Marx, Althusser, Foucault e il Presente
Jacques Bidet, nato nel 1935 da una famiglia di contadini, è un filosofo e teorico sociale francese, attualmente professore emerito all’Université Paris-Nanterre.
Già membro del Partito Comunista Algerino clandestino negli anni ‘60 e del Partito Comunista Francese, nel 1986 fonda con Jacques Texier la rivista Actuel Marx, tra le più importanti riviste teoriche marxiste del mondo.
Tra i suoi libri principali ricordiamo “Que faire du « Capital » ? : Matériaux pour une refondation”; “Altermarxisme : un autre marxisme pour un autre monde”; “Foucault avec Marx”; “Explication et reconstruction du « Capital »” e “Théorie de la modernité, suivi de Marx et le marché”. Quest’ultimi due libri sono disponibili anche in italiano.
1. La ricerca di una teoria generale della modernità, ti ha portato all’elaborazione dell’idea della metastruttura, un livello più astratto della struttura, in cui convivono mercato ed organizzazione, ribaltante con un segno di classe nel capitalismo. Questa metastruttura è il riferimento per i subalterni per ribaltare con le proprie lotte il capitalismo e costruire un ordine contrassegnato dalla libertà, l’uguaglianza e la razionalità. Dire che nelle modernità convivono mercato ed organizzazione, mi sembra un voler tornare al progetto originario di Marx di distinguere ciò che è proprio del capitalismo e ciò che non gli appartiene. Come ci aiuta questa riflessione nel ricostruire la teoria di Marx?
1. Marx espresse con forza nei Grundrisse – e cito spesso questo testo, che mi sembra molto significativo – l’idea che dal momento in cui consideriamo il processo lavorativo nella sua dimensione sociale, ci troviamo di fronte a due possibilità di coordinamento razionale, sia del mercato che dell’organizzazione. “Die Organization”, scrive, ed è strano che questo termine non sia entrato nel glossario comune del marxismo. Marx ha ragione a porre questa coppia al centro della sua analisi della società moderna. Ma ne farà un uso storicista, posizionando il mercato all’inizio (della sua esposizione della teoria) e l’organizzazione alla fine (della sua narrazione della storia).
Non è che confonda l’ordine logico in cui la teoria deve essere presentata con l’ordine storico del processo di cui la teoria deve rendere conto. Non offre una filosofia (una logica) della storia. In primo luogo costruisce il quadro (logico) della moderna struttura di classe, che articola intorno alla relazione di sfruttamento del lavoro da parte del capitale, attorno al meccanismo del plusvalore mediante il quale questa struttura viene riprodotta.
Da lì è in grado di analizzare le tendenze di una tale struttura, che rischia di svilupparsi in aziende sempre più grandi, di cui, via via, la logica interna non è più quella del mercato, ma quella dell’organizzazione. Sostiene che arriveremo a un punto critico in cui l’intero dispositivo strutturale verrà ribaltato, i lavoratori, organizzati dal processo stesso di produzione, diventeranno capaci di prenderne il controllo in una forma che sarà precisamente quella, non del mercato, ma dell’organizzazione secondo piani concordati collettivamente. Marx comprese bene che mercato e organizzazione erano le due facce di un modo razionale di produzione sociale. Ma ha fatto un uso storicista di questi dati, mettendo, come ho detto, il mercato all’inizio e l’organizzazione alla fine. C’è ovviamente un elemento di verità nel suo approccio. Tuttavia, era in difetto. La sequenza storica che propone costituisce quindi un paradigma insostenibile. Perché il mercato è razionale solo rispetto all’organizzazione e viceversa.
Come possiamo vedere, dobbiamo, in realtà, iniziare l’esposizione della forma moderna della società con questa dualità e comprendi il suo sviluppo in modo abbastanza diverso. Recentemente ho scoperto l’interesse del testo che apre il secondo capitolo del Capitale. Marx si riferisce al Faust di Goethe, “all’inizio è azione”. Ma sembra che questa azione sia un atto di parola: quello con cui decidiamo di sottometterci alla legge del mercato. In questo contesto, non si tratta di un inizio storico, ma di un inizio di ogni momento, in cui si rinnova questo comune contratto di alienazione. L’approccio di Marx, che qui non è la dialettica hegeliana, ma propriamente parlando, una filosofia dell’azione, è singolarmente illuminante. Ma si è comportato male. Un tale “inizio” si verifica infatti in ogni momento nel dibattito pubblico moderno, che è sempre un dibattito tra una logica di mercato, portata dal capitale, e una logica di organizzazione, portata dalle forze che emergono opponendosi ad esso. Questo sta accadendo in tutti i parlamenti del mondo, dagli Stati Uniti alla Cina e, ancora più vividamente, in tutte le lotte di classe. E questo da molto tempo: per quanto riguarda il campo parlamentare dalla Rivoluzione francese.
