Anti-critica di Riccardo Bellofiore e Andrea Coveri

La libertà non sta nello scegliere tra bianco e nero, ma nel sottrarsi a questa scelta prescritta.

Theodor W. Adorno, Minima Moralia

Introduzione

A fine aprile ci fu chiesta dalla rivista Officia Primo Maggio una recensione al volume collettivo di Cucignatto et al. per Edizioni Punto Rosso, dal titolo L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo. Il volume ci è parso subito di grande interesse, non solo perché riguardante un tema di grande attualità, ma anche per le finalità e le tesi esposte dagli autori. Ci è parso però che i contenuti del libro sollevassero alcune perplessità e che il volume non fosse condivisibile in alcuni suoi aspetti. Oltre ad evidenziarne i meriti abbiamo dunque deciso di discutere quelli che a noi apparivano gli aspetti più problematici del testo. Per farlo, abbiamo compiuto la scelta di ricorrere alla forma saggio, di cui era maestro Franco Fortini, che si richiamava su questo al primo Lukács e a Adorno.

Abbiamo quindi preso spunto dal libro per svolgere un nostro discorso sul fenomeno inflattivo in un saggio non privo di una certa autonomia (Zwischen den zeiten [Tra i tempi]. Problemi e contraddizioni del capitalismo negli anni del ritorno dell’inflazione, uscito in Officina Primo Maggio, 20 Dicembre 2023), nel quale abbiamo cercato di mettere in luce i pregi del libro nel momento stesso in cui lo sottoponevamo a qualche critica. Ringraziamo OPM per averci ospitato nonostante la lunghezza del nostro contributo.

Così come Cucignatto et al., siamo anche noi persuasi che comprendere cause e conseguenze dell’inflazione sia di primaria importanza, tanto ai fini dell’analisi della fase capitalistica in cui ci troviamo quanto per poter avanzare sul terreno della lotta politica. A nostro avviso, lo scopo politico del libro (così come rivendicato dagli autori) non comporta però che ci si debba necessariamente rapportare ad esso in modo immediatamente politico, limitandosi a fornirne un resoconto soltanto o prevalentemente su quel terreno. Abbiamo piuttosto preferito prendere sul serio il volume e dialogare con esso a partire dal merito delle analisi e delle argomentazioni che vi sono esposte.

A giudicare dalla risposta firmata dagli autori del libro al nostro saggio (si veda G. Cucignatto, L. Esposito, M. Gaddi, N. Garbellini, J. Halevi, R. Lampa, G. Oro, Profitti reali ed eresie immaginarie, uscito in Officina Primo Maggio, 22 Gennaio 2023) ci pare di capire che la nostra operazione non sia stata granché apprezzata. Ci sembra infatti che la replica degli autori sia interamente volta a ribadire le tesi esposte nel libro, nonché a suggerire il carattere pretestuoso dei nostri rilievi critici. Ci è parso inoltre che lo stile della replica degli autori risulti piccato ed aggressivo: poco conforme ad una pur accesa discussione tra compagni, anzi ad una discussione tout court. In quanto segue ci limiteremo a fornire dei chiarimenti su alcuni punti che Cucignatto et al. hanno avanzato in tono secco ed ultimativo. Visti i modi che ha avuto la replica ad un saggio argomentato come il nostro, che proprio perché parzialmente critico valorizzava il loro volume, ci asterremo dall’intervenire nuovamente a fronte di eventuali ulteriori repliche dello stesso tenore. Per noi il discorso si chiude con questo intervento.

Per trasparenza vale la pena di aggiungere che abbiamo chiesto a Officina Primo Maggio lo spazio per questa nostra replica. Ritenevamo che, dopo che ad un libro segue un saggio-recensione, gli autori di quel libro abbiano diritto di rispondere, ma che fosse anche legittimo un riscontro conclusivo dei critici criticati. Ci è stato detto che sarebbe stato meglio se avessimo cercato spazio altrove, e certo la rivista ha tutti i diritti di pubblicare quel che crede. Ringraziamo dunque il Collettivo Le Gauche per l’ospitalità e per averci inoltre concesso più spazio di quello che avevamo chiesto a OPM.

Una parentesi scherzosa

Se è consentito celiare un po’ e dismettere il plumbeo tono da guerra all’ultimo sangue, la risposta di Cucignatto et al. ci pare sintetizzabile come segue:

