Pace, dialogo e ambiente. L’ecopacifismo di Alexander Langer

Il libro collettivo Alexander Langer. Una buona politica per riparare il mondo si apre con una diagnosi severa della condizione contemporanea: il mondo è rotto e la responsabilità di questo degrado è collettiva. La rottura è ambientale, sociale e politica e per ripararla è indispensabile un rinnovato impegno nella sfera pubblica. La politica va intesa come l’arte della cura della casa comune, una pratica incessante di attenzione verso l’altro, sia esso una persona, una comunità o l’ambiente. Questo concetto di “politica prima”, radicato nell’esperienza di Alexander Langer, a cui il libro è dedicato e che usiamo per ricordarlo a 30 anni dalla sua prematura scomparsa, è quello che interessa agli autori, ovvero una politica che non si limita alla denuncia o al volontariato ma che si fa carico di entrare nelle istituzioni per modificarne le regole, rafforzare la democrazia e garantire inclusione. La domanda centrale attorno a cui ruota il libro è: perché e come un giovane oggi dovrebbe impegnarsi in politica? La risposta deve confrontarsi con l’eredità concreta di chi, come Langer, ha vissuto la politica come strumento umano di mediazione, un modo per prendersi cura dello spazio condiviso, per negoziare tra il desiderio individuale e le esigenze della collettività, per costruire relazioni che non schiaccino le minoranze ma le includano in un dialogo permanente. Langer, figura chiave dell’ecologismo italiano e europeo, è presentato come un modello di politico relazionale, capace di ascoltare, di porsi domande scomode, di evitare semplificazioni ideologiche, di lavorare dal basso senza perdere di vista l’orizzonte universale. La sua lezione è che la politica vera è fatta di pratiche quotidiane come ascolto, pazienza, mediazione, capacità di tenere insieme contraddizioni senza pretendere di risolverle con la forza.

1. Langer e la convivenza

Langer nel suo saggio L’arte della convivenza sviluppa una riflessione sulla necessità di costruire una cultura della convivenza interetnica in un’epoca in cui la compresenza di gruppi diversi per lingua, cultura, religione ed etnia non è più un’eccezione ma una realtà sempre più diffusa, soprattutto nei contesti urbani. Langer osserva che questa pluralità non è una novità storica, già nelle città antiche e medievali esistevano quartieri ebraici, armeni, greci, tedeschi, ma ciò che cambia oggi è la scala e la consapevolezza con cui occorre gestirla. La vera sfida è nella scelta tra due approcci opposti, cioè l’esclusivismo etnico che si manifesta in nazionalismi, separatismo, pulizie etniche e guerre infinite e la convivenza plurale che richiede un’arte complessa, fatta non di mere dichiarazioni anti-razziste ma di esperienze concrete, progetti condivisi e una cultura politica che valorizzi il dialogo. Langer insiste sul fatto che né l’assimilazione forzata, che nega le identità, né l’emarginazione o la ghettizzazione, che le cristallizzano in opposizione, hanno mai funzionato. La soluzione sta invece in un equilibrio dinamico tra il diritto alla propria identità e la piena partecipazione alla vita comune. Questo implica, ad esempio, garantire spazi di autonomia culturale (scuole, media, associazioni etniche) senza che questi diventino gabbie e al tempo stesso promuovere occasioni di incontro, dagli eventi interculturali alla semplice condivisione di un pasto, che rompano l’isolamento. La conoscenza reciproca è fondamentale. Imparare la lingua dell’altro, comprenderne la storia, i simboli, le paure e i pregiudizi è il primo passo per smontare stereotipi e costruire fiducia. Langer cita l’esempio di libri di storia condivisi o celebrazioni pubbliche comuni come strumenti per evitare che le narrazioni etnocentriche diventino egemoniche. Un tema cruciale è la fluidità delle appartenenze. Langer critica le definizioni rigide di identità etnica, registri anagrafici che “targano” le persone, imposizioni linguistiche o religiose, perché alimentano conflitti e separatismo. Al contrario, occorre accettare che molte persone, soprattutto figli di immigrati o coppie miste, vivano appartenenze plurali, con legami multipli che possono essere una risorsa per la convivenza. Allo stesso modo è essenziale che la dimensione etnica non diventi l’unico criterio organizzativo della società: il territorio comune, le lotte sociali, le affinità professionali o di genere (con un ruolo particolare delle donne come potenziale ponte tra culture) devono offrire alternative alla frammentazione etnica. Langer sottolinea poi l’importanza di un riconoscimento pubblico e visibile della pluralità come segnaletica plurilingue, spazi di culto condivisi, monumenti che riflettano la storia di tutti i gruppi presenti. Viene citata una metafora del vescovo Franjo Komarica: “un prato con molti fiori è più bello di uno con un solo tipo di fiore”. Le istituzioni hanno un ruolo chiave nel garantire diritti collettivi (ad esempio all’istruzione nella propria lingua) e nel prevenire discriminazioni ma norme troppo focalizzate sull’etnia rischiano di fossilizzare le divisioni. Meglio, quindi, quadri giuridici che promuovano autonomie locali inclusive, dove tutte le comunità collaborino per il bene comune, sviluppando un senso di Heimat condiviso. Figure di mediatori, “costruttori di ponti”, “saltatori di muri”, sono indispensabili in contesti interetnici. Si tratta di persone che, pur radicate nella propria comunità, lavorano per aprire varchi, organizzare dialoghi, smontare pregiudizi. Langer li definisce “traditori della compattezza etnica” perché mettono in discussione i dogmi del proprio gruppo senza rinnegare le proprie radici. In situazioni di tensione il loro lavoro, spesso invisibile, può evitare l’escalation, soprattutto se si riesce a evitare che le comunità cerchino sostegno in potenze esterne, alimentando conflitti geopolitici. La violenza, avverte Langer, è il punto di non ritorno. Una volta innescata, la spirale della violenza etnica, con il suo carico di emotività collettiva, simboli e memorie dolorose, diventa incontrollabile. Per questo è essenziale una repressione sociale e politica immediata di ogni suo germe, accompagnata da un’etica condivisa del rifiuto della forza. Infine, i gruppi misti, piccoli laboratori di convivenza in ambito sportivo, religioso, sindacale, sono esperienze pionieristiche da sostenere perché dimostrano che un’alternativa all’etnocentrismo esiste.  

In Fratellanza euromediterranea Alex Langer invita a riscoprire e rinnovare i legami tra l’Europa e il Mediterraneo, un rapporto che negli anni precedenti al 1995, quando il testo venne scritto, era stato trascurato a favore di altre priorità geopolitiche, come l’integrazione con i paesi dell’Europa orientale dopo la caduta del Muro di Berlino. Langer osserva che mentre l’Europa occidentale aveva faticosamente ricucito i rapporti con i “fratelli dell’Est”, un’altra fratellanza, quella euromediterranea, era rimasta in ombra, quasi dimenticata. In Italia, ad esempio, alcuni settori politici e culturali avevano visto l’adesione al progetto europeo come un distacco dal Mediterraneo, percepito talvolta con una connotazione negativa, quasi come un fardello da cui liberarsi per entrare a pieno titolo in un’Europa più “nobile” e avanzata. Questa marginalizzazione del Mediterraneo riguardava l’intera Europa che negli anni ‘90 aveva dimostrato una politica discontinua e poco incisiva verso la regione. La guerra del Golfo aveva ulteriormente indebolito il ruolo europeo, consolidando invece l’egemonia degli Stati Uniti e dei paesi petroliferi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, che avevano esteso la loro influenza anche nel Mediterraneo attraverso massicci investimenti economici. Langer sottolinea come per ogni ECU investito dalla Comunità Europea nel Mediterraneo ne venissero spesi dieci dagli USA e altrettanti dai paesi arabi, segnando una netta disparità di impegno. L’assenza di una politica mediterranea comune si era manifestata in diversi fallimenti: l’incapacità dell’Europa di svolgere un ruolo significativo nel processo di pace israelo-palestinese, la difficoltà nel dialogare con paesi considerati “problematici” come la Libia o la Siria e l’incapacità di risolvere questioni irrisolte come la divisione di Cipro. Nonostante alcune proposte ambiziose, come quella di un “Helsinki del Mediterraneo”, un forum di cooperazione e sicurezza regionale, l’iniziativa era stata presto accantonata, persino dai governi che l’avevano inizialmente sostenuta, come Spagna, Italia, Francia e Grecia. Negli anni successivi l’approccio europeo al Mediterraneo si era sempre più concentrato su una logica emergenziale e securitaria, affrontando problemi come l’immigrazione incontrollata, le tensioni sociali, l’ascesa dell’integralismo islamico e il traffico di droga e armi con misure repressive piuttosto che con strategie di cooperazione e sviluppo. La Conferenza euromediterranea del 1995, organizzata sotto la presidenza spagnola, rappresentava un tentativo di rilanciare il partenariato tra le due sponde del Mediterraneo ma Langer temeva che si limitasse a un approccio tecnico e finanziario, senza la visione politica necessaria per costruire una vera Comunità euromediterranea. La sfida non poteva essere lasciata solo ai governi ma doveva coinvolgere la società civile, i cittadini e le organizzazioni impegnate nella pace, nella cooperazione e nello sviluppo sostenibile. Il Mediterraneo, crocevia di tre continenti (Europa, Asia e Africa) e delle tre grandi religioni monoteiste (Ebraismo, Cristianesimo e Islam), rappresentava un patrimonio comune di straordinaria ricchezza culturale, storica e ambientale, oggi minacciato da conflitti, degrado e disuguaglianze. Per questo Langer invocava un impegno dal basso per costruire una nuova fratellanza euromediterranea, accompagnando criticamente le iniziative istituzionali e cogliendo le opportunità di dialogo e cooperazione tra le comunità locali. Paolo Bergamaschi affianca il saggio di Langer con un suo contributo che riprende e amplia le riflessioni dell’ambientalista sudtirolese partendo dalla figura di Predrag Matvejević, autore del Breviario mediterraneo, che aveva celebrato il Mediterraneo come spazio di incontro e contaminazione culturale. Bergamaschi critica l’incapacità dell’UE di sviluppare una politica estera comune verso il Mediterraneo, spesso trattato come un’area di crisi piuttosto che come un partner strategico. Mentre l’allargamento ai paesi dell’Est era stato un successo, il Partenariato euromediterraneo di Barcellona (1995) e l’Unione per il Mediterraneo (2008) erano falliti, dimostrando la mancanza di una visione a lungo termine.  

