André Gorz: un pioniere della critica ecologica del capitalismo

Il secondo appuntamento di questa prima analisi di pensatori ecosocialisti o affini ci porta a studiare il lavoro, a tratti pionieristico, di André Gorz. Su suggerimento di Emanuele Leonardi analizzeremo Ecologia e libertà ed Ecologica che offrono una buona sintesi sui cambiamenti nel pensiero gorziano tra gli anni ‘70 e ‘90.

Il Gorz degli anni ‘70

1. Introduzione

La crisi economica degli anni ‘70, la quale porrà fine al Trentennio glorioso, nell’analisi gorziana non è solo una crisi di sovrapproduzione ma ha anche delle nuove dimensioni come la crisi del lavoro, della relazione tra uomo e natura, della scuola…

Tutto ciò è legato alla morte del capitalismo e del socialismo basati sulla crescita che genera più bisogni di quelli che è in grado di soddisfare.

Gorz esplora questo scenario in Ecologia e libertà soffermandosi sulla crisi ecologica prodotta dallo sviluppo capitalistico che con il suo incedere distrugge la fertilità del suolo ed esaurisce le materie prime formatesi in milioni di anni di storia del pianeta e che sono limitate. Tutti gli economisti, marxisti o liberali che fossero, non si sono occupati di queste questioni, avendo un orizzonte temporale molto ristretto, confidando nel soluzionismo tecnologico per risolvere questi problemi e ignorando la natura come limite esterno all’attività umana. Fa eccezione Georgescu-Roegen che all’epoca parlava già di limitazione dei consumi per garantire l’uso da parte delle future generazioni delle materie prime del pianeta. Gorz chiama questa tesi “realismo ecologico” ed è soggetta ad aspre critiche da parte degli economisti che sostengono la necessità della crescita economica per avere la riduzione delle diseguaglianze. Anche il socialismo reale soffre degli stessi problemi perché persegue gli stessi scopi attraverso gli stessi strumenti ma verniciati di rosso. Un diverso modo di produzione dovrebbe gestire meglio le risorse evitando di produrre in maniera nociva.

2. L’attacco all’economia politica e l’emergere del pensiero ecologico

Gorz attacca l’economia politica perché legata ad una produzione sociale fondata sulla divisione sociale del lavoro ma regolata da dinamiche esterne, come il piano o il mercato. L’economia politica può funzionare solo a queste condizioni e non dove domina la cooperazione tra gli individui, cioè il comunismo. L’ecologia come disciplina emerge quando le attività economiche distruggono l’ambiente e non si applica dove la produzione non genera su di esso effetti distruttivi e irreversibili poiché l’impatto dell’attività umana è trascurabile. L’ecologia si occupa dello studio dei limiti da rispettare per non danneggiare con la produzione l’ambiente. La razionalità ecologica finisce per mostrare i limiti dell’azione economica, sopratutto quando prova a superare la scarsità relativa generando una scarsità assoluta legata a rendimenti negativi e distruttivi. La risposta del capitale, quando ad esempio intacca delle risorse naturali o dei cicli elementari, è sempre aumentare la produzione che alimenta la scarsità precedentemente prodotta. La soluzione va ricercata fuori dalla razionalità economica, in una controproduttività che si esprime in una riduzione della produzione materiale e in una limitazione dei consumi. Questo può avvenire in maniera democratica o attraverso l’ecofascismo. Per il pensiero ecologico sono possibili entrambe le strade ma resta incompatibile sia con il capitalismo che con il socialismo autoritario. Potenzialmente potrebbe essere coniugato con un socialismo libertario e autogestionario, dove avrebbe la funzione di alimentare le analisi sulle condizioni extraeconomiche che coinvolgono il rapporto tra uomo e natura, la critica della neutralità della tecnica o il rapporto tra prodotto e produttore.

