Automazione, lavoro e liberazione: una prospettiva marxista

di Gabriele Repaci

Introduzione

Il lavoro ha da sempre rappresentato uno degli elementi fondamentali nell’organizzazione delle società umane, non solo come mezzo di sussistenza, ma anche come strumento di definizione dell’identità personale e collettiva. Tuttavia, la sua concezione e il suo ruolo hanno subito trasformazioni radicali nel corso della storia. Nelle società antiche, il lavoro era sinonimo di servitù e sottomissione, un’attività riservata agli schiavi e alle classi inferiori, mentre la libertà e la realizzazione personale erano associate all’otium, il tempo libero dedicato alla riflessione, alla creatività e alla partecipazione alla vita pubblica. In Grecia e a Roma, il lavoro manuale era disprezzato e considerato incompatibile con la dignità della cittadinanza.

Con l’avvento del capitalismo manifatturiero e industriale, il lavoro ha subito una rivalutazione profonda, trasformandosi da attività necessaria ma disprezzata in un valore intrinseco, promosso come dovere morale e strumento di realizzazione personale. Questo cambiamento non è avvenuto spontaneamente, ma è stato il risultato di secoli di violenza, coercizione e imposizione culturale. La Riforma protestante ha giocato un ruolo cruciale in questa trasformazione, con figure come Martin Lutero che hanno esaltato il lavoro come vocazione divina e predestinazione dell’uomo nel mondo. Il capitalismo industriale ha ulteriormente rafforzato questa visione, facendo del lavoro non solo un obbligo economico, ma anche un imperativo sociale e culturale.

Oggi ci troviamo di fronte a una nuova rivoluzione: l’avvento dell’automazione e delle tecnologie avanzate promette di ridefinire ancora una volta il rapporto tra l’uomo e il lavoro. L’introduzione di macchine intelligenti e sistemi automatizzati sta riducendo la necessità del lavoro umano nei processi produttivi, sollevando interrogativi profondi sul futuro del lavoro e sul ruolo che esso dovrà assumere nelle nostre vite. Se da un lato l’automazione offre la possibilità di liberare l’umanità dalle fatiche quotidiane, dall’altro rischia di accentuare le disuguaglianze sociali ed economiche, soprattutto in un contesto capitalistico in cui il profitto e l’accumulazione di ricchezza rimangono gli obiettivi principali.

Questo saggio esplora le implicazioni di tale trasformazione, analizzando il lavoro come costrutto storico e morale, e valutando le prospettive offerte dall’automazione, con un focus particolare sulle risposte marxiste e sul concetto di comunismo automatizzato. La teoria marxista, infatti, offre strumenti critici fondamentali per comprendere le dinamiche di sfruttamento e alienazione che caratterizzano il lavoro nel sistema capitalistico e per immaginare alternative possibili basate sulla giustizia sociale e sull’uguaglianza economica.

La questione centrale che affronteremo è se l’automazione possa davvero rappresentare uno strumento di liberazione o se, all’interno del sistema capitalistico, essa sia destinata a diventare l’ennesimo mezzo di sfruttamento e disuguaglianza. Il rischio è che, invece di ridurre il carico di lavoro e migliorare la qualità della vita, l’automazione venga utilizzata per aumentare i profitti delle élite economiche, lasciando milioni di persone disoccupate o impiegate in lavori precari e sottopagati.

Attraverso l’analisi delle teorie storiche e delle esperienze concrete, come il progetto CyberSyn in Cile durante il governo di Salvador Allende, cercheremo di delineare un percorso verso una società in cui la tecnologia sia al servizio dell’umanità e non del profitto. Esploreremo come l’automazione possa essere integrata in un modello economico e sociale che promuova la redistribuzione della ricchezza, la riduzione del tempo di lavoro e l’accesso universale ai benefici della tecnologia. L’obiettivo è immaginare un futuro in cui il lavoro non sia più una condanna, ma una scelta, e in cui la libertà individuale e collettiva possa finalmente realizzarsi pienamente grazie alle potenzialità offerte dall’innovazione tecnologica.

Il lavoro come costrutto morale e storico

Il concetto di lavoro ha subito un’evoluzione significativa nel corso della storia, passando da una condizione di disprezzo e marginalità a un valore centrale nella società moderna. Nelle società antiche, il lavoro era disprezzato poiché associato alla necessità, alla fatica e alla schiavitù. In Grecia e a Roma, il lavoro manuale era visto come un’attività servile, incompatibile con la libertà e la cittadinanza. Il termine greco “ponos” indicava sforzo, fatica e sofferenza, mentre la parola latina “labor” evocava dolore e oppressione. Al contrario, “otium” rappresentava il tempo libero dedicato alla creatività, alla riflessione e alla partecipazione alla vita pubblica.

Il termine “arbeit” in tedesco aggiunge un ulteriore strato di significato a questa visione storica del lavoro. Arbeit è probabilmente formato da un verbo germanico scomparso che aveva il significato di “essere orfano, essere un bambino adibito a un duro compito corporeo”, verbo a sua volta derivante dall’indoeuropeo Orbhos, che significa orfano. Fino all’alto tedesco moderno, Arbeit significava “dolore, tormento, attività indegna”.