Le primavere arabe del 2010-2011 avevano rappresentato un’occasione storica per sostenere le forze democratiche nella regione ma l’Europa aveva preferito mantenere relazioni bilaterali con regimi autoritari, privilegiando la stabilità immediata rispetto al cambiamento democratico. Bergamaschi sottolinea l’importanza di investire nelle nuove generazioni, promuovendo scambi universitari e cooperazione tra società civili, per costruire una “cittadinanza euromediterranea” basata su valori condivisi. Poi c’è il tema energetico. Bergamaschi propone la creazione di una “Comunità energetica euromediterranea” per lo sviluppo delle rinnovabili che potrebbe ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e rafforzare la cooperazione regionale. Infine, riprendendo Langer, invoca una Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione nel Mediterraneo, sul modello di Helsinki, per affrontare in modo coordinato le crisi regionali e promuovere un nuovo ordine basato sul diritto internazionale e sul dialogo.  

2. La forza del dialogo

Alex Langer in Un catalogo di virtù verdi riflette sulle virtù etico-politiche necessarie per costruire una società ecologicamente sostenibile mettendo in discussione i paradigmi dominanti della crescita illimitata, del progresso tecnocratico e della mercificazione della vita. La sua analisi parte dalla critica alla mentalità moderna che ha dominato negli ultimi secoli, basata sull’idea che tutto ciò che è tecnicamente realizzabile debba essere perseguito, senza considerare i limiti naturali o le conseguenze a lungo termine. Langer introduce il concetto di consapevolezza del limite come primo passo verso un’etica verde, sottolineando come l’umanità debba imparare a riconoscere che non tutto ciò che è possibile sia anche desiderabile o sostenibile. Questo implica un ripensamento radicale del rapporto tra uomo e natura, abbandonando la logica predatoria del dominio per abbracciare un approccio più equilibrato e rispettoso. Una delle virtù centrali proposte da Langer è l’auto-limitazione, intesa come una scelta etica consapevole. A differenza della semplice limitazione dettata dalla scarsità delle risorse, l’auto-limitazione è un atto di responsabilità che presuppone la rinuncia a determinate azioni, anche se tecnicamente fattibili, per evitare conseguenze irreversibili. Langer porta come esempio le manipolazioni genetiche, la cementificazione del territorio o lo sfruttamento intensivo delle risorse, azioni che, pur essendo realizzabili, comportano rischi enormi per gli ecosistemi e le generazioni future. L’auto-limitazione è un atto di saggezza che richiede un cambiamento culturale profondo, in cui la società smetta di misurare il progresso solo in termini di espansione materiale e inizi a valorizzare la qualità della vita, l’equilibrio ecologico e la giustizia sociale. Langer parla di pentimento e di conversione ecologica, concetti che rielabora in chiave politica. La società industrializzata, soprattutto nei Paesi più ricchi, ha agito per decenni con una sorta di hybris, un eccesso di fiducia nella capacità della tecnica di risolvere ogni problema, ignorando i danni ambientali e sociali provocati dal suo modello di sviluppo. Questa situazione è paragonata a quella di un tossicodipendente che, pur sapendo di danneggiarsi, non riesce a smettere perché intrappolato in un circolo vizioso. La conversione ecologica rappresenta dunque un percorso di presa di coscienza e di cambiamento, in cui si riconoscono gli errori del passato e si cerca di correggere la rotta. Langer è consapevole che un cambiamento radicale e immediato del sistema economico e produttivo è impossibile. Propone invece un “atterraggio morbido”, una transizione graduale verso modelli più sostenibili che richiede un impegno collettivo e politico. Per questo motivo valorizza particolarmente l’obiezione di coscienza come atto di resistenza etica al militarismo e alle logiche oppressive del consumismo, della produzione indiscriminata e del conformismo imposto dai mass media. Citando esempi di operai che rifiutano di collaborare alla produzione di armi, Langer sottolinea l’importanza di assumersi responsabilità individuali, rifiutando di essere semplici “ingranaggi” di un sistema dannoso. Un’applicazione concreta di questa virtù è l’obiezione fiscale alle spese militari, pratica che lo stesso Langer ha adottato, devolvendo il maltolto a progetti di solidarietà o di difesa nonviolenta. Questa forma di disobbedienza civile è un modo per smascherare l’irrazionalità di un sistema che privilegia la guerra e lo spreco rispetto al benessere collettivo e alla salvaguardia ambientale. Due ulteriori pilastri dell’etica verde proposta da Langer sono il privilegio del valore d’uso sul valore di scambio e la preminenza della sussistenza sul profitto. Nel capitalismo avanzato tutto viene ridotto a merce, incluso beni essenziali come l’acqua e l’aria, il cui valore è determinato esclusivamente dal mercato. Langer critica questa logica perversa che porta allo spreco e al degrado ambientale e invita a recuperare un rapporto più diretto e responsabile con le risorse, valorizzando il loro uso reale piuttosto che il loro prezzo. Allo stesso modo sostiene che l’economia dovrebbe essere finalizzata alla sussistenza, cioè a garantire una vita dignitosa a tutti, piuttosto che all’accumulazione di profitto. Questo implica rivalutare modelli economici alternativi, come quelli delle comunità rurali o delle economie locali, dove ancora resistono pratiche di mutuo aiuto, autoproduzione e condivisione delle risorse. Infine Langer analizza il concetto di progresso, smascherando l’illusione che esso consista semplicemente nell’aumento del benessere materiale per una minoranza. Il vero progresso, nella visione verde, dovrebbe invece misurarsi in termini di equità, sostenibilità e qualità della vita per tutti. Langer denuncia la tendenza del sistema economico attuale a scaricare i costi su altri, che siano Paesi poveri, classi sociali svantaggiate o generazioni future, mentre i benefici sono concentrati nelle mani di pochi. Questo meccanismo perverso, reso possibile dalla globalizzazione e dalla finanziarizzazione dell’economia, rende insostenibile l’attuale modello di sviluppo, soprattutto se esteso all’intera popolazione mondiale. Per contrastare questa deriva, Langer individua nella dimensione locale il contesto ideale in cui far maturare una coscienza ecologica condivisa. Solo in una comunità reale e percepibile, infatti, le persone possono comprendere direttamente le conseguenze delle loro azioni e assumersi responsabilità verso gli altri e verso l’ambiente. Tuttavia Langer avverte che il localismo non è una soluzione automatica. Le comunità locali possono essere altrettanto predatorie se guidate da logiche di profitto immediato (come nel caso del turismo intensivo). La sfida è quindi costruire una democrazia ecologica in cui le scelte sostenibili siano il risultato di una partecipazione consapevole e non di imposizioni autoritarie. Simone Belci, in Dialogare senza preclusioni, sviluppa questi temi mettendo in luce come l’approccio di Langer alla politica rappresenti un antidoto alla deriva conflittuale e polarizzata che caratterizza il dibattito pubblico contemporaneo. L’ecologista altoatesino, con il suo stile pacato, la chiarezza degli argomenti e una certa aura di aristocratica compostezza, si distanziava nettamente dalla violenza verbale e dalla logica dello scontro che oggi dominano i dibattiti televisivi, dove chi dissente viene sistematicamente bollato come bugiardo, stupido o malintenzionato. Questa degenerazione del confronto politico, osserva Belci, non è un’impressione superficiale ma un dato di fatto che si è manifestato trasversalmente negli ultimi anni. Langer, invece, rifiutava l’idea stessa della politica come arena in cui contendersi il potere a tutti i costi, preferendo una concezione del dialogo come strumento per costruire ponti e non barricate. Questo rifiuto della logica del “nemico” non equivaleva a un atteggiamento acritico o accomodante. Langer sapeva essere severo nei confronti di comportamenti meschini o opportunisti ma evitava di cadere nella trappola di demonizzare chi la pensava diversamente. La sua posizione richiedeva un costante sforzo di autocritica e una rinuncia alle comode certezze offerte dall’adesione a un gruppo o a un’ideologia precostituita. Fin dalla giovinezza Langer aveva sperimentato questa tensione in Alto Adige, dove il conflitto tra la comunità tedesca e quella italiana lo spinse a promuovere la fraternizzazione tra le parti, sfidando le narrazioni identitarie che alimentavano l’odio reciproco. La sua formazione cattolica, vissuta con coerenza, lo portava a cercare una sintesi tra universalismo e impegno concreto, rifiutando le semplificazioni manichee. Anche durante la militanza nella sinistra extraparlamentare Langer mantenne una certa distanza dalla mentalità che divide il mondo in blocchi contrapposti, ritenendo che questa logica, anziché favorire il cambiamento, finisse per cristallizzare le posizioni e impedire un reale progresso. Quando contribuì a fondare i Verdi cercò di evitare che il movimento si chiudesse in uno schematismo ideologico che avrebbe limitato la sua capacità di incidere sulla società. Per lui l’emergenza ecologica rendeva anacronistica la ricerca di colpevoli o nemici. Il vero obiettivo doveva essere coinvolgere il maggior numero possibile di persone in un processo di trasformazione culturale. Langer era convinto che per promuovere un cambiamento autentico fosse necessario dialogare con tutti, senza preclusioni, prendendo sul serio le obiezioni altrui e cercando di comprenderne le radici, senza liquidarle come frutto di malafede. Il suo approccio non era ingenuo perché sapeva bene che nel percorso di impegno politico si sarebbero incontrati anche cinici e arrivisti ma anche questi andavano affrontati con argomenti razionali, non bollati come nemici irrecuperabili. La sfida era costruire una cultura “biofila”, capace di coinvolgere persone di buona volontà al di là delle appartenenze politiche. Un episodio emblematico del suo pensiero fu la proposta, nel 1987, di sciogliere i Verdi dopo il loro sorprendente successo elettorale. Langer temeva che il partito, invece di diffondere una coscienza ecologica nella società, si stesse già ripiegando su dinamiche di potere e autoreferenzialità. Per lui la politica doveva essere un mezzo, non un fine. I Verdi avrebbero dovuto rendersi “superflui” una volta assolto il loro compito di sensibilizzazione. La sua idea di solve et coagula (sciogliere e ricomporre) rifletteva una visione dinamica della politica come spazio di confronto e sintesi, in cui le contraddizioni potevano essere affrontate per arrivare a soluzioni più avanzate. Langer rifiutava ogni forma di immobilismo ideologico, preferendo un continuo “andare oltre”, una ricerca di nuove prospettive che evitassero la fossilizzazione delle posizioni. Rifiutava anche la delega in politica. Criticava la tendenza a lasciare l’attività politica ai “professionisti”, sostenendo invece che i cittadini dovessero partecipare attivamente alla vita pubblica. Per i Verdi il rischio era che la gente si limitasse a votarli senza impegnarsi personalmente nella riduzione della propria impronta ecologica. La politica, invece, doveva essere uno spazio di partecipazione e stimolo, non una semplice amministrazione del consenso. La sua visione federalista mirava a creare processi decisionali inclusivi, bilanciando la necessità di entità sovranazionali (come l’UE) per affrontare problemi globali con l’esigenza di ridurre le scale decisionali per favorire la democrazia diretta. Solo a livello locale, infatti, le persone percepiscono concretamente l’impatto delle loro scelte e assumono responsabilità. Langer vedeva nella cura del proprio territorio un principio fondamentale, paragonando l’impegno civico alla saggezza degli indigeni amazzonici che per secoli hanno preservato la foresta garantendo la propria sopravvivenza. La politica doveva creare le condizioni per un cambiamento dal basso, in cui ognuno si facesse carico del proprio “pezzetto di mondo” con attenzione e lungimiranza. La sfera pubblica, sempre più deserta e degradata, avrebbe potuto riacquistare vitalità solo attraverso un coinvolgimento diffuso e responsabile..

