La Melonieconomics: un bilancio dopo un anno al governo

Mario Pomini nel suo libro Anatomia del populismo economico. La melonieconomics: un anno di politiche economiche conservatrici mira ad esplorare il fenomeno del populismo economico, aspetto poco indagato del fenomeno più complesso del populismo, a partire dal caso italiano, dove emerge a partire dal 1994 con il primo governo Berlusconi. L’autore sostiene che da fenomeno circoscritto alle economie in via di sviluppo, in particolare dell’America Latina, grazie alla crisi economica del 2007-2008 si è espanso anche nelle economie a capitalismo avanzato, finendo per caratterizzare l’azione di quasi tutti i governi italiani dal 2008. Pomini inizia la sua analisi a partire dalle due fasi dei governi Berlusconi del nuovo millennio, ovvero tra il 2001-2005 e 2008-2011. Nella prima fase si registra una performance economica media in 5 anni del 4,5% contro l’8,4% della media europea. Nel 2001 il debito pubblico italiano era pari al 108% del Pil contro una media europea del 68%. A fine legislatura il debito pubblico, grazie alla crescita, scenderà al 106% mentre l’indebitamento annuale passa dal 3,1% al 4,3% di fine legislatura. La pressione fiscale sarà al 40,4%, il più basso di sempre, ma con un deficit di ben 61 miliardi. Non c’è assolutamente stata la rivoluzione fiscale e liberale promessa da Berlusconi bensì, come sostengono molti osservatori, una difesa dei suoi interessi personali coperti, ad esempio, dalla cancellazione dell’imposta di successione oppure lo scudo fiscale per il rientro dei capitali portati illegalmente all’estero. La seconda fase inizia nel 2008 e coincide con la crisi che produrrà una contrazione del Pil dell’1,3% il primo anno e del 5,2% nel 2009 con il conseguente aumento del disavanzo pubblico del 5,3% del Pil nello stesso anno. Il debito pubblico, invece, ha raggiunto il 116%. Il governo Berlusconi reagisce tagliando la spesa pubblica, famosi sono gli 8 miliardi tagliati all’istruzione, ma fallendo nel tentativo di rendersi credibile ai mercati che lo sfiduciano trattando i titoli di stato come spazzatura e facendo aumentare al 7% i tassi d’interesse. Di conseguenza verrà sostituto dal governo tecnico di Mario Monti che varerà nel dicembre del 2011 una manovra da 30 miliardi, di cui 20 generati da nuove entrate come l’aumento al 23% dell’IVA, tagli alla spesa pubblica e in particolare la riforma delle pensioni della ministra Fornero, chiamata Salva Italia. Nel marzo 2012 il governo tenta di darsi un tono riformista con il decreto Cresci Italia che mirava a riconquistare la crescita economica del paese attraverso attacchi mirati ad interessi corporativi tramite le liberalizzazioni.

Mario Pomini

In termini di crescita, viene acquisito un aumento dello 0,6% del Pil nel 2011 e successivamente una contrazione del -2,8% nel 2012 e del -1,7% nel 2013. Questi dati smentiscono ampiamente i sostenitori della cosiddetta austerità espansiva, i quali affermano che l’eliminazione della spesa pubblica, vista come sempre improduttiva, verrà compensate dalle altre componenti della domanda aggregata. Nella realtà dei fatti l’austerità fiscale finisce per produrre una contrazione dell’economia e di conseguenza del reddito nazionale. L’unico successo del governo Monti, ovvero la riduzione dello spread da 470 a 250 punti, è figlio delle politiche intraprese da Draghi alla guida della BCE.

Tra il 2013 e il 2019 abbiamo una crescita cumulata del 4,2% in Italia contro una media europea del 13,6%. Si tratta di un decennio di sostanziale stagnazione che ha visto il trionfo di movimenti populisti come il Movimento 5 Stelle e la Lega di Salvini a trazione nazionale. Lo scenario economico è condizionato da bassi tassi d’interesse che in linea teorica facilitano l’indebitamento dei paesi ma in Europa, dal 2012, inizia a pendere la scure del Fiscal Compact.

“L’accordo vincolava ad introdurre entro un anno nella legislazione nazionale nuove regole di bilancio. L’Italia, insieme ad altri paesi, inserì questa norma addirittura nella Costituzione, modificando l’art. 81 con la legge costituzionale n.1 del 20 aprile 2012. I principali vincoli aggiuntivi erano i seguenti: a) il bilancio dello stato doveva essere in pareggio, b) in ogni caso in condizioni di ciclo economico negativo il deficit non doveva essere superiore allo 0,5% del Pil rispetto all’obiettivo di medio termine concordato, c) le deviazioni potevano essere solo temporanee, eccezionali e concordate, d) in caso di deviazioni significative diventava necessario attivare un meccanismo automatico di rientro. Ogni singolo Paese membro, in sostanza, doveva raggiungere un obiettivo di indebitamento di medio termine (OMT) oppure avvicinarsi ad esso, per realizzare un percorso di avvicinamento ai famosi parametri di Maastricht sulla finanza pubblica”1.