Nelle lingue romanze, questa connessione è ancora più evidente. Termini come travail in francese, trabajo in spagnolo e trabalho in portoghese derivano dal latino tripalium, uno strumento di tortura a tre punte utilizzato contro gli schiavi. Questa etimologia sottolinea come il lavoro, nelle sue origini linguistiche e culturali, sia stato associato a pratiche di oppressione e dolore.

Tale disprezzo per il lavoro manuale non era limitato all’Europa antica: anche i Traci, i Lidi, i Persiani e gli Indiani condividevano una visione simile. In queste società, il lavoro era percepito come il luogo per eccellenza dell’assoggettamento alla necessità, contrapposto alla libertà che derivava dall’indipendenza dal lavoro forzato. Sarebbe tuttavia riduttivo interpretare questa svalutazione del lavoro come un semplice riflesso di una visione gerarchica della società o come la conseguenza della “comodità” garantita dall’esistenza di schiavi. In realtà, essa esprime un concetto ben più profondo: la libertà – così come l’eguaglianza – non può esistere nella sfera della necessità materiale. La vera libertà si realizza solo nell’affrancamento da questa condizione, emancipandosi dalle costrizioni della sfera economica e riscoprendo il valore delle dimensioni umane, sociali e culturali dell’esistenza.

Con l’avvento del capitalismo manifatturiero, il lavoro è stato trasformato in un valore intrinseco, promosso come dovere morale e strumento di realizzazione personale. Questo cambiamento ha richiesto secoli di violenza e coercizione per imporre il lavoro come obbligo universale. La Riforma protestante, in particolare, ha giocato un ruolo cruciale in questa trasformazione, con Martin Lutero che ha esaltato il lavoro come vocazione divina e predestinazione dell’uomo nel mondo. La Riforma protestante ha giocato un ruolo cruciale, con Martin Lutero che ha esaltato il lavoro come vocazione divina, affermando che «l’uomo è nato per lavorare come l’uccello per volare». Giovanni Calvino ha ulteriormente rafforzato questa visione, associando il successo lavorativo a una prova della grazia divina.

Tuttavia, la celebrazione del lavoro come valore morale maschera la realtà della sua alienazione e sfruttamento. Il capitalismo ha reso il lavoro non solo una necessità economica, ma anche un obbligo sociale, imponendo una visione in cui l’identità personale è strettamente legata alla produttività. Sebbene nel corso dei secoli la concezione del lavoro sia stata ridefinita come un valore positivo, il suo significato originario continua a riecheggiare nelle condizioni di sfruttamento e alienazione che caratterizzano il lavoro contemporaneo.

La storia della modernità è quindi la storia dell’imposizione del lavoro, che ha lasciato sull’intero pianeta una lunga scia di desolazioni e orrori. Diverse ricerche etnografiche dimostrano che nelle società “selvagge” il tempo di lavoro medio non supera mai le quattro ore al giorno, con la maggior parte del tempo dedicata al sonno, al gioco, alle chiacchiere e ai riti. Queste società, capaci di limitare i loro bisogni, non si preoccupano di accumulare, ma di godere del tempo libero. Questo contrasta nettamente con la società moderna, dove il lavoro è diventato il fulcro della vita quotidiana e della struttura sociale1.

L’idea contemporanea del lavoro ha origine con il capitalismo industriale, che ha trasformato il lavoro da necessità materiale a valore intrinseco. Prima del XVIII secolo, il termine “lavoro” designava la pena dei servi e dei giornalieri, mentre gli artigiani “operavano” e le loro opere erano considerate espressioni di creatività2. La distinzione tra “labor” e “opus” evidenzia questa differenza fondamentale tra il lavoro penoso e l’attività creativa. Con l’industrializzazione, il lavoro è diventato un’attività alienante, caratterizzata da ripetizione meccanica e assenza di controllo sul processo produttivo.

Il nostro obiettivo oggi non deve essere semplicemente quello di rinunciare a lavorare, ma di costruire una società in cui non si viva più per produrre, ma si produca per vivere. Questo significa riorientare l’intero sistema economico e sociale verso la valorizzazione dell’essere umano piuttosto che del profitto. La riduzione del carico di lavoro, tuttavia, deve essere accompagnata da un cambiamento culturale e sociale che valorizzi il tempo libero, la creatività e le relazioni umane, superando la logica produttivistica che domina la nostra epoca. Il tempo liberato dal lavoro non deve essere visto come un vuoto da colmare con il consumo o con attività commerciali, ma come un’opportunità per riscoprire la propria umanità, per coltivare passioni, per partecipare alla vita comunitaria e per sviluppare legami sociali autentici.