  1. Il nostro volume sulla fiammata inflazionistica 2022-2023 è stato scritto per i compagni del sindacato (già chiuso a marzo del 2023) e propone una tesi concreta ed empirica del tutto controcorrente, secondo la quale l’‘inflazione da profitti’ è la causa del recente aumento dei prezzi. I nostri critici sono due ‘eretici immaginari’, ovvero astratti intellettuali che si abbeverano alla teoria: qualcosa che, diciamolo, è del tutto irrilevante quando si discute dell’empiria. Quella dei nostri due critici è una critica del tutto sballata, come dimostrato in modo inoppugnabile dal fatto che praticamente tutte le organizzazioni internazionali, centri studio, etc. (BCE, FMI, OCSE, NBER, Wall Street Journal, FED del Kansas, European Stability Mechanism, Commissione Europea, Mediobanca, e così via elencando) ribadiscono quello che diciamo noi. Noi siamo eretici davvero, visto che tutti ci danno ragione.
  2. Noi sosteniamo che sia l’inflazione da profitto a spiegare l’inflazione 2021-2023. Ora, l’inflazione da profitto non è altro che il gonfiamento della massa e della quota dei profitti. Del mark-up in fondo non interessa niente a nessuno, e comunque non si è ridotto; al contrario, i dati dicono che è aumentato. Che abbiamo ragione noi lo si capisce dal fatto che il rialzo di massa e quota c’era anche prima del 2021, quando non si aveva inflazione, e si dava persino quando c’era deflazione. Non c’è dubbio che la causa del fenomeno specifico, di breve periodo, che indaghiamo sia la tendenza generale – di lungo periodo, che c’era prima e che ci sarà anche dopo – alla caduta del salario1.
  3. I due recensori raccontano una storia che va contro la narrazione convenzionale a cui noi invece ci atteniamo, da economisti autenticamente alternativi quali siamo (salvo che noi tifiamo per gli indiani, non per i cowboy). Ci mostrino, i critici, la letteratura rilevante di riferimento [ripetuto più volte]. Non possono farlo perché noi seguiamo quello che dice la maggioranza degli studi, come ogni buon eretico non immaginario deve fare. È inutile allora che noi si entri nel merito di quello che non capiamo e che le auctoritates non ci hanno raccontato. Ci dimostrino che non sappiamo quello che non diciamo, che ci citino su quello che non scriviamo e che loro arrogantemente pensano che noi non si sappia solo perché non ne abbiamo fatto parola.

Non sapremmo effettivamente come rispondere a questi argomenti, e su questo terreno ci dichiariamo battuti. Proviamo però a dire qualcosa sui due temi che Cucignatto et al. sollevano, e aggiungiamo qualche nota a margine.

Sull’inflazione da profitti

Cucignatto et al. si domandano come si possa negare (da parte nostra) che l’inflazione sia sempre dovuta alle decisioni delle imprese rispetto alla fissazione dei prezzi. Non lo neghiamo, in effetti. Tuttavia, ciò non ci dice nulla sulla natura dell’inflazione e sulle forze che ne determinano di volta in volta l’innesco, la possibile evoluzione e le conseguenze. Il rischio che vediamo, in questo caso, è quello di non distinguere, ad esempio, la possibile ‘inflazione da profitti’ da fenomeni di ‘profitti da inflazione’. Un punto su cui a noi pareva utile attirare l’attenzione.

A questo riguardo, abbiamo sostenuto che sarebbe il caso di guardare all’evoluzione del mark-up (ossia al ricarico fissato dalle imprese sui costi di produzione unitari normali) invece che ad altri indicatori come la quota dei profitti sul valore aggiunto (oppure, ma è lo stesso, alle diverse componenti del deflatore del PIL). Nella loro replica, gli autori del libro sostengono invece che confinare l’inflazione da profitti ad un aumento dei mark-up risulterebbe “parziale e fuorviante”, e procedono dunque a richiamare numerose analisi empiriche che mostrano quelle che a loro avviso rappresentano prove schiaccianti a conferma della tesi dell’inflazione da profitti2.

Ci siano permesse due brevi considerazioni. Primo, non riteniamo che il mark-up sia l’indicatore più appropriato a cui prestare attenzione sempre e comunque, bensì che lo possa essere in questo specifico frangente, perché permette di distinguere tra aumenti dei prezzi dovuti ad un cambiamento nelle scelte delle imprese ed aumenti dei prezzi innescati prevalentemente da fattori di altra natura (come il carattere apparentemente transitorio dell’inflazione potrebbe suggerire, perlomeno per il momento). Secondo, gli autori sostengono che, nel nostro saggio, faremmo a meno di discutere l’evidenza empirica e la letteratura scientifica rilevante, il che ci sorprende. Sul piano dell’analisi empirica, piuttosto, ci siamo premurati di richiamare quegli studi che – a conferma o meno della tesi sulla profit inflation – tengono conto dei problemi inerenti alla stima della profittabilità delle imprese (che può aumentare, rimanere costante o al limite anche diminuire, a fronte di un aumento della quota dei profitti sul valore aggiunto). Concordiamo infatti che la questione sia al fondo empirica, e che in ogni caso l’inflazione recente abbia danneggiato la classe lavoratrice; solo riteniamo che anche l’analisi empirica debba essere svolta in modo tale da non confondere fenomeni che pensiamo dovrebbero essere distinti (p.es. propagazione di shock dal lato dell’offerta versus amplificazione di tali shock dovuta ad aumenti dei margini di profitto delle imprese).

