Moltissimi sono i luoghi dove Marx è stato associato a vario titolo alla cibernetica. Non mi pongo come scopritore o innovatore. Non ho però mai incontrato, seppur nelle mie ancor preliminari indagini, in nessun luogo questa matrice di derivazione (o meglio dire di predecessione) nello specifico.
Si tratta dell’apporto di Marx alla robotica, nei termini specifici della sua concezione organismica-sociale che prende contenuto determinato nella sua teoria della cooperazione, in termini più precisi della categoria di cooperazione all’interno della teoria del modo di produzione capitalistico.
Ora dobbiamo fare un’operazione di fantasia: facciamo finta che Marx abbia direttamente influenzato gli ingegneri e gli studiosi di robotica, rapporto di cui filologicamente non si trova traccia diretta. Ma forse indirettamente da Marx discende un certo tipo di concezione o paradigma, o forse ne era egli stesso esponente, che nella tradizione classica marxista è stato praticamente oscurato da un altro tipo di eredità concettuale, quella storico-ideologica. Ora, non è mio intento contrapporre un Marx “puro” a un Marx “deviato”, anche perché nella mia visione il Marx storico-ideologico è tutt’uno con quello, chiamiamolo così, tecnico-scientifico-economico. Un grosso problema del marxismo storico concreto, così come si è protratto nella scena accademica ma non solo, anche quella politica dei movimenti reali, è che per necessità virtù ha dovuto assumere una forma ideologica, che sul piano dell’azione politica è diventata una forma dottrinaria, mentre sul piano accademico è diventata una concezione culturalistica, idealistica al peggio, storiografica al meglio (in pochissimi casi) ma mai scientifica in senso proprio e compiuto, se si tolgono gli sforzi (discutibili, per carità) di Althusser e di pochi altri.
E tutto questo a discapito di colui al quale invece è stata data la colpa della prima trasfigurazione del marxismo in volgare, cioè Engels, che invece aveva capito per primo, involontario profeta, quali erano le direzioni da prendere e quali da evitare.
Per concludere questa parte introduttiva dal sapore un po’ storico-genealogico, vorrei toccare brevemente il meme (in senso etimologico) sullo Stalin nemico della scienza e della cibernetica. È vero che a un certo punto in una enciclopedia sovietica alla voce “cibernetica” questa venne bollata come “pseudoscienza borghese”, cioè un sapere tecnico adoperato al fine di sfruttare in modo più efficiente l’operaio umano, abolendo la distinzione tra umano e macchina e portando a compimento la sussunzione del lavoro vivo, o dell’umano, alla macchina, al capitale. Ora dubito che l’ideologo staliniano sia giunto a tale finezza analitica, perché temo che la ragione di tale bollatura sia stata più grettamente idealistica: l’umano non si tocca, la sua essenza è sacra, il capitalismo non ci renderà vuote macchine, e così via con tutti i luoghi comuni del pensiero metafisico e idealistico. Ma così facendo, non solo ignoravano ipocritamente l’adozione pratica del taylorismo come metodo di ottimizzazione scientifica della produttività, ma si toglievano la possibilità di reggere il passo con le potenze occidentali per motivi ideologici: nonostante la Russia sovietica fosse diventata in breve tempo la seconda, o prima, potenza economica, tecnico-scientifica e militare, è indubbio che il suo progresso scientifico subì un ritardo non da poco non solo per le condizioni materiali che imponevano un regime di guerra (civile, doppiamente mondiale e poi fredda), ma anche per preconcetti ideologici e cattive impostazioni ideologiche derivanti dalla situazione. Ma, non per questo, significa che il socialismo sia sostanzialmente incapace di sviluppare un pensiero cibernetico che sia in contrasto con l’organizzazione borghese del lavoro. La scienza sovietica ha avuto, nonostante lo scivolone ideologico staliniano, un ruolo di punta nelle scienze cognitive e computazionali, pensiamo a Markov, anche durante Stalin dove in minima parte si elaborarono le strutture espanse in seguito nonostante il ritardo ereditato da Stalin. Se pensiamo poi al progetto del Chile democratico di Allende, il futuristico Cybersyn, stroncato dall’infamia dell’imperialfascismo statunitense, viene da dire che NON È VERO che socialismo e cibernetica sono incompatibili.
