- Primo libro
Nel 2020 Bruno Cartosio pubblica per DeriveApprodi un libro che prova a fare il punto sull’America di Trump dal titolo Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano. Il lavoro inizia citando Warren Buffet identificato, assieme ad altri 25 miliardari, come il vertice della piramide sociale mondiale. La loro ricchezza complessiva è pari a quella di 3,8 miliardi di persone, cioè la metà povera della popolazione mondiale. Di questi 26 miliardari ben 15 sono statunitensi che, assieme ad altri 385 contribuenti, hanno visto passare il loro reddito annuo in media da 40 a 227 milioni di dollari a testa tra il 1992 e il 2017. Questa ricchezza per Cartosio nasce dalla loro vittoria in una guerra di classe combattuta contro la classe operaia e le loro fabbriche-roccaforti che sono state pesantemente colpite anche dalla terza rivoluzione industriale con conseguente chiusura e dissolvimento dei grandi agglomerati operai nei paesi a capitalismo avanzato. Infatti, come ben sappiamo, le grandi fabbriche che sono state chiuse nei nostri paesi sono riapparse nell’ex Terzo Mondo. La nuova fase del capitalismo lega strettamente tra loro il declino di Detroit, l’ascesa della Silicon Valley e il nuovo gigantismo di Shenzhen. Da ciò ne consegue che analizzare solamente gli USA e la loro economia non è più sufficiente per capire la direzione di marcia del capitalismo mondiale anche sé questo paese continua a svolgere un ruolo importante essendo il cemento di Wall Street a tenere insieme il mosaico. Inoltre è questo il paese dove si trova il motore e il vettore principale di queste trasformazioni che hanno portato alla sconfitta dell’esercito operaio da parte della classe dei ricchi. La loro vittoria ha portato alla modifica della società e della politica in maniera unilaterale per poter annichilire il loro antagonista storico. Il risultato è l’affermazione dell’egemonia delle industrie del denaro nella società e sui governi con il risultato di produrre quella che Colin Crouch ha chiamato post-democrazia. Con l’ascesa di Trump questa forma di governo si è avvicinata sempre di più alla democrazia illiberale. La società americana di oggi è una plutocrazia guidata da una cerchia ristretta di potentati legati all’economia e alla finanza e dove decenni di guerra contro i poveri ha prodotto un paese sempre più diseguale che, a fronte dell’arricchimento smodato di una piccola minoranza, ha regalato un generale impoverimento alla maggioranza della popolazione accelerando il declino dell’America. Queste disuguaglianze sono anche dietro l’ascesa di movimenti e idee razziste, xenofobe e sessiste che hanno favorito la vittoria di Trump nel 2016.
1.1 Il fenomeno Trump
Trump ha vinto le elezioni promettendo di restituire il potere al popolo statunitense, in particolare la sua parte dimenticata, togliendolo dalle mani di chi “parla senza fare nulla” ovvero politici, funzionari, amministratori e altri soggetti considerati dei parassiti. Un discorso simile può essere pronunciato solamente da chi ritiene di incarnare la volontà e le aspirazione di tutto il popolo. Non si tratta semplicemente di populismo ma di demagogia infarcita di presunzione autoritaria che finisce per deformare e miniaturizzare ogni riferimento ai populismi storici. Un personaggio come Trump, estremamente ricco, non è mai stato parte del popolo e non ha mai definito e rivendicato un suo populismo. Non l’ha fatto neanche quando è stato al potere e pretendeva di esercitarlo a comando, facendo affidamento sulla totale obbedienza dei suoi sottoposti e scavalcando ogni forma di mediazione che si frappone tra lui e il suo popolo. Ma cos’è per il popolo Trump? In una repubblica democratica presidenziale la risposta dovrebbe essere il prescelto dalla maggioranza dei cittadini aventi diritto di voto per diventare presidente. Non è così negli USA e per dimostrarlo Cartosio parte dall’analisi delle primarie con cui sono indicati da