E, fondamentalmente, molto prima. L’inizio “teorico” è quell’alternativa, peculiare della modernità, tra l’una e l’altra, e i vari modi in cui possono essere combinate. Il percorso del mercato è sostenuto dalla forza sociale che domina il mercato, quella dei capitalisti. Il percorso organizzativo passa attraverso la forza che domina l’organizzazione, quella dei Competenti. Con questo non intendo coloro che hanno conoscenze e capacità, ma coloro che hanno i privilegi dell’autorità competente. Ma, come si vede, l’inizio dell’inizio è il discorso pubblico in cui necessariamente emerge sempre un tale dibattito, una tale alternativa tra due possibilità. Quella che chiamo la “metastruttura” è questa figura ideale del discorso politico comune – incapace di per sé nella sua immediatezza discorsiva di cogliere la complessità della realtà sociale – in cui prende il sopravvento in questa alternativa tra queste due “mediazioni” (come dice Marx in questo stesso testo).
Questa figura ideale è la “finzione” che domina la società moderna, in quanto ciascuna di queste due mediazioni, che altro non sono che i due aspetti della nostra ragione comune, si trova strumentalizzata dalla forza sociale che la domina, è trovando così trasformato in questi due fattori di classe moderni che convergono nel rapporto di classe moderno. Questa metastruttura si trova, in ogni momento, riprodotta dagli scontri di classe all’interno della struttura.
Questo è il campo strutturale in cui si definiranno i processi rivoluzionari nei tempi moderni. Questa classe dirigente ha quindi due componenti: da un lato, quella i cui privilegi di proprietà consentono loro di dominare il mercato, e dall’altra, quella i cui privilegi di competenza consentono loro di dominare l’organizzazione.
Quanto alla classe popolare, o classe fondamentale, riunisce tutti coloro che non hanno privilegi. Il che non significa che siano impotenti. La loro lotta è infatti sempre orientata al controllo sia dei meccanismi di mercato (salari e redditi, fino alla definizione degli standard di mercato e al controllo dei movimenti di capitali) sia dei meccanismi dell’organizzazione ( riconoscimento dello status, regolamentazione del lavoro, urbanistica, amministrazione in genere, ecc.). E il centro di questa lotta si trova nel momento democratico del discorso sempre ricominciato.
2. Qual è la relazione tra metastruttura e struttura e come ci consente di comprendere meglio la distinzione tra produzione mercantile e capitale in Marx?
2. È proprio qui che è iniziata la mia ricerca. La mia tesi di dottorato, pubblicata con il titolo “Que faire du Capital?”, si è concentrata sul rapporto tra mercato e capitale nel Capitale. Proviene dall’interrogatorio rivoluzionario degli anni dopo il ‘68 e dal “Programma comune della sinistra”, che in Francia ne è il seguito. Stavamo nazionalizzando le banche e la grande industria, in vista di una leadership popolare democraticamente co-organizzata. Nasceva la domanda di sapere quale posto rispettivamente dare al piano e al mercato. La tesi di Marx spingeva all’idea che fosse necessario abolire il mercato, cioè anche la proprietà privata dei mezzi di produzione, contemporaneamente al capitale. Questa era la strada seguita dai sovietici. Stranamente, alcuni intellettuali marxisti occidentali, dichiarati oppositori del percorso sovietico, tendevano a considerare il capitalismo come il frutto naturale del mercato. Inoltre, ancora più stranamente, l’idea che prevale in tutta questa tradizione fa del plusvalore lo sviluppo logico del valore.
Questa idea fiorisce oggi nei movimenti della New Dialectic e Neue Kritik, di cui Moishe Postone rappresenta l’apice. E lo troviamo in Francia a mezze tinte tra coloro che sostengono che è necessario ritradurre Mehrwert, per “plusvalore”, dico ritradurre perché la versione francese del Capitale, “rivista e corretta da Marx”, come dice lui stesso, ha usato il termine “plusvalore”, che di fatto segna, in relazione al “valore”, un cambio di registro: si passa dal controllo sulle cose in una relazione di scambio al controllo sulle forze di lavoro per farle produrre di più. Gli euromarxisti del tempo erano persone pragmatiche a cui non importava questa speculazione, né sembra agli economisti marxisti in generale, con poche eccezioni in Italia. Ma, a mio avviso, il problema non è stato teoricamente risolto. Come capire il rapporto tra la logica del mercato e la logica del capitale.