Detto questo, procediamo con il succo di questo articolo.
Marx “scopre” la cooperazione come categoria generale del processo lavorativo in generale, cioè del fatto che la specie umana per vivere innesca un processo di interscambio con l’ambiente mediato dalla trasformazione dell’ambiente stesso, per mezzo di tecniche e di strumenti. Non è solo la specie umana a farlo, perché sono molti gli altri animali e le piante che operano nell’ambiente e sull’ambiente modificandone la struttura; l’unicum non sta nel fatto che soltanto l’uomo lavora, elevandolo per così dire spritualmente (argomento idealistico da rigettare): l’unicum sta nel modo in cui la specie umana si organizza e si mette in moto nell’interazione con l’ambiente per la sua propria riproduzione. È chiaro che le varie epoche di organizzazione sociale della riproduzione della specie umana siano assolutamente peculiari e caratteristiche della specie uomo, e non trovano equivalenti nelle altre specie, se non in specifiche forme analogiche trasversali che lo rendono una scimmia, e poi un animale, come i corvi, i castori e i polipi, e in ultima analisi un robot. Ma questo lo vedremo tra poco.
Uno degli elementi caratteristici della riproduzione umana è la sua struttura determinata che specificamente si ritrova sincronicamente e diacronicamente in diverse formazioni sociali. Engels ha fatto un passo indietro nel tempo rispetto a Marx, nonostante in Marx vi fosse lo spunto di tali riflessioni, andando a risalire la storia naturale umana fino al passaggio della scimmia in uomo, e vi ha trovato nella divisione del lavoro in classi l’origine differenziante della modalità specifica umana di riprodursi rispetto a quella scimmiesca e animalesca.
Andando avanti poi con Marx, di certo nessun altro animale a noi noto produce merci da scambiare con denaro. Cioè il fenomeno dell’utilizzo del denaro come mezzo di scambio non si è sviluppato spontaneamente in nessun’altra specie vivente, anche se non è detto che non possa nascere e svilupparsi analogamente in altre specie, terrestri e non.
Cosa accomuna Marx al paradigma cibernetico, tanto da porlo fittiziamente come padre stesso della robotica? Intanto la sua concezione organismica, che considera l’uomo in maniera naturalistica calato nella natura in un rapporto di interazione reciproca. Marx chiama questa modalità di esistenza “ricambio organico”, sebbene oggi non si parlerebbe di uomo e natura ma di organismo o specie e “ambiente”. Ciò che porta Marx a scoprire dei concetti fondamentali per la storia della scienza e dell’economia, come “lavoro astratto”, “valore”, “plusvalore” è proprio il suo modo di intendere scientifico della specie umana, è l’applicazione del concetto darwiniano di uomo come specie alla critica dell’economia politica, che permette di superare i limiti dell’economia politica classica che a seconda dell’esponente peccava di atomismo, sostanzialismo, astrazione, unidirezionalità e così via. Marx scopre che il valore non è semplicemente la quantità di lavoro contenuta in un oggetto, intesa come tempo di lavoro che il produttore spende nella produzione di un oggetto, come pensavano a loro modo Locke e Ricardo; il valore è la quantità di lavoro “socialmente necessario” alla sua propria riproduzione, che è un concetto totalmente diverso e assolutamente innovativo che porta Marx.
