto delle famiglie povere in maniera più importante, documenta come la perdita di terreno dei salari reali sia continuata anche nei primi mesi del 2023. Nella maggioranza dei Paesi dell’Ocse, i salari reali sono oggi inferiori ai livelli di fine 2019, e virtualmente in tutti i Paesi sono inferiori alla fine del 2021. L’Italia in particolare è tra gli ultimi, con una perdita del 7,3% dal 2019 (e del 7,5% da fine 2021)”.

Invece sono aumentati enormemente i profitti delle imprese. Anche Saraceno, infatti, si collega al dibattito sulla greedflation. Cita il Wall Street Journal che afferma in un suo articolo come negli USA i profitti spiegano il 34% dell’inflazione tra il 2020 e il 2022 diversamente dall’11% del periodo compreso tra il 1970 e il 1979. Una simile dinamica è presente in Europa. Siamo allora davanti ad una spirale prezzi-profitti?

Saraceno non si concentra sul motivare l’inflazione attraverso l’avidità delle imprese. Si limita a dire che i costi dell’inflazione, attraverso il conflitto distributivo, sono scaricati sui salari attraverso l’aumento dei tassi d’interesse che per incidere sull’economia avranno bisogno di mesi o anni e arriveranno a condizionare negativamente le scelte di imprese e famiglie, colpendo pesantemente gli investimenti.

Infine, l’autore cita un interessante ragionamento di Abba Lerner che è collegabile alla tesi sulla centralizzazione dei capitali di Emiliano Brancaccio di cui abbiamo già parlato in passato.

I profitti e i mark-up (il tasso di margine sui costi che l’impresa riesce a spuntare) a livelli storicamente inediti potrebbero essere legati all’inflazione più di salari che faticano anche solo a tenere il passo. Come ebbe a osservare Abba Lerner, in un saggio purtroppo poco conosciuto, la spirale dei prezzi potrebbe venire avviata dal tentativo delle imprese di aumentare i margini quando sono in condizioni di forza. In queste condizioni, soprattutto nei settori in cui la concorrenza è limitata e la domanda non può reagire ai prezzi, l’aumento dei costi (ad esempio dell’energia) non viene assorbito dalle imprese ma trasferito sui prezzi, così causando una riduzione dei salari reali e facendo portare il costo dell’inflazione solo sulle spalle dei lavoratori. In generale, imprese che hanno la capacità di aumentare i prezzi senza perdere clienti o rischiare vertenze salariali, possono approfittare delle tensioni inflazionistiche sistemiche per aumentare i loro prezzi anche in assenza di aumenti di costi nel loro settore. Il già citato studio della Banca dei regolamenti internazionali avanza l’ipotesi che sia questo comportamento delle imprese a spiegare perché, prima della fiammata dei prezzi energetici, si osservasse una tendenza dei prezzi ad aumentare anche nei settori che non erano interessati dai colli di bottiglia e dalla disarticolazione produttiva successiva al Covid.

5. Le politiche industriali contro l’inflazione

L’alta inflazione di fondo in presenza di prezzi energetici in calo può essere spiegata con una riallocazione della domanda che dipende dai cambiamenti nei consumi che crea divergenze settoriali tra domanda e offerta. Le politiche industriali possono essere utilizzate nel breve periodo per intervenire sulle penurie temporanee e nei settori colpiti da shock attraverso incentivi fiscali, regolamentazioni del mercato o politiche attive del lavoro. Il tutto tenendo conto dell’orizzonte inevitabile della transizione ad un sistema produttivo ecosostenibile. Saraceno porta l’esempio del Defense Production Act americano che Regmi e Stiglitz suggerivo di utilizzare per orientare la produzione di semiconduttori verso le auto con lo scopo di combattere l’inflazione e la disoccupazione in un settore socialmente più rilevante rispetto alla produzione di smartphone. Oppure, nei settori dove manca il personale si può intervenire con corsi di formazione professionali.