Per quanto riguarda la tecnica, è necessario sgomberare il campo da ogni legame con il pensiero heideggeriano oggi molto di moda. Per Gorz il capitalismo non promuove sempre la soluzione tecnica più efficace perché punta, in primo luogo, a contrastare le risposte più favorevoli ad una diversa organizzazione sociale. Questo implica che il socialismo dovrebbe promuovere una trasformazione della tecnica per poter modificare i mezzi di produzione, prenderne possesso e cambiare la società. I socialisti dovrebbero riconoscere questa esigenza assieme alla lotta, collettiva e individuale, per autodeterminare la propria vita e modificare il rapporto uomo-natura.

3. Il problema della distruzione della natura da parte della produzione capitalista

Gorz afferma che la distruzione della produzione capitalista è tollerata finché non emerge il problema della natura finita delle risorse. Non è contro il tentativo umano di “addomesticare” la natura. Quello che il pensiero ecologista consente di valutare sono i trasferimenti che l’uomo estorce o impone senza tenere in considerazione la natura finita delle risorse e quanto gli effetti distruttivi della produzione siano maggiori dei benefici. Questo consente a Gorz di affermare che la crisi degli anni ‘70 è una crisi di sovrapproduzione aggravata da una crisi ecologica e sociale.

Il costante aumento della composizione organica del capitale minaccia il normale ritmo di riproduzione del capitale. Non vengono prodotti profitti sufficienti e il saggio di profitto cala. Questo calo viene contrastato dalle controtendenze tra le quali Gorz include l’obsolescenza programmata e la produzione di merci rese sempre più sofisticate e costose. La produzione è sempre più orientata allo spreco.

“È così che abbiamo assistito alla sostituzione della latta con l’alluminio, la cui produzione richiede un quantitativo di energia quindici volte superiore; alla sostituzione dei trasporti ferroviari con quelli stradali, che consumano sei o sette volte di più pur usurandosi ben più rapidamente; alla scomparsa di oggetti con viti o bulloni in favore di oggetti saldati o incastonati e dunque non riparabili; alla riduzione della durata di vita delle cucine e dei frigoriferi attorno ad un limite di sei o sette anni; alla sostituzione delle fibre naturali e del cuoio con materiali sintetici poco resistenti; alla diffusione del vuoto a perdere, tanto costoso in termini energetici quanto i recipienti in vetro; all’introduzione di tessuti e vasellame use-e-getta; alla costruzione di edifici in alluminio e vetro, la cui refrigerazione estiva richiede tanta energia quanto il riscaldamento invernale, ecc.

Questo tipo di crescita è stato una fuga in avanti, non una soluzione sostenibile: esso cercava di aggirare il blocco della caduta del saggio di profitto e la saturazione del mercato per mezzo di un’accelerazione sia della circolazione del capitale che dell’usura dei prodotti. Vedremo come tutto ciò abbia prodotto effetti contrari ai propri fini (cosa che gli economisti chiamano ‘saturazioni’ o ‘disutilità’) e creato nuove scarsità relative, nuove insoddisfazioni e forme di povertà”1.

Il risultato è la creazione di scarsità assolute che pongono ostacoli fisici al capitale, come ad esempio lo shock petrolifero degli anni ‘70. I liberali affermano che questo fenomeno economico si manifesta con un aumento dei prezzi e la penuria a cui segue l’aumento della produzione del bene raro. Questo non è possibile con le risorse naturali sempre più scarse. Al massimo è possibile trovare delle soluzioni economicamente dispendiose come pagare di più per acquistare il terreno su cui costruire una nuova fabbrica oppure riciclare l’acqua e l’aria già utilizzate. Ciò che prima era considerato sempre a disposizione dell’uomo, in questa fase dello sviluppo del capitalismo finisce per contribuire all’aumento della composizione organica del capitale perché deve essere trattato come un qualsiasi mezzo di produzione. L’esaurimento dei giacimenti di materie prime facilmente accessibili obbliga il capitale ad investire più risorse per individuarne di nuovi e a sviluppare nuove tecnologie per rendere economicamente conveniente la ricerca e lo sfruttamento di materie prime anche in futuro. In queste condizioni il capitale fatica a riprodursi da solo e ha bisogno di soldi pubblici prelevati dalla sfera del consumo.