Per riassumere su questo punto, non abbiamo negato il possibile verificarsi di fenomeni di inflazione da profitti; ci siamo bensì limitati a dire che a noi le evidenze a supporto non sembrano così schiaccianti come invece ritengono gli autori del libro. E sommessamente aggiungiamo che è proprio il filtro teorico a consentire di comprendere e se del caso persino contestare i dati, che altrimenti restano ciechi e superficiali.

Infine, con riguardo all’analisi dei bilanci delle imprese, sono rassicuranti le osservazioni degli autori riguardo alla rappresentatività dei dati utilizzati. Risulta poi certamente vero che quel che abbiamo chiamato effetto composizione, il quale discende dal mutevole campione di imprese esaminato, rispecchi una più generale evoluzione del capitalismo. Ciò però non toglie che, a nostro avviso, tale effetto vada tenuto in considerazione se il fine è quello di analizzare la genesi dell’inflazione, ossia di distinguere quando questa sia dovuta ad un rialzo dei margini di profitto fissati dalle imprese piuttosto che, per esempio, a fenomeni di centralizzazione del capitale indotti dalla crisi innescata dalla pandemia.

Cucignatto et al. ci riservano inoltre qualche tirata d’orecchie con riguardo ad altre questioni. Ad esempio, ci viene rimproverato di aver scritto che “[l]’inflazione non è essenzialmente un fenomeno macroeconomico: è in larga misura microeconomico, nel senso di settoriale.” Infatti, come ci viene enfaticamente ricordato dagli autori, ‘settoriale’ non è sinonimo di ‘microeconomico’. Qui c’è probabilmente un doppio malinteso. Per quel che riguarda il ‘microeconomico’, noi non stiamo esponendo una nostra posizione, bensì ci limitiamo a richiamare la tesi (che ha molti meriti) di Isabella Weber, la più nota sostenitrice della profit inflation, nell’articolo più citato sul tema3.

Per quel che riguarda il ‘settoriale’, si veda invece quanto scrive Francesco Saraceno (corsivi nostri):

«l’inflazione può essere causata da squilibri macroeconomici o avere radici strutturali. Ma è sempre un fenomeno microeconomico che richiede un’analisi disaggregata e risposte mirate e articolate. La visione monetarista dell’inflazione può essere riassunta ricorrendo all’immagine di una vasca da bagno, con la banca centrale che decide il livello dell’acqua aprendo il rubinetto. Ma l’economia assomiglia invece a un reticolo di contenitori, posti a livelli diversi, e (non tutti) comunicanti tra loro. L’apertura o la chiusura del rubinetto riempirà solo alcuni contenitori, e non tutti allo stesso modo. Se si utilizzano solo il rubinetto e lo scarico principale si rischia che, per far calare il livello dell’acqua, ad esempio nel contenitore “Energia”, si svuoti completamente il contenitore “Hotel e turismo” che fin dall’inizio non era abbastanza pieno. Ovviamente, insistere sull’importanza della dimensione settoriale non significa che un approccio aggregato sia necessariamente sempre inutile o fuorviante. L’approccio settoriale è indispensabile in periodi di cambiamenti qualitativi rapidi e profondi, come quelli sperimentati durante il Covid, ma anche in seguito con la ripresa e poi con la guerra.»4

Non potremmo dire meglio. Il dissenso con Cucignatto et al. diviene però serio quando quest’ultimi scrivono “Le dinamiche settoriali sono dinamiche macroeconomiche: i settori sono aggregazioni di imprese, e dunque le grandezze settoriali sono grandezze macroeconomiche, solo con un diverso livello di aggregazione.” Il problema è che ‘macroeconomico’ non è sinonimo di ‘aggregato’. Come ricordavano Minsky e Graziani, il tutto è più della somma delle parti. La logica macroeconomica non soltanto è diversa e prioritaria, ma addirittura capovolge la logica microeconomica. Al punto che ne è caduto vittima lo stesso Minsky: questo autore fonda la formulazione canonica della sua ipotesi dell’instabilità finanziaria sulla centralità della profittabilità aziendale (essendo in questo ripreso da Cucignatto et al. in un esergo). Come hanno mostrato kaleckiani e circuitisti, a livello macroeconomico quella formulazione non regge (ne ha scritto lo stesso Halevi, oltre a Lavoie e Seccareccia).

Cucignatto et al. scrivono anche che noi ci rifaremmo a dei ‘brevi’ scritti e blog di Marc Lavoie (le cui considerazioni vengono, in alcuni punti, designate come “ovvie” e “futili”). Veramente noi rimandiamo anche ad un ‘lungo’ articolo di quest’autore, che citiamo come draft ma che è ora apparso con il titolo Conflictual Inflation and the ‘Phillips Curve sulla Review of Political Economy, che potrebbe essere utilmente letto da tutte e tutti per il suo intento pedagogico, e perché mostra come l’inflazione da conflitto sia del tutto compatibile con il mainstream. Lavoie viene addirittura qualificato come il nostro ‘principale riferimento teorico’. Uno tra tanti, in verità: per dire, abbiamo sempre trovato discutibile la sua tesi, qualificata dall’autore come neo-kaleckiana, in favore di un diverso capitalismo ‘trainato dagli alti salari’. Inoltre, tra i numerosi autori a cui ci rifacciamo, quello che spicca è del tutto esplicito, e si chiama Augusto Graziani5.