Repubblicani e Democratici i loro candidati per correre alle elezioni presidenziali. Bene, i due candidati finali del 2016 Trump e Clinton sono stati votati dal 9% della popolazione. Anche nelle elezioni finali di novembre questo popolo si riduce a meno di un quarto del corpo elettorale che ha votato Trumo il quale ha preso anche tre milioni di voti popolari in meno della sua avversaria. La campagna elettorale di Trump, inoltre, è stata contraddistinta dalla rozzezza, dalle provocazioni e della sua forte divisività. Spesso ha contrapposto se stesso ad alcune componenti della popolazione che hanno votato per Clinton cioè le minoranze afroamericane e ispaniche, oltre un quarto della popolazione americana, i dipendenti degli apparati amministrativi delle istituzioni federali, da lui definiti dei parassiti, la grande stampa e il disprezzato mondo della cultura. Secondariamente, dice Cartosio, Trump e i suoi consiglieri, pensiamo solo a Steve Bannon, hanno creato un modello di azione e agitazione politica molto spregiudicato che ha offerto sostegno e aperture a tutte le voci e le organizzazioni della destra laica e religiosa. Questa scelta ha prodotto lo scontato sostegno di realtà come Fox News o media organization come il Sinclair Broadcast Group ma anche quello di un movimento molto particolare chiamato alt-right che esiste unicamente su internet. Si tratta di un miscuglio di ideologie tenuto insieme da ciò contro cui si oppongono ovvero: il femminismo, l’islam, Black Lives Matter, il politicamente corretto. Si tratta di tutta una serie di idee che l’alt-right tiene insieme quando parla di guerra contro il globalismo. Il sostegno di questa rete che si muove nei meandri di Internet ha consentito di mettere rapidamente in circolazione i contenuti di questa area politica assieme a meme provocatori e ironici ad essa collegati. Lo scopo è sempre quello di screditare figure politiche liberal o di sinistra e seminare antagonismi con l’unico obiettivo di sostenere la cosiddetta agenda anti-globalista incarnata da personalità come Trump. Legata a questo fenomeno politico c’è la risposta alla domanda sulla sua presunta adesione all’ideologia fascista. Molti intellettuali e giornalisti si sono cimentati nella risoluzione di questo dilemma. Ad esempio Jamelle Bouie, riprendendo il saggio di Umberto Eco sull’Ur-fascismo che elenca i 14 tratti caratterizzanti il fascismo, ne individua ben 8 per Trump: il disprezzo per il pensiero in quanto attività intellettuale, l’intolleranza verso le critiche, la paura della diversità, il fare appello sulla frustrazione individuale e sociale, il nazionalismo estremo, un senso di umiliazione di fronte alla “ricchezza e alla forza dei nemici”, un elitarismo popolare integrato dal disprezzo per i deboli e la celebrazione di una mascolinità aggressiva e violenta. Altri due elementi non citati da Bouie che possono essere imputati a Trump sono il populismo selettivo, unito al suprematismo razziale bianco e l’autoritarismo, e l’adozione di una prassi basata sul disprezzo per l’evidenza dei fatti e la falsificazione sistematica della verità. Un altro giornalista, Eric Levitz, ritiene le accuse di fascismo verso Trump ragionevoli ma si domandava se fosse corretto dargli del fascista solo perché si sentiva tale. Per rispondere a questo interrogativo viene fatto riferimento al modello interpretativo di Robert Paxton contenuto nel suo libro The Anatomy of Fascism. L’autore non interpreta il fenomeno fascista a partire dall’ideologia e dalla filosofia politica perché ritiene il fascismo come un prodotto della ricerca del potere in quanto tale e va fatto risalire all’insieme di passioni mobilitanti che danno forma all’azione fascista piuttosto che ad una filosofia coerente e articolata. Queste passioni venivano sintetizzate in nove punti da Paxton: un senso profondo di crisi, l’impossibilità di risolvere i problemi con metodi tradizionali, la superiorità del gruppo a cui