4. La proposta di Gorz

La soluzione proposta da Gorz prevede l’abbandono del concetto di crescita con relativo riorientamento della produzione mettendo in discussione la qualità dei beni prodotti e le modalità di consumo. I beni prodotti socialmente devono essere a disposizione di tutti e la loro produzione non deve nascere dalla distruzione di risorse abbondanti in natura. Per quanto riguarda il lavoro, Gorz afferma che nella nostra società è il salario che determina il nostro valore e non le nostre attività, private di ogni autonomia.

“È l’alienazione del lavoro che rende il denaro, cioè il potere di acquistare merci, lo scopo supremo degli individui” e ne consegue che “superato un certo livello di reddito, un ulteriore incremento non si giustifica per se stesso, e nemmeno per i consumi supplementari che permetterebbe; esso implica innanzitutto una domanda di riconoscimento dei propri diritti come aventi lo stesso valore sociale di quelli altrui. In una società fondata sulla remunerazione ineguale di prestazioni lavorative ugualmente private di senso, la rivendicazione dell’uguaglianza è il propulsore segreto dell’espansione continua del desiderio di consumo, dell’insoddisfazione e della concorrenza sociale.

La stabilizzazione del livello dei consumi non sarà perciò realizzabile che alle seguenti condizioni: 1) tutti i lavori socialmente necessari devono godere del medesimo riconoscimento (e remunerazione) sociale; 2) tutti devono avere la possibilità di realizzare l’infinita diversità delle capacità, dei desideri e dei gusti personali per mezzo di una varietà illimitata di attività libere, individuali o collettive che siano.

La riduzione della durata del lavoro sociale e la possibilità di dedicare il tempo libero ad attività produttive sono le condizioni per l’abolizione del rapporto di merce e della concorrenza. Le differenze di accesso al consumo e dei modi di vita cesseranno di significare disuguaglianza nel momento in cui esse saranno il risultato non dei diversi livelli salariali, bensì dei fini incommensurabili che individui e gruppi perseguono nel tempo libero”.

L’assenza di autonomia nel lavoro porta a pensare che la libertà si trovi fuori da esso ma anche nel tempo libero non c’è spazio per attività creative o produttive di portata sociale e di conseguenza non resta che una scelta tra consumi e divertimenti passivi. L’autonomia del lavoratore è colpita in fabbrica dall’organizzazione scientifica del lavoro e fuori dalle sue mura dalla scolarizzazione che ostacola la formazione di una polivalenza nella persona, preferendo le qualifiche professionali. In questo modo il lavoratore è privato della capacità di produrre fuori dalla produzione capitalistica che controlla anche ciò che consuma. La soluzione è l’autogestione di “unità economiche e sociali sufficientemente piccole da permettere alle attività produttive, ma anche alla distribuzione e alla definizione delle mansioni, di garantire ad una medesima comunità territoriale: la presenza di capacità e talenti diversificati; la ricchezza di scambi umani; la possibilità di adattare almeno parzialmente la produzione ai bisogni e ai desideri della comunità locale; un minimo di autarchia locale.

In breve, l’autogestione presuppone l’uso di strumenti che possano essere autogestiti. Tali strumenti sono possibili da un punto di vista tecnico. Non si tratta di tornare all’artigianato, all’economia di villaggio e al Medio Evo, bensì di subordinare le tecniche industriali allo sviluppo permanente delle autonomie individuali e comunitarie invece di subordinare queste autonomie allo sviluppo permanente delle tecniche industriali”.

Tutto ciò è funzionale allo sviluppo della società civile, ovvero l’insieme dei rapporti sociali tra gli individui che nascono in gruppi e comunità fuori dalla mediazione e l’intervento statale e basati sulla volontarietà e reciprocità.