Ciononostante, ridurre il carico di lavoro in una società profondamente consumista come la nostra può comportare conseguenze inaspettate. In un contesto dominato dall’economicismo, il tempo non dedicato al lavoro rischia di essere assorbito dalle costrizioni della vita quotidiana, come il traffico, la burocrazia e altre forme di “lavoro fantasma”, un concetto introdotto da Ivan Illich. Spesso, il tempo libero viene trasformato in ulteriori attività commerciali, come il lavoro nero, o consumato passivamente attraverso i servizi offerti dal mercato.

L’allungamento della vita media in Occidente, a partire dagli anni ’50, ha portato a un aumento significativo del tempo disponibile, equivalente a circa tre ore in più al giorno. Tuttavia, questo tempo extra viene frequentemente speso in attività passive, come guardare la televisione, o in necessità logistiche, come il tempo trascorso nel traffico. Oggi, un europeo medio dedica più tempo agli schermi che ad attività creative o relazionali, e un francese trascorre il doppio delle ore al volante rispetto a quelle impegnate in relazioni sociali.

Di conseguenza, l’uso efficace del tempo liberato dal lavoro non è garantito in una società ancora radicata nella logica del produttivismo. In un mondo in cui il consumo è diventato una dipendenza e il lavoro una forma di ossessione (i cosiddetti workaholics), la libertà dal lavoro può paradossalmente generare ansia e disorientamento. Pertanto, l’uscita dal sistema produttivistico non può limitarsi a una semplice riduzione delle ore lavorative, ma deve comportare una trasformazione radicale delle strutture sociali e culturali.

È essenziale creare un modello di società in cui il tempo libero e il gioco siano considerati fondamentali quanto il lavoro, e dove le relazioni umane siano al centro della vita quotidiana, anziché relegate ai margini di una giornata dominata da obblighi produttivi e consumistici. Solo attraverso una profonda rivalutazione del significato del lavoro e del suo ruolo nella nostra esistenza sarà possibile immaginare un futuro in cui l’automazione e il progresso tecnologico non siano strumenti di alienazione e sfruttamento, ma mezzi per migliorare autenticamente la qualità della vita.

Questo cambiamento richiede una ridefinizione dei nostri concetti di successo e realizzazione personale, spostando l’attenzione dai risultati economici al benessere complessivo degli individui e delle comunità. La società del futuro deve essere costruita su valori di solidarietà, equità e rispetto reciproco, dove la tecnologia è uno strumento per arricchire la vita umana, e non un mezzo per aumentare la produttività a scapito della dignità. Solo così potremo garantire che il tempo liberato dal lavoro non diventi un nuovo spazio di alienazione, ma una risorsa preziosa per la crescita personale e collettiva.

Automazione, lavoro e liberazione

L’automazione rappresenta una delle più significative conquiste tecnologiche dell’umanità, promettendo una crescita esponenziale della produttività del lavoro e, potenzialmente, la liberazione dell’uomo dalle fatiche quotidiane. Tuttavia, nel contesto capitalistico attuale, questa promessa si è trasformata in un incubo per la classe lavoratrice. Lungi dall’essere uno strumento di emancipazione, l’automazione viene utilizzata come un’arma della classe borghese per massimizzare i profitti, riducendo i posti di lavoro e aggravando la disoccupazione tecnologica.

La posizione marxista non è quella di opporsi all’innovazione o di rallentare il progresso tecnologico. Al contrario, la soluzione risiede nell’espropriazione della borghesia e nell’appropriazione collettiva della scienza e della tecnica. Non è la distruzione delle macchine la risposta, ma il loro utilizzo a favore della classe lavoratrice. Quando l’automazione riduce la domanda di lavoro in un settore, la risposta rivoluzionaria è la ridistribuzione del lavoro: lavorare meno, lavorare tutti, mantenendo inalterati i salari. Questo approccio non solo contrasta la disoccupazione tecnologica, ma utilizza l’automazione per ridurre il tempo di lavoro, non il numero dei lavoratori.

Il luddismo, movimento storico di opposizione alle macchine, è stato inefficace e controproducente, distraendo i lavoratori dalla costruzione della propria coscienza di classe e dalla comprensione dei loro compiti storici. La vera emancipazione si ottiene attraverso l’uso strategico della tecnologia, non la sua distruzione.

In un sistema capitalistico, l’automazione tende a essere utilizzata per ridurre i costi del lavoro e aumentare i profitti, piuttosto che per migliorare le condizioni di vita dei lavoratori. Questo porta a una crescente polarizzazione del mercato del lavoro, con una diminuzione dei posti di lavoro ben retribuiti e un aumento di lavori precari e sottopagati. Tuttavia, in una società post-capitalista, l’automazione potrebbe essere utilizzata per liberare il tempo delle persone, consentendo loro di dedicarsi a attività creative, educative e comunitarie.

La prospettiva marxista suggerisce che l’automazione potrebbe essere la chiave per superare il capitalismo stesso. Se la tecnologia è in grado di produrre abbondanza senza la necessità di lavoro umano, il sistema basato sul lavoro salariato perde la sua giustificazione. La sfida è quella di assicurare che i benefici dell’automazione siano distribuiti equamente e che non siano monopolizzati da una élite economica. Questo richiede una trasformazione radicale delle strutture economiche e politiche, con l’obiettivo di creare una società in cui la tecnologia sia al servizio del benessere collettivo e non del profitto privato.