Sul monetarismo e la politica monetaria odierna

Cucignatto et al. replicano alle nostre tesi sull’evoluzione della teoria macroeconomica dal monetarismo ad oggi con dovizia di citazioni. Non possiamo evidentemente commentare riga per riga la parte della replica sul monetarismo. Ci limitiamo a segnalare che le citazioni a cui si appoggiano Cucignatto et al. a noi pare che dicano il contrario di quello che loro dichiarano se solo si va a leggere quanto tagliato e si rimettono quelle frasi nel contesto. Scrivono gli autori del volume (corsivi nostri):

«un economista del calibro di Augusto Graziani poteva riassumere lo schema posto alla base della politica dell’istituto come segue:

“La BCE si avvale di un controllo misto, che viene basato come essa stessa dichiara su due pilastri. Il primo è il pilastro monetario, costituito essenzialmente dalla quantità di moneta. […]. La BCE considera segnale di pericolo per la stabilità monetaria il fatto che l’aggregato M3 cresca ad un tasso superiore ad un accrescimento di riferimento che attualmente è del 4,5%. Il secondo pilastro è rappresentato da un insieme di indicatori di varia natura: il livello di attività, l’andamento dei salari, il corso dell’euro rispetto alle grandi valute mondiali (dollaro, yen). […] L’adozione di questo insieme di indicatori è stato denominato da alcuni un sistema di monetary targeting illuminato (Graziani, 2004, p. 8).”

Non è dunque la teoria economica dominante ad essere necessariamente monetarista in senso stretto, né lo abbiamo affermato; sicuramente lo sono ancora le implicazioni politico-economiche che da essa vengono tratte

Giudichino i lettori se gli autori non abbiano veramente detto che la teoria economica dominante sia monetarista quando scrivono a p. 1 che “la teoria quantitativa della moneta rappresenta ancora oggi il riferimento per il dibattito economico e, soprattutto, le politiche implementate dalle autorità economiche e monetarie di fronte al ritorno dell’inflazione, dopo oltre tre decenni”, e quando definiscono quella teoria un successo (corsivi nostri).

La citazione dell’opera di Graziani nella sua integralità è però la seguente (corsivi nostri):

«La BCE si avvale di un controllo misto, che viene basato, come essa stessa dichiara, su due pilastri. Il primo è il pilastro monetario, costituito essenzialmente dalla quantità di moneta. La BCE assume come definizione della quantità di moneta un aggregato monetario molto ampio, equivalente a quello che viene denominato M3 (contante, depositi a vista, depositi a scadenza fissa non superiore ai due anni, depositi riscuotibili con preavviso non superiore a tre mesi, cambiali, e altri titoli ancora). La BCE considera segnale di pericolo per la stabilità monetaria il fatto che l’aggregato M3 cresca ad un tasso superiore ad un accrescimento di riferimento che attualmente è del 4,5%.

Il secondo pilastro è rappresentato da un insieme di indicatori di varia natura: il livello di attività, l’andamento dei salari, il corso dell’euro rispetto alle grandi valute mondiali (dollaro, yen).

Un punto sul quale la BCE si esprime con grande chiarezza è che nessuno di questi indicatori viene assunto come decisivo per un intervento immediato e automatico. Le grandezze assunte come indicatori vengono invece considerate nel loro insieme e le misure da adottare vengono decise soltanto dopo una valutazione ponderata della situazione nel suo complesso. Questo atteggiamento appare come pienamente giustificato e ragionevole. Se, ad esempio, la quantità di moneta venisse assunta dalla BCE come indicatore automatico di pericolo, tutte le volte in cui gli osservatori vedono crescere la liquidità in misura superiore al 4,5% annuo, essi potrebbero contare sul fatto che la BCE considera la stabilità monetaria in pericolo, e la speculazione si scatenerebbe contro l’euro.