La cosa è in linea di principio molto chiara nel Capitale. Il mercato viene presentato, nelle prime sezioni del libro 1, come un ordine in sé razionale, che diventa irrazionale se ci si aliena da esso come da una legge naturale. Marx, nel resto della sua presentazione, supporrà che questo sia effettivamente ciò che accade nel “modo di produzione capitalistico”, poiché la forza lavoro accetta di essere ridotta allo stato di merce. Allo stesso tempo, mostra che non è proprio così, dal momento che i lavoratori si ribellano e impongono altre leggi, ad esempio quella delle otto ore di lavoro, che non derivano dal mercato, ma da una capacità di organizzarsi contro di esso, il primo passo di una lunga lotta per una svolta organizzativa democratica. Ma le sue parole non sono molto soddisfacenti, perché questa pretesa di auto-organizzarsi per autogovernarsi non nasceva dal contesto della fabbrica. È antico quanto la modernità. Troviamo già gli inizi di ciò nella forma corporativa delle arti nei comuni italiani, la prima esperienza di modernità.
Almeno questo è quello che ho cercato di mostrare in L’État-monde (2011), pp. 188-232. La metastruttura della società moderna è vecchia quanto la sua struttura. E questo viene sempre presentato congiuntamente, ma in proporzioni diseguali, secondo questo duplice aspetto di organizzazione e mercato. Michel Foucault ha analizzato particolarmente bene questo passaggio dall’uno all’altro durante il XVIII secolo. La modernità precede la prevalenza del capitalismo.
3. Se metastruttura e struttura sono poste contemporaneamente, come è possibile parlare ancora di trasformazione? E se le strutture contraddicono le promesse metastrutturali, non è perché sono le strutture stesse, in senso stretto, contraddittorie?
3. In effetti, struttura e metastruttura formano un unico blocco, allo stesso tempo, che è quello della “forma moderna di società”. La metastruttura è il presupposto della struttura. Non “promette” nulla (mi allontano da questo discorso sulle “promesse della modernità”, che non verrebbe mantenuto). Solamente sostiene. Costituisce un ordine di dichiarazione, di reclamo. Uno Stato moderno, in quanto moderno, pretende di basarsi sulla parola equamente condivisa da tutti, basata sul suffragio universale. Ma questa parola immediata, così come viene data nel dibattito pubblico, può manifestare i suoi effetti nella complessità della realtà sociale solo alternandosi in queste due mediazioni (questa è la parola di Marx, Vermittlungen, che è al contrario di “l’immediato” significa unmittelbar) che sono il mercato e l’organizzazione. Questo è “l’orizzonte insormontabile”, almeno fino ad oggi. Ciò significa che questo è il quadro in cui si svolgono le riforme, le rivoluzioni e le controrivoluzioni. La battaglia è ancora intorno al “regime di egemonia”.
Con ciò intendo il modo in cui si articolano le tre forze sociali primarie di una società moderna: due forze superiori, i capitalisti e i “competenti”, dotati di privilegi, i primi di proprietà sul mercato, gli altri di autorità sull’organizzazione, e un’unica forza in fondo, quella dei senza privilegi, che non vuol dire impotenti, perché tutta la loro battaglia consiste nella ricerca di un appiglio sui meccanismi di mercato e dell’organizzazione. E questa battaglia non è vana, altrimenti ci sarebbe la schiavitù generale. Sotto il regime dell’egemonia liberale (di cui il neoliberismo è la forma estrema) domina l’alleanza di forze dall’alto, sotto il predominio dei capitalisti. Sotto il regime dell’egemonia socialista (nella società cinese oggi è la forma più pura) questa stessa alleanza domina, ma sotto la prevalenza della “competenza”, dell’autorità competente. Ognuno ha le sue perversioni. Tuttavia, si può presumere che sotto il regime socialista operino nonostante una certa connessione con il potere popolare.
Quanto al regime dell’egemonia comunista, sarebbe quello in cui la gente comune si impone, attraverso il potere della democrazia, sui meccanismi dell’organizzazione, e quindi sui meccanismi del mercato. Questo, inoltre, era l’obiettivo del comunismo occidentale. E le contraddizioni? A mio avviso, non c’è contraddizione nel “capitalismo” se con ciò intendiamo “la logica del capitale”. Il disastro ecologico non è un pericolo per esso, ma una contraddizione che dovrebbe affrontare. Al contrario, si sta godendo questo nuovo orizzonte, dove i profitti da aspettarsi sono immensi. La contraddizione le è esterna: tra capitalisti e cosiddetti competenti c’è la doppia possibilità di convergenza e divergenza. Ciò significa che i competenti, se sono attratti da un’alleanza con i capitalisti mentre questi ultimi predominano, possono anche, almeno per grosse frazioni, trovare più interessante allearsi con la gente comune, con la speranza di prendere l’iniziativa.
Questa possibilità di alleanza dipende, per la maggior parte, dalla forza politica organizzata della gente comune. Inoltre, è in queste condizioni che da un secolo sono state impegnate le grandi rivoluzioni comuniste nel mondo. Ma, una volta emarginati i capitalisti, i competenti sono diventati una nuova classe dirigente. Dico questo in modo estremamente generale. Perché le traiettorie dell’URSS e della Cina sono state molto diverse.
