La nuova Direttiva Europea sul Platform Work è un’ombra dell’originale

Due anni e mezzo fa, il 9 dicembre 2021, la Commissione Europea proponeva un’ambiziosa direttiva per regolamentare il lavoro mediato dalle piattaforme digitali (i cui lavoratori sono spesso conosciuti come “gig-worker”), sull’onda di una serie di sviluppi legislativi e giurisprudenziali avvenuti durante la pandemia.

Come ogni proposta della Commissione, ne è derivato uno sviluppo tortuoso e difficile, fatto di dialoghi tra le parte sociali, stati membri, società civile e istituzioni europee, che aveva trovato conferma definitiva – così almeno pareva all’epoca – nel dicembre del 2023, attraverso un compromesso tra Commissione, Parlamento e Consiglio Europeo a guida spagnola, salvo poi trovare una significativa resistenza da un numero di stati membri (si parla di Italia, Ungheria, Repubblica Ceca, Paesi Baltici, Grecia e Francia); la direttiva era dunque tornata sui tavoli di lavoro, dove l’appena insediata presidenza belga ha prontamente apportato tutte le modifiche sulle questioni più “controverse” al fine di farla approvare, costi quel che costi. Dopo un altro fallimento (questa volta a causa di Francia, Germania, Grecia ed Estonia), ieri, l’11 marzo 2024, è stato trovato un accordo definitivo alla riunione dei ministri dell’occupazione e degli affari sociali, grazie al sì di Grecia ed Estonia1.

La direttiva originale aveva 2 scopri principali:
1. Introdurre una presunzione di rapporto dipendente a livello europeo. Questa era di gran lunga la novità più importante, perché andava a spostare la prova dell’effettiva natura giuridica tra il lavoratore e la piattaforma digitale su quest’ultima, spostando l’onere su quei soggetti che hanno i mezzi per affrontarlo ed evitando che un’area legale tutt’ora grigia possa essere abusata per sfruttare i lavoratori. E’ infatti risaputo che una delle grandi problematiche nel settore è il fenomeno del “bogus self-employment”, che vede milioni di lavoratori delle piattaforme digitali lavorare in condizioni assimilabili al lavoro dipendente, ma con contratti da lavoratori autonomi. Questo è un fenomeno che coinvolge milioni di lavoratori nell’UE – secondo la Commissione Europea, 5.5 milioni – e che la direttiva intendeva affrontare.

Di fatto, questa proposta altro non era che la codificazione europea di sviluppi già avvenuti, sia nella giurisprudenza che nella legislazione nazionale di alcuni paesi, dove la presunzione del rapporto dipendente è stato già introdotto (per esempio, Belgio, Portogallo e Spagna hanno visto l’introduzione della presunzione del rapporto dipendente, almeno per alcune categorie di lavoratori, tutte e tre come risposta al “platform work”). Anzi, andando un pochino nel dettaglio è possibile trovare già un certo livello di moderazione nell’approccio adottato dalla Commissione Europea, perché il meccanismo della presunzione non si applicava veramente in maniera automatica, come uno potrebbe immaginare:
la presunzione si poteva applicare alla luce di un controllo della piattaforma digitale, in particolare per quanto concerne 5 aree dell’attività lavorativa (remunerazione, controllo sulla performance del lavoro, supervisione sul lavoratore, orario lavorativo e la possibilità per il lavoratore di scegliere per quali clienti lavorare); se almeno 2 di queste caratteristiche erano assimilabili a quelle di un rapporto dipendente, allora veniva applicata la presunzione di rapporto dipendente. Uno potrebbe far notare che questo meccanismo non è una presunzione stricto sensu, giacché in caso di inadempienza da parte della piattaforma, un lavoratore (o chi per esso) dovrebbe in primo luogo dimostrare che 2 elementi su 5 erano presenti per poter valutare il rapporto di lavoro come dipendente.

2. Il secondo scopo della direttiva era di introdurre, per tutti quelli che operano nel settore del platform work, una serie di protezioni specifiche per quanto concerne il  management algoritmico, di cui questi lavoratori (dipendenti o meno) sono soggetti con particolare rilievo.

Ebbene, cosa ha portato all’approvazione della proposta? Cos’ha portato così tanti stati membri a dare il loro assenso? La rinnovata direttiva approvata ieri semplicemente elimina la presunzione del rapporto dipendente a livello europeo. Invece di basarsi su degli standard flessibili ma uguali per tutti (i 5 criteri), adesso gli stati membri sono tenuti ad implementare autonomamente una presunzione giuridica, che però rimanga in linea esclusivamente con i propri sistemi legali (ma comunque coerente, come sempre, con il diritto europeo e la case-law della Corte di Giustizia Europea).
Nel farlo, la direttiva è stata svuotata del suo contenuto più importante, l’adozione di uno strumento che andava ad armonizzare le condizioni dei lavoratori europei.

Alcuni sono rimasti ottimisti anche alla luce di questo sviluppo, perché nonostante tutto è stato mantenuto il meccanismo della presunzione. Per esempio, Nicola Marongiu della Cgil ha reiterato lo spostamento dell’onere sulle piattaforme. A questo si possono rispondere che:

  1. Nemmeno il meccanismo originale, come abbiamo visto, spostava veramente l’onere.
  2. Nulla toglie che gli stessi sistemi legali dei Paesi possano essere ridefiniti, rendendo i criteri che definiscono il rapporto dipendente irraggiungibili per i lavoratori delle piattaforme digitali. Per esempio, la presunzione del rapporto lavorativo può essere implementata, ma gli standard per raggiungerla possono essere resi tali da mantenere in gran parte il fenomeno del “bogus self-employment.” La Direttiva in realtà cerca di ovviare il problema introducendo il principio noto come “primacy of facts,” (menzionato più volte esplicitamente nel testo originale della direttiva, mentre nella versione approvata ieri trova posto solo nei recital, che hanno funzione interpretativa ma non vincolante; detto questo, il principio ha comunque chiaramente ispirato l’articolo 1(2) della Direttiva) per il quale i fatti materiali devono essere i cardini della definizione o meno del rapporto giuridico, non considerazioni a priori definite altrove (ad esempio, nella legislazione nazionale o nel contratto che regola il rapporto tra lavoratore e piattaforma), ma è un principio che rimane molto vago e può essere soggetto esso stesso a interpretazione.

Il compromesso è parte di un qualsiasi processo legislativo, ma questa Direttiva è passata da essere un potenziale strumento cardine per l’avanzamento uniforme della protezione giuridica per i platform worker in tutta l’Europa, ad una ben meno ambiziosa Direttiva sul management algoritmico. E’ una legislazione storpiata, inutile illudersi in materia.

  1. Sono rimasti il no della Francia e l’astensione della Germania, che seppur sia gestita da un governo “rossoverde,” rimane in ostaggio degli estremisti liberisti del FDP, gli stessi che avevano fatto saltare qualche settimana fa la direttiva sulla due diligence, finalizzata a stabilire alcuni obblighi per le aziende che operano nell’Ue in modo da mitigare il loro impatto negativo sui diritti umani e sull’ambiente. Cosucce come assicurarsi di non avere nella propria filiera enti che usano lavoro minorile, schiavi o che sono responsabili per la distruzione degli ecosistemi. ↩︎

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