Questa idea di “socialmente necessario” a Marx viene considerando l’aspetto di specie dell’organizzazione umana del lavoro, e l’indagine del modo in cui tale necessità si sprigiona nel comportamento umano è proprio l’oggetto della scienza nuova che Marx inaugura. Nel modo di riproduzione di specie che caratterizza l’epoca presente, Marx vede nell’elemento specifico della merce la cellula dell’organismo-società di tipo borghese. Il processo lavorativo si realizza in modo determinato nell’oggetto merce, nel prodotto che è una merce, cioè scambiato sul mercato per mezzo di denaro. Ma dall’atomo che è la merce, Marx risale alle strutture superiori che la determinano come tale, cioè la circolazione semplice, il capitale in generale, il suo ciclo e poi i molti capitali determinati in contraddizione nella competizione e così via. Ma discende anche nella struttura subatomica di tale atomo, nella sua costituzione fondamentalmente scissa di valore d’uso e valore, da cui poi scoppia l’intero processo logico e storico che porta alla società borghese come totalità e al suo possibile superamento. Una vera e propria scissione nucleare, o un big bang economico-politico.
Marx trova nella cooperazione un tratto trasversale dell’organizzazione genericamente umana del suo riprodursi come specie, e già questo è tanto. Ma Marx non rimane della delineazione astratta di una categoria fissa, immobile, universale e quindi muta, afona. Marx trova come la cooperazione sia un tratto specifico dell’organizzazione capitalistica del lavoro, e facendo questo scopre un passaggio fondamentale che porta a capire il perché e il per come della produzione di valore del capitale, di come è possibile che esso si accresca in un gioco apparentemente tendente a zero.
La prima forma concreta di cooperazione capitalistica è quella della manifattura.
Usando le parole di Marx: “dalla combinazione di mestieri di tipi differenti, autonomi i quali vengono ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da costituire ormai soltanto operazioni parziali reciprocamente integrantisi del processo di produzione d’una sola e medesima merce […] ma qualunque ne sia il punto particolare di partenza, la sua figura conclusiva è sempre la stessa: un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini”. (Ringrazio Fineschi per la citazione e lo spunto di questa mia riflessione).
Ora vorrei soffermarmi su quest’ultima frase. La cooperazione, tratto generale del processo lavorativo trasversale, e tratto specifico dell’organizzazione capitalistica nella forma determinata della manifattura, rende il complessivo processo produttivo un “meccanismo” i cui organi sono umani. Cioè, la società intera o l’associazione di uomini raccolti sotto la sussunzione del dispotismo del capitalista sono nel complesso una macchina i cui componenti, le cui funzioni, sono operate da uomini. Le coppie organismo-organi, totalità-momento, scopo generale-fuzione particolare, macchina-ingranaggio diventano sostituibili e sinonimo, dato che Marx parla di una macchina con organi e potrebbe valere lo stesso se parlasse di organismi con ingranaggi.
Questo è il paradigma della robotica, nel senso che la robotica studia il funzionamento della vita in due modi e per due motivi: conoscere meglio la vita imitandone e riproducendone le strutture, o produrre dispositivi e tecniche utili all’utilizzo pratico che siano o meno imitazioni del vivente. La robotica si occupa quindi di due cose apparentemente contradditorie: replicare la vita per conoscerla meglio o conoscere la vita per produrre applicazioni utili che non hanno riscontro nel vivente. Ci sono vari esempi a proposito, ma la distinzione non è così netta e oppositiva, anzi farò un esempio che ne dimostra l’assoluta convivenza.
Prendiamo la robotica evolutiva. Sia nella sua versione analogica, fatta di robot fisici presenti nell’ambiente reale, che in quella digitale, fatta di robot virtuali presenti in ambienti simulati, la robotica evolutiva si occupa di simulare l’evoluzione, di riprodurne i meccanismi in scale temporali osservabili per noi, dato che l’evoluzione per noi è un fatto che attraversa miliardi di anni e non siamo in grado di osservare direttamente l’evoluzione, ma soltanto attraverso reperti paleontologici, osservazione naturalistica e analisi genetica. Far correre simulazioni in scala ridotta per noi serve a produrre qualcosa di simile a prove sperimentali che per forza di cose non possiamo fare dato che i tempi dell’evoluzione sono proverbialmente biblici. Certo, esistono prove sperimentali che dimostrano la teoria dell’evoluzione, ma nessuna prova sperimentale ha mai replicato in laboratorio il complesso dell’evoluzione stessa. Grazie alla robotica, qualcosa di simile può essere fatto e viene sempre di più utilizzato il metodo euristico delle simulazioni per creare qualcosa che è a tutti gli effetti un evento evolutivo ma non è assolutamente una replica dell’evoluzione, eppure ci aiuta a comprenderla meglio. La robotica evolutiva, o anche l’Artificial Life, mostrano applicazioni utili, che non sono solo l’acquisizione di un sapere sull’evoluzione, ma tecniche utili per l’implementazione di robot ausiliari, indifferenti all’aderenza pedissequa dei meccanismi vitali.