4. La tua critica è tagliente anche nel prendere il distacco dal modello di pianificazione sovietico a cui contrapponi un “socialismo di mercato” in cui emerge il primato della deliberazione pubblica nello scegliere le gerarchie delle mediazioni. Pensi che su queste basi sia possibile realizzare quel lavoratore collettivo di cui parlava Marx, il vero soggetto rivoluzionario, dall’ingegnere all’ultimo manovale che potrebbe avviare la transizione al socialismo?
4. Preferisco non parlare di “socialismo di mercato”. Non credo di aver mai usato questa formula. Perché si potrebbe capire che, in queste condizioni, l’economia sarebbe essenzialmente mercato. Al contrario, mi sembra molto importante che l’organizzazione domini il mercato. E questo è, mi sembra, il caso della Cina oggi. In questo senso, il termine “capitalismo di Stato”, non più che “socialismo di mercato”, mi sembra che gli si addica. Ma io sono un sostenitore del comunismo, non del socialismo.
Sono un po’ diffidente nei confronti del termine “transizione”, che ha un po’ il sapore di filosofia della storia, della via da seguire verso una fine definitiva. E preferisco parlare di costruzione del comunismo. Presuppone ai miei occhi due condizioni contemporanee l’una dell’altra. Da un lato, un rapporto di lotta-alleanza con i competenti, in modo da separarli dal capitalismo e attirarli verso un progetto alternativo, nel quale troverebbero interesse.
D’altronde, e questa è in realtà la prima condizione: una lotta tesa ad unire tutti i non privilegiati, la gente comune, in cui troviamo impiegati pubblici e privati e altrettanti (cosiddetti ) indipendenti, indipendentemente dal fatto che siano gestiti attraverso processi più di mercato o piuttosto organizzativi, non importa. Il problema principale è la divisione tra un popolo A, che ha saputo conservare parte delle sue conquiste sociali, e un popolo B acquisito che è gravemente carente, e in cui troviamo una maggioranza di donne, giovani e presunti stranieri. Questo è, a mio avviso, il quadro generale della battaglia, almeno a livello di Stato-nazione.
5. Al fine di fondare questo nuovo contrattualismo che auspichi, c’è secondo te la possibilità di rivalutare il modello cooperativo o lavorare ad una forma democratica e decentralizzata della pianificazione economica?
5. È vero che ho usato il termine “contrattualismo”, in particolare in un libro scritto una trentina di anni fa e pubblicato in italiano, intitolato “Théorie de la modernité, Marx et le marché”. La mia idea era che i marxisti, eredi della Terza e della Quarta Internazionale, dovessero confrontarsi di nuovo con le teorie del contratto sociale e rispondere alle sfide portate in questo campo da autori importanti come Rawls e Habermas. Ovviamente i lettori un po’ di fretta hanno dedotto che ero diventato un “contrattualista”. Sotto i colpi di questo sospetto, senza dubbio, le mie idee sono diventate un po’ più precise mettendo in relazione gli elementi di contrattualità con un ordine “metastrutturale”.
Potrei fare affidamento sulla sezione 1 del Capitale, che trattava in questo modo della forma del mercato, il luogo della contrattualità interindividuale. Mi sembrava logico trattare, correlativamente, l’organizzazione come il luogo di una potenziale contrattualità centrale, tra tutti, dal momento che abbiamo assunto un mondo sociale di individui che si dichiarassero liberi di essere uguali. Ed è proprio questa l’affermazione che si afferma nell’organizzazione politica dello Stato-nazione.
L’intera questione è ora quella del rapporto tra contratto privato tra ciascuno e contratto pubblico tra tutti. In altre parole, troviamo la vecchia questione politica della “libertà dei moderni” contro la “libertà degli antichi”, ma questa volta correlata con le forme economiche del mercato contro l’organizzazione.
Correlazione tra i due poli della razionalità economica e i due poli della contrattualità politica. Ma tutte queste figure concettuali, essenziali per comprendere le battaglie del tempo presente, si riferiscono alla metastruttura, che non è il fondamento della società, ma solo il suo riferimento inconfutabile.
In breve, le nostre società non sono fondate sul contrattualismo. Ma i governanti, che dicono che il contratto è già lì, non possono sfuggire alla minaccia del popolo dal basso di stabilire un vero contratto.
Stabilirlo significa, a mio avviso, assoggettare il mercato all’organizzazione, e l’organizzazione alla parola comune, affinché crescano gli spazi di collaborazione diretta in tutti i campi. Questa è un’esigenza che ritroviamo oggi nel tema del “comune”, che apre una prospettiva molto buona. Il suo limite secondo me è duplice. Da un lato, non dobbiamo dimenticare che ciò che è comune, un luogo in cui agire in comune, non è comune a tutti, ma solo ad alcuni. A questo proposito, va inteso che il comune supremo è la patria, il cui suolo è sacro, perché “nostro”, e non degli altri.