Il Gorz degli anni ‘90

1. Introduzione alla visione degli anni ‘90

André Gorz nel libro Ecologica parla di com’è giunto all’ecologia politica. Formatosi con la lettura del marxismo di Sartre, sostiene che nasciamo tutti come soggetti irriducibili alle richieste della società e degli altri. I processi di socializzazione ci rendono Altri dagli Altri e consentono il dispiegamento della logica automatizzante delle disposizioni sociali proprie dell’essere Altro. Questo processo opprime sia dominati che dominanti, impedendo il libero sviluppo dell’essere umano. Solo ai margini di queste dinamiche può sorgere un soggetto autonomo che ponga, nel suo agire, la questione morale, alla base di etica e politica, capace di mettere in discussione i meccanismi di dominio nella nostra società. Questa è la base della critica gorziana del capitalismo che si arricchirà dell’ecologia politica quando giunge a criticare la società dell’opulenza che produce sempre più bisogni funzionali all’accumulazione del capitale. In Gorz è chiaro il legame tra ecologica politica e critica del capitalismo. Sostiene che senza questa consapevolezza si può facilmente scivolare nel fascismo verde. La questione ecologica, inoltre, è strettamente legata alla crisi del capitalismo che incontra il suo limite esterno ed interno, con conseguente crisi delle sue categorie: lavoro, valore e capitale. Questo mina la capacità del capitalismo di riprodursi. La prima causa è individuata nella rivoluzione informatica che permette la produzione di sempre più merci con sempre meno lavoro. Ciò significa che è necessario aumentare la produttività del lavoro in maniera crescente per evitare il crollo della massa dei profitti complessivi. La produzione non riesce a valorizzare efficacemente tutti i capitali che finiscono per essere riversati nella finanza che acquista un peso sempre maggiore nella realizzazione dei profitti delle imprese.

La sfida della ristrutturazione ecologica non è compatibile con un simile sistema ma la sua urgenza, pensiamo alla limitazione di 2°C del riscaldamento globale, rende inevitabile pensare ad una via d’uscita. Questa può corrispondere ad una forma di fascismo verde che, attraverso un’economia di guerra, impone razionamenti, restrizioni e allocazioni delle risorse autoritarie oppure può prendere la forma di una nuova civiltà oltre la società della merce, del salario e del denaro.

Per Gorz il capitalismo ha ridotto i lavoratori ad appendici delle sue megamacchine, rendendo impossibile una diversa appropriazione dei mezzi di produzione. Il capitalismo finisce per assumere il controllo anche dell’offerta di merci, manipolando i gusti del produttore e le modalità con cui soddisfare i propri bisogni. La rivoluzione informatica colpisce questo potere andando ad incidere sul valore delle merci, sempre più determinato da aspetti immateriali che contrastano l’abbassamento dei costi prodotti dalla maggiore produttività. Lo scopo è creare una rendita della novità e le imprese concorrono per raggiungere questo obiettivo a cui sono funzionali processi come l’obsolescenza programmata. Viene impedito al consumatore di riflettere sui suoi reali bisogni comuni e sull’eliminazione degli sprechi.

Gorz pone come obiettivo politico la riunificazione di produttore e consumatore nella rottura con questa civiltà. Ciò è possibile grazie alla natura immateriale delle idee e delle conoscenze vitali per la produzione moderna e autonoma dagli oggetti in cui possono incarnarsi. Questo mina il monopolio dell’offerta perché la conoscenza non è facilmente confinabile nella proprietà privata.

Per sua natura si presta a produzioni potenzialmente illimitate, come i software, che rendono inutile ogni valore di scambio, essendo di fatto un bene comune.

2. Gorz e il movimento ambientalista

Per Gorz l’ecosistema naturale è capace di autorigenerazione ed autorganizzazione, garantendogli la capacità di autoregolarsi ed evolvere. La tecnica umana danneggia la natura con l’obiettivo di dominarla e renderla prevedibile. Da questa conclusione può prendere corpo il tentativo di determinare le soglie d’inquinamento accettabili e compatibili con lo sviluppo industriale. Non viene scalfito il sistema economico ma si procede con la manipolazione delle motivazioni già presenti nella società, indirizzando la popolazione verso dei fini prestabiliti dallo Stato e dai suoi esperti.