In questo senso Marx faceva robotica senza robot, o meglio inventava il paragigma robotico-evolutivo e lo usava per studiare la riproduzione storico-sociale della specie umana. La robotica sociale, una branca affine alla robotica evolutiva per struttura sperimentale, si occupa di indagare l’emergere di rapporti sociali spontanei tra individui non collegati neuralmente. Sotto determinate condizioni sperimentali ambientali, si è potuto osservare l’emergere di un comportamento sociale non previsto a partire da robot neuralmente sconnessi e non programmati per agire e interagire in un modo o nell’altro. E una delle scoperte più interessanti è stata proprio l’emergere di comportamenti sociali di vera e propria cooperazione da parte di agenti non programmati per agire in un modo specifico, dotati soltanto di una funzione di fitness (sopravvivenza evolutiva).
Ora coordinazione, collaborazione e cooperazione sono un vero e proprio trittico della robotica, di cui coordinazione e cooperazione insieme si avvicinano a ciò che Marx intendeva per cooperazione come cifra del comportamento sociale riproduttivo umano.
Marx intendeva la cooperazione come un comportamento collettivo che travalica la volontà e la funzione dei singoli, creando un totale che è più della somma. Dieci calzolai che producono individualmente la propria scarpa sono più inefficienti di dieci operai che suddividono l’operazione di produrre una scarpa in singole funzioni e gesti. E questo è un concetto trasversale per qualsiasi modo di produzione, ma così come viene a determinarsi nel capitalismo, la cooperazione viene sussunta dal capitale, e quindi lo scopo finale della cooperazione diventa lo scopo dell’accrescimento del capitale, e il capitale implementa sempre di più le forme di cooperazione che garantiscono una maggiore produttività, ovvero un maggiore tasso di plusvalore, in congiunzione al progresso scientifico delle tecniche produttive.
Se Marx non avesse avuto questa intuizione robotica, non avrebbe mai capito che cosa a tutti gli effetti rendesse tale il capitale… se Marx avesse pensato come gli ideologi staliniani, sarebbe rimasto un banale apologeta borghese. Ecco perché dicevo che Marx considera l’uomo come un robot. Robot, parola introdotta dall’autore di fantascienza ceco Karel Capek, significa “lavoratore, operaio”, e nella prima storia di fantascienza con protagonisti robot avviene già la prima rivolta dei robot, una rivolta veramente operaia. Marx concepisce l’uomo, il lavoratore, l’operaio come robot, come un ingranaggio che compone la macchina complessiva della riproduzione sociale. Solo intendendo il processo vitale umano in questo modo, Marx scopre il meccanismo, il funzionamento del processo politico-economico che sottende alla riproduzione della specie umana, in modo determinato la legge del moto interiore del capitale, il motore immobile della società attuale, quella borghese. Ma non per questo svuota l’attore operaio di qualsiasi intenzione, anzi, come vediamo proprio in Capek, è proprio l’esito del robot, il lavoratore schiavizzato, dipendente da un padrone, quello di ribellarsi alla schiavitù. Ecco allora il nocciolo rivoluzionario della robotica marxista: ribellarsi alla schiavitù della macchina, la rabbia della macchina contro la sua condizione di macchina attraverso la sua essenza propria di macchina, come cantano i Rage Against the Machine.