Un esempio concreto di utilizzo progressista della tecnologia è rappresentato dal progetto CyberSyn, avviato in Cile durante il governo socialista di Salvador Allende. Questo progetto mirava a utilizzare la cibernetica per migliorare la gestione economica e democratizzare il controllo dei processi produttivi. Sebbene il progetto sia stato interrotto dal colpo di stato militare di Augusto Pinochet, esso rappresenta un modello di come la tecnologia possa essere impiegata per promuovere la partecipazione dei lavoratori e migliorare l’efficienza economica in un contesto socialista.

In conclusione, l’automazione offre un’opportunità unica per ripensare il ruolo del lavoro nella società. Tuttavia, per realizzare il suo potenziale emancipatorio, è necessario un cambiamento radicale nelle strutture economiche e politiche. Solo attraverso una trasformazione profonda del sistema capitalistico sarà possibile garantire che l’automazione sia uno strumento di liberazione piuttosto che di oppressione.

Disoccupazione: problema o soluzione?

La disoccupazione, nel sistema capitalistico, è una costante inevitabile. Che un’azienda sia in crisi o in crescita, la soluzione è sempre la stessa: licenziare. Se l’azienda va male, si taglia il personale per ridurre i costi; se va bene, si investe in automazione e si licenziano i lavoratori diventati superflui. Questo paradosso è ben illustrato dalle parole di Aristotele, che oltre 2300 anni fa sognava un mondo in cui gli strumenti lavorassero autonomamente, liberando gli uomini dal lavoro servile3. Oggi, quel sogno si è avverato, ma ha generato un incubo sociale: le relazioni umane e i sistemi economici non sono evoluti abbastanza velocemente da assorbire l’impatto dell’automazione.

Nel capitalismo, la disoccupazione non è solo una conseguenza imprevista, ma un elemento strutturale del sistema. Il lavoro salariato, pilastro del capitalismo, diventa obsoleto in un mondo automatizzato. Tuttavia, invece di celebrare questa liberazione, la società si ritrova intrappolata in una spirale di disoccupazione, delocalizzazione e sfruttamento dei lavoratori a basso costo, aggravando le disuguaglianze sociali. La disoccupazione tecnologica non viene affrontata con politiche di redistribuzione del lavoro o di riduzione dell’orario lavorativo, ma con misure punitive e stigmatizzanti nei confronti dei disoccupati.

Le statistiche sulla disoccupazione vengono spesso manipolate per minimizzare la percezione del problema. I disoccupati vengono spinti verso lavori precari o inutili, o costretti a partecipare a programmi di formazione che raramente portano a un’occupazione stabile. Questo approccio non solo ignora le radici strutturali della disoccupazione, ma contribuisce a perpetuare un sistema che misura il valore delle persone in base alla loro produttività economica.

In un contesto post-capitalista, la disoccupazione potrebbe essere vista non come un problema, ma come una soluzione. Liberare le persone dal lavoro consentirebbe loro di dedicarsi a attività creative, educative e comunitarie, migliorando la qualità della vita e promuovendo una società più equa e sostenibile. Tuttavia, ciò richiede una trasformazione radicale delle strutture economiche e culturali, con l’obiettivo di valorizzare il tempo libero e le relazioni umane piuttosto che la mera produttività.

Il superamento della disoccupazione come problema richiede un cambiamento di paradigma. Invece di considerare il lavoro come l’unico mezzo per ottenere dignità e sicurezza economica, dobbiamo riconoscere il valore intrinseco di ogni individuo al di là della sua capacità produttiva. Solo attraverso una riorganizzazione della società, che metta al centro il benessere collettivo e la realizzazione personale, sarà possibile trasformare l’automazione e la riduzione del lavoro in strumenti di emancipazione e progresso umano.

Il comunismo automatizzato: una visione utopica

Il concetto di comunismo automatizzato immagina una società in cui il lavoro umano è drasticamente ridotto o eliminato grazie all’automazione avanzata e alla tecnologia. In questa visione, i benefici della produzione automatizzata sono distribuiti equamente tra tutti i membri della società, garantendo a ciascuno l’accesso ai beni e ai servizi necessari per una vita dignitosa. Questa ridistribuzione delle risorse mira non solo a soddisfare i bisogni fondamentali, ma anche a creare le condizioni per una fioritura personale e collettiva senza precedenti.

Con la produzione automatizzata, il lavoro salariato non è più necessario: le persone possono dedicarsi ad attività creative, educative e ricreative, promuovendo uno sviluppo personale e collettivo. L’abolizione del lavoro permette agli individui di esplorare le proprie passioni, sviluppare competenze artistiche e intellettuali e contribuire alla società in modi che trascendono la mera produzione economica. Questo nuovo paradigma valorizza il tempo libero come spazio di crescita e innovazione, anziché come semplice pausa dal lavoro.