In Quattro consigli per un futuro amico Langer parla di come costruire un futuro più vivibile, sostenibile e armonioso partendo da due pilastri fondamentali: la riconciliazione con la natura e la convivenza tra culture diverse. Il saggio si apre con una critica alla superficialità con cui, negli anni passati, il tema ecologico è stato trattato come una moda effimera, svuotato di significato dall’uso strumentale che ne è stato fatto nella pubblicità e nella retorica politica. Langer ricorda il fallimento del vertice di Rio de Janeiro, dove i paesi più ricchi, invece di assumersi responsabilità concrete per ridurre il loro impatto ambientale, hanno eluso impegni significativi, limitandosi a promesse vaghe come “sporcare meno” o “tagliare meno alberi”. Questo atteggiamento rivela una mancanza di volontà politica nel affrontare le vere sfide ecologiche che invece richiederebbero un cambiamento radicale nello stile di vita delle società più sviluppate. La proposta di Langer per una riconciliazione autentica con la natura si basa sul principio di una vita semplice, un concetto che richiama l’imperativo categorico di Kant: agire in modo che le nostre scelte possano essere universalizzabili senza danneggiare il pianeta. In altre parole, se tutti i 5 miliardi di abitanti della Terra di allora avessero consumato e inquinato come fanno i paesi più ricchi il collasso ecologico sarebbe stato inevitabile. Langer invita quindi a ridurre gli sprechi, a rispettare ogni forma di vita e a considerare le risorse naturali come un prestito da preservare per le generazioni future. Questo approccio ha un forte valore etico perché implica un ripensamento dei valori dominanti che oggi premiano il consumo sfrenato e la competizione. Il secondo grande tema affrontato è quello della convivenza tra culture diverse, un aspetto cruciale in un’Europa sempre più multiculturale. Langer mette in guardia contro i rischi dell’epurazione etnica, una tendenza che cerca di omogeneizzare i territori espellendo o marginalizzando chi è diverso per lingua, religione o colore della pelle. Al contrario, propone di sviluppare una cultura del dialogo e dell’ascolto, in cui le differenze non siano viste come minacce ma come opportunità di arricchimento. Sottolinea come, in passato, l’Italia si sia spesso indignata per il razzismo altrui (come i referendum xenofobi in Svizzera o gli attacchi ai migranti in Germania) ma oggi si trovi a fare i conti con le stesse tensioni al proprio interno. La presenza crescente di migranti e minoranze rende la convivenza più complessa e anche più necessaria. Senza una vera apertura all’altro il rischio è quello di una escalation di conflitti etnici e religiosi che Langer definisce metaforicamente come una “Jugoslavia generalizzata”, un incubo di divisioni insanabili. Per tradurre questi principi in azioni concrete propone quattro strategie. La prima è la credibilità delle parole. In un’epoca in cui la distinzione tra informazione e propaganda è sempre più sfumata, l’unico modo per essere credibili è offrire esperienze verificabili, invitando gli altri a “venire e vedere”. La televisione, invece, è uno strumento mediato che spesso distorce la realtà senza possibilità di verifica. Il secondo criterio è quello dei cinque giusti, un riferimento alla storia biblica in cui Abramo cerca di salvare Sodoma e Gomorra chiedendo a Dio di risparmiare la città se vi si fossero trovati almeno cinque giusti. Langer utilizza questa metafora per invitare a cercare alleanze concrete prima di lanciare appelli generici. Se una causa è davvero giusta, deve essere condivisa da altri, altrimenti rischia di essere solo un’illusione. La terza strategia è la stipula di patti e alleanze basati sulla reciprocità. Langer cita l’esempio di Emmaus, un movimento in cui persone emarginate hanno ritrovato dignità attraverso il riciclo dei rifiuti, dimostrando che la solidarietà può trasformare gli esclusi in protagonisti. Questo modello di collaborazione paritaria potrebbe essere applicato su scala più ampia, creando reti tra Nord e Sud del mondo ma anche tra Est e Ovest, superando le divisioni ideologiche del passato. Infine Langer critica la tendenza a separare le solidarietà. Chi è di sinistra spesso sostiene solo il Terzo Mondo mentre chi viene da una tradizione di destra si concentra sull’Est europeo. Propone invece di costruire ponti tra queste realtà, favorendo incontri e collaborazioni tra partner di diverse regioni del mondo. In chiusura del saggio Langer rovescia il motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), simbolo di una civiltà ossessionata dalla competizione e dalla crescita illimitata, proponendo invece un approccio alternativo: lentius, profundius, soavius (più lento, più profondo, più dolce). Questo cambiamento di paradigma non promette vittorie immediate ma offre una visione più sostenibile e umana del futuro, in cui il rispetto per la natura e la convivenza pacifica tra culture diverse diventano i pilastri di una società davvero amica. In Vademecum per l’eco-eletto invece parla di come gli eletti verdi possano operare all’interno delle istituzioni senza perdere la propria identità, riuscendo al contempo a incidere concretamente sulla politica. Il saggio si presenta come una guida pratica e filosofica, ricca di suggerimenti, metafore e avvertimenti che parte dalla consapevolezza che l’ingresso dei verdi nei consigli comunali, regionali o provinciali non rappresenta di per sé una rivoluzione ma deve comunque portare con sé segnali di discontinuità rispetto alla politica tradizionale. Langer sottolinea che, sebbene non ci si debba illudere di poter stravolgere il sistema dall’oggi al domani, è fondamentale che gli eletti verdi dimostrino fin da subito una volontà di cambiamento, sia attraverso gesti simbolici, come i fiori portati in aula dai verdi tedeschi, sia attraverso azioni concrete, come l’istituzione di una postazione fissa in tribuna per diffondere informazioni alla cittadinanza e ai media, mantenendo così un legame costante con la realtà esterna alle istituzioni. Uno dei temi centrali della riflessione è il rischio che gli eletti verdi vengano assimilati dalla macchina amministrativa, perdendo di vista la propria missione originaria. Langer utilizza una metafora efficace per descrivere l’atteggiamento ideale del consigliere verde, ovvero una talpa che lavora nel sottosuolo delle istituzioni e una giraffa che alza lo sguardo per osservare la realtà da una prospettiva più ampia. Per evitare di rimanere intrappolati nelle logiche istituzionali suggerisce di affiancare all’attività formale dei consigli iniziative esterne, come sit-in, raccolte di firme, azioni dimostrative o visite guidate nei luoghi critici della città, come ospedali, carceri, fabbriche, per mantenere un contatto diretto con i problemi reali della gente. Questo approccio ibrido, che combina lavoro istituzionale e mobilitazione dal basso, è visto come la chiave per evitare sia l’integrazione passiva nel sistema sia la sterile opposizione simbolica. Un altro concetto fondamentale è quello della democrazia del conflitto. Langer sostiene che i verdi, pur essendo portatori di valori di pace e sostenibilità, devono rendere visibili i conflitti e le ingiustizie strutturali che il sistema tende a nascondere o a spostare altrove, sia nel tempo (posticipando i costi ambientali) che nello spazio (esportando i problemi nei paesi più poveri). In questo senso azioni di disobbedienza civile o di conflitto simbolico possono essere più efficaci delle mozioni formali per smuovere le coscienze e ottenere cambiamenti reali, soprattutto in contesti come l’accessibilità per disabili e anziani, dove le logiche istituzionali spesso falliscono. Langer insiste molto anche sull’autonomia dei verdi che non devono limitarsi a fare da supporto a forze politiche maggiori ma devono elaborare proposte originali, mantenendo una libertà di movimento trasversale. Allo stesso tempo ricorda che i verdi non sono un partito tradizionale e che la loro legittimazione deriva dalla capacità di rappresentare non solo i militanti più impegnati ma anche i cittadini comuni che li hanno votati. Per questo è fondamentale mantenere un filtro diretto con la gente, attraverso strumenti come radio locali, incontri pubblici o media tradizionali, evitando di chiudersi in logiche di gruppo ristretto. La sfida è trovare un equilibrio tra il coinvolgimento dei militanti, indispensabile per la continuità dell’azione politica, e l’apertura verso chi non partecipa attivamente ma ha contribuito con il proprio voto. Sul piano organizzativo suggerisce di creare gruppi di lavoro permanenti su temi specifici, ad esempio traffico, inquinamento, antimilitarismo, aperti al contributo di esperti e cittadini ma evitando di trasformarli in commissioni burocratiche. L’obiettivo è elaborare proposte concrete, supportate da una solida documentazione (archivi, pubblicazioni, strumenti informatici). L’organizzazione verde, secondo lui, deve puntare a coinvolgere nuove persone, valorizzando l’autonomia individuale e privilegiando l’azione rispetto alla sola discussione. Nominare responsabili per specifiche funzioni (portavoce, coordinatori) può essere utile, purché ci sia un ricambio periodico che eviti la cristallizzazione delle gerarchie. Sul tema della rotazione degli eletti Langer assume una posizione pragmatica. Non la considera un dogma irrinunciabile ma riconosce che può avere un valore innovativo, rigenerando la classe politica e dando spazio a nuove figure. Tuttavia avverte che il dibattito sulla rotazione non deve diventare un’ossessione, come accaduto in Germania, dove ha finito per distogliere l’attenzione dai contenuti concreti dell’azione politica. In chiusura Langer lancia un monito cruciale. I verdi non devono farsi assimilare dalle istituzioni, diventando indistinguibili dai politici tradizionali. Ogni eletto deve porsi periodicamente una domanda radicale: sono riuscito a cambiare qualcosa o sono stato cambiato io? La sfida è mantenere viva la tensione tra l’essere dentro le istituzioni e il restare fedeli alle proprie radici, senza cadere nella trappola della carriera politica fine a sé stessa. Questi aspetti del pensiero politico di Langer vengono ripresi da Marianella Sclavi nel saggio Per una gestione creativa dei conflitti. Langer è letto come una figura anticipatrice di un nuovo paradigma democratico fondato sul dialogo, l’ascolto attivo e la trasformazione costruttiva dei conflitti. Già alla fine degli anni ’80 criticava la struttura tradizionale dei partiti politici, compreso il PCI, per la loro rigidità identitaria e la separazione dalla società civile. In un articolo del 1989 pubblicato su L’Unità, intitolato Solve et coagula, Langer proponeva di superare la logica della contrapposizione politica a favore di un approccio dialogico, in cui la diversità non fosse motivo di scontro ma un’opportunità per elaborare soluzioni innovative e condivise. Sclavi evidenzia come Langer si inserisse in una tradizione di pensiero che include figure come Martin Buber, Simone Weil e Kurt Lewin, teorici di un modello di comunicazione basato non sull’argomentazione competitiva (dove vince chi ha la tesi più forte) ma su un dialogo autentico, capace di mettere in discussione le premesse implicite di ciascuno. In questo senso Langer considerava i partiti politici tradizionali come ostacoli alla democrazia quando si tratta di affrontare questioni complesse, come quelle interetniche o ambientali, che richiedono flessibilità e creatività. La sua proposta era quella di trasformare la politica in un’”impresa con obiettivi precisi e tempi definiti”, abbandonando la logica degli schieramenti fissi per favorire coalizioni temporanee e progetti concreti. Uno dei suoi contributi più originali fu il suo metodo “proattivo”, basato su tre consapevolezze fondamentali: l’ascolto attivo (capacità di accogliere veramente le posizioni altrui), la gestione creativa dei conflitti (ricerca di soluzioni che vadano oltre il compromesso) e l’auto-consapevolezza emotiva (riconoscere le proprie reazioni per evitare polarizzazioni automatiche). Questi principi, applicabili a livello individuale, gruppale e istituzionale, emergono chiaramente nei suoi scritti. Nel Piccolo vademecum dell’eco-eletto, per esempio, Langer invitava i rappresentanti politici a evitare due trappole opposte: l’adattamento passivo alle logiche istituzionali e il rifiuto sterile delle regole. La via d’uscita era un atteggiamento ironico e insieme determinato, capace di moltiplicare le opzioni invece di fossilizzarsi su false alternative. Sclavi sottolinea come Langer rifiutasse la logica binaria del dibattito politico (giusto/sbagliato, vincitore/perdente) a favore di un approccio plurale, in cui si esplorano tutti i lati di una questione, non solo due. Per illustrare questa differenza Sclavi riporta una tabella che contrappone il dibattito (finalizzato a dimostrare la superiorità di una tesi) al dialogo (volto a costruire una comprensione condivisa). Edward De Bono, teorico del pensiero laterale, viene citato per criticare l’eccessiva fiducia nelle dinamiche argomentative, tipiche non solo della politica ma anche del sistema giudiziario e scientifico. Langer, d’accordo con questa critica, riteneva che le istituzioni stesse incoraggiassero la polarizzazione, anziché la collaborazione. A livello gruppale proponeva la creazione di contesti di mutuo apprendimento, dove le persone potessero confrontarsi senza timore di essere giudicate. Sclavi richiama qui gli studi di Kurt Lewin sul cambiamento sociale, secondo cui per modificare abitudini radicate è necessario prima “scongelare” le norme implicite del gruppo, poi introdurre innovazioni, e infine consolidarle in nuove pratiche condivise. Allo stesso modo Dietrich Bonhoeffer aveva osservato che la “stupidità” è spesso un fenomeno sociale, legato alla pressione del gruppo verso il conformismo. Langer applicava queste intuizioni alla politica, sostenendo che solo in un clima di fiducia e accoglienza reciproca è possibile elaborare soluzioni creative. A livello macro Langer immaginava una democrazia deliberativa più partecipativa, in cui i cittadini fossero coinvolti nelle decisioni, nella raccolta di informazioni e nell’implementazione delle politiche. Criticava sia la democrazia rappresentativa tradizionale (troppo distante dai bisogni reali) sia il referendum (troppo riduttivo), proponendo invece un sistema di “libera navigazione” tra istituzioni e società civile, con incontri aperti, sopralluoghi condivisi e un filo diretto permanente tra eletti e cittadini. 