L’adozione di questo insieme di indicatori è stato denominato da alcuni un sistema di monetary targeting illuminato. Di tale criterio di azione, la BCE ha dato anche prove concrete. Ad esempio, nella seconda metà del 2000, la quantità di moneta dava segni di rallentamento, segno questo che, preso isolatamente, avrebbe dovuto incoraggiare la Banca a ridurre i tassi di interesse e aumentare la liquidità disponibile. Invece, la Banca, valutando la situazione nel suo complesso, considerando che il corso dell’euro rispetto al dollaro era in declino e che vi erano concreti pericoli di inflazione importata, rettificò il tasso di interesse al rialzo

Graziani legge in sostanza la politica monetaria della BCE in modo analogo al nostro, e il riferimento al monetarismo è debolissimo e poco rilevante. Prendiamo ora la citazione da Andrea Terzi, ricollocandola anche in questo caso nel suo contesto. Cucignatto et al. affidano a Terzi la sintesi del Nuovo Consenso. Come per Graziani, applaudiamo la ottima scelta. Scrivono gli autori (di nuovo, i corsivi sono nostri) che:

« L’interpretazione del Nuovo Consenso … può essere condensata nella sintesi di Andrea Terzi:

“Il modello interpretativo che più ha influenzato la politica monetaria negli anni che hanno preceduto la Grande Recessione nasce da tre esigenze: disegnare una strategia di politica monetaria che sia in grado di sostituirsi efficacemente alla politica fiscale come strumento anti-ciclico, conservare il principio monetarista per cui la banca centrale deve esclusivamente occuparsi di stabilizzare i prezzi, e riconoscere realisticamente che la banca centrale ha il potere di fissare i tassi ufficiali e non lo stock di moneta.”(Terzi, 2021, p. 138-139).

Parafrasando Terzi, i cambiamenti nei modelli teorici di riferimento non hanno certo impedito alle banche centrali di osservare l’aggregato monetario e, di conseguenza, prendere decisioni conseguenti sul tasso di interesse. Coscienti del fatto che la quantità non è tecnicamente controllabile, i banchieri si affidano adesso al controllo del tasso di interesse per provare a influenzare, e di conseguenza regolare (il termine è fine-tuning), nel breve periodo, la crescita degli aggregati monetari poiché questi ultimi sono ancora oggi considerati la causa e l’origine primaria dell’inflazione. monetarista per cui la banca centrale deve esclusivamente occuparsi di stabilizzare i prezzi, e riconoscere realisticamente che la banca centrale ha il potere di fissare i tassi ufficiali e non lo stock di moneta (Terzi, 2021, p. 138-139).»

A nostro parere Terzi non dice affatto che prima si osserva l’aggregato monetario e poi di conseguenza si manovra il tasso di interesse. Semmai dice il contrario, che certo rimane l’ideologia monetarista (ma più in generale anti-keynesiana) e che le regole della politica monetarista sono belle che andate (più facile, in ogni caso e in verità, che si guardino le aspettative, anche sulla basa del conflitto sociale atteso). L’esercizio potrebbe essere ripetuto per ogni riferimento alla ‘letteratura rilevante’ di Cucignatto et al.

Il lettore si chiederà a questo punto: e la vostra ‘letteratura rilevante di riferimento’? La risposta facile è che non è altro che tutta la letteratura macroeconomica post-1967, letta in modo eretico, quindi contro la vulgata. Comunque, nel nostro saggio è fatto riferimento ad un articolo di Matamoros e Seccareccia che ragiona sulla divergenza tra i filoni monetarista e lucasiano (peraltro in contrasto tra loro su punti chiave) e il filone neo-wickselliano (di cui Michael Woodford è un esempio). E, particolarmente significativo, ad un saggio sulla questione di un autorevole monetarista come David Laidler. Altro che mancanza di riferimenti alla letteratura rilevante.

Sulla morale politica

Cucignatto et al. formulano una secca critica ai “risvolti politici” del nostro ragionamento. Vale la pena anche qui di citare per esteso (corsivi nostri):

«non è facile estrarre dalla recensione univoche conclusioni politiche perché il discorso è spesso allusivo e vago, spaziando dallo Zen a citazioni di Blanchard. Ad ogni modo, quando dalle affermazioni generali si passa a degli esempi concreti, la recensione pone come terreno della battaglia della sinistra europea l’agenda Draghi, l’immortale mantra dell’Europa sociale:

“Se si vuole cercare un discorso di un qualche respiro, si deve andare a leggere l’articolo di Mario Draghi su The Economist. L’eurozona, come il capitalismo tutto, deve far fronte a shock comuni, come la pandemia, la crisi energetica, e la guerra in Ucraina. Questi shock sono troppo grandi perché una nazione possa gestirli da sola […]. Una diversa architettura istituzionale dell’eurozona e una più stretta Unione Europea, si rivelano condizione per la sua stessa esistenza [una] diversa ma unitaria Europa dal basso invece che dall’alto.”

Riteniamo questa posizione completamente perdente: l’idea di poter riformare Berlaymont o l’EuroTower era sbagliata ieri, e oggi, che le istituzioni europee sono una appendice secondaria della Nato, è ancora più velleitaria. Lo stesso discorso si potrebbe fare per l’endorsement che gli autori fanno per l’agenda Biden, una riproposizione della politica di “guns and butter” di Lyndon Johnson che all’epoca, giustamente, nessuno a sinistra si sarebbe sognato di appoggiare.»

Non stupisce che Cucignatto et al., che ci pare non sempre disdegnino una visione almeno in parte “geopolitica” del capitalismo odierno, accusino noi (che riteniamo che la resistenza ucraina sia legittima e debba essere armata) di essere draghiani, atlantisti, e via deprecando con toni da primi anni Cinquanta. Non staremo a segnalare che non pochi tra gli economisti alternativi (come Randy Wray e Yeva Nersisyan, cioè esponenti di punta della Modern Monetary Theory, regolarmente citati) o nella CGIL abbiano dato un giudizio sul piano Biden conforme al nostro. Ci limitiamo anche qui a ricollocare la citazione mutilata nel suo contesto e a riesumare quanto affoga nei “puntini puntini” (c’è anche un taglio non segnalato; i corsivi e il grassetto sono nostri).

«Se si vuole cercare un discorso di un qualche respiro, si deve andare a leggere l’articolo di Mario Draghi su The Economist. L’eurozona, come il capitalismo tutto, deve far fronte a shock comuni, come la pandemia, la crisi energetica, e la guerra in Ucraina. Questi shock sono troppo grandi perché una nazione possa gestirli da sola. Occorre un’azione fiscale comune, ed una diversa struttura istituzionale, per procedere ad una spesa federale in disavanzo con diversi contenuti della spesa. Dunque, scrive Draghi: grandi investimenti in un breve lasso di tempo, in ambiti come la transizione verde, la digitalizzazione e la difesa. Altrimenti non si risponde al cambiamento climatico e al più generale soddisfacimento di bisogni sociali collettivi, e non si interrompe il declino e degrado della base industriale. Una diversa architettura istituzionale dell’eurozona e una più stretta Unione Europea si rivelano condizione per la sua stessa esistenza. Beh, questa è una visione, questa è un’agenda. Di più, queste sono le questioni a cui dare risposta. Se una sinistra conflittualista non è in grado di collocarsi a quel livello, su quel terreno trans-nazionale, proponendo una diversa ma unitaria Europa dal basso invece che dall’alto, a nostro avviso ha perso in partenza.»

A noi suona un po’ diversa rispetto all’idea di risultare subalterni a Draghi. Qui Cucignatto et al. hanno comunque qualche ragione, dal momento che noi siamo per dare battaglia all’agenda Draghi sul terreno trans-nazionale, per una Europa dal basso costruita nel conflitto e nell’antagonismo, non per subirla. I compagni di OPM o della vecchia Primo Maggio dovrebbero sapere che su questo terreno si colloca anche ‘Karlo’ (Karl Heinz Roth) nel Manifesto per una Europa egualitaria redatto con Zissis Papadimitriou. Sarebbe comunque interessante capire cosa propongono i nostri critici. Segnaliamo solo che nel loro volume alcuni contributi di uno di noi – contributi che criticano la prospettiva draghiana come ‘keynesismo privatizzato di seconda generazione’ – sono richiamati con favore (incomprensibilmente citati nella versione inglese e non in quella italiana).

Ci scuseranno dunque i nostri critici se non rispondiamo al quesito retorico “qual è il principale punto di disaccordo circa la diagnosi, la prognosi, e la terapia”, perché non c’è IL punto di disaccordo (al singolare). Abbiamo articolato la nostra posizione in 43 pagine non per capriccio, cercando non lo scontro bensì il dialogo. Sarebbe stato possibile, se i nostri interlocutori avessero evitato di trasformare il dissenso in una Sparatoria all’OK Corral. Ciò che ne esce è un tentativo di costringere la discussione in un’alternativa secca ‘inflazione da profitti, si o no?’, da cui ci smarchiamo (vedi la citazione dallo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, presa per orpello retorico). Presa quella strada non può non derivarne una comprensione troppo parziale dell’inflazione (dove spesso il carro sta davanti ai buoi), una versione inattendibile delle politiche dell’avversario di classe (come tutta l’incomprensione sul monetarismo rivela), una riduzione del terreno dello scontro al di sotto della sfida che l’evoluzione non solo economica ma sociale impone. Le stesse giuste rivendicazioni di aumenti salariali, scala mobile, controllo dei prezzi non si prolungano nel cercare di capire come, ma soprattutto perché, quarant’anni fa si sia stati sconfitti.

Non ci spaventano le sconfitte. Scriveva Rosa Luxemburg che la strada per la rivoluzione si costruisce con una sequenza di sconfitte. Ad una condizione, però: che se ne comprendano le ragioni, se no le sconfitte si tramutano in fallimenti. Volere non è potere. C’è bisogno di una analisi materialista, che non dimentichi la lezione di Graziani (che proprio su questo abbiamo citato diffusamente nel saggio): l’influenza dei lavoratori sulle decisioni delle imprese e dei governi in merito al livello così come alla composizione reale della produzione passa attraverso azioni non di mercato: o conflitti nella produzione o lotte nella società o interventi politici, non la mera lotta sul salario. E qui davvero l’avversario di classe (da rispettare) è Draghi, se si ha il coraggio di sfidarlo sul terreno avanzato della lotta.

Coda

I lettori avranno intuito che siamo a nostra volta lettori attenti, o almeno ci proviamo. Ci ha intrigato la citazione di György Lukács: “Sono contro le discussioni astratte. Il marxismo ci richiama sempre al concreto.” Se c’è un autore che ha riaperto la discussione sul Marx dell’Astratto negli anni Venti è proprio il filosofo ungherese. Il lettore potrà pensare che la citazione si rifaccia a questioni metodologiche, tra Marx e Hegel, universale astratto e universale concreto (che è un concetto, dunque anch’esso astratto in quel senso, ma va beh …). Niente di tutto ciò. La citazione è presa dalla conclusione di una intervista del 1966: https://gyorgylukacs.wordpress.com/2020/03/14/lukacs-ritorno-al-concreto/ Dal link si apprende che è stata ripubblicata da Edizioni Punto Rosso (lo stesso editore del volume sull’inflazione) nel 2019, nel libro Lukács parla. Interviste (1963-1971), a cura di A. Infranca.

Si potrà pensare che ad essere in questione possa essere la nostra ‘astrattezza’ di teorici privi della concretezza del sapere empirico e (magari, avendo collaborato col sindacato per cinquant’anni) dell’impegno sindacale. Anche qui si sbaglierebbe. Ad essere rilevanti per capire il senso della citazione sono le due ultime risposte (corsivi, grassetti e sottolineature nostre):

«Kattan – Crede che lo scrittore debba svolgere un ruolo sociale?

Lukács – Gli esistenzialisti hanno falsato il problema. Non si sceglie né il luogo né la data della propria nascita. Noi diciamo sì o no alla realtà, che esiste malgrado noi. L’uomo è un essere “rispondente”. Dipende da lui dire sì o no, ma non dipende da lui dire sì o no alla realtà

così come essa esiste. E questa realtà è quella che lo circonda. Non dipende né da lei né da me che ci siano delle automobili nella strada, o che lei ami sua moglie e non l’amica di sua nonna. La sola scelta che lei deve fare è di non traversare la strada o di non amare sua moglie. Il rapporto tra la libertà interiore e le necessità esterne è molto complesso. Marx non ha negato l’esistenza della scelta.

Il muratore sceglie la pietra

Lukács – Tutto questo c’è già nel lavoro, il muratore sceglie una pietra e questa scelta fa sì che il suo lavoro sia buono o cattivo. Comunque il problema è sempre quello di scegliere tra due pietre e non tra una pietra e un pezzo di bronzo. Il problema della libertà e della necessità sociale si pone in una prospettiva di evoluzione storica. È un problema dialettico. Considerare la libertà su un piano astratto conduce a posizioni erronee. Io mi oppongo al burocrate che definisce la funzione della letteratura. Ma non si può parlare di libertà se non si analizza la situazione concreta. Io sono per la libertà dello scrittore, ma bisogna intendersi. Quando in un paese socialista si impedisce ad uno scrittore di esprimersi, io mi levo contro questa limitazione della sua libertà, ma non lo faccio certo per accettare la libertà di voi capitalisti. Ho capito questa lezione molto presto, da giovane.

Durante un breve periodo sono stato critico teatrale in un grande giornale. Le mie critiche non piacevano e ho dovuto lasciare l’impiego. Lei sa come me che la libertà di stampa non esiste se non in maniera relativa. Chi nei paesi capitalisti scrive per un giornale, sa quali sono i limiti che non bisogna valicare. Si praticano degli accomodamenti. Tra questa manovra sottile e la libertà c’è una grande differenza. Lo spirito burocratico che minaccia lo scrittore e il giornalista nei paesi socialisti non è che un’altra forma di intervento, magari più brutale. Se volete che si discuta sulle due forme di intervento, la nostra discussione [potrebbe] avere un senso: ma ciò che non accetto è la pretesa di chi vorrebbe che da una parte la libertà esiste, mentre dall’altra è assente. Io sono contro le discussioni astratte. Il marxismo ci richiama sempre al concreto

Lasciamo che il lettore valuti per conto suo l’appropriatezza della citazione ed il suo senso profondo.

Appendice

Il Collettivo Le Gauche ha pubblicato un interessante intervento sul dibattito tra Cucignatto et al. e noi. Purtroppo, dobbiamo segnalare delle incomprensioni del nostro testo. Non possiamo indicarle tutte; ci limitiamo dunque a chiarire molto brevemente quanto abbiamo sostenuto con riguardo ad alcuni punti che riteniamo importanti. Un primo punto è che in Lucas non c’è nessun riconoscimento della natura endogena della moneta (il cambiamento investe la trattazione delle aspettative, che certo ha mutato drasticamente rispetto a Friedman le politiche monetarie). Un secondo è che il Nuovo Consenso, e quindi ‘il modello delle tre equazioni’, non è riducibile al monetarismo; semmai è più affine al discorso neo-wickselliano. Un terzo è che la sintesi della posizione di Isabella Weber viene anche qui attribuita a noi sic et simpliciter senza dar conto della autentica paternità (anzi, maternità). La tangenza con Marazzi, autore che molto stimiamo, su un punto particolare non comporta alcuna identità o convergenza di analisi più generale. Potremmo continuare. Si tratta per di più di un intervento intelligente, e che mantiene, oltre che la civiltà del confronto, la cognizione della complessità del fenomeno indagato.