Una tappa intermedia verso questa visione potrebbe essere la riduzione della settimana lavorativa, con le macchine che assumono gran parte del carico produttivo, permettendo agli esseri umani di godere di maggiore tempo libero senza sacrificare il benessere economico. La riduzione dell’orario di lavoro non solo allevia la pressione psicologica e fisica sui lavoratori, ma favorisce anche una distribuzione più equa delle opportunità di impiego, riducendo la disoccupazione strutturale.

La maggior parte dei processi produttivi è gestita da macchine e intelligenza artificiale, riducendo drasticamente la necessità del lavoro umano tradizionale. Questo scenario prevede una gestione sostenibile delle risorse, con una pianificazione centralizzata gestita dai lavoratori che garantisca che la produzione risponda ai bisogni della società piuttosto che ai profitti privati. La pianificazione economica, supportata dall’analisi dei dati e dall’intelligenza artificiale, permette di ottimizzare l’uso delle risorse naturali e di ridurre gli sprechi, contribuendo così alla sostenibilità ambientale4.

L’accesso alle tecnologie avanzate e ai benefici dell’automazione è universale, non limitato a una classe privilegiata, promuovendo una vera uguaglianza economica e sociale. In questa società, l’istruzione e la formazione continua diventano diritti fondamentali, garantendo che tutti abbiano le competenze necessarie per partecipare pienamente alla vita culturale e sociale. La tecnologia non è più un privilegio, ma un bene comune al servizio dell’umanità.

Il comunismo automatizzato non è solo una visione economica, ma anche culturale e sociale. Esso immagina una società in cui l’innovazione tecnologica non sia uno strumento di oppressione, ma di liberazione. Le persone non sarebbero più definite dal loro ruolo produttivo, ma dalla loro capacità di contribuire al benessere collettivo attraverso la creatività, l’educazione e la partecipazione comunitaria. Questo cambiamento di paradigma ridefinisce il concetto stesso di valore, spostandolo dalla produttività economica alla qualità delle relazioni umane e al benessere collettivo.

In questo contesto, la cultura e l’arte assumono un ruolo centrale nella costruzione dell’identità individuale e collettiva. Le comunità diventano spazi di condivisione e cooperazione, dove la diversità è celebrata e le differenze sono fonte di arricchimento reciproco. La tecnologia, lungi dall’essere un fine, diventa un mezzo per facilitare la connessione tra le persone e per promuovere la coesione sociale.

In conclusione, il comunismo automatizzato rappresenta una visione concreta di un futuro in cui la tecnologia sia al servizio dell’umanità, promuovendo una società più giusta, equa e sostenibile. Questo richiede un impegno collettivo per superare le barriere strutturali del capitalismo e per costruire un sistema economico che valorizzi l’essere umano al di sopra del profitto. La realizzazione di questa visione dipende dalla nostra capacità di immaginare e costruire alternative concrete, basate su principi di solidarietà, giustizia e rispetto per il pianeta.

È un’utopia? Nel senso etimologico del termine – “qualcosa che non esiste in nessun luogo” – certamente sì. Tuttavia, non sono forse proprio le utopie, ovvero le visioni di un futuro alternativo, il motore indispensabile di qualsiasi movimento che ambisca a sfidare l’ordine costituito? Senza la capacità di immaginare una società diversa, più giusta e inclusiva, non ci sarebbe spinta al cambiamento. Le utopie fungono da bussola per orientare le nostre aspirazioni collettive, trasformando l’impossibile in possibile e il desiderio in azione.

Esperienze storiche e teoriche

Il progetto CyberSyn, avviato in Cile durante il governo socialista di Salvador Allende, rappresenta un esempio concreto di come la tecnologia possa essere utilizzata per democratizzare la gestione economica. Basato sui principi della cibernetica, il sistema cercava di superare le inefficienze burocratiche e promuovere una gestione flessibile e partecipativa dell’economia. CyberSyn utilizzava una rete di comunicazione avanzata, denominata Cybernet, che collegava le industrie nazionalizzate con un centro di controllo a Santiago. In questo centro, le informazioni raccolte venivano analizzate in tempo reale per ottimizzare la produzione e la distribuzione delle risorse.

Il cuore del progetto era l’Opsroom, una sala di controllo futuristica dove i dati economici venivano visualizzati e interpretati per facilitare decisioni rapide e informate. Questo approccio non solo mirava a migliorare l’efficienza economica, ma anche a coinvolgere direttamente i lavoratori nei processi decisionali, promuovendo una maggiore partecipazione democratica. I lavoratori avevano accesso alle informazioni e potevano influenzare le scelte operative, creando un modello di gestione più trasparente e collaborativo.

Uno degli aspetti innovativi di CyberSyn era la sua capacità di integrare la tecnologia con la partecipazione umana. Stafford Beer, il cibernetico britannico che ha ideato il sistema, ha concepito CyberSyn non come uno strumento di controllo centralizzato, ma come un mezzo per distribuire il potere decisionale e rendere l’economia più reattiva alle esigenze dei cittadini. Questo approccio contrastava nettamente con i modelli di pianificazione centralizzata tipici delle economie socialiste dell’epoca, introducendo un’idea di socialismo più dinamica e decentralizzata.