l’individuo deve subordinarsi e la cui purezza deve essere difesa, la convinzione che il proprio gruppo sia in una condizione di vittima e che ciò giustifichi ogni azione contro il nemico, il timore che il gruppo si possa indebolire a causa del liberalismo, della lotta di classe o di altre influenze esterne, il bisogno di una comunità coesa e pura fondata sul consenso o la violenza che esclude chi non vi aderisce, la necessità di avere un capo naturale maschio capace di incarnare i destini del gruppo, la superiorità degli istinti del capo rispetto alla razionalità, l’uso della violenza e l’efficacia della volontà quando sono utili al gruppo e il diritto del popolo eletto a dominare gli altri in nome della legge del più forte e senza alcun vincolo derivante da leggi umane o divine. Non a caso durante l’ascesa di Trump nel mondo politico americano è stata chiesta spesso l’opinione a Paxton. Inizialmente lo riteneva un affarista che stava giocando con la retorica e i pregiudizi tipici della retorica fascista ma quattro mesi dopo l’elezione di Trump la sua opinione cambiò. Trump sembrava riprendere diversi motivi del fascismo come l’isteria sul declino nazionale causato da stranieri e minoranze, il disprezzo per il diritto, la difesa della violenza contro gli oppositori e il rifiuto di tutto ciò che è internazionale. Tuttavia a contraddistinguere l’azione politica di Trump è la sua incoerenza che rendono il suo esecutivo privo di vincoli e controlli più vicino ad una generica dittatura che al fascismo. Una lettura di sinistra al fenomeno Trump è offerta da Dylan Riley tramite un saggio pubblicato sulla New Left Review. In questo lavoro sostiene che Trump non è un fascista perché le condizioni sociali e politiche in cui è emersa la figura dell’ex presidente degli USA sono diverse da quelle dell’Europa tra le due guerre mondiali dove classi dirigenti esauste erano disposte ad accettare la soppressione delle libertà borghesi e ad affidare il potere ai delinquenti di estrema destra per eliminare fisicamente la minaccia della rivoluzione operaia. Trump è inoltre sprovvisto di un’organizzazione di partito, di una milizia e di un’ideologia. Due anni dopo questo lavoro, sulla stessa rivista, ribadisce che bisogna evitare paragoni tra figure ed eventi fuori dal loro contesto storico basati sull’utilizzo di esempi sconnessi. Qualsiasi parallelo tra l’ascesa al potere di Trump e quella di Hitler o Mussolini non regge. La democrazia illiberale a cui aspira Trump è diversa dal regime totalitario del nazismo e del fascismo. La frazione più estremista del trumpismo, ovvero la sboccata, provocatoria e ambigua alt-right non è un movimento paramilitare e non c’è nulla di paragonabile alla camice nere o brune nel movimento di Trump nonostante gli ammiccamenti con l’estrema destra e l’uso della violenza in alcuni frangenti. Ovviamente Riley non sottovaluta l’autoritarismo e la spregiudicatezza del personaggio ma lo interpreta come una crisi di leadership della classe dirigente con molte analogie con quella che a metà Ottocento rese possibile il golpe bonapartista in Francia le cui possibilità e circostanze furono rese possibili dall’azione della lotta di classe, per citare Marx. Questo paragone evoca le parole di Warren Buffett sulla lotta di classe dei ricchi vinta contro la classe operaia perché ha generato le condizioni per l’ascesa al potere di un personaggio mediocre come Trump attraverso l’aumento delle divisioni e delle disuguaglianze sociali. Da ciò ne consegue che il trumpismo potrà essere sconfitto unicamente debellando le forze che lo hanno portato a vincere, cioè il grande processo di trasformazione economico-sociale che ha trasformato le democrazie progressivamente in un sistema politico che combina la difesa spudorata degli interessi dei ceti medio-alti e il principio elettorale. In poche parole si tratta dei processi che hanno generato ciò che Colin Crouch definisce post-democrazia.