Comune esclusivo, terrificante per lo straniero. D’altra parte, questo “comune”, di cui possiamo fare molteplici usi, è di per sé solo una potenziale categoria. Per avere un reale significato politico, deve essere confrontata con concetti analitici, vale a dire che consentono l’analisi della società, ai miei occhi in termini di classe, genere e colonialità. In breve, il “comune” apre una prospettiva di democrazia economica partecipativa discorsiva. Ma al di là di ciò rimangono le grandi realtà delle forze sociali basate sul controllo del mercato e sul controllo organizzativo. Che non dovrebbero nemmeno essere messi sullo stesso livello, perché prima hanno una funzione euristica ed esplicativa. Stiamo cominciando a capire oggi quanto sia diventata essenziale la pianificazione ecologica. A questo punto sorge la domanda su chi può controllarla, il mondo esperto? O la gente comune? Sarà necessariamente una grande questione politica nei prossimi tempi.
6. Recentemente hai pubblicato Marx et la Loi travail. Le corps biopolitique du Capital, in cui analizzi la teoria del valore-lavoro alla luce del concetto di biopolitica di Foucault. Un’interpretazione che tiene conto della soggettività individuale. Puoi spiegarci l’importanza di leggere Marx con Foucault?
6. In effetti, lo scopo di questo piccolo libro non è quello di esaminare il “diritto del lavoro”, che è attualmente (perché non è finita) oggetto di una dura lotta sociale in Francia e in ogni altra parte del mondo, in varie forme. Si trattava di questo, ma in riferimento al concetto di biopolitica. La “Biopolitica del capitale”, che ha funzionato come sottotitolo, avrebbe dovuto funzionare come titolo. Questo è anche il caso dell’edizione coreana appena pubblicata. E spero che l’idea venga ripresa in future traduzioni (è un libro piccolissimo, quindi di facile traduzione e che è concepito anche come introduzione alla lettura del Capitale).
Quanto al libro Foucault avec Marx, è di natura diversa. Sembra interessare gli stessi lettori, in quanto viene tradotto in coreano, dopo le edizioni in inglese e turco, con un progetto anche in spagnolo. Riprende il tema foucaultiano della “biopolitica” (ma anche l’intera costellazione della concettualità di Foucault), dimostrando che la teoria marxiana del valore e del plusvalore, radicata in un approccio al lavoro come mobilitazione sociale e personale del corpo, della sua produzione e consumo come spesa produttiva, è alla base dell’elaborazione teorica di Marx. È importante pensare a una biopolitica dal basso, che non sia solo resistenza alla biopolitica dall’alto, ma creativa, politicamente costitutiva. Il tema non è proprio quello del “lavoro vivo” (classicamente opposto al “lavoro morto”), ma quello del progetto politico di Marx in quanto orientato verso una politica della vita.
7. Vieni dalla scuola althusseriana, allora volevo chiederti l’importanza di Althusser nel rinnovamento del marxismo francese e cosa può esserci utile oggi del suo pensiero.
7. La posterità di Althusser è diversa. Ha scosso il marxismo e quindi anche i marxisti in vari modi. Diversi lettori hanno trovato l’Althusser che stavano aspettando, quello che libera le loro menti e dà loro spunti di riflessione. So bene che il mio Althusser è un Althusser tra gli altri. Il primo punto importante per me è che ha fatto sembrare meglio che il marxismo non è una filosofia. Althusser ha certamente fatto avanzare il materialismo filosofico di Marx. E questo è uno dei motivi per cui la gente, in Francia in particolare, ha ricominciato a pensare, e giustamente, che Marx era un grande filosofo. Nella generazione successiva alla mia, ricercatori come Stéphane Haber, Franck Fischbach ed Emmanuel Renault hanno sviluppato particolarmente questa prospettiva. Ovviamente Althusser parla anche, in senso più generale, della “filosofia di Marx”. Ma questo non è un sistema di pensiero. Piuttosto, l’espressione designa un nuovo modo di praticare la filosofia, nel quadro di una “teoria” in cui collabora con le scienze sociali.
E mi sento, in questo senso, sulla scia di Althusser e Marx. Un secondo importante contributo di Althusser riguarda l’interpretazione del Capitale, non come testo economico o filosofico (anche se contiene molte elaborazioni economiche e filosofiche) ma come opera teorica, che non è un’opera della scienza, nel senso di scienza naturale, né di scienza umana. La particolarità della teoria è che deve abbracciare questa ampiezza di oggetto che le consente di avere come correlato una pratica, una pratica politica di cittadinanza, volta all’emancipazione. Ma condivide con la scienza le stesse richieste di una costruzione rigorosa. E ci si aspetta che lei scopra “verità”. Siamo quindi particolarmente attenti agli errori che può contenere.