Il suo impatto è osservabile nell’utilizzo delle clausole di salvaguardia dai governi in carica negli anni ‘10. Si tratta di tagli di spesa e aumenti di tasse da applicare nel caso in cui le previsioni di bilancio non siano rispettate. Questo dimostra come si è teso a scaricare il rigorismo europeo sulle fasce più deboli della popolazione, sia attraverso riforme liberiste, prendiamo come riferimento quelle promosse da Matteo Renzi, oppure con i tagli alla spesa pubblica. Contemporaneamente venivano elaborati interventi fiscali a favore di platee selezionate di contribuenti.

Dopo le elezioni del 2018 il governo Conte I, composto da due forze populiste, si impegna ad introdurre il reddito di cittadinanza e a cancellare la riforma Fornero.

“L’impianto generale della manovra sui conti pubblici del governo Conte I non si discostava molto da quelli precedenti. Gli impieghi ammontavano a 38,5 miliardi, finanziati con risorse proprie per 27,1 miliardi di euro. La percentuale del debito era appena del 30%, decisamente inferiore alle precedenti. La stesura finale è stata particolarmente travagliata perché la Commissione europea contestava al governo il mancato rispetto del Patto di Stabilità e minacciava l’apertura di una procedura per disavanzo eccessivo. Il governo in prima battuta ha confermato la sua linea di condotta, ma poi si è allineato alle indicazioni dell’autorità europea”2.

Seguirà il governo Conte II, che avrà il grande onere di gestire la pandemia del COVID-19, il quale accumulerà importanti disavanzi del 9% del Pil nel 2021 e del 6,7% nel 2022 grazie alla sospensione del patto di stabilità. Nel 2022 Draghi prosegue su questa strada promuovendo interventi per contrastare il caro energia e la riduzione della pressione fiscale.

“Non vi è dubbio che Draghi abbia saputo ben sfruttare in termini di consenso parlamentare le due circostanze positive del momento per la finanza pubblica: una elevata crescita economica e una sostanziale stagnazione della spesa per interessi. Ma queste condizioni non sono state usate per contenere il disavanzo, anzi. Si potrebbe parlare di un tecno-populismo favorito anche dal vasto ma incerto sostegno parlamentare. Condizioni che stavano velocemente per sfumare a causa del protarsi del conflitto bellico, In ogni caso, quando si chiude la legislatura, il debito pubblico italiano è superiore al 140% del Pil, una percentuale toccata solo durante la prima guerra mondiale”3.

Queste scelte sono comprensibili a partire dalla teoria che ha guidato questi governi. Bisognava rispondere alla crisi del 2007-2008 riducendo il perimetro dello Stato e abbattendo le tasse, con il risultato di aver fatto aumentare il disavanzo pubblico per colmare la diminuzione della domanda globale prodotta dalla crisi. Ad aumentare è anche il debito pubblico, nonostante lo Stato avesse perso posizioni nel sostegno diretto al sistema produttivo. Per Pomini la crisi del 2008 ha aperto ad un populismo economico fatto di più mercato e meno Stato caratterizzato da disavanzi pubblici di oltre il 100% del Pil. La spesa pubblica è poco orientata alla qualità del servizio pubblico e molto di più finalizzata all’espansione dei benefici economici diretti e monetizzabili, come gli 80 euro di Renzi e il reddito di cittadinanza. Questa macchina è responsabile del sistematico disinvestimento nella pubblico impiego che ha prodotto vaste schiere di precari nella scuola italiana e assunzioni bloccate da anni nei nostri ministeri ed enti pubblici.

Siamo davanti ad un deficit solo superficialmente keynesiano, su cui convergono sia i conservatori che una sinistra convinta di aver trovato nel mercato la migliore opzione per regolare l’economia e la società, incapace di migliorare il capitale pubblico e la produttività ma viene alimentato dal taglio delle tasse che finisce per erodere lo stato sociale, danneggiando la parte più vulnerabile della popolazione. Com’è possibile che proprio quest’ultimi siano diventati un bacino di voti importanti per le forze populiste? Il populismo economico assume la forma di una proposta politica attraente perché risponde alle conseguenze della crisi economica che ha investito il nostro paese dal 2007-2008 e risponde alle conseguenze negative prodotte dalla globalizzazione nella nostra economia. Abbiamo progressivamente assistito all’espansione del lavoro povero, a causa dell’aumento delle produzioni a basso valore aggiunto, che ha generato importanti perdite di salario che questa proposta politica intende compensare con la riduzione delle tasse, al costo di distruggere lo stato sociale. Un esempio in questo senso sono le proposte economiche con cui Fratelli d’Italia ha vinto le ultime elezioni politiche, ottenendo il 30% dei consensi nel 2022.