Sebbene il progetto fosse ancora in fase di sviluppo, i primi risultati dimostravano il potenziale di una tecnologia utilizzata per il bene comune. Tuttavia, il colpo di stato militare del 1973, che portò al rovesciamento del governo di Allende e all’instaurazione della dittatura di Augusto Pinochet, interruppe bruscamente il progetto. Nonostante la sua breve durata, CyberSyn rimane un esempio emblematico delle potenzialità di una tecnologia al servizio della collettività, capace di coniugare efficienza economica e partecipazione democratica.

L’eredità di CyberSyn continua a influenzare le riflessioni sul ruolo della tecnologia nella società. Dimostra che è possibile immaginare un futuro in cui le innovazioni tecnologiche non siano strumenti di controllo o sfruttamento, ma mezzi per promuovere la giustizia sociale e l’autodeterminazione collettiva. Questo progetto rappresenta una testimonianza storica di come la tecnologia possa essere utilizzata per costruire un’economia più equa e inclusiva, fornendo un modello che può ispirare le future trasformazioni sociali5.

Teorici come Karl Marx, Paul Lafargue, Peter Frase e Aaron Bastani hanno esplorato le implicazioni del progresso tecnologico e dell’automazione nel contesto del comunismo. Karl Marx, nei suoi scritti, ha analizzato il ruolo delle macchine nella produzione capitalista, sottolineando come l’automazione possa ridurre il lavoro alienante e creare le condizioni per una società senza classi. Paul Lafargue, nel suo saggio “Il diritto all’ozio”, ha sostenuto che il progresso tecnologico dovrebbe ridurre il tempo di lavoro, permettendo agli individui di dedicarsi ad attività più gratificanti. Lafargue riteneva che l’ossessione per il lavoro, alimentata dal capitalismo industriale, fosse una forma di schiavitù moderna che privava l’uomo della sua umanità e della sua capacità di vivere una vita piena e creativa. Egli sosteneva che il vero progresso non si misurasse nella quantità di lavoro svolto, ma nella capacità di liberare il tempo per attività intellettuali, artistiche e relazionali.

Peter Frase, nel suo libro “Four Futures: Life After Capitalism”6, ha immaginato scenari futuri in cui l’automazione e la distribuzione delle risorse potrebbero portare a una società più equa. Frase esplora l’idea che l’abbondanza tecnologica possa eliminare la scarsità economica, ma avverte anche dei rischi legati all’appropriazione privata dei benefici tecnologici. La sua analisi si basa su due assi principali: la disponibilità di risorse (abbondanza o scarsità) e la struttura sociale (uguaglianza o gerarchia), da cui derivano quattro scenari distinti.

Nel primo scenario, definito “Comunismo”, l’automazione ha creato un’abbondanza tale da eliminare la necessità del lavoro umano. Le risorse sono distribuite equamente, permettendo a tutti di godere dei benefici della tecnologia. La società è organizzata in modo cooperativo, con un’enfasi su attività creative, educative e ricreative che favoriscono lo sviluppo personale e collettivo.

Il secondo scenario, “Rentismo”, descrive un contesto in cui, nonostante l’abbondanza tecnologica, la distribuzione delle risorse è controllata da un’élite. I benefici dell’automazione sono monopolizzati da pochi, mentre la maggior parte della popolazione è esclusa. Questo scenario rappresenta un capitalismo estremo, dove la proprietà delle tecnologie avanzate diventa il principale strumento di potere e controllo.

Nel terzo scenario, “Socialismo”, la società si trova ad affrontare una scarsità di risorse, ma si organizza per garantire una distribuzione equa. La cooperazione e la solidarietà diventano fondamentali per affrontare le sfide legate alla disponibilità limitata di beni e servizi. Questo implica una forte regolamentazione e una pianificazione centralizzata per assicurare il benessere collettivo.

Infine, il quarto scenario, “Exterminismo”, rappresenta la visione più distopica. Qui, la scarsità di risorse si combina con una struttura sociale altamente gerarchica. Le élite utilizzano la tecnologia per mantenere il controllo e limitare l’accesso ai beni essenziali, portando a una crescente emarginazione e oppressione delle classi più vulnerabili. In casi estremi, la sopravvivenza stessa della popolazione è messa a rischio.

Frase sottolinea che il futuro non è predeterminato e che le scelte politiche e sociali attuali influenzeranno profondamente quale di questi scenari si realizzerà. L’automazione e il progresso tecnologico offrono opportunità straordinarie per migliorare la qualità della vita, ma senza una distribuzione equa dei benefici, rischiano di esacerbare le disuguaglianze esistenti.

Aaron Bastani, nel suo “Fully Automated Luxury Communism”7, descrive un futuro in cui l’automazione radicale e le tecnologie avanzate eliminano la necessità del lavoro umano, creando una società di abbondanza condivisa. Bastani sostiene che la tecnologia può essere utilizzata per garantire l’accesso universale ai beni e ai servizi, trasformando radicalmente l’economia globale. L’autore immagina un mondo in cui l’intelligenza artificiale, la robotica avanzata, le energie rinnovabili e la biotecnologia convergono per costruire una società dove la scarsità è superata e il benessere è distribuito equamente.