Secondo Gorz, il movimento ambientalista nasce come lotta contro la distruzione della cultura del quotidiano, ovvero l’insieme di pratiche, norme e abitudini che compongono quelle strutture del sociale considerate naturali perché intuitivamente comprensibili, da parte del mercato e dello Stato.

“Ora, più una società diventa complessa, meno il suo funzionamento è intuitivamente intelligibile. La massa dei saperi messa in opera nella produzione, nell’amministrazione, negli scambi, nel diritto supera di gran lunga le capacità di un individuo o di un gruppo. Ognuno di questi non detiene altro che un sapere parziale, specializzato; delle procedure organizzative prestabilite, degli apparati, coordinano e organizzano in vista di un risultato che supera ciò che gli individui sono capaci di volere. La società complessa rassomiglia così a una grande macchina: essa è, in quanto sociale, un sistema il cui funzionamento esige individui funzionalmente specializzati alla maniera degli organi di un corpo o di una macchina. I saperi specializzati in funzione dell’esigenza sistematica del tutto sociale non contengono più, per quanto complessi e sapienti siano, risorse culturali sufficienti per permettere agli individui di orientarsi nel mondo, di dare senso a ciò che essi fanno o di comprendere il senso di ciò a cui concorrono. Il sistema invade e marginalizza il mondo vissuto, cioè il mondo accessibile alla comprensione intuitiva e alla presa pratico-sensoriale. Esso toglie agli individui la possibilità di avere un mondo e di averlo in comune. È contro le differenti forme di questa espropriazione che una resistenza si è progressivamente organizzata”2.

Queste resistenze politiche trovano una motivazione nell’emergere dei limiti della crescita e la sua insostenibilità per la sopravvivenza umana sul pianeta. La risposta a queste sfide per Gorz risiede nell’autogestione dei produttori liberamente associati. Accanto al rapporto tra minimo sforzo e massima soddisfazione nel lavoro, troviamo una gestione razionale degli scambi con la natura.

“Nel quadro dell’autogestione, la libertà riposerà sulla facoltà dei ‘produttori associati’ di arbitrare tra la quantità e la qualità del lavoro che richiedono, per unità di prodotto, differenti mezzi e differenti metodi di produzione; ma anche tra l’estensione dei bisogni e dei desideri che essi si augurano di soddisfare e l’entità dello sforzo che giudicano accettabile dispiegare. Questo arbitraggio, fondato su norme vissute e comuni, condurrà per esempio a lavorare in modo più disteso e gratificante (più ‘conforme alla natura umana’) al prezzo di una produttività minore: esso condurrà anche a limitare i bisogni e i desideri per poter limitare lo sforzo da addurre. In pratica, la norma secondo la quale si regola il livello dello sforzo in funzione del livello di soddisfazione ricercato, e viceversa il livello di soddisfazione in base allo sforzo al quale si consente, è la norma del sufficiente”3.

3. L’autolimitazione e la decrescita

La separazione dei mezzi di produzione dai produttori ha permesso al capitale di superare l’autolimitazione dei bisogni e degli sforzi, sostituendoli con i suoi bisogni, legati al processo di accumulazione e indotti in funzione di questo scopo. Dagli anni ‘60 furono favoriti i consumi e i comportamenti ad alto contenuto energetico producendo trasformazioni nei materiali utilizzati, nella obsolescenza programmata delle merci e nel loro consumo di energia. Questo consente di aumentare i consumi, obbligando i consumatori a comprare più merci per ottenere lo stesso valore d’uso. È un modello di sviluppo che prevede un sempre maggiore consumo per soddisfare bisogni indotti funzionali agli aumenti di produttività delle imprese e alla riproduzione della società.

Ancora una volta per Gorz la soluzione è la riunificazione del consumatore e del produttore in contrasto con la logica del capitale e dello Stato.