1.2. La democrazia negli USA
Trump è sicuramente una minaccia per la democrazia ma ciò non significa che prima della sua ascesa politica le cose funzionassero alla perfezione negli USA. Dice Cartosio che è proprio una democrazia in crisi a rendere possibile la candidatura e la presidenza di un demagogo come l’ex presidente degli USA. Questi problemi sono noti ai movimenti di opposizione che sfidano tanto Trump, con tutto ciò che rappresenta, quanto le discriminazione e le diseguaglianze precedenti alla sua presidenza. Per questo motivo rivendicano la giustizia sociale come cura per la democrazia che era in sofferenza da prima del fenomeno Trump. Contro questo demagogo al potere si sono mobilitati in molti negli USA. Le prime a farlo furono le donne della Women’s March nel gennaio del 2017 coinvolgendo più di tre milioni di uomini e donne nelle loro manifestazioni. Questa protesta nasce come reazione di alcune donne alle ripetute volgarità antifemminili di Trump e riuscì quasi subito a raccogliere l’adesione di molte organizzazioni, allargando la piattaforma ad altri problemi del paese come la giustizia sociale, la razza, l’etnicità, il genere, i diritti umani o l’immigrazione. In un primo momento le mobilitazioni contro Trump sono state alimentate dal femminismo con le sue elaborazioni teoriche e la sua prospettiva immediatamente internazionalista tramite i suoi legami, ad esempio, con Ni una menos in America Latina o i movimenti per l’aborto in Polonia. Un altro movimento centrale nel contrasto alla presidenza Trump è stato Black Lives Matter, tra le principali voci del movimento nero che ha preso dal movimento Occupy Wall Street la struttura organizzativa reticolare, orizzontale e informale mentre allo stesso tempo rivendica, attualizzandola, la storia del movimento antirazzista americano da Martin Luther King alle Pantere Nere. Cartosio sottolinea anche l’importanza del movimento Future Coalition, nato a partire da manifestazioni a seguito della strage di Parkland per ottenere restrizioni sull’acquisto e possesso di armi da fuoco, che divenne negli USA un elemento chiave, legandosi a Fridays for Future, per la riuscita del Global Climate Strike del 2019. Tutte queste realtà hanno sfidato Trump a partire da problemi che hanno radici sociali profonde e precedenti alla sua amministrazione e idealmente prendono il testimone di un movimento di protesta nato a New York con Occupy Wall Street che per primo denunciò le disuguaglianze sociali negli USA nel lontano autunno 2011. L’anno successivo nasce il movimento Fight for 15, cioè la lotta per il salario a 15 dollari l’ora fatta partire da alcuni dipendenti di McDonald’s a New York che piano piano ha allargato i suoi confini fino a coinvolgere città di tutto il paese. Queste rivendicazioni si ritrovano all’interno di tutte le successive lotte operaie sia nella grande distribuzione, dove si innesta alla dura sfida della sindacalizzazione dei grandi magazzini, sia negli scioperi dei metalmeccanici americani. Insomma, la società era già divisa prima di Trump e ora lo è radicalmente di più. Cartosio dice che Trump ha tratto vantaggio dalla situazione di malessere e disagio sociale ma non bisogna mai dimenticare che la parte ostile all’ex presidente degli USA è sempre maggiore dei suoi sostenitori e le manifestazioni contro di lui sono sempre maggiori di quelle a favore.
