In memoria di Luis Sepúlveda

La memoria è la pietra angolare che sostiene tutta la mia architettura di uomo e scrittore. La nostalgia non so cosa sia, però a volte la sento, e mi piace provarla, per ciò che è stato e per i propositi che hanno avuto la possibilità di diventare realtà.

Luis Sepúlveda

Il rumore del nastro magnetico è sempre tanto strano quanto caro. Riporta a vent’anni fa: tempi, persone e luoghi che mai più torneranno, per i quali solo il rumore discontinuo e meccanico del rewind testimonia i loro segni nelle memorie di ognuno.

La VHS proietta sul video l’elegante logo della fu Cecchi Gori, quando ancora nel grande palazzone metallico di via Valadier – quello con le grandi vetrate e con sovrimpressa la famosa G inscritta – si producevano pellicole di “pregevole fattura. Compare discretamente il nome di Enzo D’Alò sul cielo acquerello di Amburgo e, in seguito, il titolo del lungometraggio animato: La gabbianella ed il gatto.

Anni dopo, vite dopo: estate di una prima liceo sofferta, un ragazzino passeggia per le vie del suo paese sotto l’arsura del Sole dei Mondiali. Caotico silenzio del primo pomeriggio; chiude dietro di sé la porta che dà all’ingresso della biblioteca per incamminarsi verso il borgo principale. Usufruire dei servizi della biblioteca è un must, è come prendere due piccioni con una fava: è riuscire a giustificarsi un intero pomeriggio fuori casa con la liceità apparente tipica del falso, falsissimo letterato pienamente cosciente di mancare ai propri impegni domestici. Tutto questo sfruttando il momento propizio per gustarsi un gelato sotto l’ombra del glicine in piazza. Che si vuole di più dalla vita ad appena quattordici anni, in un paesino di quella campagna narrata da Pasolini? Si siede sulla prima panchina libera accanto al duomo ed inizia a sfogliare gelosamente il libro preso in prestito leggendone la citazione di Joao Rosa posta a paratesto. Il titolo è tutto un programma, avvolto nel mistero: La frontiera scomparsa.

«Le storie non si limitano a staccarsi dal narratore, lo formano anche, narrare è Resistere»

Col passare degli anni si riesce a comprendere come, nell’oscurità del significato maturo della massima, si descriva in realtà l’autore dei racconti citati, Luis Sepúlveda: egli era resistenza umana, resistenza letteraria, resistenza narrativa, resistenza ad oltranza. Non si scompose di fronte al bombardamento del Palacio de La Moneda  e nemmeno capitolò nelle carceri di Pinochet: il perfetto sincretismo tra la resilienza di un giocatore – un romanzo è sempre un gioco, ed il giocatore è sempre chi sa aspettare, calibrare e soppesare ogni evento, come un fine stratega linguistico che necessita una propria coerenza interna – unita al temperamento mapuche.  «Il sangue mapuche è forte e in me scorre quel sangue» diceva Sepúlveda.  Anche di fronte all’esilio, nel rievocare le parole ed i gesti del nonno, la resistenza di Sepúlveda fu militante, sincera, politica ma mai spersonalizzante o destituente: resistenza apolide. D’altronde, la nostra storia non può iniziare con l’atteggiamento più apolide, anzi, errante, nomadico dell’uomo, l’errare per trovarsi.

vignetta a Luis Sepúlveda di Mauro Biani (maurobiani.it)

Andare dove? Dove vuole andare un ragazzino, appena iniziato alla militanza politica e alla lettura spasmodica dei romanzi di Stephen King? Dove vuole andare l’autore di questo testo? Dove voleva – anzi, poteva – andare il giovane Luis?  Verso nessuna parte. A quattordici anni non si può capire, si può solo strabuzzare gli occhi dinnanzi al titolo del primo capitolo, così come verso il significato più intimo del titolo dell’intera opera: Un viaggio da nessuna parte. Ma cosa vuol dire? Forse dobbiamo accettare l’assiomatica di un arido vero, dove la verità si coniuga all’annientamento, dove la verità fa male, è angosciosa, è pericolosamente verticale e perciò paradossale e contraddittoria? Forse è nello stesso errare che dobbiamo cogliere una doppia sfumatura di significato, un proseguire incespicando nel vuoto dell’errore? Forse questo stesso incespicare, se ben letto, è una pura operatività che ci dà il senso nel suo puro atto senza cercare luoghi d’arrivo? Forse bisogna dirigersi verso nessuna parte in quanto bisogna imparare a camminare sul posto, conoscere non tanto i luoghi fuori di sé a cui tendere, tanto il frutto della loro relazione con noi stessi, con quelle che sono le nostre possibilità reali? D’altronde, conoscersi presuppone una certa stabilità della cognizione di sé.  Se il vuoto del nostro discorso, se il senza meta del nostro viaggio è inaccettabilmente sopportabile o insopportabilmente impotente, non si può sperare di resistere alle vertigini. «Essere liberi è nulla, diventare liberi è il cielo» scriveva Fichte. Il cielo: librarsi in aria come una giovane gabbianella è un movimento verso l’alto che in realtà dimostra solo la sua orizzontalità.  Consiste nella necessità di confrontarsi con la miseria che si è, e con ciò che si perde, e con ciò che diventerà fantasma, vuoto straziante di quello che eravamo, di ciò che si era e che abbiamo perso, il segno di nessuna parte, il segno d’una assenza presente.

Uno spettro, un premonitore, un demone? Un’ombra forse. L’ombra di quello che eravamo non la si può cacciare, essa esiste nonostante il tempo passato, nonostante le violenze pirandelliane al suo riconoscimento. È un leitmotiv che accompagna la nostra vita, un leitmotiv che, come sembra narrare lo stesso Sepúlveda, affronta la repentina conversione tra l’incidere e l’uccidere. Da solco tracciato l’ombra diviene proiettile. È un killer sentimentale, un killer fatto da ricordi e segni. È il tango della quotidianità, la fisicità del segno, i movimenti della propria inscrizione in esso, tragici ed audaci, lirici e decadenti come un brano di Gardel.  È la prima sigaretta dopo aver perso l’amore, sperando di rivederlo nel fumo e viverlo sino a quando il proprio respiro non si spezza ed il fumo si dissolve, è il lutto incomprensibile. È una propria personale perdita a cui non si riesce a dar cognizione di causa. La aspetti per un confronto o un conforto che sembra inevitabile, ma perennemente procrastinabile.  Gli indizi e le tracce del suo passaggio sono troppo fuggevoli, bisogna ricercarla e ricercarsi oltre sé stessi, bisogna comprendere dove scompare la frontiera tra noi ed il nostro altro, tra il nostro mondo ed il nostro mondo oltre a se stesso, quando questo da mondo diviene prigione.  

Dov’è il proprio mondo alla fine del mondo? È forse la domanda più complessa che si fa Sepúlveda. Come superare quella frontiera del sé? Come credere che solo un viaggio lontano dai tuoi fantasmi possa riconciliarti paradossalmente con essi? È la domanda di Fifì che sente di non essere più adatta al suo spazio, che sente di doversi finalmente confrontare con il suo segno, il segno della sua esistenza, dis-identificandosi dalla sua famiglia adottiva, dalla sua vita precedente per comprendere la potenza del suo primo evento. Spiccare il volo sapendo di poter cadere, sapendo di poter morire. È l’inseguire i fantasmi di Bruce Chatwin, Butch Cassidy e Sundance Kid in un viaggio tra gli ultimi, tra la massa muta della Patagonia. È la ricerca del proprio senso, delle proprie radici, l’utopia del proprio senso e del proprio spazio, è Martos.

Tutto questo non è il cielo edonistico che sin troppe volte le forze politiche han esaltato dopo la dipartita dell’autore cileno, come avvoltoi sulla carcassa che banchettano di pura retorica. Non è il cielo infernale del produttivismo capitalistico, asfissiante ed insostenibile, né è la libertà aprioristica ed ingiustificata di sublimarsi e desublimarsi repressivamente: il viaggio in tal caso diviene fuga, si tramuta in desiderio scostante e giammai insoddisfatto. È la parabola del vecchio ed il campanile narrata da De Martino: se non si può sclerotizzare un essere umano in un luogo, non si può d’altronde strappare una persona dal proprio spazio per assuefarla d’altri. È ciò che fa la differenza tra la paradossalità dell’essere umano nella sua naturalezza e il soggetto ipertrofico, schizoide e schizofrenico, che accetta la legge del doversi sfruttare. La libertà non si commisura mai, come già preconizzò Pasolini, né nella sudditanza e benché meno nell’esasperato consumismo.

È forse proprio questa l’ultima riflessione che ci lascia Sepúlveda, ed è una riflessione che in tempo di quarantena è preziosa come il pane: quando il tempo si ferma, quando la frenesia quotidiana si interrompe bruscamente e la paura che questa interruzione finisca cresce perché si sente come sia sempre più difficile tentare di buttarsi di nuovo dal campanile per imparare a volare, forse si paventa a noi la definizione della vita nella sua intensità essenziale. In un mondo compartimentato e schematico, dove devi creare e cedere spazi, dove appassionarti, amare, odiare, piangere, abbracciare e compatire devono avere i loro tempi di efficientamento e le loro maschere d’apparenza, sempre di meno si trova il tempo di vedersi allo specchio, di capire se veramente quegli spazi possano davvero darti un senso, se veramente ciò che hai vissuto ripone in sé una coerenza interna. Bisogna lasciare all’ustionato il tempo di rendersi conto delle proprie ferite.

Forse si può di nuovo imparare a conoscere quella nessuna parte di noi stessi, ma questa rimane sempre un’ipotesi. Sepúlveda ha raccontato un realismo magico, un realismo che descrive gli ultimi non solo rivendicandone il loro diritto a darsi un senso, bensì salvandone la naturalità. Non ha mai raccontato fiabe utopiche. Ha fatto dell’umano metro di giudizio, ma non l’ha mai esaltato. Nel viaggio presso la nessuna parte non è detto che si sopravviva: si vive, si muore, si vincono e si perdono battaglie senza mai far i conti con la guerra intera. E gli sconfitti ce ne sono, o almeno, coloro che all’occhio comune sono sconfitti: ed è proprio nella sconfitta, incredibile paradosso, che forse si ritrova l’elemento più discreto, potente e deflagrante per spiegare cosa può essere la vita. Pace, normalità, coerenza: nella difficoltà della loro appropriazione, nell’impossibilità di stabilizzarne le fattezze durante l’ineluttabile scadere della vita, si può dire che l’uomo viva nella sua narrazione. La vita si racconta, è un racconto che tenta di giocare sulla propria coerenza interna il suo fragile compromesso con i propri spettri. È il poeta della Storia di una gabbianella, è il giovane Sepúlveda che inizia a sognare nei romanzi dopo un sogno d’amore svanito, è suo nonno e il suo anarchismo sincero, è Antonio José Bolivar che perde tutto tranne lo spettro del tigrillo, che sembra sussumere violentemente i suoi affetti, la sua vita passata, i suoi amori. È la volontà di rievocare il confronto con la sua costituzione spettrale sapendo d’esser troppo vecchio per assurgere al cielo; sono i suoi romanzi d’amore che nel frattempo lo fanno vivere, gli fanno cercare il proprio spazio nel massimo sforzo dell’uomo, raccontare e raccontarsi.  Noi siamo la nostra narrazione, una storia di spettri, frontiere e cieli.

— Elia Pupil

Si ringrazia il compagno Emilio G. per le vignette a contenuto politico.

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