8. In cosa si differenzia maggiormente la tua interpretazione del Capitale rispetto alle interpretazioni hegelo-marxiste e strutturaliste?
8. C’è un’intera gamma di letture hegelo-marxiste. La loro tendenza generale è dimenticare che Marx è un ricercatore ordinario, che non cambia mai i suoi testi se non perché non ne è soddisfatto. Loro quindi leggono gli scritti di Marx all’indietro, immaginando che siano i primi scritti, anzi i più hegeliani – in cui Marx usa spontaneamente gli strumenti intellettuali che sono nella cassetta degli attrezzi del suo essere filosofo professionista prima di produrne di nuovi, più adeguati al suo oggetto – dare la verità delle versioni successive del Capitale, fino all’ultima, in francese, corretta e rivista da Marx, come lui stesso insiste. In questo approccio, il concetto chiave è quello di uno sviluppo dialettico dal concetto di “valore”. A questo proposito Moshe Postone spinge al limite il ragionamento: la verità del plusvalore è da ricercare nel “valore”, nell’universo dell’astrazione di cui è il centro. Lo schema dell’astrazione, ovviamente di grande importanza, si è, ai miei occhi, trasformato in uno strumento per fare tutto, rappresentando la perdita di senso che colpisce il nostro mondo, in preda a un processo di accumulazione infinito. Questo è uno schema filosofico onnicomprensivo, ma non fornisce mezzi di analisi.
In questo senso, sono dalla parte dello strutturalismo, portato alla ribalta da Althusser, basato su un’idea abbastanza semplice: Marx si propone innanzitutto di costruire la struttura della forma moderna di società, attorno al meccanismo dello sfruttamento capitalista, dopo di che può mettere in discussione le tendenze storiche di una tale struttura. Continuare il lavoro di Marx presuppone che prendiamo sul serio i concetti del Capitale, che li sottoponiamo a un esame analitico e critico, per vedere fino a che punto possono rispondere alle domande che ci poniamo. Ma ovviamente non possiamo restare lì. Per molte ragioni. Pertanto mi discosto dal comune marxismo su due punti. Il primo è che il corso della storia moderna non può essere letto solo alla luce delle tendenze di questa cosiddetta struttura capitalista. La storia del mondo moderno non è una storia del capitalismo. Perché fa anche parte del Sistema-Mondo, in cui tali tendenze si manifestano certamente, ma nel caos di questa configurazione “sistemica” (contro “strutturale”), dove le dinamiche dell’imperialismo, della colonizzazione, dell’aggressione, il cui principio esplicativo deve essere ricercato altrove che nella sola struttura del capitalismo.
Questo è il motivo per cui sostengo che il corso della storia moderna è di natura strutturale-sistemica. Tutto ciò, ovviamente, richiederebbe lunghe spiegazioni. Il secondo punto si colloca a monte della configurazione concettuale elaborata da Marx: possiamo solo pensare alla struttura sulla base di questa metastruttura di cui ho parlato, costantemente prodotta e riprodotta dalla struttura attraverso la lotta di classe di cui è composto il quadro.
Mettendo in relazione la struttura con la metastruttura, metto in relazione lo strutturale con il discorsivo (quindi con il simbolico, con il culturale). Tutto ciò presupporrebbe ancora un lungo sviluppo per essere comprensibile e per dimostrare la sua produttività euristica e politica. Ma possiamo già intuire come posso mettere in relazione lo strutturalismo di Althusser con l’azione comunicativa di Habermas, che presuppone anche una critica radicale di questo autore (molto poco materialista), che è stato anche un grande maestro per me.
Quando metto Marx in una relazione concettuale con un gruppo di autori come Habermas, Foucault, Carl Schmitt o John Rawls, un certo numero di lettori frettolosi lo vedono immediatamente come eclettismo. L’eclettismo, tuttavia, è il mio nemico teorico. Lavoro sulla scia filosofica di Spinoza, Hegel e Marx, che non hanno due registri di concetti, uno per dire cosa è e l’altro per dire cosa deve essere. Il concetto politico può essere letto nel concetto ontologico e da nessun’altra parte. Il diritto non esiste al di fuori di un’ontologia sociale.
9. Come interpreta, nel momento attuale, l’ascesa del populismo in Europa? Ritieni possibile in populismo di sinistra e come ti relazioni al pensiero di Laclau?