1.3. Le contraddizioni della democrazia in USA
Immanuel Wallerstein sostiene che tra gli elementi maggiormente visibili per la definizione di una democrazia troviamo l’esistenza di libere elezioni, di mezzi di comunicazione non controllati dalla politica e la possibilità di professare la propria fede senza l’ingerenza dello Stato. In breve tutte le libertà civili di un particolare Stato. Questi elementi, però, dice l’autore, non sono sufficienti per soddisfare i criteri per una società democratica secondo un individuo medio, altrimenti non sarebbe così diffusa la disaffezione verso la politica e le elezioni. Ci sono tante altre questioni che preoccupano il cittadino medio ovvero la corruzione, le diseguaglianze materiali e un livello di inclusione della cittadinanza inadeguata. Queste problematiche non affrontate dalla politica producono alti livelli di astensione, specialmente tra i più poveri, e una gestione del potere nelle mani di una componente privilegiata economicamente e socialmente. Emerge l’idea che la partita sia truccata da privilegi e corruzione e per questo i più poveri rinunciano alla politica e di conseguenza rinunciano alle democrazia, favorendo la sua trasformazione in plutocrazia. Tutti queste affermazioni sono corroborate da alcuni dati. Dalla fine della Seconda guerra mondiale fino a tutti gli anni ‘60, con la sola eccezione del 1948, le percentuali di votanti alle elezioni presidenziali si sono mantenute leggermente sotto o sopra il 60%. A partire dal 1972 e nelle dodici elezioni presidenziali successive degli ultimi 50 anni per sette volte i votanti non hanno raggiunto la soglia del 55%. Chi vota di meno è la parte della popolazione più povera, più socialmente debole, come disoccupati e sottoccupati, minoranze e giovani, i meno istruiti e incompetenti dal punto di vista linguistico. L’ultima rilevazione sull’alfabetizzazione negli USA, risalente al 2002, riconosceva la relazione tra competenza linguistica e voto. Inoltre le masse socialmente e culturalmente deboli tendono, oltre a votare poco, nei casi in cui si recano alle urne a dare la loro preferenza al candidato che sentono meno lontano o più vicino. Nel 2016 i maschi hanno votato in maggioranza per Trump mentre le donne e i giovani per Clinton. I bianchi hanno votato al 58% per Trump mentre gli afromericani all’88% per Clinton come il 65% degli ispanici e il 65% degli asiatici. I più poveri hanno dato in maggioranza la loro preferenza per Clinton, addirittura più era basso il livello di reddito e maggiore era la percentuale di voto per Hillary Clinton. Inoltre aggiungiamo che le basi per la plutocrazia di cui abbiamo parlato sono gettate dalla tendenza ad avere un tasso di rinnovamento delle Camere molto basso. Per tornare alle competenze linguistiche e culturali, esse si acquisiscono nel sistema educativo. Se escludiamo le scuole e le università di élite e private, poco numerose, la maggior parte delle scuole, dei college e delle università degli USA sono pubbliche e dipendono in misura decisiva dai finanziamenti delle amministrazioni locali, statali e federali. Queste risorse negli ultimi decenni sono state regolarmente tagliate. Nel 2010 erano pari a 103,7 miliardi di dollari, cioè il 34,1% dei 304 miliardi spesi da queste amministrazioni per l’educazione superiore. Nel 1975 gli stessi fondi erano il 60,5% dei fondi complessivi. Tra il 1980 e il 2011 i fondi pubblici hanno subito una riduzione del 40,2% e se la tendenza dovesse continuare, si arriverebbe a zero entro quarant’anni. Una simile situazione genera un aumento delle tasse per gli studenti di college e università e la ricerca di finanziamenti privati per mantenere queste istituzioni. Le tasse, in continuo declino fino agli anni ‘60, rispetto al 1980 sono aumentate del 247% nelle università di vertice, del 230% per i college e le università statali e del 164% per i community college. Ovviamente ciò ha delle pesanti conseguenze sull’indebitamento studentesco derivante dai prestiti richiesti per affrontare dei costi per l’istruzione in aumento e una delle conseguenze di queste politiche è il calo delle immatricolazioni. Inoltre, l’aumento delle tasse non compensa i tagli subiti e ciò aumenta la dipendenza dalle istituzioni finanziarie esterne. Tutti