Nel suo programma elettorale troviamo i soliti sgravi per quanto riguarda l’Irpef che costerebbero una ventina di miliardi da compensare con la crescita economica prodotta da questo intervento fiscale. Per quanto riguarda la spesa assistenziale, troviamo la sostituzione del reddito di cittadinanza con l’assegno di solidarietà. Ci sono, inoltre, proposte per aumentare le pensioni minime a 1000 euro che costerebbero 20 miliardi a cui ne dobbiamo aggiungere altri 10 per aumentare quelle comprese tra la minima e 1000 euro. Non c’è invece alcuna traccia di seri interventi per migliorare la sanità, la scuola e le politiche a favore delle famiglie.

Una volta giunti al governo Meloni e soci sono stati costretti a fare i conti con previsioni di crescita in calo dal 3% allo 0,3% che ha ridotto le entrate per lo Stato, a cui dobbiamo aggiungere gli aumenti dei tassi d’interesse fino al 4% decisi dalla BCE per contrastare l’inflazione ma che farà aumentare il costo del nostro enorme debito pubblico. Parliamo di ben 21 miliardi per ogni punto percentuale. La prima manovra del governo Meloni è fatta di interventi limitati nel tempo, come la riduzione del cuneo fiscale per il lavoro dipendente o interventi per contrastare il caro energia, che fanno lievitare il debito pubblico.

Quella che Pomini chiama Melonieconomics si basa su una precisa retorica populista contro le tasse che si esprime in due fondamentali proposte:

1. La Flat tax: si tratta di una tassa sul reddito con aliquota unica e bassa che nelle intenzioni di chi la propone dovrebbe sostituire l’Irpef che fino al 1973 aveva ben 32 aliquote tra il 10% e il 72%. Non è mai stata applicata nei paesi a capitalismo avanzato, dove resta una copertura per massicci tagli al carico fiscale per i redditi medio-alti. La troviamo presente solo negli ex paesi socialisti, come la Russia di Putin, o in via di sviluppo. Entrambe queste situazioni sono caratterizzate da un welfare poco sviluppato. Un altro elemento di negatività è la contraddizione palese con il principio di progressività del nostro sistema fiscale sancito in Costituzione.

La teoria dietro questa proposta è l’effetto Laffer secondo cui una riduzione delle tasse porterebbe ad un aumento delle entrare per lo Stato grazie alla crescita economica prodotta.

2. Ridurre il costo del lavoro: tenendo in considerazione tassazione, salario netto e contributi sociali, nell’Europa dei 27 del 2021 si passa dai 51,5 euro all’ora della Norvegia agli 11,5 euro all’ora della Polonia. Il costo del lavoro in Italia è di 29,3 euro l’ora, inferiore ai 37,2 euro della Germania e ai 37,9 euro della Francia. Questi dati smentiscono una retorica molto diffusa nell’opinione pubblica e dimostra come il problema della nostra bassa crescita andrebbe cercato altrove, per esempio nella bassa produttività del lavoro.

Il cuneo fiscale, dato da tassazione e oneri sociali, mediamente in Europa è di 7,3 euro. Nelle economie a capitalismo avanzato siamo sopra questa media. In Germania è di 8,2 euro, in Francia è di 12,1 euro mentre in Italia è di 8,3 euro. Queste risorse servono per pagare le pensioni e i contributi sociali. Posto che è socialmente e politicamente controproducente colpire le pensioni, gli interventi per ridurre il cuneo fiscale si concentrano sull’Irpef con cui viene mantenuto il nostro stato sociale. Queste scelte sono avallate anche da Confindustria per generare aumenti per i lavoratori ma Pomini sostiene siano una scusa per ridurre il perimetro dello Stato.

Giunta al governo, Meloni è costretta a dismettere i panni della populista battagliera. Nessuna epocale riforma fiscale, nessuna riforma del catasto, nessuna cancellazione della riforma Fornero. Viene fatta cassa sui più poveri cancellando il reddito di cittadinanza, non ponendosi l’interrogativo di come garantire un lavoro agli ex percettori, e si confida nel vecchio nemico, l’Europa, per trovare le risorse utili per la crescita economica del paese.