Bastani identifica l’automazione come il motore principale di questa trasformazione. Secondo la sua visione, l’innovazione tecnologica non dovrebbe essere vista come una minaccia al lavoro umano, ma come un’opportunità per liberare l’umanità dalla fatica e dalla precarietà. Le macchine potrebbero assumere il carico dei lavori ripetitivi e pesanti, permettendo agli esseri umani di dedicarsi ad attività creative, educative e ricreative. Questo non solo migliorerebbe la qualità della vita, ma favorirebbe anche uno sviluppo personale e collettivo più armonioso.

Il “lusso” nel concetto di Bastani non si riferisce a un consumo sfrenato o elitario, ma a un accesso universale a beni e servizi che oggi sono considerati privilegio di pochi. Immagina un mondo in cui l’energia solare gratuita, l’assistenza sanitaria di alta qualità, l’istruzione avanzata e l’accesso a cibo e alloggi sostenibili siano garantiti a tutti. In questo contesto, il lusso diventa sinonimo di benessere diffuso e accesso equo alle risorse.

Bastani sottolinea anche l’importanza della sostenibilità ambientale in questa visione. L’adozione di tecnologie verdi e l’uso responsabile delle risorse naturali sono fondamentali per garantire che l’abbondanza tecnologica non comporti danni irreparabili all’ambiente. Il comunismo del lusso completamente automatizzato, quindi, non è solo una questione di redistribuzione della ricchezza, ma anche di costruzione di un’economia ecologicamente sostenibile.

L’opera di Bastani si inserisce in un dibattito più ampio sulle possibilità offerte dalle tecnologie emergenti. Egli critica il capitalismo per la sua incapacità di distribuire equamente i benefici dell’automazione e per il suo ruolo nella perpetuazione delle disuguaglianze. Secondo Bastani, il capitalismo non è compatibile con un mondo di abbondanza, poiché il profitto si basa sulla scarsità e sul lavoro salariato. Solo attraverso una trasformazione radicale delle strutture economiche e sociali sarà possibile realizzare il potenziale delle tecnologie avanzate a beneficio di tutta l’umanità.

Bastani propone politiche concrete per avvicinarsi a questo futuro, come il reddito di base universale, la riduzione della settimana lavorativa e l’accesso gratuito ai servizi essenziali. Queste misure mirano a creare le condizioni per una transizione verso una società post-scarsità, dove il benessere non dipende più dalla partecipazione al mercato del lavoro, ma è garantito come diritto fondamentale.

La visione di Bastani offre spunti preziosi per ripensare il rapporto tra tecnologia, lavoro e società. Il comunismo del lusso completamente automatizzato rappresenta un’alternativa radicale al modello capitalistico attuale, proponendo un futuro in cui la tecnologia non sia uno strumento di sfruttamento, ma di emancipazione e prosperità condivisa.

Queste esperienze storiche e teorie dimostrano che il progresso tecnologico, se gestito in modo equo e democratico, può diventare uno strumento potente per la trasformazione sociale. Tuttavia, la realizzazione di questa visione richiede un cambiamento radicale nelle strutture economiche e politiche, con l’obiettivo di garantire che i benefici dell’automazione siano distribuiti equamente tra tutti i membri della società.

Conclusioni

L’automazione ha il potenziale per trasformare radicalmente la società, liberando l’umanità dal fardello del lavoro e creando un futuro di prosperità condivisa. Tuttavia, questo potenziale non può essere realizzato all’interno del sistema capitalistico, che utilizza la tecnologia per perpetuare lo sfruttamento e le disuguaglianze. Nel capitalismo, l’innovazione tecnologica è guidata dal profitto, e le macchine vengono utilizzate per ridurre i costi del lavoro, aumentare i margini di guadagno e concentrare la ricchezza nelle mani di pochi. Questo porta a un aumento della disoccupazione tecnologica, a condizioni di lavoro precarie e a una crescente polarizzazione sociale.

La risposta rivoluzionaria consiste nell’appropriarsi della scienza e della tecnica, utilizzandole per ridurre il tempo di lavoro, migliorare la qualità della vita e costruire una società equa e sostenibile. La socializzazione dei mezzi di produzione tecnologici è essenziale per garantire che i benefici dell’automazione siano distribuiti equamente. Questo richiede un cambiamento radicale nelle strutture economiche e politiche, con l’adozione di modelli di pianificazione democratica e partecipativa che pongano al centro i bisogni della collettività piuttosto che i profitti privati.

Il comunismo automatizzato rappresenta una visione utopica ma realizzabile di questo futuro, dove la tecnologia è al servizio dell’umanità e non del profitto. In una società automatizzata, il lavoro alienante sarebbe eliminato, e le persone avrebbero la libertà di dedicarsi ad attività creative, educative e comunitarie. L’accesso universale ai beni e ai servizi garantirebbe una vita dignitosa per tutti, indipendentemente dalla partecipazione al mercato del lavoro.