Alex Langer in Pace e nuovo ordine mondiale discute del ruolo dei movimenti per la pace in un contesto globale segnato da conflitti e crisi ricorrenti. Egli sostiene che tali movimenti non possono limitarsi a reagire alle emergenze ma devono elaborare proposte strutturate e preventive, capaci di offrire alternative credibili alla guerra. Langer osserva come, soprattutto nell’Europa orientale, sia emersa una forte esigenza di giustizia e principi saldi, tanto che figure come Václav Havel hanno giustificato interventi militari (come quello contro l’Iraq nel 1990) come “dolorose necessità” in mancanza di opzioni migliori. Per evitare di legittimare le cosiddette “guerre giuste” Langer invita a sviluppare strategie innovative basate su due grandi antinomie, sovranità/ingerenza e nonviolenza/forza obbligante del diritto che rappresentano tensioni irrisolte ma su cui è necessario lavorare. La prima antinomia riflette il conflitto tra il principio di autonomia degli Stati e la necessità di interventi esterni per proteggere i diritti umani e l’ambiente. Langer riconosce che la sovranità statale è una conquista storica ma non può essere considerata un valore assoluto, specialmente quando ostacola la tutela di beni universali come la dignità umana o l’equilibrio ecologico. Tuttavia l’ingerenza non deve essere esercitata unilateralmente da singoli Stati poiché rischierebbe di trasformarsi in un’imposizione del più forte. Piuttosto dovrebbe essere affidata a organismi internazionali o alla società civile, in modo da garantire legittimità e proporzionalità. Langer cita ad esempio il ruolo delle organizzazioni non governative nel monitorare e denunciare violazioni, sottolineando come l’intervento dei cittadini possa essere più efficace di quello degli Stati nel promuovere cambiamenti duraturi. La seconda antinomia affronta il dilemma di come far rispettare le norme internazionali senza ricorrere alla violenza militare. Langer propone una serie di strumenti alternativi, tra cui sanzioni economiche e diplomatiche, tribunali internazionali con poteri vincolanti e operazioni di polizia sovranazionale, distinte dalla guerra tradizionale per la loro natura limitata e finalizzata al ripristino dell’ordine piuttosto che alla sconfitta di un nemico. Un’idea particolarmente originale è quella di un’”uscita di sicurezza” garantita a chi, dopo aver violato il diritto, sia disposto a ritirarsi senza ulteriore spargimento di sangue, evitando così l’escalation di violenza. Langer insiste sulla necessità di sviluppare un arsenale di pressioni non militari, come il boicottaggio culturale o sportivo, che possano essere applicate non solo dagli Stati ma anche da attori non istituzionali, dimostrando che la forza del diritto non dipende necessariamente dalle armi. Oltre a queste riflessioni teoriche, offre indicazioni pratiche per i movimenti per la pace, invitandoli a superare la logica delle semplici proteste e a impegnarsi in azioni concrete. Tra queste l’uso strategico dell’informazione come strumento di pressione. Diffondere notizie accurate può destabilizzare regimi oppressivi più efficacemente di un intervento armato, come dimostrano i casi di mobilitazione internazionale contro regimi autoritari. Un altro aspetto cruciale è la costruzione di reti interetniche e interculturali, capaci di dimostrare che la convivenza è possibile anche in contesti divisi. Langer cita esperienze come il kibbutz di Neve Shalom, dove ebrei e palestinesi vivono insieme, o le “donne in nero”, un movimento di israeliane e palestinesi che si battono per la pace. Questi esempi, seppur piccoli, hanno un valore simbolico enorme, mostrando che i conflitti non sono inevitabili. Un’ulteriore proposta è quella di creare “watch-groups” sul modello di Amnesty International, gruppi dedicati a monitorare situazioni critiche e a mantenere alta l’attenzione internazionale. Langer sottolinea anche l’importanza di adottare una prospettiva globale, evitando di concentrarsi solo su alcune aree del mondo e cercando invece di integrare in ogni azione una visione che coinvolga Nord, Sud ed Est, per evitare unilateralismi che possano distorcere la percezione delle crisi. Anna Bravo in Prevenire la guerra e ricostruire gli spazi di dialogo approfondisce e attualizza il pensiero di Langer, concentrandosi in particolare sull’efficacia della nonviolenza come strumento di trasformazione sociale. Attraverso una ricca documentazione storica Bravo dimostra che le resistenze civili hanno avuto successo nel 59% dei casi contro regimi oppressivi, contro il 27% delle lotte armate, citando gli studi di Chenoweth e Stephan. Questi dati smentiscono il pregiudizio secondo cui la nonviolenza sarebbe inefficace, mostrando anzi che essa favorisce transizioni più stabili e meno sanguinose. Bravo critica chi considera la nonviolenza un’utopia irrealizzabile, ricordando come Langer stesso, pur fermamente contrario alla guerra, abbia sostenuto durante il conflitto jugoslavo la necessità di un’autorità internazionale capace di usare la forza in modo mirato, come una polizia globale. Questa posizione, che lo mise in minoranza tra i pacifisti più radicali, rifletteva la sua attenzione alle vittime e la ricerca di soluzioni pratiche, anche quando comportavano compromessi difficili. Bravo parla di “facitori di pace”, figure spesso dimenticate che operano nell’ombra per salvare vite e costruire ponti tra comunità divise. Esempi storici come le tregue spontanee tra soldati nella Prima guerra mondiale, momenti in cui nemici cessavano il fuoco per seppellire i morti o festeggiare il Natale, dimostrano che la violenza non è inevitabile, nemmeno in contesti estremi. Bravo racconta anche di mediatori durante le guerre jugoslave, che rischiarono la vita per proteggere civili di etnia diversa, sfidando la logica della pulizia etnica. Queste storie, spesso ignorate dalla grande storia, mostrano che alternative alla violenza esistono, anche quando sembrano impossibili. Bravo porta inoltre esempi contemporanei, come quello di Ingrid Loyau-Kennet, che nel 2013 a Londra fermò un attentatore parlandogli con calma e razionalità, distogliendolo dal compiere altre stragi, o dei lavoratori tunisini che nel 2015 si opposero a un terrorista sulla spiaggia di Sousse, proteggendo i turisti e dicendogli che avrebbe dovuto uccidere loro prima, essendo musulmani come lui. Questi gesti, spesso invisibili ai media, rivelano che la nonviolenza può “funzionare” anche negli scenari più imprevedibili e drammatici, non come soluzione definitiva ai conflitti globali ma come strumento per salvare vite e preservare spazi di umanità. 