“Esso implica la volontà di procurare il massimo di soddisfazione con il minimo di produzione. Una simile ricerca della massima efficacia, e dunque dell’economia massimale, è così estranea alla logica capitalistica che la teoria macroeconomica non è nemmeno capace di contabilizzare i risparmi. Mentre, per il senso comune, i risparmi sono consumi e produzioni che abbiamo evitato, e dunque tempo e fatica che abbiamo risparmiato grazie a una gestione più efficace, questi risparmi appariranno nel quadro della contabilità nazionale come perdite, come abbassamenti del PIL, abbassamenti del volume dei beni e dei servizi di cui dispone la popolazione. Qui si scopre quanto i metodi ufficiali di previsione e di calcolo siano falsati. Essi contano quale arricchimento nazionale ogni crescita della produzione e degli acquisti, compresa la produzione crescente di imballaggi a perdere, di apparecchi e di metalli gettati in discarica, di carta bruciata con l’immondizia, di utensili rotti e non riparabili, di protesi e di cure per i mutilati del lavoro e della strada. Le distruzioni appaiono così come delle fonti di ricchezza, giacché tutto ciò che è rotto, gettato, perso, dovrà essere sostituito e darà luogo a produzioni, alla vendita di merci, al flusso di denaro, a profitti. Più rapidamente le cose si rompono, si usurano, passano di moda, si gettano, più il PIL crescerà e più i contabili nazionali diranno che siamo ricchi. Anche le ferite corporali e le malattie saranno contabilizzate come fonti di ricchezza nella misura in cui fanno crescere il consumo di medicinali e di cure. Ma che si produca l’inverso: che la buona salute ci eviti le spese mediche; che le cose che compriamo durino la metà di una vita, che non passino di moda e non si deteriorino, che si riparino e finanche si trasformino facilmente; allora, certo, il PIL si abbasserà: lavoreremo meno ore, consumeremo meno, avremo meno bisogni”4.

Per ottenere ciò non resta che attuare una rivoluzione. Serve il comunismo che Gorz ritiene possibile in quanto le forze produttive sono sufficientemente sviluppate da non rendere la messa a lavoro di tutti in cambio di un reddito l’obiettivo principale. Ognuno potrebbe contribuire con un lavoro sociale che occupa una parte minima della nostra esistenza. Tuttavia “lo sviluppo delle forze produttive nel quadro del capitalismo non condurrà mai alle porte del comunismo, dato che la natura dei prodotti, le tecniche e i rapporti di produzione escludono, allo stesso tempo, la soddisfazione durevole ed equa dei bisogni e la stabilizzazione della produzione sociale a un livello comunemente accettato come sufficiente. L’idea stessa che un giorno si possa avere abbastanza per tutti e dunque che il perseguimento del ‘più’ e ‘meglio’ possa cedere il passo al perseguimento di valori extraeconomici e non mercantili: questa idea è estranea alla società capitalistica. Essa è, al contrario, essenziale al comunismo, e questo non potrà prendere forma quale negazione positiva del sistema dominante se le idee di autolimitazione, di stabilizzazione, di equità, di gratuità non troveranno una realizzazione pratica: vale a dire se non sarà praticamente dimostrato che non soltanto si può vivere meglio lavorando e consumando meno e altrimenti, ma che questa limitazione volontaria e collettiva della sfera della necessità permette – e solo essa permette- fin da ora un’estensione della sfera dell’autonomia, cioè della libertà”5.

