VOUCHER E OCCUPAZIONE: NADA DE NADA

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E’ notizia recente delle nuove ipotesi del governo prese per ostacolare l’oramai dilagante problema dei voucher, ipotesi che vanno dal ritorno alla legge Biagi al limitare l’incasso del singolo lavoratore, in modo tale da rideterminare il confine d’uso di questo strumento nato per arginare il lavoro in nero negli interi ambiti lavorativi in cui è stato esteso. Sempre in questo orizzonte d’incertezza, inoltre, si sta aspettando la sentenza della Corte Costituzionale (sentenza che sarà emanata l’11 gennaio 2017) in cui questa dovrà esprimersi sulla fattibilità della richiesta da parte della CGIL di un referendum abrogativo sulle “norme sul lavoro accessorio” appartenenti al corpus legislativo del Jobs Act, di un referendum sul ritorno integrale all’Articolo 18 e sulla responsabilità solidale tra ditte appaltanti e subappaltanti.

  • L’EFFETTO DELLA LORO ESTENSIONE

    I rapporti (la cui lettura è consigliata e la cui fruizione è gratuita, andanti dall’ISTAT alla Caritas) sullo stato del mercato del lavoro in Italia, sulla condizione economica dei giovani, sulla disoccupazione escono oramai con cadenza giornaliera e tutti con la stessa diagnosi: il mercato del lavoro è stato dopato dal Jobs Act e l’effetto stupefacente si è rapidamente esaurito. 4,5 milioni di poveri che non riescono ad accedere nemmeno ai beni di prima necessità, il dramma dei cosiddetti working poor , l’esercito dei voucheristi ( dal 2008, anno della prima sperimentazione dei buoni lavoro  ne sono stati venduti 347,2 milioni, tra il 2014 e il 2015 l’aumento percentuale dei voucher venduti è stato del 66% e il trend è in continua crescita )
    degli stagisti, degli apprendisti,delle partite Iva che non fatturano abbastanza,calo verticale delle assunzioni a tempo indeterminato e l’aumento dei licenziamenti per giusta causa: 8,5% il calo delle prime, 31% l’incremento dei secondi rispetto al 2015. Secondo i numeri inoltre La maggioranza degli oltre 1.380 mila percettori dei buoni lavoro nel 2015 lavora in nero e, solo in parte, viene pagata con i voucher, così da mostrare questa misura contro il lavoro in nero inutile di fronte alla mole del lavoro nero ancora nascosta e dissimulata. Tutto questo è coadiuvato dal continuo integrare contratti part time con misure voucheristiche, come denunciano i ricercatori (anzi, i “gufi”) per i quali  il voucher non porta ad alcuna evoluzione professionale o sociale instaurando un circolo vizioso, il girone infernale dei voucheristi, rappresentato perfettamente nel modello veneto in cui metà di coloro che non hanno né un contratto part time né un contratto a tempo determinato basa il suo sostentamento sulle misure consistenti nei voucher. Infatti  se  coloro che stanno usando  la nuova ondata consistente in 88 milioni di voucher venduti fossero all’interno di un contratto di lavoro, ci sarebbero 47 mila lavoratori a tempo pieno.

  • COSA SONO I VOUCHER?  Il voucher (altresì detto buono lavoro caratterizzato dal valore lordo di 10 €) è un metodo retributivo finalizzato al superamento dei problemi di elusione ed evasione fiscale, oltre a regolamentare la modalità lavorativa occasionale nei campi previdenziali ed infortunistici. Questo sistema di pagamento finalizzato al contrasto del lavoro in nero venne in primis adottato in campo agricolo per poi, con la Legge Biagi datata 2003, essere esteso ai lavori di tipo occasionale nel settore domestico (colf, badanti ecc). Mano a mano  che si va avanti col tempo questa particolare tipologia di pagamento venne estesa ad altri ambiti lavorativi, estensione culminata con la Legge Fornero e con  lo stesso Jobs Act per mezzo del DL 81/2015 in cui si innalzato il limite di retribuzione annui  a 7000 € netti annui e si estende l’utilizzo del voucher a industria e artigianato la cui regolamentazione è stata fissata posteriormente alle suddetti leggi con vari  DL (tra cui il 185/2016)  in cui  gli imprenditori (tranne quelli agricoli) e i professionisti hanno l’obbligo di inviare, almeno 60 minuti prima dell’inizio di ciascuna prestazione retribuita a voucher, un messaggio alla sede locale dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ed in cui vengono stabilite le remunerazioni orarie a seconda del taglio del buono lavoro risolvendo un vuoto legislativo che permeava da anni.