3. La centralità della questione ecologica

Langer in Debiti con la natura. Ecodebito, bisogna imparare a fare i conti con l’oste analizza il rapporto tra l’umanità e l’ambiente evidenziando come il modello di sviluppo industriale abbia portato a un sovrasfruttamento delle risorse naturali tale da generare un ecodebito insostenibile. Il politico altoatesino parte da una metafora finanziaria per descrivere la gravità della situazione: se in passato l’uomo consumava solo gli “interessi” della natura, cioè le risorse rinnovabili che il pianeta poteva rigenerare, oggi sta erodendo il “capitale”, ovvero quelle risorse non rinnovabili e quei sistemi ecologici che, una volta compromessi, non possono essere recuperati. Questo cambiamento epocale è avvenuto in un contesto in cui tutto viene mercificato e misurato in termini economici ma Langer avverte che la crisi ecologica non può essere risolta con la stessa logica che l’ha generata. Fino a qualche decennio fa la natura dimostrava una straordinaria capacità di resilienza, infatti catastrofi, inquinamento e alterazioni ambientali venivano in gran parte assorbiti o compensati dai cicli naturali. Oggi, invece, il pianeta assomiglia sempre meno a un organismo in grado di autoripararsi e sempre più a un sistema malato, prossimo al collasso. Langer sottolinea come i danni inflitti all’ambiente non siano più episodici ma sistemici e interconnessi. L’inquinamento (non solo radioattivo ma anche chimico e industriale), la deforestazione su larga scala, l’accelerazione dell’effetto serra, la cementificazione del suolo, la perdita di fertilità della terra a causa dell’agricoltura intensiva e dell’uso massiccio di pesticidi, la contaminazione di aria, acqua e suolo, questi fenomeni non agiscono in modo isolato in quanto si rafforzano a vicenda, creando un circolo vizioso di degrado che rende sempre più fragile l’equilibrio ecologico globale. La civiltà industriale, guidata dalla logica del profitto e dell’espansione illimitata, ha stravolto i cicli naturali che per millenni hanno regolato la vita sul pianeta. Processi che un tempo erano circolari e sostenibili, come il ciclo delle stagioni, la rigenerazione delle acque, la biodiversità agricola, sono stati forzati e resi irreversibilmente lineari. Langer parla della drastica riduzione della varietà di sementi, sostituite da poche specie selezionate per la produttività industriale, o l’immissione nell’ambiente di migliaia di sostanze tossiche e radioattive che permarranno nella biosfera per secoli. Queste alterazioni sono vere e proprie mutazioni irreversibili che segnano una rottura storica nel rapporto tra uomo e natura. Proprio per descrivere questa situazione Langer introduce il concetto di ecodebito. L’umanità sta vivendo al di sopra delle possibilità ecologiche del pianeta, accumulando un debito che non potrà mai essere ripagato se non cambiando radicalmente modello di sviluppo. Ma a differenza di un debito finanziario, che può essere rinegoziato, dilazionato o addirittura cancellato, l’ecodebito ha conseguenze immediate e ineludibili. E soprattutto il suo peso non viene distribuito equamente, infatti viene scaricato sui più poveri (che subiscono gli effetti del degrado ambientale senza averne i benefici), sui Paesi del Sud del mondo (che diventano discariche dei rifiuti industriali e delle produzioni più inquinanti delle nazioni ricche) e sulle generazioni future (che erediteranno un pianeta impoverito e contaminato). Langer parla di “insolvenza fraudolenta” perché, mentre i Paesi industrializzati continuano a consumare risorse come se fossero infinite, ne trasferiscono il costo a chi non ha voce in capitolo. Osserva anche che nel sistema finanziario i grandi debitori possono contare sul loro potere per ottenere condizioni vantaggiose ma l’ecodebito non ammette compromessi. La natura non accetta rinvii. Gli effetti di questo sovrasfruttamento stanno già tornando indietro come un boomerang sotto forma di crisi idriche, aumento delle malattie legate all’inquinamento, destabilizzazione climatica. Di fronte a questa emergenza Langer avanza una proposta radicale: l’umanità deve porsi come priorità assoluta il “ripianamento dell’ecodebito”, partendo da chi ha maggiori responsabilità storiche, cioè i Paesi ricchi e industrializzati. Questo richiederebbe un cambio di paradigma economico. Occorre smettere di considerare la crescita illimitata come un obiettivo e iniziare a misurare il benessere in base alla sostenibilità ecologica. Langer critica l’assurdità dei bilanci economici contemporanei che calcolano con precisione i flussi finanziari ma ignorano completamente il “bilancio ecologico”. Propone quindi l’introduzione di “eco-bilanci” paralleli a quelli finanziari in cui vengano registrati non solo i costi e i benefici economici ma anche quelli ambientali. In questo nuovo sistema contabile, ad esempio, il ripristino di un terreno agricolo alla coltivazione biologica verrebbe considerato un’”entrata” mentre la produzione di milioni di automobili private una “perdita”, data la loro impronta ecologica insostenibile. Un altro paradosso denunciato da Langer è quello del debito finanziario del Terzo Mondo. I Paesi ricchi, che sono i maggiori debitori ecologici, si presentano come creditori dei Paesi poveri, costringendoli a svendere le loro risorse naturali per ripagare un debito monetario. Questo meccanismo perverso aggrava ulteriormente la crisi ambientale perché spinge i Paesi del Sud a deforestare, inquinare e impoverire i loro ecosistemi pur di generare valuta per pagare gli interessi. Langer suggerisce che la cancellazione del debito finanziario del Sud del mondo, in cambio di politiche di tutela ambientale, sarebbe vantaggiosa per tutti perché fermerebbe la spirale distruttiva dell’ecodebito globale. Damiani in Quale equilibrio fra uso delle risorse e rigenerazione sviluppa la relazione tra ecologia ed economia partendo dal presupposto che l’Unione Europea, nel valutare la sostenibilità di progetti e politiche, integri aspetti economici, ecologici e sociali, rifacendosi alla definizione di sviluppo sostenibile coniata nel Rapporto Brundtland del 1987. Nonostante decenni di dibattiti internazionali, dalla Conferenza di Rio del 1992 a quella di Johannesburg del 2002, il concetto di “sviluppo sostenibile” rimane ambiguo, con oltre 150 interpretazioni diverse in letteratura. Spesso il termine viene ridotto a un ossimoro, svuotato del suo significato originario, tanto che molti preferiscono parlare di “sostenibilità” o “futuro sostenibile” per evitare fraintendimenti. Per fornire un quadro scientificamente solido, l’economista Herman Daly ha elaborato nel 1991 tre principi cardine della sostenibilità: rigenerazione, ricettività ambientale e sostituzione delle risorse non rinnovabili con quelle rinnovabili. Sebbene questi criteri godano di ampio consenso teorico, la loro applicazione concreta è ancora limitata. Il principio di rigenerazione afferma che il prelievo di risorse rinnovabili (come legname o pesce) non deve superare la loro capacità di rigenerarsi. Un’economia che sfrutta più di quanto la natura possa rigenerare consuma il “capitale naturale” anziché vivere dei suoi “interessi”. Damiani sottolinea che, in un’ottica ecologica, il prelievo dovrebbe essere ancora più cauto poiché gli ecosistemi svolgono funzioni vitali che vanno ben oltre l’utilità diretta per l’uomo. Ad esempio le foreste non solo forniscono legname ma regolano il clima, proteggono il suolo dall’erosione, mantengono la biodiversità, filtrano l’acqua e contribuiscono al ciclo dei nutrienti. Pertanto solo una parte delle risorse ecosistemiche dovrebbe essere sfruttata mentre il resto dovrebbe essere preservato per garantire la stabilità degli ecosistemi. Il principio di ricettività ambientale stabilisce che l’immissione di rifiuti nell’ambiente non deve superare la capacità degli ecosistemi di metabolizzarli. Ciò implica che i rifiuti devono essere biodegradabili e non tossici. Pensiamo all’inquinamento organico nelle acque che può essere smaltito naturalmente se non si esaurisce l’ossigeno disciolto mentre un eccesso di azoto e fosforo, seppur essenziali per la vita, provoca eutrofizzazione, portando alla morte degli ecosistemi acquatici. Il principio di sostituzione prevede che l’uso di risorse non rinnovabili (come petrolio, metalli rari o minerali) sia compensato dall’adozione di alternative rinnovabili, promuovendo il riuso, il riciclo e l’innovazione tecnologica. Damiani ricorda che la progressiva sostituzione di materiali tossici e non degradabili con alternative biodegradabili potrebbe facilitare la transizione verso un’economia circolare. L’economia presenta un grave limite, essa valuta solo ciò che ha un prezzo di mercato, ignorando il valore intrinseco di molti elementi ecologici. Come quantificare il valore di un insetto impollinatore, di una specie in via d’estinzione o dell’integrità di un ecosistema? Questa miopia economica porta a distorsioni, come la sottovalutazione dei danni ambientali nei risarcimenti legali, dove un ecosistema distrutto viene spesso valutato solo in base al costo della bonifica, senza considerare le perdite irreversibili di biodiversità e funzionalità ecologica. Per ovviare a queste criticità, sono stati introdotti principi giuridici come quello di precauzione (che impone di agire anche in assenza di certezze scientifiche quando un’attività potrebbe causare danni gravi) e di prevenzione (che mira a evitare i danni ambientali eliminando le fonti di rischio). Altri strumenti includono il principio di integrazione (che richiede valutazioni ambientali in tutte le politiche pubbliche) e quello di correzione alla fonte (che impone di intervenire direttamente all’origine dell’inquinamento). Nonostante questi strumenti, il modello di sviluppo attuale, basato sulla crescita illimitata e sullo sfruttamento indiscriminato delle risorse, ha portato a una crisi ecologica globale. Si prelevano più risorse di quanto gli ecosistemi possano rigenerare, si consumano risorse non rinnovabili fino all’esaurimento e si immettono nell’ambiente quantità eccessive di rifiuti tossici. Le conseguenze sono già visibili: cambiamenti climatici, eventi meteorologici estremi, collasso della biodiversità e crisi idriche e alimentari. Una delle minacce più urgenti deriva dallo squilibrio nei cicli biogeochimici di elementi essenziali come carbonio, azoto e fosforo. L’eccesso di CO₂ nell’atmosfera (superiore a 400 ppm, rispetto ai 280 ppm dell’era preindustriale) ha alterato il clima mentre l’azoto e il fosforo, sebbene vitali per l’agricoltura, inquinano le acque, provocando eutrofizzazione e zone morte negli oceani. Inoltre le riserve globali di fosforo, indispensabili per i fertilizzanti, si esauriranno entro questo secolo, minacciando la sicurezza alimentare. Damiani propone soluzioni radicali: recuperare nutrienti dai rifiuti organici, abbandonare le fognature tradizionali in favore di sistemi a compostaggio e ripristinare cicli naturali. Sottolinea che il vero pericolo non è la fine del petrolio, per cui esistono alternative rinnovabili, ma il superamento dei limiti delle “cose buone” (acqua, carbonio, azoto, fosforo), fondamentali per la vita.  