9. Mi sembra che l’estrema destra populista debba essere intesa come di destra. In diversi casi è riuscita a trovare un posto nel grande partito di destra, come è avvenuto in Spagna e ancora oggi negli Stati Uniti o in Messico. In altri casi, la destra si è dimostrata così incapace di rispondere alle richieste fondamentali degli strati popolari più a rischio che queste si sono gradualmente sviluppate in una certa identità popolare di estrema destra, esigendo di essere presi in considerazione come una priorità (perché il territorio sacro della Patria, con tutta la ricchezza che contiene, “è nostro”), ma senza andare oltre l’orizzonte economico-politico classico della destra. Per questo la convergenza con un populismo di sinistra resta alquanto improbabile, piuttosto volatile, come abbiamo visto in Italia, dove, eccezionalmente, la situazione economica ha favorito questo incontro.
Il populismo di sinistra è una povertà spaventosa. L’ho spiegato un po’ nel mio ultimo libro, « Eux » et « Nous » ?, Une alternative au populisme de gauche, édition Kimé, 2018. L’ho ripreso, più di recente, in un articolo pubblicato su Mediapart, accessibile direttamente su Internet, “Les visions d’Ernesto Laclau et les Ruses de Chantal Mouffe”, che sto sviluppando nel libro che sto ultimando. Ernesto Laclau sviluppa una critica dello stato attuale del mondo in affinità con quella della teologia della liberazione. Tuttavia con alcune differenze. Il primo è che questi teologi erano marxisti radicali. Laclau, da parte sua, come vediamo nel suo secondo libro importante, La raison populiste, 2005, 20 anni dopo Hégémonie et stratégie socialiste, 1985, ha sostituito la teologia con la retorica. Di questa prima affinità, però, resto ancora qualche eco di questa teologia della liberazione. Un’eco nostalgico-utopica.
“Ciò che manca è una certa pienezza di comunità”, p. 106. “La costruzione del ‘popolo’ sarà il tentativo di dare un nome a questa pienezza assente”, p. 105. Laclau fornisce nomi, formule, ma non conosce più alcun concetto sociale operativo, come classe, struttura di classe o riproduzione sociale. C’è solo il popolo, le cui “richieste insoddisfatte”, che costituiscono il punto di partenza della loro analisi, sono di natura eterogenea. È “retorica” a cui viene assegnato il compito di riunirle. Questi sono “i meccanismi retorici” che “costituiscono l’anatomia del mondo sociale”, p. 132. E il lavoro retorico fornisce il modus operandi. Il grande operatore non è altro che il grande leader. Il pensiero politico popolare non può immaginare un disastro peggiore di questa fantasticheria di Laclau, che non è nemmeno un’utopia, perché non ha radici distinguibili nella realtà sociale.
10. Potresti spiegare nel dettaglio la differenza tra la tua idea di moltitudine e quella di Toni Negri? Cosa modifica dell’analisi marxiana delle classi?
10. Toni Negri è un filosofo impressionante. Ha ispirato convinzioni politiche radicali nella gioventù studentesca in Europa e negli Stati Uniti. Ed è un vero attivista. Una figura alta, infinitamente rispettabile. In questo senso, ha contato nei movimenti di critica al capitalismo che si sono sviluppati in questi ambienti per diversi decenni. È, naturalmente, un discepolo di Marx, che giustamente voleva, come sappiamo, andare oltre Marx. Ho seguito con attenzione lo sviluppo del suo lavoro. Ho spesso discusso e litigato con lui, specialmente alle conferenze internazionali a cui lo invitavo. Siamo dalla stessa parte. Mi sembra, tuttavia, che il suo rapporto con l’eredità di Marx includa un certo numero di punti oscuri, che posso solo furtivamente passare in rassegna qui.
In primo luogo, sui concetti primari di capitale e di “valore”. Ogni volta che questa parola compare nei suoi scritti, ci si chiede se sia valore d’uso, o “valore”, nel senso in cui Marx ha costruito questo concetto all’inizio del Capitale.
In realtà, è una sorta di oscura fusione dell’uno e dell’altro, com’è altrimenti nel discorso del liberalismo oggi. E questo è un vero peccato, poiché l’obiettivo del libro di Marx è, come minimo, distinguere queste due nozioni.
Il capitalismo non è interessato alla produzione di valori d’uso, ma, in ultima analisi, solo all’accumulazione di plusvalore, concetto costruito a partire da quello di valore. Da lì è difficile capire di cosa parli Toni Negri. Un altro esempio, la “moltitudine”. Questo discorso “moltitudinale” è venuto a sostituire il discorso classista. Il problema non è la sua risonanza teologica, è il fatto che ci libera da considerazioni analitiche, soprattutto in termini di sfruttamento, a cui ci chiama l’analisi di classe. O ancora, la nozione di “impero” in cui spariscono le differenze e le relazioni tra ciò che rientra nel Sistema-Mondo in generale, l’egemonia americana, l’universalità del capitalismo o ciò che io chiamo lo Stato mondiale. O ancora, il fascino per l’emergere del “general intellect” fa passare il modo di appropriazione e riproduzione della sua monopolizzazione attraverso profitti e perdite da parte di una “élite” autoistituita che rientra nella classe dominante (in realtà, il suo discorso è segretamente rivolto ai figli perduti di questa élite).
Tuttavia, non vorrei rimanere sul negativo. Se consideriamo che la classe dominante comprende, come credo, due poli, uno attorno alla proprietà capitalista e l’altro attorno all’organizzazione presumibilmente competente, possiamo pensare che, nel momento in cui il neoliberismo iniziò ad imporsi intorno agli anni ’70, già nel grande momento del 1968 due ispirazioni si scontrarono all’interno del marxismo. Uno, sulla scia dei partiti comunisti, ha preso il polo della capitale come principale avversario, e l’altro, l’organizzazione, la gestione, la gerarchia, ecc. Negri è una figura rappresentativa della seconda corrente. Ma tende a illustrarlo con un insieme di nozioni che assomigliano a “di Marx”, ma mantengono solo rapporti incerti con i concetti da lui costruiti. Non mi sembra probabile che aiuti a capire il mondo in cui viviamo, né a cercare strategie per uscirne. Da parte mia, cerco di prendere le cose dall’alto in modo che queste due ispirazioni rivoluzionarie possano convergere e incontrarsi.
Ma devo anche riconoscere che l’opera di Toni Negri dà la voce soffocata del potere dal basso, che lui chiama quello della “moltitudine”.
Annuncia la sua venuta e la sua vittoria finale, come il Vangelo annuncia il Regno di Dio, che verrà, perché è già lì. Se la rivoluzione deve arrivare, è già qui. È così che vivono le persone. Ed è anche l’approccio corretto, spinoziano, secondo cui nient’altro è concepibile di quello che è. Dobbiamo, ovviamente, andare oltre Marx, correggendo ciò che è falso o insufficiente nella sua teoria, lavorandoci attraverso altre fonti teoriche, ecc., ma senza abbandonare il corpo dei concetti che gli conferiscono il suo potere teorico e pratico.
11. Credi che la globalizzazione stia entrando in crisi e che sia possibile un ritorno con maggiore forza, soprattutto dopo questa pandemia, degli Stati nella politica?
11. Vedo la globalizzazione in corso come un’articolazione perversa tra due processi, quello del sistema-mondo e quello dello Stato-mondiale. Anche questo è un argomento molto vasto. Esiste una tensione costitutiva tra queste due modalità di globalizzazione. Lo Stato-mondiale tende a sostenere le norme universali, oggi quelle del neoliberismo.
Nel sistema mondiale, i centri finanziari, quelli degli Stati nazionali più potenti, tendono a dominare gli apparati statali mondiali.
L’apparato statale mondiale, tipo l’ONU con tutta la costellazione che gli appartiene, sembra debole (il suo potere militare, deve prendere in prestito dalle potenze imperialiste), ma si alterna in quelli che Gramsci chiamava apparati statali mondiali, tanto privati quanto pubblici. È qui, mi sembra, che il potere della sua analisi si manifesta meglio.
L’obiettivo che deve essere perseguito da una politica della gente comune può essere designato solo con quello della ricerca e della promozione di una Nazione-mondo. Lo Stato-nazione, quando i popoli d’Europa gridavano “Viva la nazione!” è stata la prima grande esperienza storica della moderna solidarietà. Ma si basava sull’idea che questa patria è nostra (tutti noi per il nostro uso comune), e non di altri. In questo è stato rivolto contro la classe e il dominio di genere insiti nello Stato-nazione. Ma anche contro gli stranieri in generale. Ha creato fraternità tra compatrioti, ha distinto fratelli e non fratelli, potenziali nemici. Allo stesso modo, la nazione-mondo deve essere intesa come un processo sia contro lo Stato-mondo che contro il sistema-mondo. È concepito come la ripresa dell’esperienza di solidarietà che è stata quella dello Stato nazionale, ma questa volta nello spazio ultimo della modernità. Non conosce un nemico fuori.
Il suo esterno è altrettanto interno: sono tutti i vivi. Di cui è responsabile la specie umana, perché è il pericolo che incombe su di essa, trattenendo e manifestando la capacità di distruggerla. Se possiamo dimostrare che il danno ecologico è esclusivamente il risultato della dominazione di classe, di genere e coloniale – e questo, mi sembra, è ciò che illustra ulteriormente l’attuale pandemia – dedurremo che la lotta per l’emancipazione e le lotte per la conservazione del pianeta sono la stessa cosa. E che possono essere condotte solo dal basso, dalla classe fondamentale. Almeno questa è la tesi del libro che sto preparando. [Bidet si riferisce al libro Pour une politique du commun du peuple. Écologie de la Nation-monde].