Le politiche industriali, però, non possono evitare le tensioni dei prezzi che indicano penurie o eccessi di offerta. Questo impone alla politica di domandarsi a chi far pagare i costi dell’inflazione. Spesso, per alleviare il costo dell’inflazione sulle spalle dei più poveri, si sono varati costosi bonus che generano nuovo debito pubblico. Saraceno, allora, si domanda se non convenga orientarsi su politiche di controllo dei prezzi. Dopo la Seconda guerra mondiale venne adottata questa politica per evitare speculazioni in attesa del ripristino della capacità di produzione, per evitare l’aumento delle diseguaglianze e per controllare l’inflazione. Venne adottata una politica simile anche dal nostro governo durante la pandemia per controllare il prezzo delle mascherine in attesa dell’adeguamento del tessuto produttivo alla crescente domanda di questo bene. Tuttavia “è importante sottolineare che i controlli dei prezzi non servono a combattere l’inflazione causata da un surriscaldamento dell’economia: è illusorio pensare di affrontare un eccesso generalizzato di domanda imponendo prezzi amministrati. Non solo: essendo misure che vanno ad alterare i meccanismi di mercato, i controlli di prezzo vanno sempre usati con estrema attenzione, perché il rischio di introdurre distorsioni è reale. Tuttavia, in momenti in cui offerta e domanda sono disarticolate, sono gli squilibri strutturali a creare rendite e distorsioni settoriali. In questo caso, intervenire sui prezzi può condurre a un aumento dell’efficienza complessiva del mercato. Weber fa l’esempio degli Stati Uniti dove, durante le chiusure legate alla pandemia i produttori di petrolio avevano chiuso i pozzi con costi di produzione più alti. Quando la domanda è ripartita con forza, le compagnie petrolifere hanno deciso di non riaprire questi pozzi cosicché, da un lato i costi sono rimasti bassi, dall’altro gli eccessi di domanda hanno fatto esplodere i prezzi, e con essi i profitti. In situazioni come questa, per far ripartire la produzione e il consumo basta imporre un prezzo amministrato, avendo l’accortezza che sia abbastanza alto da consentire comunque un margine di profitto sufficiente. Non potendo giocare sui margini, i produttori sono a quel punto costretti, per aumentare i profitti, a incrementare la produzione e le vendite (nel caso del petrolio citato sopra, a riaprire i pozzi tenuti chiusi). Quindi, i controlli di prezzo possono in condizioni specifiche non condurre a scarsità, ma al contrario a un aumento della produzione e del benessere”.

Il tema del controllo dei prezzi è riemerso anche a causa dell’aumento del costo dell’energia. Queste politiche sono fallite in quasi tutto il continente perché non sono state tempestive e hanno permesso il trasferimento di questi aumenti sugli altri prezzi. Fanno eccezione la Spagna e il Portogallo che hanno imposto al mercato all’ingrosso dell’energia un tetto di 40 euro/MWh al gas, cioè la tecnologia marginale, più costosa, che determina il costo dell’energia su questo mercato. In questo modo sono stati colpiti gli extraprofitti delle imprese che producono energia attraverso tecnologie inframarginali, come quelle rinnovabili. La differenza tra il prezzo del gas sul mercato europeo e quello praticato ai consumatori è stato scaricato in bolletta ma ciò viene compensato dal minore costo dell’energia prodotta con il nucleare o le fonti rinnovabili. Di conseguenza, più queste fonti energetiche pesano sulla bolletta e minore è il costo per i consumatori. Questo piccolo approfondimento presente nel libro ci permette di introdurre la questione degli extraprofitti. Saraceno sostiene la loro tassazione per contrastare l’inflazione, abbassare i prezzi e aumentare i salari. L’alternativa è uccidere l’economia con le politiche restrittive delle banche centrali. Tuttavia le tasse sugli extraprofitti promosse dai governi in Europa non hanno ridotto i profitti ma hanno fissato una soglia per il contributo di solidarietà una volta superato un determinato prezzo. La tassa, invece, andrebbe calibrata sul profitto in eccesso che è una forma di rendita ma evitando di penalizzare gli investimenti produttivi.

6. Conclusioni

Gli scenari futuri ci prospettano un mondo in cui l’inflazione ci accompagnerà ancora per molto tempo. La transizione ecologica produrrà inflazione incidendo sulla tassazione dell’industria fossile, la quale scaricherà tutto ciò sui prezzi che si tradurranno in aumenti dei costi di produzioni. Aumenterà il costo del gas qualora i paesi in via di sviluppo rinunceranno al carbone. Il mix energetico per la transizione avrà sempre meno energia fossile prodotta, però, a costi maggiori. La nostra economia vedrà la convivenza di settori con penuria di lavoratori, disoccupazione e pressione salariale, a cui dobbiamo aggiungere la riqualificazione per coloro che sono impiegati in settori altamente inquinanti da smantellare o riconvertire. Tutto ciò influirà sull’inflazione. La pandemia e le tensioni geopolitiche hanno messo in luce la fragilità di lunghe catene del valore transnazionali. Molto probabilmente in futuro ci saranno catene del valore più corte, con costi maggiori ma con una superiore capacità di adattamento. Il rischio, infine, è quello di ritrovarsi a causa dell’invecchiamento della popolazione, le diseguaglianze in aumento, le tensioni geopolitiche ad avere imprese, lavoratori e pensionati maggiormente propensi al risparmio e meno orientati al consumo e all’investimento. Questo potrebbe compromettere la crescita futura delle nostre economie e rafforzerebbe la posizione di chi sostiene la tesi della stagnazione secolare.

  1. Tutte le citazioni legate al libro sono prese da un ebook e pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎

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