4. Il confronto con la decrescita

Gorz approva l’idea della decrescita ma la ritiene inapplicabile nel sistema capitalista perché presuppone una riduzione della produzione di merci, già contenenti poco lavoro e insufficienti per la valorizzazione dei capitali. Il capitalismo sta entrando nella sua fase terminale perché aumenta il lavoro marxianamente improduttivo a causa della smaterializzazione del lavoro, del capitale e l’impossibilità di misurare il loro valore e quello delle merci. Viviamo in una società dove i lavoratori marxianamente produttivi sono sempre di meno. La loro produttività aumenta per garantire il profitto dei padroni ma si scontra con la loro diminuzione che rende la riproduzione del capitale sempre più difficile, a cui si aggiungono gli intoppi riscontrati nella capacità di vendere sempre più merci. Questo spiega, per Gorz, il calo della massa globale dei profitti che vengono investiti in operazioni finanziarie, più redditizie della produzione. Queste sono le premesse per parlare di decrescita, cioè un’economia basata sul valore di scambio che emergerà come una conseguenza di una crisi subita o di una scelta della società che si auto-organizza per andare oltre il lavoro salariato e la determinazione da parte del capitale dei nostri bisogni. Per fare ciò è indispensabile prendere possesso dei mezzi di produzione e uscire dall’industrialismo perché per Gorz non è possibile prendere il controllo delle fabbriche per come sono state concepite. Non propone il ritorno alle comuni agricole. La soluzione è offerta dall’industria hi-tech che permette di produrre con una maggiore produttività e con meno risorse, consentendo la produzione in comune ai sottoccupati e i disoccupati.

Osservazioni critiche

Partendo dalle riflessioni di Ernesto Screpanti sul comunismo libertario è possibile criticare la visione di Gorz dei bisogni. Iniziamo con l’affermare che non esistono bisogni determinati dalla natura ma sono legati alla capacità di essere soddisfatti. Lo sviluppo del capitalismo crea sempre nuovi bisogni assieme alla domanda e alle merci corrispondenti. Marx non valutava negativamente tutto ciò perché arricchisce la personalità dell’uomo rendendolo ricco di nuovi bisogni. Questo è possibile solo creando un uomo ricco nelle proprie capacità di godimento. La fine del capitalismo non pone termine alla costruzione sociale della personalità umana a partire dall’espansione dei bisogni. Il comunismo, grazie al controllo della produzione da parte dei lavoratori associati, rende questo processo più libero e consapevole, portando alla moltiplicazione e liberazione dei bisogni che non saranno più massificati, come nel capitalismo, ma resi personali. Quindi l’autolimitazione gorziana non può essere una soluzione compatibile con il pensiero marxista. Screpanti sostiene che Marx fosse consapevole della capacità del capitalismo di incidere sulla domanda controllando i gusti e ricorda che la soddisfazione dei bisogni umani non è lo scopo della produzione capitalista “ma al contrario la produzione si presenta come scopo del consumo ‘e la ricchezza come scopo della produzione”6.

Questo aspetto, tuttavia, è secondario rispetto a tutto il processo che abbiamo descritto all’inizio del paragrafo.

Altri elementi di critica al pensiero gorziano posso essere ritrovati nel saggio di Negri Su Gorz, a partire da “Leur écologie et la nôtre. Negri tenta di mettere in dialogo Gorz con il pensiero operaista, cercando di sganciarlo dall’immagine di teorico della decrescita. Il pensatore italiano riconosce a Gorz di non aver mai abbandonato una lettura marxiana del capitale come antagonismo tra lavoro vivo e morto, anticipando addirittura una sua lettura biopolitica ma non può essere assorbito nell’operaismo a causa di:

1. Certe tendenze sottoconsumiste presenti nel suo pensiero.

2. Non vede la potenza del lavoro vivo nel suo rapporto con il dominio capitalista.

3. Nella sua concezione del capitale come rapporto antagonista non sempre introduce la sua traduzione in lotta di classe.

Infine Negri, e noi con lui, non possiamo accettare una critica del capitalismo che si sviluppa a partire dal consumo invece che dalla produzione.

  1. Tutte le citazioni di André Gorz, Ecologia e libertà, Orthotes, Napoli 2015 sono tratte da un file ePub, pertanto non sono disponibili le pagine. ↩︎
  2. André Gorz, Ecologica, Jaca Book, Milano 2009, pp.50-51 ↩︎
  3. Ivi, p.56 ↩︎
  4. Ivi, pp.93-94 ↩︎
  5. Ivi, pp.95-96 ↩︎
  6. Ernesto Screpanti, Comunismo libertario. Marx, Engels e l’economia politica della liberazione, Manifestolibri, Roma 2007, p.67 ↩︎

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