  • LA PRECARIETA’ ITALIANA: UN SISTEMA FALLACE Il Jobs Act è stato un perfetto dopante sull’orizzonte delle assunzioni per via di sgravi fiscali (spesso nemmeno dovuti) nei confronti delle aziende che, come ogni medicinale o droga che sia, sta perdendo gradualmente il suo effetto. I dati dell’Inps rielaborati dalla fondazione Di Vittorio della Cgil confermano il trend negativo degli effetti della riforma, messi in evidenza dagli stessi dati per i quali e assunzioni a tempo determinato e quelle stagionali rappresentano quasi il 75% dei nuovi rapporti di lavoro prodotti nei primi mille giorni del governo sostenendo che nel 2015, nel settore privato, il 35,4% dei contratti a tempo determinato aveva una fine prevista entro un mese, ed un altro 23,7% da 1 a 3 mesi.  La fondazione Di Vittorio rincara la dose con dati che mostrano una struttura di mercato che col decrescere dei fondi sforna un giorno dopo l’altro nuovi precari:nei primi 9 mesi del 2016 le assunzioni a tempo indeterminato (926 mila) sono inferiori sia a quelle dei primi 9 mesi del 2015 (con una differenza di -443 mila, pari a -32,3%), ma anche a quelle dei medesimi periodi del 2014 (-65 mila, pari al -6,5%) e dell’anno precedente a questo (-85 mila, pari al -8,4%) incrementando al contrario 2,7 milioni di assunzioni a tempo indeterminato. Questi dati contestualizzati dalle ricerche Inps mostrano il reale stato del mercato del lavoro italiano, dati spesso e volentieri slegati dai loro soggetti dai fautori del Jobs Act, per i quali i dati saranno immancabilmente positivi, come la disoccupazione generale scesa ad ottobre di 0,1 punto percentuale (non contando l’aumento di 30 000 componenti nella categoria degli inattivi, ovvero coloro che non sono né in cerca di lavoro nè hanno un proprio lavoro, formalmente distinti dai disoccupati e quindi esterni alla stessa base di calcolo da cui si traggono i dati sulla disoccupazione) dimenticandosi completamente di leggere la precisazione della stessa  Inps che ha tenuto a precisare che quel 0,1% è dovuto alla conversione dei disoccupati ad inattivi; oppure come facendo gli apologetici di fronte ai dati sulla disoccupazione giovanile (aumentata di 15 punti percentuale rispetto ai dati del 2008), noncuranti degli oltre 500 000 tirocini tra il 2015 e il 2016  della “Garanzia Giovani”, riconosciuti come vero e proprio lavoro quindi realtà concorrente alla formulazione del tasso d’occupazione nonostante siano delle realtà che non prevedono alcun pagamento e caratterizzate dalla ciclicità di 3 mesi. La stessa Garanzia Giovani che si è dimostrata un emerito flop (infatti su un milione di iscritti solo il 16% del totale è rappresentato da contratti di vario tipo non consistenti nel tirocinio), la stessa misura a cui si ispira l’Anpal, l’organo che ha la funzione di ricollocare i disoccupati sul mercato del lavoro per mezzo di politiche attive costituite dal così detto assegno di ricollocazione all’ente accreditato capace di trovare un impiego per chi è disoccupato e percepisce la Naspi (un assegno erogato a favore dei lavoratori  che abbiano perduto involontariamente l’occupazione) da almeno 4 mesi a cui vien elargito l’assegno (il quale valore può variare da 250 a 5 000 €). Ovvero favorendo il settore privato delle agenzie di lavoro quando i centri privati stanno sempre di più cadendo nel baratro poiché questi assegni possono finire ad agenzie di lavoro private che agiscono propinando il così detto lavoro in somministrazione, ovvero un duplice  contratto stipulato da tre soggetti diversi: un utilizzatore (un’azienda pubblica o privata che necessita di una determinata figura professionale), un somministratore (agenzie di lavoro private perché le agenzie pubbliche non possono somministrare questo tipo di contratto) e lo stesso lavoratore retribuito secondo alla tipologia di contratto dell’azienda utilizzatrice. Inoltre questo comporta sia che il lavoratore annulli il suo potere contrattuale di fronte al contratto dell’utilizzatore (venduto, come è confacente nel capitalismo, ad una concorrenza sul capitale variabile) sia che l’esercito del precariato ne sia precluso (poiché questa forma di politica attiva sul lavoro è riservata solo a chi ha perso il lavoro involontariamente). Aggiungendo alla nostra critica quanto è evidente che il contratto a tutele crescenti con l’abolizione dell’articolo 18 si annulla da sè sul piano dei contratti subordinati a tempo indeterminato ( con questa particolare categoria contrattuale il legislatore introduce un nuovo regime di tutela per i licenziamenti illegittimi  prevedendo un’indennità risarcitoria crescente in ragione dell’anzianità di servizio in azienda), togliendo così spazi di incertezza interpretativa nel codice del lavoro ma togliendo la discrezionalità ai giudici di fronte ad  un licenziamento, facendo così il gioco del dirigente. Tutto ciò è coadiuvato, secondo ai dati del Ministero del Lavoro, dai licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo sono aumentati del 28% (sommergendo i tribunali con ricorsi); tagliati gli sgravi contributivi, i contratti a tempo indeterminato continuano a calare (-29%), mettendo un tasso fisso ai contratti a tempo determinato al 20% (quando inizialmente erano  le stesse maestranze che esercitavano il potere contrattuale riguardo a quest’ambito).
  • CONCLUSIONE   Non è novità la questione della relazione domanda-occupazione ma se la domanda aggregata della maggior parte della popolazione non è sufficiente per il misero potere d’acquisto  dato da salari bassi la crisi stenta a ceder il passo ad una ripresa irrisoria. In Italia questa norma economica di keynesiana memoria è caduta nell’oblio con politiche assistenziali tipiche di coloro che credono in un “progresso capitalista” endemico della terza via politica, nell’idea  che qualcosa spinga il singolo a “prendere in mano la propria vita” ed accettare il proprio stato, stato che in teoria dovrebbe essere  la base di partenza per un cambiamento individuale agevolato dallo stato (per esempio l’ausilio nella ricerca del lavoro), però senza partire da un welfare che incoraggi il consumo sulla base delle stesse politiche assistenziali. Questa lezione invece sembra ancora radicata in altri paesi europei dove, con le garanzie dovute, si agisce sul potere d’acquisto individuale. Questo si nota solamente comparando la paga media oraria italiana con la paga media degli altri paesi dell’Europa occidentale, la più bassa dopo Spagna e Portogallo (in cui però si gode di un maggior potere d’acquisto grazie al tasso d’inflazione vigente): la paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro, all’interno dell’Unione europea la media si attesa a 13,2 euro l’ora, in Germania, nei paesi scandinavi e nella  vicina Francia gli stipendi medi arrivano a 14,9 euro.

Intervista all’economista Andrea Fumagalli

“La parola chiave del progetto europeo non è più quella di garantire un’occupazione stabile, nonostante che nella Carta di Nizza venga sancito il concetto che il rapporto di lavoro valido è quello stabile e a tempo indeterminato.
Il termine occupazione viene sostituito dal termine occupabilità, employability. Si vogliono creare le condizioni legislative e concrete perché un soggetto potenzialmente lavoratore o lavoratrice sia occupabile, ossia sia a tal punto ricattabile da essere messo in condizione di accettare qualsiasi offerta di lavoro. In Italia la situazione è ancor più grave perché, come è noto, il sistema di sicurezza sociale è di gran lunga meno esteso in termini di sussidi diretti e indiretti al reddito di quello operante in Germania o in Francia.
In Germania perché, oltre alle forme di social security, esiste un salario minimo, recentemente introdotto, e in Francia perché oltre al salario minimo ci sono anche forme di reddito minimo di solidarietà attiva. In Italia il sistema degli ammortizzatori sociali non è mai stato riformato e fa riferimento a una figura che non è più quella rilevante, ovvero il lavoratore assunto a tempo indeterminato”

 

La stessa Francia che con la El Khomri ha varato un corpus di leggi molto simile a quello dell’italiano Jobs Act ma con molte differenze rispetto ad alcuni fattori “chiave”. Per capire le differenze sostanziali tra la legge El Khomri e il Jobs Act ci facciamo aiutare da una recente intervista al professor Michele Tiraboschi, docente di diritto del lavoro all’Università di Modena e Reggio Emilia e coordinatore scientifico del centro studi Adapt. Sebbene questa legge è ancora imperfetta e ingiusta il governo  ha “una maggiore apertura alle parti sociali e per l’importanza data alla contrattazione collettiva”,difatti in Francia il dialogo sociale è considerato un valore al contrario dell’Italia  cui governo considera il sindacato come un impiccio e un male. Inoltre, la Legge El Khomri pur avendo,come il Jobs Act,il fine di togliere spazi di incertezza interpretativa nel codice del lavoro (dando così meno potere ai giudici di legittimare o meno un licenziamento facendo così il gioco del dirigente)è stata a lungo discussa da esperti e parti sociali, al contrario del Jobs Act dove “all’improvviso sono comparsi una legge delega e dei decreti attuativi scritti a tavolino”.

– Compagno Elia

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