Alex Langer in Perdersi per ritrovarsi, la Terra in prestito dai nostri figli parla della crisi ecologica e sociale generata dall’accelerazione incontrollata del modello industriale e consumistico, evidenziando come questa abbia stravolto il rapporto tra l’uomo e la natura, tra il presente e il futuro. La sua analisi parte dalla constatazione che, a partire dalla rivoluzione industriale, il sistema economico basato sul mercato e sulla produzione illimitata ha imposto una crescente “velocizzazione” della vita, alterando radicalmente i ritmi naturali e i criteri di valore delle cose. Se un tempo il valore di un bene era legato alla sua utilità concreta e alla difficoltà di produrlo, oggi è determinato da logiche di mercato totalmente artificiali che assegnano “prezzi” slegati dal reale valore dei beni, come dimostrerebbe la loro inconsistenza in situazioni di emergenza, dove tornano a contare solo le necessità primarie. Questa corsa sfrenata verso un progresso sempre più rapido e distruttivo ha portato a una situazione paradossale. In passato l’umanità lottava per sopravvivere alle avversità della natura, oggi è la natura a non riuscire più a difendersi dall’uomo. Langer sottolinea come ogni gesto quotidiano, apparentemente insignificante, l’acquisto di un’automobile, l’uso di una bomboletta spray, l’accumulo di rifiuti non biodegradabili, contribuisca a un processo di degrado ambientale che si avvicina pericolosamente alla soglia dell’irreversibilità. L’inquinamento, la deforestazione, la cementificazione, l’inquinamento chimico e nucleare non sono più danni circoscritti ma minacce globali che si alimentano a vicenda in un effetto sinergico devastante. Langer parla di “impatto generazionale”, ovvero la consapevolezza che le scelte della generazione presente condizioneranno in modo irreversibile il destino di quelle future. Se in epoche passate gli effetti delle azioni umane erano limitati nel tempo e nello spazio (un disboscamento poteva danneggiare una regione ma non l’intero ecosistema planetario), oggi l’umanità ha acquisito un potere distruttivo senza precedenti, al punto da poter compromettere la stessa sopravvivenza delle generazioni a venire. Langer si riferisce alla contaminazione radioattiva, che persiste per millenni, alla scomparsa delle foreste pluviali, fondamentali per la biodiversità e il clima o alla creazione di organismi geneticamente modificati che potrebbero alterare irreparabilmente gli equilibri biologici. Di fronte a questa situazione le risposte proposte sono spesso estreme e inefficaci. Da un lato c’è chi invoca un ritorno a un’austerità imposta, un’etica della rinuncia motivata dalla paura del collasso ecologico, dall’altro, prevale un atteggiamento di rassegnazione o addirittura di accelerazione dello spreco, con la logica del “tanto ormai è finita, godiamoci quello che resta”. Langer critica entrambe le posizioni. La paura, infatti, non è una forza duratura per il cambiamento mentre la rassegnazione è autodistruttiva. Allo stesso tempo respinge con forza le soluzioni autoritarie, come l’ecodittatura o la pianificazione coercitiva dei consumi, perché la storia dimostra che i regimi illiberali, anche quando si propongono obiettivi nobili, finiscono per concentrare il potere in poche mani senza risolvere i problemi reali. La vera alternativa, secondo Langer, sta in un percorso di autolimitazione consapevole, ispirato al principio “perdersi per ritrovarsi”. Questo non significa rinunciare al progresso in nome di un futuro ipotetico ma ridefinire il concetto stesso di benessere, trovando un equilibrio tra le esigenze del presente e la responsabilità verso il futuro. Il motto ecologista “la Terra ci è stata prestata dai nostri figli” sintetizza questa visione: non siamo proprietari del pianeta ma custodi temporanei e le nostre azioni devono tenere conto di chi verrà dopo di noi. Affinché questa autolimitazione funzioni non può basarsi solo su un astratto senso del dovere o sulla paura del disastro. Deve invece radicarsi in una spiritualità della sobrietà, in un cambiamento culturale che faccia percepire la rinuncia agli eccessi non come una privazione ma come un arricchimento. Langer insiste sul fatto che la motivazione per un cambiamento sostenibile non può venire solo da proiezioni apocalittiche o da moralismi ma deve trovare radici nel presente, in un nuovo modo di vivere che sia già gratificante in sé. Ad esempio, ridurre l’uso dell’auto privata non deve essere visto solo come un sacrificio per il clima ma come un’opportunità per riscoprire il piacere di camminare, di usare mezzi più lenti ma più umani, di riappropriarsi del tempo e dello spazio. Allo stesso modo una dieta meno carnivora può essere un’occasione per riscoprire sapori dimenticati e una relazione più sana con il cibo. “Perdersi” (rinunciando alla logica dell’accumulo, della velocità, del dominio sulla natura) diventa un modo per “ritrovarsi”, per riconquistare un’esistenza più autentica e appagante.  

La sfida politica, conclude Langer, è trovare il modo di tradurre questa consapevolezza in scelte collettive, superando la miopia dei cicli elettorali e degli interessi particolari. Servono meccanismi che permettano di valutare l’impatto generazionale delle decisioni, introducendo limiti democraticamente concordati allo sfruttamento delle risorse. Ma perché ciò avvenga è necessario un profondo cambiamento culturale che renda evidente a tutti che la vera posta in gioco non è solo la sopravvivenza dei nostri figli ma la qualità della nostra stessa vita, qui e ora. Solo unendo “egoismo intelligente” (il desiderio di vivere meglio oggi) e altruismo generazionale (la cura per il domani) si potrà costruire un futuro davvero sostenibile.

Gianni Tamino in Biodiversità e clima, le politiche globali e le pratiche locali virtuose descrive le interconnessioni tra perdita di biodiversità, cambiamenti climatici e modelli economici insostenibili, proponendo alternative basate su una visione etica e sistemica della relazione tra uomo e ambiente. Tamino mette a confronto le idee di Alexander Langer e l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco, evidenziando come entrambi abbiano anticipato concetti oggi centrali nel dibattito ecologista, come la “conversione ecologica” e la necessità di una “decrescita” economica. Langer, già negli anni ’80 e ’90, parlava di un cambiamento radicale nel modo di vivere e produrre, introducendo l’idea che la Terra non sia un’eredità da sfruttare ma un prestito delle generazioni future. Questo concetto, spesso attribuito ai nativi americani, era stato ripreso anche dall’ambientalista Wendell Berry che lo legava a una visione etica della sostenibilità. Tamino sottolinea come Langer avesse colto con lucidità il paradosso della crisi ambientale: da un lato l’urgenza di ridurre l’impatto generazionale delle attività umane, dall’altro la necessità di evitare un approccio catastrofista che rischia di paralizzare l’azione collettiva. Langer proponeva invece una “autolimitazione” vantaggiosa sia per il futuro che per il presente, come ad esempio la riduzione dell’uso dell’auto privata a favore del trasporto pubblico che migliora immediatamente la qualità dell’aria e riduce le emissioni di gas serra. Tamino prosegue descrivendo l’aggravarsi della crisi ecologica negli ultimi decenni, con dati allarmanti sul riscaldamento globale e sulla perdita di biodiversità. Citando i rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), spiega che, anche con una drastica riduzione delle emissioni, un aumento di 2°C della temperatura media globale è ormai inevitabile mentre senza interventi si potrebbe arrivare a +5°C entro fine secolo, con conseguenze disastrose per gli ecosistemi e le società umane. Parallelamente la biodiversità sta subendo un collasso senza precedenti. Il tasso di estinzione delle specie è oggi tra 100 e 1000 volte superiore a quello storico, tanto che gli scienziati parlano di una “sesta estinzione di massa”, la prima causata direttamente dall’uomo. Secondo l’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), oltre 7.000 specie animali e 60.000 vegetali sono a rischio, con un impatto irreversibile sugli equilibri ecologici. Per misurare l’impatto delle attività umane Tamino introduce due strumenti fondamentali. Il primo è l’impronta ecologica che calcola la superficie terrestre necessaria a sostenere i consumi di un individuo o di una popolazione mentre il secondo è l’overshoot day che indica il giorno dell’anno in cui l’umanità esaurisce le risorse rinnovabili disponibili. Questi indicatori rivelano squilibri drammatici. Un cittadino statunitense consuma risorse equivalenti a 14 afgani e l’overshoot day, che nel 1986 coincideva con il 31 dicembre, oggi cade già a metà agosto, segnalando che per gran parte dell’anno viviamo “a credito”, erodendo il capitale naturale. La radice di questa insostenibilità, secondo Tamino, sta nel modello economico lineare dominante, basato sull’estrazione indiscriminata di risorse (sia fossili che rinnovabili), sulla produzione di merci effimere e sull’accumulo di rifiuti. Anche le risorse rinnovabili, come i pesci o le foreste, vengono sfruttate a ritmi superiori alla loro capacità di rigenerazione, portando al collasso degli ecosistemi. L’agricoltura industriale, ad esempio, privilegia la produttività a scapito della qualità e della sostenibilità, contribuendo alla deforestazione, all’inquinamento e alle emissioni di gas serra (gli allevamenti intensivi sono tra i principali responsabili del metano in atmosfera). Tamino critica duramente l’inerzia dei governi e delle istituzioni internazionali, spesso condizionati dalle lobby delle multinazionali, in particolare quelle del petrolio. Nonostante decenni di conferenze e accordi sul clima le emissioni continuano a crescere e le risposte alla crisi economica si limitano a promuovere ulteriore crescita e consumo, aggravando la crisi ecologica. Di fronte a questo fallimento Tamino individua nelle pratiche locali e nelle alternative dal basso una possibile via d’uscita: gruppi di acquisto solidale, banche del tempo, cohousing, agricoltura biologica e filiere corte sono esempi di un’economia più giusta e sostenibile che privilegia i beni comuni e la gestione condivisa delle risorse.  