La sua prima finanziaria si distingue per una logica prevalentemente distributiva. Si tagliano le rivalutazioni delle pensioni medio-alte per sostenere il taglio del cuneo fiscale ai lavoratori dipendenti con un reddito inferiore ai 30.000 euro. Si fa cassa per 8 miliardi con il reddito di cittadinanza e non vengono rinnovati i contratti della pubblica amministrazione risparmiando 3 miliardi.

I salari erosi dall’inflazione, le maggiori entrare garantite da quest’ultima e gli sforzi dei dipendenti pubblici per mantenere in piedi lo Stato durante la pandemia sono ignorati perché il bilancio pubblico è solo un bancomat da utilizzare per finanziare le proprie politiche.

Questo indirizzo viene confermato nel DEF di aprile 2023, dove il taglio del cuneo fiscale è giustificato come un aumento dello stipendio a carico dello Stato per stroncare sul nascere le rivendicazioni sindacali che alimenterebbero la spirale prezzi-salari. Pomini sostiene che non esista questo pericolo visti i mancati rinnovi contrattuali e gli interventi, in alcune realtà, delle imprese attraverso dei bonus per sostenere il potere d’acquisto dei propri dipendenti.

Nonostante gli sforzi del governo, i lavoratori pretenderanno comunque una parte dei profitti macinati dalle imprese grazie al calo del prezzo dell’energia.

Il contrasto dell’inflazione andrebbe fatto tassando i profitti invece di fare debito per sostituire gli aumenti pagati direttamente dalle imprese con la spesa pubblica.

Per il 2024 si procede con un disavanzo di 16 miliardi in un contesto di aumento dei tassi d’intesse che, nel 2026, porterà il nostro debito pubblico ad una cifra di 3000 miliardi di disavanzo. Tutto questo viene fatto per sostenere politiche assistenzialiste a danno della politica industriale.

Pomini chiude il suo lavoro parlando di due questioni economiche aperte molto importanti su cui si sono concentrati gli attacchi di Meloni.

1. Superbonus: Pomini sostiene che non si sia finanziato da solo, almeno metà sarebbe a carico dello Stato. Ha drogato il mercato, facendo lievitare i prezzi dei materiali, i costi e contribuendo alla nascita di imprese funzionali al solo utilizzo di questo bonus. Ha regalato un super profitto del 20% alle banche sui crediti ceduti al settore bancario valorizzati all’80%. Ha elementi di ingiustizia fiscale perché nelle dichiarazioni fiscali può esserci un notevole contributo senza avere capienza fiscale. Infine, non può essere il settore edilizio, in un contesto di transizione ecologica e calo demografico, a trainare la crescita della nostra economia.

Pomini propone la riduzione della copertura del bonus al 65%, con una detrazione ridotta a 5 anni ed eliminando la cessione del credito che droga la finanza.

La destra accusa il Superbonus di aver creato un buco di bilancio di 38 miliardi ma, stando all’ANCE, tra entrate generate e PNRR il buco scende a 6,6 miliardi. Insomma, è una minaccia immaginaria che ha giustificato la riduzione dello sconto fiscale per i condomini al 90% e reintrodotto il bonus per le abitazioni singole di persone a basso reddito, fino a 15000 euro di Isee.

2. Il salario minimo: la destra si oppone perché aumenterebbe la disoccupazione. La loro tesi è che un aumento del costo del lavoro diminuirebbe il suo consumo. Empiricamente è una tesi smentita. In Germania esiste dal 2015 e nel 2022 ha raggiunto 12 euro l’ora ma la disoccupazione era al 4,4% nel 2015 e al 3,6% nel 2021 contro il nostro 9,5%.

Un altro argomento della destra sostiene che lo Stato non dovrebbe modificare i meccanismi che regolano il mercato del lavoro. Tuttavia non sono state mosse le stesse obiezioni quando venne approvato l’equo compenso per i professionisti determinato non a partire dalla produttività ma dalla tutela della dignità del lavoro rispetto alle sue relazioni con la pubblica amministrazione, le banche e le assicurazioni.

Un ultima tesi, emersa negli ultimi mesi, sostiene che il salario minimo farebbe scendere verso il minimo legislativo tutti i salari. Ancora una volta, non è stato utilizzato come argomento per criticare l’equo compenso dei professionisti e chi difende una simile idea non conosce molto bene il funzionamento delle trattative sindacali. Confindustria non ha paura del salario minimo ma del bradisismo salariale che genererebbe, ovvero una spinta verso l’alto delle retribuzioni di tutte le altre mansioni.

  1. Mauro Pomini, Anatomia del populismo economico. La melonieconomics: un anno di politiche economiche conservatrici, Ombre Corte, Verona 2024, pp.21-22 ↩︎
  2. Ivi, pp.27-28 ↩︎
  3. Ivi, p.29 ↩︎

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