Un ultimo punto. Non sappiamo cosa pensi Francesco Saraceno del fatto che “l’inflazione è qui per rimanere”. Noi come lui, e con qualificazioni, apparteniamo al Team Transitory. Bisogna insomma intendersi. Ciò che conta nel medio periodo in merito all’inflazione non è tanto l’aumento generalizzato dei prezzi, quanto piuttosto il cambiamento strutturale che al tempo stesso è rivelato e nascosto dalla variazione dei prezzi relativi, con tutte le conseguenze del caso su allocazione e distribuzione, rapporti tra classi e interni alle classi. È, di nuovo, una tesi di Graziani, che riprende da Schumpeter. I mutamenti attuali del capitalismo fanno ritenere che siamo in una fase di grande turbolenza, tale che la semplice attenzione alle grandezze assolute e nominali non porti lontano.

  1. Giusto una osservazione: uno dei due autori criticati ha scritto troppi saggi su Rosa Luxemburg, sempre rivendicando come corretta la sua legge della caduta tendenziale del salario relativo. ↩︎
  2. Gli autori menzionano, tra gli altri, studi in cui si mostra una tendenza al rialzo dei mark-up negli anni precedenti alla pandemia. Può ben essere, specialmente nel caso delle imprese con mark-up più elevati appartenenti a settori che sviluppano o fanno ampio uso di tecnologie digitali. Come si è anticipato, gli anni precedenti alla pandemia sono stati però caratterizzati da una crescita dei prezzi tendenzialmente stagnante (quando non di deflazione), sicché la cosa di per sé ci dice poco sull’inflazione recente. ↩︎
  3. Basta risalire di due righe e si legge: “Il punto da cui partire è quello sollevato da Isabella Weber” etc.
    L’abstract recita:
    «The dominant view of inflation holds that it is macroeconomic in origin and must always be tackled with macroeconomic tightening. In contrast, we argue that the US COVID-19 inflation is predominantly a sellers’ inflation that derives from microeconomic origins, namely the ability of firms with market power to hike prices. Such firms are price makers, but they only engage in price hikes if they expect their competitors to do the same.» (testo tratto dall’abstract di Weber & Wesner, 2023). ↩︎
  4. Francesco Saraceno, Oltre le banche centrali. Inflazione, diseguaglianza e politiche economiche, LUISS University Press, Roma 2023, p.58 ↩︎
  5. Sia consentito in chiusura di questo paragrafo aggiungere un’avvertenza. Come diremo meglio, occorre una certa cautela nel maneggiare i numerosi riferimenti bibliografici di Cucignatto et al. Si è visto che, a supporto della loro tesi, vengono richiamati un bel po’ di rapporti ed articoli. Se li si va a leggere nella loro integralità, tuttavia, l’impressione che se ne ricava è alle volte diversa. Si prenda, ad esempio, Arce et al. (2023). Scrivono:
    «Inflation in the euro area has been high recently, mainly because of a surge in energy prices. Since the euro area imports more than half of the energy it uses and energy has become much more expensive, households and firms have lost real income. This has been made worse by supply chain problems which have also driven up import prices In such a situation, firms have an incentive to try to minimise their share of the burden by raising their prices in order to protect their profit margins. Producers in some sectors might even try to increase their margins over and above what would be justified by higher input costs to also fully recoup previous real income losses from the various shocks of the past three years. Another motivation could be the attempt to build buffers in an environment of high uncertainty. Likewise, workers want to minimise their share of the burden by adjusting their wage claims to recoup the real wage losses resulting from higher prices. While price adjustments of firms can happen relatively quickly, wage setting is usually staggered in euro area countries and often requires a long negotiation process. Both effects are pushing up prices in the euro area. And the mutually reinforcing feedback between higher profit margins, higher nominal wages and higher prices risks strong second-round effects. This can cause an upward price spiral. And, ultimately, it might push long-term inflation expectations away from the anchor of the ECB’s 2% target. This “tit-for-tat” dynamic, as it was described by ECB President Lagarde in a recent speech, must be avoided to keep inflation at bay. […] In a less-benign scenario, where wage and price setters try to offset any real income losses, we would face the risk of successive wage and price adjustments ultimately leading to a wage-price spiral with lasting effects on inflation. The resulting aggregate real income loss would likely be deeper and more persistent. From a monetary policy perspective, it is therefore essential that such a risk scenario be avoided
    Ci pare che ciò sia abbastanza in linea con quanto abbiamo sostenuto anche noi, sebbene gli autori del testo richiamato assumano il punto di vista opposto della lotta di classe, cioè quello della signora Lagarde. ↩︎

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