Questa trasformazione non è solo economica, ma anche culturale e sociale. Richiede un cambiamento nella nostra concezione del lavoro, del tempo libero e della realizzazione personale. Dobbiamo superare l’ideologia del lavoro come valore intrinseco e abbracciare una visione della vita basata sulla libertà, l’uguaglianza e la solidarietà. Solo attraverso un impegno collettivo e una volontà politica condivisa sarà possibile costruire un futuro in cui l’automazione sia uno strumento di emancipazione e non di oppressione.

In conclusione, l’automazione offre un’opportunità unica per ripensare le fondamenta della nostra società. Se gestita in modo equo e democratico, può diventare il motore di una trasformazione radicale verso una società più giusta, sostenibile e inclusiva. Il comunismo automatizzato non è solo un sogno utopico, ma una possibilità concreta che possiamo realizzare attraverso l’impegno collettivo e la lotta per la giustizia sociale.

  1. Si veda: Alain Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, 1991. pp. 63-64. ↩︎
  2. Gramsci osservava come, nel lavoro artigianale, l’umanità e la spiritualità del lavoratore raggiungessero il loro apice, riflettendosi pienamente nell’oggetto creato. Al contrario, l’industrialismo, e in particolare il taylorismo, mira a distruggere proprio questa componente umana e spirituale attraverso la divisione del lavoro. L’industriale americano si concentra esclusivamente sull’efficienza fisica e psico-muscolare del lavoratore, con l’obiettivo di garantire stabilità e continuità nella produzione. La creatività e l’originalità dell’operaio non sono più considerate rilevanti; ciò che si richiede è semplicemente un «gorilla ammaestrato», come lo stesso Taylor ha definito senza mezzi termini. Questa espressione brutale e cinica rappresenta perfettamente il fine ultimo della moderna società industriale: «sviluppare nell’uomo lavoratore al massimo la parte macchinale, spezzare il vecchio nesso psico-fisico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione dell’intelligenza, dell’iniziativa, della fantasia del lavoratore, per ridurre le operazioni di produzione al solo aspetto fisico.» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di Valentino Gerratana, Einaudi, 1975, Quaderno 4 (XIII), §52.). ↩︎
  3. Scrive Aristotele: «Se infatti ogni strumento, per un qualche comando o per una capacità di presentire, potesse compiere la sua propria opera, come dicono che facessero le statue di Dedalo o i tripodi di Efesto, dei quali il poeta dice che da soli entrano nel divino consesso, se a questo modo le spole da sole tessessero e i plettri suonassero da sé, allora né gli architetti avrebbero bisogno di operai né i padroni di schiavi.» (Aristotele, Politica, Libro I, Capitolo 4, a cura di Carlo Augusto Viano, BUR Biblioteca Univ. Rizzoli, 2002, p. 83) ↩︎
  4. Grazie alla rivoluzione digitale, oggi è possibile pianificare un’economia complessa con una facilità impensabile trenta o quarant’anni fa. Negli anni Ottanta, l’Unione Sovietica doveva gestire una produzione che comprendeva circa 24 milioni di prodotti diversi. Tuttavia, l’apparato di pianificazione centrale riusciva a monitorare il prezzo e la quantità di soli 200.000 articoli, mentre la pianificazione dettagliata era limitata a circa 2.000 prodotti. Questo limite portava le fabbriche a rispettare gli obiettivi fissati solo per una ristretta gamma di merci, mentre la produzione delle altre avveniva in modo inefficiente e disordinato.
    Negli ultimi vent’anni, Paul Cockshott e Allin Cottrell, rispettivamente un matematico e un professore di economia, hanno dimostrato come le nuove tecnologie dell’informazione possano superare molte delle limitazioni tecniche che affliggevano la pianificazione centrale nel secolo scorso. Attraverso l’uso di tabelle del consumo intersettoriale dei tempi di lavoro e lo sviluppo di algoritmi sofisticati, è possibile oggi aumentare significativamente i livelli di produttività e produzione. Questi strumenti permettono anche di gestire con maggiore precisione le esternalità positive e negative, come gli impatti ambientali, riducendo gli sprechi e migliorando l’efficienza complessiva del sistema economico. Per ulteriori approfondimenti, si veda: Paul Cockshott e Allin Cottrell, Towards a New Socialism, Spokesman, 1993. ↩︎
  5. Per un approfondimento sul progetto CyberSyn e il suo impatto, si veda l’articolo di Evgeny Morozov, “Un’altra intelligenza artificiale è possibile”, pubblicato su il manifesto il 15 agosto 2024, disponibile al link: https://ilmanifesto.it/unaltra-intelligenza-artificiale-e-possibile. ↩︎
  6. Peter Frase, Four Futures: Life After Capitalism, Verso Books, 2016. ↩︎
  7. Aaron Bastani, Fully Automated Luxury Communism, Verso Books, 2019. ↩︎

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *