Introduzione
Il libro Il lavoro povero. Fattori di vulnerabilità e azioni di contrasto offre una ricca analisi prodotta dalla Fondazione Di Vittorio della CGIL sul problema del lavoro povero in Italia. Il senso di questo studio è inquadrato da Daniele Di Nunzio in Lavoro povero e azioni di contrasto: le dimensioni di analisi e di intervento dove esplora il fenomeno del lavoro povero in Italia come problema strutturale, multifattoriale e in crescita, particolarmente acuito dalla crisi del 2007-2008 e dalla pandemia di Covid-19. Il lavoro povero non si limita alla bassa retribuzione perché abbraccia una serie di vulnerabilità interconnesse: precarietà contrattuale, discontinuità occupazionale, mancanza di protezioni sociali, difficoltà di accesso a servizi essenziali e processi di sfruttamento o autosfruttamento. Questo fenomeno, presente storicamente in tutte le fasi dell’industrializzazione, assume oggi nuove forme nelle economie avanzate, minando i principi di giustizia sociale e uguaglianza e mettendo in discussione il modello di sviluppo italiano ed europeo. In Italia il lavoro povero è aumentato costantemente dagli anni ‘90, con un’impennata dopo il 2007, legata alla flessibilizzazione del mercato del lavoro e alla stagnazione salariale. I dati Istat del 2023 rivelano che il 9,7% degli individui residenti in Italia vive in povertà assoluta, con un’incidenza particolarmente alta tra le famiglie con capofamiglia operaio (16,5%) o lavoratore autonomo non imprenditore (6,8%). Eurostat riporta che nel 2023 il 9,9% dei lavoratori italiani era a rischio di povertà, un dato che però sottostima il fenomeno poiché esclude chi lavora meno di sei mesi l’anno e non considera adeguatamente il potere d’acquisto. I salari italiani, infatti, sono tra i più bassi d’Europa, con una media annua di 32.749 euro a tempo pieno, ben al di sotto della media UE (37.863 euro), e un aumento del 2,8% nel 2023 contro il 6,2% europeo. L’erosione del salario reale è particolarmente grave. L’ILO segnala che nel 2022 i salari reali italiani sono crollati del 6%, il doppio della media europea, e sono oggi più bassi che nel 2008, una tendenza condivisa solo con Regno Unito, Messico e Giappone. Le cause del lavoro povero sono molteplici e interagiscono tra loro. A livello individuale, fattori come genere, età, nazionalità, bassa istruzione e tipologia contrattuale aumentano il rischio di povertà. I giovani, le donne, i migranti e i lavoratori con contratti atipici o part-time involontario sono tra i più esposti. Gli stranieri, nonostante tassi di occupazione relativamente alti, hanno un’incidenza di povertà assoluta del 34%, quattro volte e mezzo superiore a quella degli italiani (7,4%). A livello produttivo la frammentazione delle catene del valore e l’esternalizzazione spinta hanno creato una polarizzazione tra lavoratori in posizioni apicali (ben retribuiti e garantiti) e quelli in nodi marginali (con salari bassi e diritti limitati). Il tessuto produttivo italiano, dominato da micro e piccole imprese (il 94,8% del totale ma con solo il 26,8% del valore aggiunto), fatica a innovare e compete spesso abbattendo i costi del lavoro. Anche il sistema degli appalti pubblici, che nel 2023 ha raggiunto i 290 miliardi di euro, alimenta disuguaglianze e illegalità, con fenomeni di caporalato e sfruttamento particolarmente gravi in settori come l’agricoltura e le costruzioni. Le disuguaglianze territoriali sono marcate. Nel Mezzogiorno Sicilia e Campania registrano oltre il 37% di famiglie con redditi inferiori a 1.500 euro mensili mentre le aree interne soffrono per la carenza di servizi e infrastrutture. Il contrasto al lavoro povero richiede un approccio multidimensionale che agisca su più livelli. La contrattazione collettiva, sia nazionale che aziendale, gioca un ruolo cruciale nel definire salari, orari, progressioni di carriera e welfare integrativo. Una ricerca Cgil-FdV del 2024 su 31.000 lavoratori mostra che dove esistono accordi aziendali i salari sono significativamente più alti: il 70% di chi guadagna oltre 35.000 euro annui ha un accordo di secondo livello, contro solo il 23% di chi percepisce meno di 15.000 euro. Tuttavia la contrattazione da sola non basta, servono politiche istituzionali integrate, come sostegni al reddito, tassazione progressiva, investimenti in servizi pubblici e lotta all’illegalità. Il Gruppo di lavoro del Ministero del Lavoro nel 2021 propose interventi su più fronti, ovvero politiche industriali per l’innovazione, formazione continua, regolamentazione del lavoro atipico, sostegno all’occupazione femminile e misure per conciliare vita lavorativa e familiare. La transizione ecologica e digitale, inoltre, deve essere gestita come una “giusta transizione” per evitare che accentui le disuguaglianze.
Le ricerche del libro si basano su un metodo di ricerca-intervento, combinando analisi quantitative (dati Istat, Eurostat, Inps) e qualitative (studi di caso e interviste in profondità in settori chiave come l’agricoltura a Latina, l’edilizia in Veneto, i servizi sociosanitari in Toscana, il turismo a Matera e lo smart working nelle Madonie).
1. Il quadro teorico per analizzare il fenomeno
Valerio Tati in Tendenze e specificità del lavoro povero in Italia analizza l’evoluzione del fenomeno del lavoro povero nelle economie avanzate, con un focus specifico sull’Italia, evidenziando come, nel corso del Novecento, la povertà fosse tradizionalmente associata alla disoccupazione o all’inattività mentre a partire dagli anni ’90 il possesso di un impiego non garantisca più l’uscita dalla condizione di indigenza. Questo cambiamento è legato a trasformazioni strutturali dell’economia, tra cui la globalizzazione, la liberalizzazione dei mercati, il progresso tecnologico e la delocalizzazione produttiva, che hanno contribuito a frammentare il mercato del lavoro, indebolendo il potere contrattuale dei sindacati e favorendo l’ascesa di forme di lavoro precario e a bassa retribuzione. L’Italia rappresenta un caso emblematico di queste dinamiche, con una serie di riforme del mercato del lavoro, come il Pacchetto Treu del 1997, la Legge Biagi del 2003 e il Jobs Act del 2015, che hanno introdotto maggiore flessibilità attraverso contratti atipici (part-time, a termine, voucher) e ridotto le tutele per i lavoratori. Questi cambiamenti hanno portato a un aumento della precarietà e a un calo della protezione del lavoro, come dimostrano i dati sull’Employment Protection Legislation (EPL) dell’OCSE che mostrano un peggioramento delle tutele sia per i lavoratori regolari (da 3.02 a 2.56 tra il 1990 e il 2018) che per quelli temporanei (da 4.88 a 1.63 nello stesso periodo). Parallelamente la produttività del lavoro è diminuita, con un tasso di crescita del PIL reale per ore lavorate sceso dall’1,89% negli anni ’80 allo 0,34% nel periodo 2010-2019, segnalando una crescente inefficienza del sistema produttivo. La deregolamentazione del mercato del lavoro ha avuto effetti ambivalenti perché ha contribuito a un moderato aumento dell’occupazione ma ha ampliato le disuguaglianze, con una crescita dei lavoratori a basso reddito e una maggiore incertezza economica. Inoltre la struttura produttiva italiana si è polarizzata, con un aumento dei settori a basso valore aggiunto (come i servizi alla persona) e un declino dell’industria manifatturiera ad alta specializzazione. Questo ha favorito una “terziarizzazione povera” in cui i lavoratori sono sempre più impiegati in occupazioni poco qualificate e mal retribuite, spesso legate a contratti atipici che non garantiscono stabilità né prospettive di crescita. La misurazione del lavoro povero risulta complessa a causa della sua natura multidimensionale. L’Unione Europea utilizza l’indicatore In-Work Poverty (IWP) che considera un lavoratore povero se ha lavorato almeno 7 mesi nell’anno di riferimento e vive in un nucleo familiare con reddito inferiore al 60% della mediana nazionale. Questo indicatore presenta diverse criticità tra cui la distorsione legata al reddito familiare, che può portare a sottostimare la povertà individuale, e l’esclusione di chi lavora meno di 7 mesi all’anno, escludendo proprio i lavoratori più vulnerabili. A ciò dobbiamo aggiungere che in Italia il divario tra Nord e Sud è marcato, con il Mezzogiorno che registra una maggiore incidenza di contratti atipici, minore produttività e salari più bassi, come evidenziato da Cirillo e Reljic nel 2024, che mostrano come le regioni meridionali abbiano subito un crollo del valore aggiunto e delle ore lavorate, aggravando il rischio di povertà. Le determinanti del lavoro povero sono molteplici e interconnesse. A livello individuale fattori come la bassa istruzione, il genere (le donne sono più esposte a retribuzioni inferiori e lavori precari) e la nazionalità (i lavoratori stranieri guadagnano in media il 24% in meno rispetto agli italiani) giocano un ruolo cruciale. A livello familiare il passaggio dal modello tradizionale “male-breadwinner” (uomo unico percettore di reddito) a famiglie dual-earner (due redditi) o single-parent (genitori soli) ha aumentato il rischio di povertà, soprattutto per le famiglie monoreddito. I single parent, in particolare, sono esposti a maggiori difficoltà nel conciliare lavoro e cura dei figli, con conseguenze negative sia sul reddito che sul benessere familiare. La deregolamentazione del mercato del lavoro, con l’introduzione di contratti atipici e la riduzione delle tutele, ha ulteriormente aggravato la situazione. Il Jobs Act, in particolare, ha indebolito le garanzie per i lavoratori, facilitando i licenziamenti e riducendo le indennità mentre la crescente frammentazione della produzione e la specializzazione in settori a basso valore aggiunto hanno mantenuto bassi i salari e limitato le opportunità di carriera. La mancanza di investimenti in innovazione e formazione ha inoltre ridotto la produttività, creando un circolo vizioso in cui la compressione dei costi del lavoro non si traduce in maggiore competitività ma solo in maggiore precarietà. Per contrastare il lavoro povero Tati propone interventi multilivello. In primo luogo, politiche pre-distributive, come investimenti nella qualità del lavoro e l’introduzione di un salario minimo nazionale, potrebbero contrastare il dumping salariale e migliorare le condizioni contrattuali. In secondo luogo misure di sostegno al reddito, come in-work benefits (sussidi per lavoratori a basso reddito), potrebbero integrare salari insufficienti e ridurre le disuguaglianze. Infine politiche per la famiglia, tra cui il potenziamento dei servizi per l’infanzia e dei congedi parentali, potrebbero favorire l’occupazione femminile e ridurre il rischio di povertà per i nuclei monoreddito, soprattutto nel Sud Italia, dove l’accesso a questi servizi è più limitato.
In La direttiva europea sul salario minimo adeguato e le sue ripercussioni nel quadro italiano Salvo Leonardi afferma che la direttiva europea 2022/2041 sul salario minimo adeguato rappresenta una svolta epocale nelle politiche sociali dell’UE, segnando una netta discontinuità con le politiche di austerità del “decennio regressivo” (2008-2018). Frutto dell’evoluzione iniziata con Juncker e il Pilastro europeo dei diritti sociali del 2017, la direttiva mira a garantire salari equi attraverso due pilastri fondamentali: una copertura contrattuale almeno all’80% e un rapporto tra salario minimo e mediano del 60% (o 50% del salario medio), il cosiddetto indice di Kaitz. L’Italia si presenta come un caso peculiare nell’UE poiché insieme a Svezia, Danimarca, Finlandia e Austria è tra i pochi paesi senza salario minimo legale, affidando invece alla contrattazione collettiva (CCNL) la determinazione dei minimi salariali. I dati ufficiali mostrano una situazione apparentemente virtuosa, infatti la copertura contrattuale raggiunge il 95-99% secondi i dati del Cnel del 2023, con 211 CCNL firmati da Cgil, Cisl e Uil che coprono 13,3 milioni di lavoratori (96,6% del totale). L’indice di Kaitz italiano sarebbe tra i più elevati d’Europa (70-80% del mediano, contro il 60% richiesto dalla direttiva), superando addirittura paesi come Francia e Germania (dove il minimo legale si attesta rispettivamente al 60% e 50% del mediano). Questa facciata nasconde profonde contraddizioni. Innanzitutto la copertura contrattuale presenta forti disparità settoriali, infatti in settori come la metalmeccanica o la chimica si avvicina al 100%, in altri come i servizi alla persona, la logistica o il turismo crolla al 70% o addirittura al 30%. Il fenomeno dei contratti “pirata” (352 accordi firmati da sigle minori che coprono solo lo 0,4% dei lavoratori ma esercitano una pericolosa pressione al ribasso) e la frammentazione contrattuale (977 CCNL totali depositati al Cnel) minano alla base il sistema. Eurofound nel 2023 classifica l’Italia tra i paesi con il più alto tasso di elusione dei salari minimi contrattuali. I dati sul lavoro povero sono allarmanti con il 30% dei dipendenti (4,4 milioni) che rientra nella fascia a bassa retribuzione (meno di 12.000€ lordi annui, sotto il 60% del mediano), con picchi tra giovani under-35 (26%), donne (24%) e lavoratori con licenza media (22%). L’incidenza della povertà lavorativa (11,5% nel 2022) supera la media UE, raggiungendo il 16,5% tra gli autonomi. Particolarmente critica la situazione dei 650.000 stagionali che lavorano in media solo 4 mesi l’anno e dei 54,8% di part-time involontari (record UE). La dinamica salariale italiana è la peggiore tra i paesi avanzati con un -3% dal 1993 (unico paese in negativo) e -12% dal 2008 secondo l’ILO nel 2023. Tra il 2013 e il 2023 la crescita delle retribuzioni italiane (+16%) è stata la metà della media UE (+30,8%), con la Germania a +35%. Questo nonostante l’indice Kaitz elevato, spiegabile però con un livello medio/mediano particolarmente basso (come in Colombia o Turchia, non certo economie avanzate). Il dibattito politico si è polarizzato tra chi propone un salario minimo legale (9€/ora nell’opposizione di centrosinistra) e chi difende il primato contrattuale (governo Meloni). La proposta PD-M5S (A.C. 1275/2023) prevede che “il trattamento economico orario stabilito dal CCNL non possa essere inferiore a 9€ lordi”, con possibili benefici per 4,2 milioni di lavoratori attualmente sotto questa soglia se prendiamo i dati Inps del 2022. Secondo l’analisi della Fondazione Di Vittorio su 119 CCNL leader mostrano che 85 sono sotto i 9€, di cui 52 scaduti da tempo. Il governo ha invece optato per un rafforzamento della contrattazione, delegando nel dicembre 2023 interventi sui CCNL “maggiormente applicati” (non necessariamente i più rappresentativi), con rischi di legittimazione indiretta dei contratti pirata. Le posizioni sindacali divergono con la Cgil che nel congresso del 2023 sostiene il minimo legale come “complemento” alla contrattazione, la Cisl lo avversa temendo un indebolimento del ruolo sindacale mentre la Uil è intermedia. Le recenti sentenze della Cassazione (nn. 27711, 27713, 27769/2023) hanno stabilito che i giudici possono valutare la “sufficienza” dei minimi contrattuali anche richiamando i criteri della direttiva UE (60% mediano/50% medio), anticipandone di fatto l’applicazione. Ciò evidenzia l’inadeguatezza dell’attuale sistema, dove persino CCNL leader (come nei servizi fiduciari) fissano minimi di appena 5€/ora. La direttiva offre all’Italia l’opportunità di superare le contraddizioni di un sistema che, nonostante l’elevata copertura formale, produce salari tra i più bassi d’Europa e un’incidenza di lavoro povero superiore alla media UE. La sfida è conciliare l’autonomia contrattuale con meccanismi più efficaci di tutela, possibilmente attraverso un approccio differenziato per settori a rischio (come già avviene per appalti pubblici e food delivery) e un rafforzamento senza precedenti dei controlli ispettivi, oggi del tutto inadeguati (un’impresa viene controllata in media ogni 11 anni).
Nicola Cicala e Sergio Hoffmann nel loro saggio Sui bassi salari e sulle disuguaglianze: alcune cause e conseguenze contenuto nel libro Occupazione, salari e lavoro povero
nell’era della precarietà. Sfide del sindacato, sfide della democrazia, sempre legato alla Fondazione Di Vittorio, dipingono un quadro preoccupante della situazione salariale italiana, radicata in tendenze strutturali che precedono le recenti crisi globali. La peculiarità italiana emerge con forza dal dato sulla quota salari sul PIL. In Germania rappresenta il 53,1%, in Francia il 51,3% e in Spagna il 47,8% mentre in Italia crolla al 38,7%, posizionandoci al 29° posto su 35 paesi europei. Se consideriamo la quota salariale rettificata (che include i lavoratori autonomi), la percentuale sale al 57% ma mostra comunque un drammatico calo di 10 punti percentuali negli ultimi quarant’anni. Questo declino ha avuto come speculare contraltare l’impennata della quota profitti che oggi si attesta attorno al 60% del PIL, rivelando una redistribuzione del reddito nazionale sempre più sbilanciata a favore del capitale. L’esame dei bilanci aziendali dimostra come questa dinamica si sia intensificata negli ultimi anni. Nel settore manifatturiero, tra il periodo 2015-2019 e il 2023, il costo del lavoro è sceso dal 13% all’11,8% del fatturato mentre contemporaneamente il Return on Equity (ROE) balzava dall’8,4% all’11,2%. Particolarmente significativo è il confronto con il 2019 (ultimo anno pre-pandemia) quando, nonostante un aumento del 34% sia del fatturato che del valore aggiunto, il peso del costo del lavoro sul valore aggiunto è diminuito del 12% e l’utile netto è cresciuto del 13%. Questi numeri raccontano una crescita economica che ha beneficiato quasi esclusivamente il capitale, con profitti sempre più destinati a dividendi (nel 2023 pari al 27% del valore aggiunto contro il 14% del 2020) piuttosto che a investimenti o aumenti salariali. Il confronto internazionale sui salari reali dal 1991 al 2023 è impietoso: +9,1% in Spagna (+2.678€ annui), +30,9% in Francia (+10.290€), +30,4% in Germania (+11.257€) mentre l’Italia registra un unico -3,4% (-1.146€), risultando tra i pochi paesi al mondo con salari reali in calo. Questo divario non è ascrivibile solo alla nota questione della produttività, che pure rappresenta un nodo cruciale. L’indice di produttività oraria (base 1995=100) mostra infatti che mentre la Francia ha raggiunto 126,7 punti e la Germania 133,6, l’Italia si ferma a 106,5, con un tasso di crescita medio annuo (1,5%) inferiore alla media UE. Le disuguaglianze salariali si manifestano poi su molteplici dimensioni: territorialmente, con il 70% della contrattazione integrativa (che riguarda appena il 17% dei lavoratori del privato) concentrata al Nord e retribuzioni al Sud inferiori del 5% alla media nazionale, generazionalmente, con over 50 che guadagnano il 36,4% in più degli under 30 a parità di mansione e soprattutto di genere, con donne che percepiscono in media il 15,1% in meno (differenza che sale al 16,6% tra i laureati e addirittura al 30% tra i dirigenti). I dati Almalaurea rivelano come queste disparità affondino le radici nelle scelte formative (le donne sono oltre l’80% nelle discipline umanistiche ma sono sotto il 30% in ingegneria/informatica, dove gli stipendi superano i 1.900€ mensili) ma persistano anche a parità di settore, dimostrando l’esistenza di un gender pay gap strutturale. Il quadro complessivo che emerge è quello di un Paese intrappolato in un circolo vizioso dove bassa produttività alimenta bassi salari che a loro volta deprimono la domanda interna e gli investimenti, ulteriormente frenando la produttività. Una spirale negativa che richiederebbe, secondo gli autori, interventi coordinati su più fronti, dal rafforzamento della contrattazione collettiva (oggi copre il 97% dei dipendenti ma solo il 17% beneficia di accordi integrativi) a una riforma fiscale che riequilibri il carico tra redditi da lavoro e da capitale, da politiche industriali che incentivino gli investimenti produttivi a un nuovo patto formativo che riduca il mismatch tra scuola e mercato del lavoro. Senza un cambio di rotta il rischio è che le disuguaglianze continuino ad ampliarsi, minando alla base sia la coesione sociale che la competitività del sistema Italia.
2. Qualche caso di studio
Passando all’analisi dei casi di studio, tornando però al libro Il lavoro povero. Fattori di vulnerabilità e azioni di contrasto, partiamo dal saggio «Quando diventi povero diventi anche solo». Il lavoro dei migranti in agricoltura nella provincia di Latina: problemi e prospettive di Maria Teresa Ambrosio e Marco Omizzolo che offre una rigorosa analisi del lavoro migrante nell’agricoltura pontina, basata su dati istituzionali, fonti sindacali e un’ampia ricerca sul campo con interviste approfondite a braccianti indiani. Gli autori partono dall’analisi delle peculiarità strutturali del settore agricolo, caratterizzato da stagionalità, discontinuità produttiva e deperibilità delle merci, fattori che determinano una domanda di manodopera flessibile e precaria. Queste caratteristiche intrinseche generano un mercato del lavoro dove predominano contratti a termine (il 95% secondo i dati raccolti), part-time distorti e forme di esternalizzazione che alimentano il fenomeno del lavoro povero, definito come quella condizione in cui, nonostante l’attività lavorativa, il reddito risulta insufficiente a garantire uno standard di vita dignitoso. La provincia di Latina, importante distretto agroalimentare del centro Italia, presenta una situazione particolarmente critica, infatti su 20.824 lavoratori agricoli censiti dall’INPS nel 2024 ben 3.582 (il 17,2%) risultano privi di regolare contratto mentre altri 6.601 (il 46% dei dipendenti) percepiscono salari inferiori ai minimi contrattuali. La composizione della manodopera è fortemente caratterizzata dalla presenza straniera (56% del totale), con una preponderanza di cittadini indiani (soprattutto dalla regione del Punjab), seguiti da romeni, bangladesi e africani, quest’ultimi sempre più presenti grazie al sistema di accoglienza per richiedenti asilo. Attraverso le interviste raccolte nei comuni di Sabaudia, Terracina, Fondi, Latina e San Felice Circeo, emergono con drammatica chiarezza le dinamiche di sfruttamento. I braccianti lavorano regolarmente 12-14 ore al giorno ma vengono retribuiti solo per 3-4 ore, con buste paga falsificate per eludere i controlli. Ricordiamo che se questi lavoratori protestano e vengono licenziati perdono il permesso di soggiorno e questo dimostra il meccanismo perverso che lega la regolarità amministrativa alla totale precarietà lavorativa. La normativa sull’immigrazione (d.lgs. n. 286/1998) rende il contratto di lavoro condizione indispensabile per ottenere e rinnovare il permesso di soggiorno, creando una situazione di ricatto permanente. Il fenomeno del caporalato, sebbene formalmente contrastato dalla legge 199/2016, si è evoluto in forme più sofisticate come il cosiddetto “padronato”, dove sono gli stessi imprenditori agricoli a gestire direttamente lo sfruttamento, avvalendosi spesso di professionisti (commercialisti, avvocati) per mascherare le irregolarità. Le testimonianze raccolte descrivono un sistema in cui la violazione dei diritti diventa norma: pagamenti a cottimo illegali, mancato rispetto degli orari di riposo, carenza di dispositivi di sicurezza, con conseguente aumento del rischio di infortuni gravi, come dimostra il tragico caso di Satnam Singh, bracciante indiano morto nel luglio 2024 dopo essere stato abbandonato davanti casa con un braccio amputato. Le condizioni abitative rappresentano un ulteriore tassello del sistema di emarginazione. Secondo le stime oltre 10.000 lavoratori migranti nella sola provincia di Latina vivono in insediamenti informali, tra baracche, container e strutture fatiscenti, privi dei servizi igienico-sanitari fondamentali. Un intervistato racconta che dormivano in 6 in 40 metri quadri, con una stufa elettrica per scaldarsi. Questa condizione di estrema precarietà abitativa si interseca con l’isolamento sociale. Le interminabili giornate di lavoro (dalle 4 del mattino fino a sera) non lasciano spazio alla vita sociale, religiosa o familiare. L’accesso alle cure mediche è fortemente limitato dalla mancanza di mezzi di trasporto e dalla paura di perdere il posto di lavoro. Alcuni di questi braccianti hanno affermato che in caso di ricovero in ospedale, all’uscita non avrebbero più avuto un lavoro. Le donne migranti subiscono una doppia discriminazione. Oltre alle stesse condizioni di sfruttamento degli uomini devono affrontare disparità salariali (20-30% in meno) e il rischio costante di molestie sessuali. L’intersezionalità di genere, nazionalità e status giuridico crea una condizione di particolare vulnerabilità che le espone a forme ancora più gravi di sfruttamento. Sul fronte del contrasto istituzionale gli autori analizzano criticamente gli strumenti esistenti. La legge 199/2016 ha introdotto importanti modifiche all’art. 603-bis c.p., estendendo la punibilità ai datori di lavoro che approfittano dello stato di bisogno dei lavoratori. L’efficacia di questa norma risulta limitata dalla difficoltà di provare la reiterazione delle violazioni nei contratti stagionali. La Rete del lavoro agricolo di qualità, istituita per promuovere le aziende virtuose, conta solo 200 adesioni su 6.000 aziende nella provincia di Latina, dimostrando la scarsa attrattività degli incentivi proposti. L’azione sindacale, pur encomiabile, mostra i suoi limiti nell’incapacità di raggiungere i lavoratori più emarginati, spesso intrappolati in circuiti di paura e ricatto. Gli autori sottolineano come le politiche migratorie restrittive e il progressivo smantellamento del welfare state abbiano creato le condizioni strutturali per questo sistema di sfruttamento in cui la povertà economica genera inevitabilmente isolamento sociale. La frase di un bracciante, “Quando diventi povero, diventi anche solo”, diventa così l’emblema di un sistema che trasforma il lavoro da strumento di emancipazione a trappola di marginalità.
Il caso del settore delle costruzioni in Veneto di Matteo Civiero analizza il settore delle costruzioni in Veneto, inserendolo nel contesto nazionale e mettendo in luce le sue peculiarità strutturali, occupazionali e criticità, con particolare attenzione al fenomeno del lavoro povero. Il settore delle costruzioni si conferma come un pilastro dell’economia italiana, avendo generato nel 2019 il 36% del valore aggiunto della produzione, con acquisti di beni e servizi per il 64%, di cui solo il 4% proveniente dall’estero, dimostrando così un forte radicamento nel mercato interno. Nel biennio 2021-2022 gli investimenti nel settore hanno contribuito per un terzo alla crescita del PIL italiano (+12,3%), con un ulteriore aumento del 5% stimato per il 2023, segnando una ripresa dopo la crisi pandemica e la lunga fase di stagnazione precedente. Un ruolo determinante in questa ripresa è stato svolto dagli incentivi alla riqualificazione energetica, in particolare il Superbonus 110%, che ha generato investimenti per oltre 44 miliardi di euro entro la fine del 2023, con il Veneto che si è distinto come una delle regioni più virtuose nell’utilizzo di questa misura, raggiungendo una quota del 7,4% degli edifici oggetto di interventi di efficientamento energetico, contro una media nazionale del 5,8%. Il settore presenta una marcata frammentazione produttiva, con imprese mediamente di piccole dimensioni (2,8 addetti per impresa in media) e un’alta incidenza di ditte individuali (circa il 60% del totale), caratteristiche che influiscono sulle dinamiche occupazionali e sulle condizioni di lavoro. In Veneto il settore delle costruzioni conta oltre 48.000 imprese, pari al 9,3% del totale nazionale, con una struttura simile a quella nazionale: il 62,1% sono microimprese con un solo addetto mentre il 32,9% ha tra 2 e 9 dipendenti. La distribuzione territoriale vede le province di Padova e Verona in testa con circa il 20% delle imprese ciascuna, seguite da Treviso, Vicenza e Venezia mentre Belluno e Rovigo rappresentano realtà più marginali, con circa il 4% delle imprese ciascuna. L’occupazione nel settore ha registrato una crescita significativa tra il 2021 e il 2023, con un aumento del 35% della massa salariale e del 27,5% degli operai attivi ma persistono forti differenze territoriali, con il Nord-Est che mostra performance migliori rispetto al Mezzogiorno sia in termini di ore lavorate che di regolarità contributiva. Il fenomeno del lavoro povero in edilizia si configura in modo peculiare rispetto ad altri settori poiché non è tanto legato a bassi salari, generalmente considerati adeguati, quanto a dinamiche di elusione delle tutele e di irregolarità. Un aspetto centrale è l’evasione della bilateralità, con molte imprese che evitano di aderire al sistema delle Casse Edili, enti bilaterali che garantiscono prestazioni aggiuntive in termini di welfare, formazione e sicurezza, al fine di ridurre i costi. Questo sistema, nato per contrastare le fragilità del settore, rappresenta uno strumento cruciale per garantire tutele ai lavoratori ma la sua adozione non è obbligatoria, creando un divario tra imprese virtuose e quelle che cercano di competere sui costi. Un’altra pratica diffusa è il dumping contrattuale, con l’utilizzo improprio di contratti di altri settori, come quello metalmeccanico, per aggirare le tutele specifiche dell’edilizia, esponendo i lavoratori a maggiori rischi e minori garanzie. Il lavoro irregolare rimane una piaga del settore, con fenomeni come falsi part-time, finte partite IVA e restituzione di parte dello stipendio al datore di lavoro che privano i lavoratori di diritti fondamentali e li espongono a situazioni di precarietà. A ciò si aggiungono condizioni di lavoro spesso gravose, soprattutto per i lavoratori stranieri, che rappresentano circa il 35% della manodopera a livello nazionale, con punte del 51% nel Nord-Ovest. Questi lavoratori, spesso privi di alternative, accettano condizioni svantaggiose, complici anche imprenditori della stessa etnia che sfruttano questa situazione per recuperare margini economici. Le province di Belluno e Rovigo presentano criticità specifiche, con lavoratori costretti a lunghe trasferte quotidiane, fino a quattro ore, per raggiungere i cantieri, aggravando la fatica fisica e psicologica. La struttura produttiva del settore, caratterizzata da una forte frammentazione e dalla prevalenza di microimprese, favorisce la competizione al ribasso sui costi, spesso a scapito della regolarità contributiva e della sicurezza. L’invecchiamento della forza lavoro è un altro fattore critico, con il 79,3% degli operai tra i 36 e i 60 anni e solo il 6% under 25, segnando un mancato ricambio generazionale che mina la sostenibilità del settore. La scarsa attrattività del lavoro edile tra i giovani è legata alla percezione di un lavoro faticoso, pericoloso e poco innovativo, nonostante i progressi nella sicurezza e nelle tecnologie. Per contrastare il lavoro povero e migliorare le condizioni del settore Civiero propone diverse linee d’azione. Il rafforzamento della bilateralità è fondamentale, con le Casse Edili (come Edilcassa Veneto e Ceiv) che svolgono un ruolo cruciale nel garantire tutele aggiuntive, tra cui assistenza sanitaria integrativa, formazione e pensioni complementari. Serve una maggiore adesione delle imprese, possibilmente incentivata da agevolazioni fiscali. Parallelamente sono necessari controlli più stringenti per contrastare il lavoro irregolare e il dumping contrattuale, attraverso strumenti come il Documento Unico di Regolarità Contributiva (Durc) e meccanismi di verifica della congruità tra valore dei lavori e numero di operai impiegati. L’innovazione tecnologica rappresenta un’altra leva strategica, con la promozione di prefabbricazione, digitalizzazione e automazione per ridurre la fatica fisica e attrarre nuove generazioni. La formazione professionale va potenziata, con percorsi come gli ITS e corsi specializzati, per migliorare le competenze e l’attrattività del settore. Infine politiche per la conciliazione vita-lavoro, come agevolazioni per i trasfertisti e indennità di trasferta, possono alleviare le criticità legate agli spostamenti. Prima di passare oltre riteniamo importante, ai fini di comprendere meglio il funzionamento del lavoro in edilizia, riprendere uno specchietto di approfondimento contenuto nel saggio sulle Casse Edili. Esse rappresentano un pilastro storico e strutturale del sistema di welfare nel settore delle costruzioni italiano, nate come risposta concreta alle peculiari criticità di un comparto caratterizzato da stagionalità, precarietà occupazionale e condizioni lavorative spesso proibitive. La loro origine risale al primo Novecento, quando le drammatiche condizioni degli operai edili, costretti a continui spostamenti tra cantieri, privi di tutele contro infortuni e disoccupazione, soggetti a un mercato del lavoro estremamente volatile, spinsero verso soluzioni mutualistiche pionieristiche. L’atto fondativo si colloca nel 1919 a Milano, dove il Collegio dei Capomastri e l’Associazione Mutua tra muratori istituirono il primo embrione di Cassa Edile attraverso un accordo bilaterale rivoluzionario per l’epoca, basato su un fondo pariteticamente alimentato da datori di lavoro e operai per garantire sussidi di disoccupazione. Questo modello innovativo, nato per colmare il divario di protezione sociale rispetto ad altri settori industriali, rappresentò una risposta organica alla natura intrinsecamente instabile del lavoro edile, dove il cantiere mobile e temporaneo sostituiva la fabbrica stabile come luogo di produzione. L’esperienza milanese rimase però isolata durante il ventennio fascista, nonostante un iniziale interesse del regime corporativo che ne aveva esteso le funzioni all’assicurazione per le malattie, per poi lasciarla cadere in oblio. Fu solo nel secondo dopoguerra, sull’onda della ricostruzione e del nuovo clima democratico, che quel modello venne riscoperto e rielaborato come risposta alle esigenze di migliaia di lavoratori impegnati nella rinascita del Paese. Gli anni della ricostruzione videro le Casse Edili trasformarsi da esperimenti locali a sistema nazionale, grazie soprattutto alla spinta dei sindacati che vi riconobbero uno strumento fondamentale per garantire quelle tutele minime, come il pagamento di ferie, malattie e infortuni, che la contrattazione collettiva faticava ad assicurare in un settore frammentato e dispersivo. La legge n. 1089 del 1949 fornì il primo quadro normativo organico, istituzionalizzando il carattere bilaterale di questi enti e definendo i principi per la gestione delle prestazioni assistenziali. Il vero salto di qualità avvenne negli anni ’60 e ’70, quando il sistema delle Casse Edili conobbe una diffusione capillare su tutto il territorio nazionale, accompagnata da un costante ampliamento delle prestazioni offerte. A fianco dei tradizionali sussidi di disoccupazione si aggiunsero indennità di malattia, assegni familiari e soprattutto un robusto investimento nella formazione professionale che rispondeva alla crescente domanda di specializzazione in un settore in piena trasformazione tecnologica. Questo periodo d’oro della bilateralità edile coincise con la stagione del boom economico, quando la crescita tumultuosa delle città e delle infrastrutture richiedeva maestranze sempre più qualificate. Le Casse divennero così veri e propri attori della modernizzazione del comparto, finanziando corsi professionali e promuovendo l’alfabetizzazione tecnica degli operai. Gli anni ’80 e ’90 segnarono una fase di profonda riorganizzazione e modernizzazione del sistema, chiamato a rispondere alle sfide poste dalla rivoluzione informatica e dalle nuove normative sulla sicurezza. Le Casse Edili intrapresero un massiccio processo di digitalizzazione dei servizi, informatizzando la gestione delle prestazioni e creando banche dati unificate per il monitoraggio della forza lavoro. Contemporaneamente assunsero un ruolo sempre più centrale nella promozione della sicurezza sui cantieri, sviluppando corsi specializzati e campagne di prevenzione degli infortuni, in un settore tradizionalmente ad alto rischio. Questo periodo vide anche il rafforzamento della rete nazionale delle Casse, con la creazione di organismi di coordinamento come la Commissione Nazionale Paritetica per le Casse Edili (Cnce), che garantirono omogeneità di trattamento su tutto il territorio. L’ingresso nel nuovo millennio ha portato le Casse Edili ad affrontare sfide inedite, dalla crescente globalizzazione del mercato del lavoro all’esplosione del fenomeno migratorio, dalla crisi economica del 2007-2008 alle nuove opportunità offerte dalle tecnologie digitali. Il sistema ha risposto innovando costantemente i propri servizi, dall’introduzione di fondi pensione complementari alla creazione di piattaforme digitali per la formazione a distanza, dall’estensione delle coperture sanitarie integrative allo sviluppo di strumenti avanzati per il contrasto al lavoro irregolare, come il Documento Unico di Regolarità Contributiva (Durc). Particolarmente significativo è stato l’adattamento alla trasformazione demografica della manodopera edile, con l’integrazione di migliaia di lavoratori immigrati attraverso servizi dedicati e percorsi di formazione linguistica e professionale.Oggi le Casse Edili rappresentano un caso unico nel panorama italiano di welfare settoriale, frutto di un secolo di evoluzione che ha saputo coniugare solidarietà mutualistica e innovazione istituzionale. Da semplici fondi per il sussidio di disoccupazione sono diventate un sistema articolato che eroga prestazioni diversificate mantenendo fermo il principio della gestione paritetica tra rappresentanze datoriali e sindacali. La loro resilienza nel tempo dimostra la capacità di adattarsi ai mutamenti epocali del mercato del lavoro, pur restando fedeli alla missione originaria, cioè garantire dignità e protezione a chi opera in uno dei settori più vitali ma anche più duri dell’economia italiana.
Davide Bubbico in Matera tra consumi turistici e capitale culturale: dinamiche urbane del mercato del lavoro e della cattiva occupazione indaga le trasformazioni economiche e sociali della città di Matera, con particolare attenzione all’impatto del turismo culturale e della nomina a Capitale Europea della Cultura 2019 sul mercato del lavoro locale e sulle forme di occupazione precaria. Partendo dal contesto generale del turismo culturale in Italia, che ha registrato una crescita significativa negli ultimi decenni nonostante la battuta d’arresto pandemica del 2020, l’autore evidenzia come Matera rappresenti un caso emblematico di event tourism, con flussi turistici generati principalmente dalla proclamazione a capitale culturale. I dati Istat mostrano che tra aprile e dicembre 2019 la Basilicata ha attratto l’8,2% dei viaggi culturali nazionali, con il 44% dei turisti motivati esclusivamente da scopi culturali, la percentuale più alta in Italia, dimostrando come le iniziative culturali possano fungere da volano turistico. L’analisi dei dati Apt Basilicata rivela che tra il 2019 e il 2023, nonostante il recupero degli arrivi (da 388.158 a 388.887), le presenze sono rimaste inferiori ai livelli pre-pandemia (730.434 nel 2019 contro 626.134 nel 2023), con una crescente incidenza di turisti stranieri passati dal 29,1% al 45,4% degli arrivi. L’esame del contesto socioeconomico materano mostra una città di circa 60.000 abitanti che ha conosciuto una lieve crescita demografica (+3% tra 2001 e 2023) in controtendenza con il calo regionale, trainata soprattutto dall’aumento della popolazione straniera (passata dallo 0,7% al 6% nello stesso periodo). La struttura produttiva cittadina, tradizionalmente caratterizzata dal distretto del mobile imbottito e da un forte settore pubblico, ha subito una significativa trasformazione tra il 2014 e il 2021, con un aumento delle unità locali nei servizi ai consumatori (+3,4%) e nei servizi sociali (+0,9%) mentre l’industria manifatturiera è rimasta sostanzialmente stabile. Lo sviluppo turistico, iniziato già negli anni ’90 ma esploso dopo le riprese del film “The Passion” di Mel Gibson nel 2004, ha determinato una crescita impetuosa delle attività ricettive e della ristorazione: i posti letto sono passati da 3.600 nel 2015 a 7.085 nel 2023, con un incremento particolarmente marcato delle case vacanza (+201,8%) che nel 2019 rappresentavano già il 49,5% dell’offerta ricettiva totale. Parallelamente le unità locali dei servizi di ristorazione sono aumentate del 15,8% tra 2011 e 2022, con un balzo del 63,2% degli addetti nei ristoranti. L’analisi del mercato del lavoro rivela però le contraddizioni di questo sviluppo. I dati delle Comunicazioni Obbligatorie mostrano che nel comparto ricettivo-ristorativo oltre il 95% dei contratti attivati tra il 2022 e il 2023 sono a termine, con una crescente incidenza femminile (passata dal 47% al 57%) e una forte concentrazione nelle fasce giovanili (30% under 24, 27,5% 25-34 anni). L’ufficio vertenze della Camera del Lavoro di Matera, tra il 2020 e il 2024, ha gestito 940 pratiche di cui il 59,5% relative ad assistenza per dimissioni, rivelando un mercato del lavoro caratterizzato da alta mobilità e precarietà. Particolarmente critica è la situazione del falso part-time, dove i lavoratori vengono assunti con contratti a poche ore ma di fatto svolgono prestazioni full-time, con evidenti ricadute sulle retribuzioni effettive. L’indagine sul campo evidenzia inoltre il diffuso ricorso a manodopera straniera, soprattutto bangladese e nordafricana, impiegata in mansioni come lavapiatti con contratti spesso irregolari o comunque caratterizzati da forti squilibri tra ore lavorate e ore retribuite. Nonostante ciò in alcuni casi si sono sviluppate forme di autorganizzazione, come nel caso dei lavapiatti bangladesi che hanno creato una sorta di “lobby” per fissare standard retributivi più equi. L’esperienza di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, analizzata attraverso i rapporti della Fondazione Matera Basilicata, ha mobilitato complessivamente 50 milioni di euro (di cui il 94% da fondi pubblici), destinati per il 63% ai programmi culturali e per il 19% a promozione e marketing. Se da un lato l’evento ha creato 79 posti di lavoro temporanei presso la Fondazione (ridotti a 15 nel post-evento) e generato un indotto stimato in 91 milioni di euro, dall’altro il suo impatto sull’occupazione stabile nel settore culturale è stato limitato. Le imprese creative e culturali sono cresciute del 10,6% tra 2012 e 2021 (da 1.709 a 1.891 unità locali), con incrementi significativi in alcuni settori come la produzione di software (+37,6% di addetti) e le attività artistiche (+34,2%), ma senza creare una filiera occupazionale strutturata. Le produzioni cinematografiche e televisive, pur avendo coinvolto centinaia di lavoratori locali come comparse e maestranze (600 persone per il film 007, 300 per la serie “Imma Tataranni”), non hanno generato occupazione qualificata duratura, costringendo molti tecnici formati a emigrare per trovare lavoro. Sul fronte della povertà e dell’esclusione sociale i dati mostrano una situazione complessa. Matera presenta indicatori del mercato del lavoro migliori della media regionale (tasso di occupazione al 45,9% nel 2021 contro il 41,1% della Basilicata), il 30% delle famiglie dichiara un reddito annuo inferiore a 10.000 euro ma la Caritas diocesana ha registrato un aumento del 20% delle richieste di aiuto tra 2022 e 2023, con particolare incidenza di donne sole con figli (58,4% degli utenti) e lavoratori precari del terziario (20% dei casi). Le iniziative di contrasto alla povertà, come il protocollo “Inps per tutti” siglato nel 2023, rappresentano tentativi di risposta a queste criticità pur essendo insufficienti di fronte a un mercato del lavoro sempre più polarizzato. Possiamo quindi concludere dicendo che lo sviluppo turistico e culturale di Matera, pur avendo generato crescita economica e occupazionale, abbia prodotto un modello di sviluppo squilibrato, caratterizzato da forte precarietà lavorativa, crescente divario sociale e incapacità di tradurre le opportunità temporanee (come l’evento Capitale della Cultura) in strutture produttive e occupazionali stabili. La mancanza di politiche di regolamentazione del mercato immobiliare e del lavoro, unita all’assenza di strategie formative e di qualificazione professionale, rischia di compromettere la sostenibilità a lungo termine dello sviluppo cittadino, lasciando irrisolti i nodi della povertà lavorativa e della marginalizzazione sociale.
Lo studio di Sandra Burchi Siamo tutti lavoratori poveri allora! Il lavoro nei servizi di assistenza domiciliare. Uno studio di caso indaga il sistema di assistenza domiciliare in Toscana, inserendolo nel più ampio contesto delle trasformazioni del welfare state e delle politiche regionali. La Legge Regionale 66/2008 ha istituito un Fondo Regionale per finanziare un sistema integrato di servizi rivolti alle persone non autosufficienti, disabili e anziani, con l’obiettivo dichiarato di migliorare qualità, quantità e adeguatezza delle risposte assistenziali. Questo impianto normativo, che prevede sia interventi di tipo residenziale (come le Residenze Sanitarie Assistenziali e i Centri Diurni) sia servizi domiciliari, mostra una chiara preferenza per il potenziamento di quest’ultimi, nella convinzione che mantenere le persone presso la propria abitazione rappresenti la soluzione migliore sia dal punto di vista psicologico che economico. L’analisi di Burchi evidenzia come questa scelta politica abbia reso centrale la figura dell’assistente familiare, comunemente chiamata “badante”, diventata ormai indispensabile per realizzare concretamente l’obiettivo della domiciliarità. I dati quantitativi citati nello studio rivelano l’ampiezza del fenomeno. Secondo elaborazioni della SDA Bocconi le badanti in Italia sono circa 1,12 milioni, di cui il 91% donne e il 70% straniere. Numeri che superano quelli del personale sanitario (617.466 secondo i dati Agenas 2020) e destinati a crescere ulteriormente, considerando che le proiezioni demografiche indicano che nel 2042 gli over 65 saranno quasi 19 milioni, pari al 34% della popolazione. Particolarmente significativo è il dato relativo all’irregolarità nel settore. L’Istat stima che negli ultimi 10 anni il tasso di irregolarità nel settore dei servizi alle persone si sia attestato intorno al 50%, con punte superiori al 52% tra il 2015 e il 2017. La ricerca si sofferma poi sulle caratteristiche del lavoro di cura domiciliare, descrivendolo come un’attività che presenta numerosi elementi di criticità. Innanzitutto le condizioni contrattuali. Sebbene tra il 2011 e il 2020 si sia registrato un incremento delle badanti regolari (con un +70.000 tra le italiane e +43.000 tra le straniere), permangono ampie zone grigie. Una badante in regime di convivenza costa alle famiglie circa 1.700 euro al mese (comprensivi di TFR e contributi) ma alla lavoratrice rimangono circa 1.100 euro se si occupa di una persona non autosufficiente (livello C super) o 900 euro per assistiti autosufficienti. Spesso però queste differenze retributive non vengono rispettate, così come non vengono riconosciuti i carichi di lavoro aggiuntivi, come nel caso di assistenza a due anziani (di cui magari solo uno non autosufficiente) o di mansioni domestiche extra. Attraverso le interviste condotte nel territorio del Chianti fiorentino, dove è attivo da dieci anni uno Sportello Badanti gestito da una cooperativa sociale in collaborazione con i Comuni e i sindacati, lo studio restituisce una fotografia vivida delle condizioni di lavoro reali. Emergono storie come quella di M., una donna marocchina arrivata in Italia più di vent’anni fa, che inizialmente lavorava in nero per 250 euro al mese o di A., costretta a subire molestie dal datore di lavoro. Le testimonianze raccolte mettono in luce come la co-residenza, pur risolvendo il problema abitativo per molte lavoratrici, generi forme di dipendenza e isolamento sociale, con turni di lavoro che spesso superano le 54 ore settimanali previste dai contratti collettivi senza adeguata retribuzione. Un aspetto particolarmente interessante analizzato nello studio è il fenomeno del caporalato delle badanti, gestito da intermediari (spesso connazionali delle lavoratrici) che trattengono una percentuale dei loro guadagni. Come racconta un’assistente sociale intervistata, alcune badanti aumentano i propri introiti facendosi pagare da altre colleghe per trovar loro lavoro, in un sistema completamente in nero che lo Sportello Badanti cerca di contrastare promuovendo canali regolari di incontro tra domanda e offerta. La ricerca non trascura neppure la condizione degli operatori sociali che lavorano nella cooperativa gestrice dello sportello, definiti “lavoratori poveri” a causa degli stipendi bassi (1.200-1.400 euro per educatori professionali laureati) e dei ritardi nei rinnovi contrattuali. Un funzionario pubblico intervistato parla esplicitamente di “proletarizzazione degli operatori sociali”, citando Guido Contessa, mentre un’assistente sociale racconta di un utente che le suggeriva ironicamente di percepire il reddito di cittadinanza anziché lavorare, dato che avrebbe guadagnato di più.
Oltre alla povertà economica Burchi analizza altre dimensioni della vulnerabilità nel lavoro di cura: l’isolamento sociale delle badanti, soprattutto quelle che lavorano in zone rurali, il rischio burnout per la gestione di malattie degenerative, le difficoltà di comunicazione per le lavoratrici straniere, la precarietà esistenziale legata alla temporaneità dei contratti (la morte dell’assistito spesso lascia senza reddito e alloggio). Non mancano però storie positive, come quella di M., che attraverso corsi di formazione ha trasformato il lavoro di cura in un percorso di crescita personale, o di A., che grazie allo sportello ha trovato il coraggio di denunciare un datore molesto e cambiare lavoro. L’analisi si conclude con una riflessione critica sulla mercificazione della cura nel contesto neoliberale che ha portato a un welfare mix sempre più sbilanciato verso soluzioni privatistiche. Burchi sottolinea il legame tra crisi della cura e crisi democratica, proponendo alcune direzioni di intervento come maggiori investimenti nel welfare pubblico, un sistema di supervisione istituzionale dei rapporti di lavoro domiciliari, il riconoscimento professionale delle competenze delle badanti e il potenziamento di esperienze come lo Sportello Badanti che rappresenta un esempio concreto di come la contrattazione sociale possa contribuire a “prendersi cura di chi cura”, restituendo dignità a un lavoro essenziale ma troppo spesso invisibile e sottovalutato.
Mario Mirabile, Fabrizio Ferreri e Maristella Cacciapaglia in Lavorare da remoto nelle aree interne delle Madonie. È possibile essere povero pur lavorando da remoto? studiano le complesse dinamiche socio-economiche legate al lavoro da remoto nelle aree interne, prendendo come caso di studio emblematico il territorio delle Madonie in Sicilia. La ricerca si colloca nel contesto post-pandemico che ha visto un’accelerazione senza precedenti nell’adozione di modalità lavorative flessibili ma al tempo stesso indaga in modo critico le contraddizioni e le potenziali trappole di povertà che questa trasformazione può generare in contesti territoriali marginali. Lo studio si sviluppa attraverso un impianto metodologico rigorosamente qualitativo, basato su un’estesa campagna di interviste semi-strutturate condotte tra febbraio e marzo 2024. Il campione comprende sei lavoratori da remoto (con una distribuzione di genere che vede quattro uomini e due donne, prevalentemente laureati e con contratti a tempo indeterminato nel settore privato, operanti principalmente in ruoli di consulenza aziendale) e cinque testimoni privilegiati tra cui i sindaci dei comuni di Castelbuono, Isnello e Petralia Sottana, il board del Gal Hassin di Isnello e il responsabile del presidio di comunità di Castelbuono. Le interviste, della durata media di novanta minuti per i lavoratori e quarantacinque per i testimoni istituzionali, hanno esplorato in profondità le esperienze concrete e le percezioni soggettive del lavoro agile in questo specifico contesto territoriale. Il quadro concettuale della ricerca si articola attorno al fenomeno multidimensionale della povertà lavorativa (working poor) che viene analizzato sia nella sua definizione eurostatistica (lavoratori con reddito familiare inferiore al 60% della mediana nazionale) sia nelle sue più ampie implicazioni sociali e territoriali. I dati presentati mostrano come in Italia il rischio di povertà lavorativa sia cresciuto dal 9,5% nel 2010 all’11,5% nel 2022, superando la media europea e avvicinandosi ai livelli spagnoli. Questo fenomeno risulta particolarmente acuto per alcune categorie: lavoratori con bassa istruzione (18,7% di rischio contro il 5,1% dei laureati), stranieri (soprattutto extracomunitari), famiglie monogenitoriali (oltre il 20% di rischio) e lavoratori atipici (19,9% per i part-time contro il 9,7% dei full-time). Nello specifico contesto delle Madonie, caratterizzato da un grave spopolamento (-11,58% di residenti dal 2011 al 2020) e da un progressivo invecchiamento demografico (29,22% over 65 contro il 21,85% siciliano e il 23,24% nazionale), il lavoro da remoto presenta un duplice volto. Da un lato offre opportunità concrete con il 93% dei nomadi digitali intervistati nel Secondo Rapporto sul nomadismo digitale che esprime interesse per le aree interne del Sud, attratti dal costo della vita più basso (il reddito imponibile IRPEF nelle Madonie è di 12.660€ contro i 17.540€ nazionali), dalla qualità ambientale e dalla possibilità di riconnettersi con le radici territoriali. Dall’altro lato, però, emergono criticità strutturali che rischiano di trasformare queste opportunità in nuove forme di marginalità. I lavoratori intervistati evidenziano come la scelta del lavoro da remoto nelle Madonie sia stata motivata principalmente da fattori economici (la possibilità di acquistare case più ampie con lo stesso stipendio, come nel caso di un intervistato che ha scelto Castelbuono invece di Milano) e affettivi (il ritorno alle origini e la vicinanza alla famiglia). Tuttavia questa scelta comporta sfide significative sul piano dell’accesso ai servizi. Il sistema sanitario mostra gravi carenze (solo 848 prestazioni specialistiche ogni 1000 abitanti contro le 3047 della media nazionale), il trasporto pubblico è carente (43,61 minuti medi per raggiungere i servizi essenziali contro i 26,88 nazionali) e l’offerta educativa risulta frammentata (con tassi di dispersione scolastica del 2,03% contro l’1,17% italiano). Dal punto di vista lavorativo, emergono quattro principali aree di vulnerabilità:
1) L’isolamento professionale e la perdita di opportunità di carriera, come testimoniato da un intervistato che lamenta come la scelta di lavorare dalle Madonie sia stata percepita dai superiori come un ostacolo alla progressione.
2) La difficoltà nel mantenere relazioni lavorative soddisfacenti, con molti intervistati che sottolineano come le interazioni digitali non possano sostituire completamente i momenti informali di socialità lavorativa.
3) La sovrapposizione problematica tra tempi di vita e tempi di lavoro, acuita dalla carenza di spazi dedicati al lavoro fuori dall’ambiente domestico.
4) La mancanza di riconoscimento sociale del lavoro da remoto da parte delle comunità locali, ancora legate a modelli lavorativi tradizionali.
Le strategie adottate dai lavoratori per far fronte a queste criticità si concentrano principalmente su due approcci. Il primo è l’utilizzo di spazi di coworking e presidi di comunità (come quello realizzato a Castelbuono in collaborazione con l’associazione South Working) e il secondo è la scelta di una vita multilocale che alterna periodi nelle Madonie con soggiorni in città meglio servite. Significativamente cinque dei sei lavoratori intervistati prevedono di dover abbandonare l’area a medio termine, soprattutto in caso di formazione di una famiglia, a causa dell’inadeguatezza dei servizi scolastici e sanitari. Le amministrazioni locali stanno rispondendo a queste sfide con politiche innovative. Il comune di Isnello ha creato un parco giochi con tavoli dotati di prese USB per conciliare lavoro e cura familiare, Castelbuono ha sviluppato un sistema di agevolazioni fiscali per chi affitta case ai lavoratori da remoto e Petralia Sottana sta lavorando a un progetto di living lab con foresteria annessa. Come sottolineato dai sindaci intervistati, queste iniziative rischiano di rimanere marginali senza un deciso intervento statale che affronti i nodi strutturali delle aree interne ovvero la carenza cronica di servizi essenziali, la necessità di investimenti in connettività digitale e trasporti e l’urgenza di un quadro normativo chiaro sul lavoro agile. Le proposte di policy avanzate dagli autori si articolano su tre livelli:
1. A livello macro, si suggerisce l’adozione di una legge quadro sul lavoro da remoto che garantisca tutele contrattuali adeguate e il diritto alla disconnessione, unitamente a politiche di incentivazione fiscale per le aziende che assumono in modalità agile da aree interne.
2. A livello meso, si propone il potenziamento dei servizi territoriali attraverso la creazione di reti tra comuni per ottimizzare l’offerta di servizi in un’ottica di area vasta.
3. A livello micro, si evidenzia l’importanza di sviluppare forme di welfare comunitario che coinvolgano attivamente i lavoratori da remoto nella vita sociale e produttiva locale.
Con il saggio Il lavoro povero: analisi comparativa degli studi di caso Daniele Di Nunzio finisce per chiudere questa carrellata di inchieste con una panoramica approfondita delle dinamiche che contribuiscono al fenomeno del lavoro povero, evidenziando come questo non possa essere affrontato con soluzioni isolate ma richieda un approccio integrato e multilivello. L’analisi si concentra su cinque dimensioni fondamentali, partendo dalla condizione occupazionale e familiare dell’individuo, dove emerge che i contesti familiari giocano un ruolo cruciale nel determinare l’esposizione al rischio di povertà lavorativa. Le famiglie con bassi redditi sono più vulnerabili al ricatto occupazionale mentre quelle con migliori risorse possono fungere da ammortizzatori sociali in caso di perdita del lavoro. L’età è un fattore rilevante. I giovani affrontano maggiore precarietà e salari più bassi mentre i lavoratori più anziani, pur avendo accesso a retribuzioni migliori grazie all’esperienza, operano spesso in settori fisicamente usuranti come l’edilizia o la cura. Le donne sperimentano una doppia vulnerabilità, legata sia alla difficoltà di accedere a professioni meglio retribuite sia al carico di lavoro di cura che spesso le costringe a part-time involontari, con situazioni particolarmente critiche per le donne sole con figli, come quelle assistite dalla Caritas di Matera. I migranti, a loro volta, affrontano un’estrema precarietà a causa di permessi di soggiorno legati al lavoro, difficoltà linguistiche, minore conoscenza dei diritti e necessità di inviare rimesse alle famiglie d’origine, il che li rende più esposti a sfruttamento. Anche la condizione residenziale incide, poiché la mancanza di trasporti efficienti può limitare l’accesso al lavoro o aumentarne i costi, come nel caso dei braccianti agricoli che devono raggiungere campi sparsi o degli operai edili costretti a spostamenti onerosi tra cantieri. Sul piano strettamente occupazionale i bassi salari sono associati a discontinuità lavorativa, contratti a termine e lavoro informale, con fenomeni diffusi come gli straordinari non pagati o il lavoro “fuori busta”, particolarmente frequenti nel settore della cura, dove le ore aggiuntive vengono spesso eluse fiscalmente per ridurre i costi. Nel commercio e nella ristorazione, invece, è comune la formalizzazione di part-time che in realtà nascondono impegni full-time, con mansioni spesso sotto-inquadrate rispetto alle effettive responsabilità. Anche nel lavoro da remoto la retribuzione a progetto e la difficoltà di separare tempi di vita e lavoro portano a un’erosione dei confini tra ore lavorate e non retribuite. Queste dinamiche compromettono anche i futuri previdenziali, aggravati dal fatto che molti di questi lavori sono fisicamente logoranti e richiederebbero invece pensioni anticipate o orari ridotti. Il contesto aziendale e produttivo rivela come la frammentazione e l’isolamento nelle reti produttive siano alla base del lavoro povero. Settori come l’agricoltura, l’edilizia e il turismo sono caratterizzati da catene di subappalto, micro-imprese familiari e competizione al ribasso sui costi del lavoro. In assenza di regolamentazione pubblica questa dinamica favorisce pratiche illegali, dall’evasione contributiva al caporalato, fino a casi estremi come la morte del bracciante indiano Satnam Singh, abbandonato dissanguato dopo un incidente sul lavoro. A Matera il boom turistico legato alla nomina a Capitale Europea della Cultura ha generato un’espansione di micro-attività ricettive (B&B, case vacanze) ma con un aumento del lavoro informale e poco qualificato, come pulizie e lavapiatti, dimostrando come uno sviluppo non governato possa tradursi in peggioramento delle condizioni lavorative. Anche il lavoro da remoto, sebbene potenzialmente vantaggioso, può diventare precario se associato a isolamento, scarsa formazione e carenze infrastrutturali, come nelle aree interne delle Madonie, dove la mancanza di servizi essenziali limita la qualità della vita. Il contesto territoriale e istituzionale incide profondamente sulla povertà lavorativa. Aree come le Madonie mostrano che il problema è anche la carenza di servizi pubblici (trasporti, scuole, banda larga), che rendono difficile attrarre lavoratori qualificati. Al contrario, laddove le istituzioni intervengono con politiche strutturate, come in Toscana con il Fondo Regionale per la non autosufficienza o i protocolli per regolarizzare il lavoro domestico, è possibile migliorare sia i servizi che le condizioni lavorative. L’assenza di coordinamento tra attori pubblici e privati può portare a situazioni paradossali, come a Matera, dove il boom turistico non è stato accompagnato da investimenti in formazione o regole chiare, generando crescita occupazionale ma di bassa qualità. L’azione contrattuale è un altro pilastro fondamentale ma la sua efficacia dipende dalla forza delle relazioni sindacali e dal rispetto della legalità. La contrattazione nazionale fissa standard minimi ma nei contesti frammentati (agricoltura, turismo) è difficile applicarli. La bilateralità, sviluppata in settori come l’edilizia, dimostra che sistemi integrati di welfare aziendale (formazione, assistenza sanitaria, integrazioni salariali) possono contrastare il lavoro povero. Laddove prevalgono rapporti informali, come nel lavoro domestico o nel caporalato, la contrattazione fatica a penetrare, lasciando spazio a pratiche di autosfruttamento. Infine l’azione sociale e istituzionale si rivela decisiva nel governare le filiere e contrastare lo sfruttamento. Interventi come gli indici di congruità negli appalti pubblici, i protocolli anti-caporalato o gli sportelli per regolarizzare il lavoro domestico mostrano che leggi, controlli e politiche attive possono migliorare le condizioni lavorative. Tuttavia permangono criticità, come l’esclusione dei lavoratori più vulnerabili (migranti, precari) dalle reti sindacali che richiedono strategie innovative, come il sindacalismo “di strada” o i centri di aggregazione mobili per braccianti agricoli.
Queste analisi sono fondamentalì ed è indispensabile che, almeno in sintesi come fate egregiamente voi, si diffondano il più largamente possibile. Oramai ognuno si rinchiude nel suo piccolo mondo e se è moderatamente agiato si disinteressa completamente degli altri. Egoismo a parte, non siamo consapevoli che oramai il rischio povertà è sempre più alto e che pochissimi ne sono immuni
Grazie mille. Il collettivo ha alcuni membri che sono lavoratori ed iscritti al sindacato. Perciò abbiamo una sensibilità molto elevata su questi argomenti.