Il legame tra economia e ambiente viene ripreso da Alex Langer in Quando l’economia uccide, dove sviluppa una riflessione ampia e articolata che parte dalla commemorazione dell’Olocausto come monito universale per esplorare le molteplici crisi del mondo contemporaneo. La sua analisi si snoda attraverso diversi livelli, mostrando come la civiltà industrializzata abbia generato forme di disumanizzazione non meno pericolose di quelle del passato, anche se più sottili e sistemiche. Langer osserva con preoccupazione la velocità con cui procede la distruzione ambientale rispetto ai tempi necessari per la rigenerazione naturale, evidenziando come l’abbattimento di un albero che ha impiegato decenni a crescere avvenga in pochi minuti o come le risorse ittiche accumulate per millenni vengano depredate in pochi decenni. Questo squilibrio temporale tra distruzione e ricostruzione rappresenta una delle grandi sfide del nostro tempo che rischia di generare un senso di impotenza e scoraggiamento in chi cerca di impegnarsi per un cambiamento. Parallelamente Langer analizza la crisi della politica, in particolare in Italia, dove un sistema un tempo caratterizzato da alta partecipazione civica si è progressivamente trasformato in un meccanismo di affarismo e spettacolarizzazione. La degenerazione della vita pubblica si manifesta sia nella riduzione della politica a mera competizione per il potere e gli interessi personali, sia nella sua trasformazione in intrattenimento mediatico, dove conta più l’immagine che le idee. A questa crisi istituzionale si aggiunge il crollo delle grandi narrazioni che per decenni hanno dato senso all’agire collettivo: il mito del progresso, l’idea di nazione, le speranze nel sovranazionalismo, persino la fiducia nel mercato come regolatore universale. Tutto questo lascia un vuoto che viene riempito da nazionalismi aggressivi, fondamentalismi e nuove forme di individualismo sfrenato. Per comprendere le radici di queste crisi Langer si rifà alla teoria degli “idola” di Bacone, riadattandola alla contemporaneità. Gli idoli del foro rappresentano la mercificazione totale dell’esistenza, dove tutto, persino il corpo umano e i rapporti sociali, viene ridotto a merce e il denaro diventa l’unico valore riconosciuto. Gli idoli del teatro incarnano la tirannia dell’immagine, per cui solo ciò che è spettacolare e mediaticamente appetibile ha diritto di cittadinanza, svuotando la politica e la cultura di ogni autenticità. Gli idoli della tribù manifestano la deriva identitaria che alimenta nazionalismi e razzismi, contrapponendo in modo violento un “noi” a un “loro”. Gli idoli della caverna, infine, rappresentano l’illusione di onnipotenza tecnologica, la convinzione che si possa manipolare la natura senza conseguenze, ignorando i limiti fisici del pianeta. Di fronte a questo scenario Langer propone una via di ricostruzione che passa attraverso la rivalutazione delle comunità locali, non come chiusure identitarie ma come luoghi di radicamento in una storia e una cultura condivisa. L’arte della convivenza diventa essenziale in un mondo sempre più interconnesso e multiculturale, dove l’alternativa alla violenza etnica è l’apprendimento di una convivenza rispettosa delle differenze. La semplicità, intesa come scelta di valori alternativi alla competizione sfrenata, rappresenta un altro pilastro di questa trasformazione. La lentezza contro la velocità distruttiva, la profondità contro la crescita quantitativa, la dolcezza contro l’aggressività. Langer conclude con un richiamo all’imperativo kantiano dell’universalizzazione, suggerendo che ogni nostra azione dovrebbe essere valutata in base alla sua moltiplicabilità per l’intera popolazione mondiale. Questa prospettiva rivela l’insostenibilità di molti nostri comportamenti e indica la necessità di un cambiamento radicale nell’organizzazione economica e sociale. Edvige Ricci nel suo intervento Dal più al meno, per una metamorfosi socialmente desiderabile si focalizza sulle connessioni tra dimensione locale e globale, tra teoria e prassi, nel contesto della crisi ecologica e della ricerca di un futuro sostenibile. Rivolgendosi soprattutto alle giovani generazioni che non hanno conosciuto direttamente Langer, Ricci ricostruisce il clima culturale e politico degli anni ‘70, quando emerse con forza la necessità di includere la questione ambientale, intesa come tutela della natura, del paesaggio e degli ecosistemi, nel dibattito pubblico. Quella generazione, che aveva vissuto le disillusioni del post-Sessantotto tra derive terroristiche e repressioni di Stato, trovò nuova linfa in due grandi movimenti, ovvero il femminismo che metteva in discussione le strutture patriarcali della società e l’ambientalismo che denunciava gli effetti distruttivi di uno sviluppo economico senza limiti. Non si trattava semplicemente di aggiungere nuovi temi all’agenda politica ma di operare una radicale riconversione del pensiero e dell’azione. Ricci sottolinea come questa presa di coscienza abbia comportato un vero e proprio “dolore”, una lacerazione esistenziale, citando l’esempio di Wolfgang Sachs e della sua sofferenza per la scomparsa di un pergolato amato, simbolo di un legame identitario con il luogo. In questo contesto i primi gruppi ecologisti nacquero da un attaccamento viscerale ai territori minacciati da inquinamento, cementificazione, deforestazione e dal nucleare. Le donne svolsero un ruolo centrale in queste lotte mentre gli uomini abbandonavano gradualmente atteggiamenti paternalistici per riconoscere la necessità di un approccio più umile e rispettoso nei confronti dell’ambiente. Queste esperienze locali si trasformarono presto in una rete più ampia, un vero e proprio “arcipelago” che cercava alleanze con scienziati, intellettuali e attivisti, dando vita a iniziative come le Università Verdi autogestite. Il movimento ecologista seppe così coniugare la difesa concreta del territorio con una critica radicale al modello di sviluppo dominante, recuperando una dimensione globale sia nella comprensione delle problematiche ambientali, sia nella consapevolezza della necessità di superare l’illusione di una crescita economica infinita. Il convegno fondativo dei Verdi a Pescara nel 1986, intitolato “La terra ci è data in prestito dai nostri figli”, rappresentò un momento emblematico di questa nuova visione. Lo slogan “Pensare globalmente, agire localmente”, seppur efficace, rischiò però di ridursi a una formula vuota, perdendo la profondità dell’approccio circolare proposto da Langer che valorizzava anche il “pensare locale” e l’”agire globale”. Langer, cresciuto in Sudtirolo tra due culture (italiana e tedesca), elaborò un pensiero originale basato sulla mediazione e sulla convivenza, espresso in maniera esemplare nel suo Tentativo di decalogo per la convivenza, ancora oggi un riferimento prezioso in contesti di conflitto, come nei dialoghi di riconciliazione a Srebrenica. La sua capacità di tradurre la complessità in proposte semplici ma profonde derivava da un metodo rigoroso, basato sull’ascolto, sulla riflessione interiore e su un confronto serrato con le contraddizioni della realtà. Nella parte finale del saggio Ricci si interroga sulle prospettive di cambiamento nell’attuale scenario globale, caratterizzato da una crisi ecologica senza precedenti. Attraverso l’esempio dell’Abruzzo, regione segnata dal terremoto dell’Aquila e dall’esodo dei migranti, mostra come si stia rafforzando un legame più profondo e consapevole con il territorio, percepito come bene comune da preservare. Le mobilitazioni contro le trivellazioni nell’Adriatico, ad esempio, non nascono solo da motivazioni ambientaliste ma da un desiderio di difendere un’identità collettiva legata al paesaggio. Si moltiplicano anche le esperienze concrete di economia solidale, autocostruzione, agricoltura biologica e recupero di saperi tradizionali, in un fecondo dialogo tra memoria e innovazione. Queste “utopie concrete”, come le avrebbe definite Langer, dimostrano che un altro modello di società è possibile, basato su una relazione armoniosa con la natura e su una visione del futuro inclusiva e sostenibile. Questo movimento dal basso, pur vivace e diffuso, rimane spesso invisibile ai media e alla politica tradizionale che faticano a coglierne la portata trasformativa. Ricci invita a leggere queste esperienze come un grande “cantiere” di sperimentazione sociale e ambientale, dove le comunità si riappropriano dei luoghi e delle tradizioni in modo non nostalgico ma proiettato verso il futuro.  

In La cura per la natura, da dove sorge e a cosa può portare Langer torna a riflettere in maniera molto incisiva sulla crisi ecologica. La sua analisi parte dalla constatazione che la presa di coscienza della sfida ambientale è stata rapida e globale, diventando una delle questioni centrali del nostro tempo. Se inizialmente l’attenzione si concentrava su singoli problemi, come l’inquinamento nucleare, chimico o la perdita di biodiversità, oggi la consapevolezza abbraccia una visione sistemica che include cambiamenti climatici, distruzione dello strato di ozono e deforestazione. Documenti come il rapporto Brundtland (Our Common Future) e la nascita dei movimenti verdi, soprattutto in Europa, testimoniano questa evoluzione. Langer avverte che il rischio di banalizzazione è alto. L’ecologia potrebbe ridursi a una moda passeggera o a uno strumento retorico mentre invece rappresenta una sfida epocale che coinvolge tutte le società, le classi e le culture, seppure con effetti differenziati. La crisi ecologica non può essere risolta con aggiustamenti marginali o soluzioni tecniche superficiali. Il modello economico dominante, basato sullo sfruttamento illimitato delle risorse e su una logica di breve termine, ha portato il pianeta a un punto di rottura. L’umanità consuma oggi in un giorno l’equivalente di risorse che la natura ha impiegato millenni a generare, creando uno squilibrio insostenibile tra tempi biologici e tempi storici. Per questo Langer invoca una “conversione ecologica”, un cambiamento radicale che vada oltre la semplice ottimizzazione tecnologica e che riveda alla radice i paradigmi dello sviluppo. Propone di abbandonare la mentalità predatoria, simbolizzata dal motto olimpico “citius, altius, fortius”, in favore di un approccio più equilibrato, sintetizzato nella formula “lentius, temperantius, levius”. Langer critica l’idea che l’ecologia possa trasformarsi in una nuova ideologia dominante o in una superscienza in grado di risolvere tutti i problemi. Al contrario, sostiene che la questione ambientale richiede scelte politiche, culturali ed etiche, non dogmi. La natura non può essere ridotta a un’entità normativa che detta leggi assolute, spetta agli esseri umani, attraverso il dibattito democratico, decidere come conciliare progresso e sostenibilità. Langer quindi rifiuta le utopie totalizzanti a favore di “utopie concrete”, sperimentali e correggibili che affrontino problemi specifici senza pretese di universalità. Un altro tema cruciale è il rapporto tra ecologia e disuguaglianze globali. Langer respinge l’accusa che la cura dell’ambiente sia un lusso dei paesi ricchi, sostenendo invece che sia una necessità vitale soprattutto per i più poveri che dipendono direttamente dalle risorse naturali comuni. La distruzione ambientale, infatti, aggrava le condizioni di vita delle popolazioni più vulnerabili, creando un circolo vizioso di povertà e degrado. Riconosce che il movimento ecologista, nato nel Nord industrializzato, rischia di apparire come un fenomeno elitario o, peggio, come una forma di “colonialismo verde” quando impone soluzioni standardizzate senza considerare le specificità locali. Per evitare derive autoritarie Langer invita a un approccio solidale e rispettoso delle differenze, in cui Nord e Sud collaborino alla ricerca di modelli alternativi di sviluppo. La “conversione ecologica” è dunque una necessità ineludibile ma Langer mette in guardia contro le false soluzioni proposte dalle stesse strutture economiche che hanno generato la crisi. Molti piani di sviluppo sostenibile sono spesso strumentali e servono a perpetuare il sistema esistente con qualche correttivo superficiale. Inoltre molti disastri ambientali nel Sud del mondo sono causati da tecnologie e modelli economici importati dal Nord, rendendo indispensabile una valutazione critica dell’ambientalismo occidentale. Nella parte conclusiva delinea una proposta articolata: al Nord chiede autolimitazione, riduzione dei consumi e riparazione del “debito ecologico” accumulato nei confronti del Sud; all’Est (inteso come ex blocco socialista) suggerisce di non inseguire acriticamente il modello occidentale ma di valorizzare sobrietà e democrazia mentre al Sud invita a cercare vie autonome di sviluppo, a basso impatto ambientale, che evitino di replicare gli errori del Nord. Sottolinea che non esistono ricette preconfezionate ma che il cambiamento richiede creatività, prudenza e un costante dialogo tra culture e saperi diversi. Langer riflette sulle motivazioni che potrebbero spingere l’umanità ad abbracciare questa trasformazione. Si chiede se sarà la paura, la ragione, la legge o un nuovo senso di solidarietà a guidare il cambiamento. Propone una sintesi tra “egoismo ecologico” (la difesa del proprio ambiente immediato) e “altruismo ecologico” (la cura per il pianeta e le generazioni future), suggerendo che la vera sostenibilità nasca dall’equilibrio tra queste due spinte. La cura per la natura, dunque, non è solo una questione di sopravvivenza ma anche un’opportunità per ripensare radicalmente il rapporto tra esseri umani e ambiente in un’ottica di giustizia globale e di responsabilità condivisa.

4. Langer, il rapporto con il cristianesimo e il possibile legame con Papa Francesco

Pur avendo militato in un’organizzazione della sinistra extraparlamentare come Lotta Continua, Langer è sempre stato cattolico. Il cristianesimo rappresenta per Langer una rivoluzione radicale e senza precedenti nella storia dell’umanità, soprattutto per il contenuto profondamente sovversivo del messaggio di Cristo che capovolge le logiche umane consolidate. Fin dalla sua origine il nucleo della dottrina cristiana, l’amore assoluto per Dio e, di conseguenza, l’amore incondizionato per il prossimo, si presenta come una sfida radicale alle convenzioni sociali e morali dell’epoca. In un mondo in cui dominava la legge del “ama i tuoi amici e odia i tuoi nemici” l’insegnamento di Gesù irrompe con una novità sconvolgente: l’esortazione ad amare persino coloro che ci perseguitano, a porgere l’altra guancia, a rispondere al male con il bene. Questo precetto è una vera e propria rivoluzione etica perché smaschera la mediocrità di un amore limitato ai propri affini. La figura stessa di Cristo incarna questo ribaltamento di valori in modo paradossale. Egli, pur essendo il Figlio di Dio, la Verità incarnata, si definisce “mite e umile di cuore”, rifiutando ogni forma di superbia o di imposizione violenta. Pur avendo, secondo il racconto evangelico, il potere di chiamare in suo aiuto legioni di angeli, sceglie invece la via della non-resistenza, lasciandosi umiliare, flagellare e crocifiggere senza opporre resistenza. Di fronte a Pilato afferma la sua regalità ma accetta di essere schernito come un re farsesco. Pur essendo l’unico senza peccato tra coloro che lo circondano, non condanna la donna adultera, dimostrando una misericordia che sovverte ogni giustizia umana. E mentre viene inchiodato alla croce, invece di invocare la vendetta divina sui suoi carnefici, prega perché siano perdonati. Questo comportamento, incomprensibile secondo la logica mondana, trova la sua coerenza solo nella legge dell’amore assoluto che Gesù stesso incarna e predica. Il cristianesimo, dunque, è un paradosso vivente che sfida le categorie umane del potere, della giustizia e della razionalità. Eppure, come sottolinea Langer nei testi sul tema contenuti in Il viaggiatore leggero, non si tratta di un insieme incoerente di contraddizioni, bensì di una logica nuova, fondata su un principio radicalmente diverso: l’amore come unica legge suprema. Questo amore è una forza trasformatrice che si manifesta in modo concreto nella preferenza di Dio per gli ultimi, gli oppressi, i disprezzati. Cristo non si limita a predicare la compassione per i poveri ma sceglie di condividere la loro condizione, santificando così la povertà e l’umiliazione. Questa inversione di valori è particolarmente evidente nel Magnificat, dove Maria proclama che Dio “ha rovesciato i potenti dai troni e ha innalzato gli umili”, “ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”. Queste parole sono l’annuncio di un capovolgimento reale della storia, in cui le gerarchie mondane vengono sovvertite dalla logica del Regno di Dio. Allo stesso modo la predica della montagna (specialmente nella versione di Luca) presenta un programma rivoluzionario: beati i poveri, beati gli afflitti, beati i perseguitati, perché a loro appartiene il Regno dei Cieli. Tuttavia, come nota Langer, questa radicalità del messaggio cristiano è stata spesso ridotta a una forma esteriore di religiosità, come se l’essenza del cristianesimo si esaurisse nella partecipazione al culto domenicale o in opere di carità sporadiche. Al contrario, Cristo non chiede gesti rituali o osservanze superficiali ma una consegna totale della vita. Il Vangelo non è una consolazione per anime pie ma una chiamata a una scelta radicale, cioè mettere Dio al di sopra di tutto, anche sopra se stessi, le proprie sicurezze e i propri interessi. Vivere da cristiani significa dunque accettare questa rivoluzione interiore ed esteriore che trasforma non solo il singolo ma anche le relazioni sociali, ponendo l’amore come unica legge. Questa breve premessa su come Langer legge il cristianesimo ci serve per affrontare più nel dettaglio il rapporto tra il suo pensiero e quello di Papa Francesco. Lo faremo a partire dal saggio La ‘cura della casa comune’: l’ecopacifismo di Alexander Langer nelle parole di Papa Bergoglio di Veronica Riccardi che tenta di individuare le convergenze tra il pensiero del politico di Alexander Langer e l’enciclica Laudato si’ di Papa Francesco. Langer nel 1984 elabora il concetto di conversione ecologica che verrà ripreso da Papa Francesco nell’enciclica del 2015. Per Langer la conversione ecologica non era semplicemente una transizione tecnologica o economica ma un autentico cambiamento esistenziale e culturale, un “pentimento” collettivo per i danni inflitti al pianeta e una svolta verso stili di vita più sobri e rispettosi degli equilibri naturali. Questo approccio, profondamente radicato nella sua formazione cristiana (in gioventù aveva persino pensato di farsi sacerdote), si distanziava dalle ideologie ambientaliste più radicali per abbracciare una prospettiva più ampia che univa ecologia, giustizia sociale e spiritualità. Papa Francesco, nell’enciclica, sviluppa questa stessa idea insistendo sul fatto che la crisi ambientale richiede non solo soluzioni tecniche ma una vera e propria trasformazione interiore, un rinnovamento etico che coinvolga l’intera umanità. Un altro punto di contatto fondamentale tra i due pensatori è la critica alla cultura dello scarto e della velocità. Langer, già negli anni ’90, denunciava la logica del “citius, altius, fortius” (più veloce, più alto, più forte) come simbolo di una civiltà ossessionata dalla competizione e dalla crescita illimitata, proponendo invece il motto “lentius, profundius, suavius” (più lento, più profondo, più dolce) come alternativa possibile. Papa Francesco riprende esattamente questa critica parlando della “rapidizzazione” della società moderna come di un fenomeno che distrugge sia gli ecosistemi che le relazioni umane. Entrambi vedono nella frenesia del consumismo una delle radici della crisi ecologica e sociale contemporanea. Il tema della “casa comune”, centrale nell’enciclica, trova un preciso corrispettivo nel concetto langeriano di Heimat (patria, luogo natio), inteso come ambiente condiviso da proteggere e abitare in modo sostenibile. Langer, partendo dalla sua esperienza altoatesina, aveva elaborato una visione dell’ecologia come strumento di pacificazione tra i popoli, sostenendo che la difesa dell’ambiente e la costruzione di una convivenza pacifica fossero due facce della stessa medaglia. Questo approccio, che lui stesso definiva ecopacifismo, è ripreso da Papa Francesco quando afferma che “non ci sono due crisi separate, una ambientale e una sociale, ma una sola e complessa crisi socio-ambientale”. Sia Langer che Papa Francesco promuovono un’ecologia integrale che supera la dicotomia tra uomo e natura e riconosce l’interdipendenza di tutti gli esseri viventi. Per Langer l’ecologia non poteva limitarsi alla tutela dei paesaggi ma doveva includere la lotta per i diritti umani, la giustizia globale e la pace. Allo stesso modo Papa Francesco insiste sul fatto che la cura della casa comune richiede un nuovo patto sociale, basato sulla solidarietà e sulla responsabilità condivisa.  

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