questi dati hanno una relazione con l’elezione di Trump perché è comprovato come nei 27 stati dove la spesa per istruzione è più bassa l’approvazione per l’ex presidente degli USA era più alta di 38 punti rispetto alla media nazionale mentre nei 24 stati con la spesa pubblica per l’istruzione maggiore solamente in 9 l’approvazione per Trump era superiore alla media nazionale. Un discorso simile vale per i livelli di sindacalizzazione. La Clinton ha vinto in 16 dei 23 stati dove il tasso di sindacalizzazione era superiore al 10% mentre Trump ha vinto in 22 dei 26 stati dove la sindacalizzazione era inferiore al 10%. I processi di descolarizzazione e desindacalizzazione, alimentati dalla svolta neoliberista, convergono su Trump. L’esito di cui abbiamo parlato rende il legame tra democrazia e il suo funzionamento, le sue finalità, inscindibile per poter misurare l’effettiva democraticità di una società assieme al suo stato di salute. Un simile rapporto è reso plasticamente evidente dall’articolo 3 della nostra Costituzione dove viene sancito che la Repubblica democratica ha il compito di rimuovere gli ostacoli economici e sociali che, limitando la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, ne impedisce il pieno sviluppo e l’effettiva partecipazione alla vita politica, economica e sociale del paese. Di conseguenza una democrazia è un luogo dove vige la libertà politica, il rispetto del diritto di voto e tutto il sistema politico-istituzionale è concepito in funzione dell’uguaglianza dei cittadini, della loro pari dignità sociale e della loro partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale e soprattutto senza distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinione politica, condizione personale e sociale. La conseguenza di una simile impostazione è che le disuguaglianze finiscono per distorcere la democrazia, quindi disuguaglianza economica significa disuguaglianza politica.
Un altro problema della democrazia americana riguarda il voto, in particolare la discrepanza tra l’esito del voto e il volere della maggioranza della popolazione. Ricordiamo come nelle elezioni presidenziali del 2016 circa il 45% degli statunitensi aventi il diritto al voto non si sia recato alle urne, contribuendo a far eleggere il presidente da una minoranza del corpo elettorale. Inoltre, Donald Trump è stato sconfitto nel voto popolare da Hillary Clinton ed è diventato presidente con il 46,1% dei voti a favore contro il 48,2% di Clinton. Ciò significa che il 54% del poco più del 55% che ha votato non ha scelto Trump, di conseguenza è stato eletto avendo ricevuto i suffragi di un quarto degli adulti aventi diritto di voto. Cartosio ribadisce che non è il numero dei voti popolari a livello nazionale a decidere chi sarà il presidente degli USA. Questo ruolo spetta alla distribuzione delle maggioranze dei voti Stato per Stato. L’organo che de jure elegge il presidente è l’Electoral college con il voto dei suoi componenti, cioè i Grandi elettori. Nel 2016 la differenza tra voto popolare e dei Grandi elettori è stata molto marcata e potrebbe essere una delle cause della rinuncia al voto come strumento di partecipazione democratica e manifestazione delle propria “volontà”. Nonostante ciò, l’obiettivo di entrambi i partiti resta la conquista della maggioranza del voto popolare nel maggior numero di stati. Per questo motivo le maggioranze repubblicane nel Congresso e nei singoli stati hanno utilizzato varie strategie per allontanare dai seggi la maggior parte dei potenziali elettori democratici. Questo esito è favorito da alcune leggi che normano l’accesso al voto. Per esempio non esiste l’inclusione automatica nelle liste elettorali dei cittadini aventi diritto di voto in base ad età e residenza. La registrazione per poter accedere alle liste che garantiscono il voto comporta l’obbligo di recarsi di persona presso gli uffici appositi. In sedici stati, invece, è stata introdotta una norma che richiede ai votanti di presentarsi ai seggi muniti di documenti d’identità con fotografia, cosa non abituale negli USA e perciò va letto come un tentativo di allontanare dalle urne gli appartenenti agli strati più bassi e marginali della popolazione che, dice Cartosio, pur avendo dimostrato la loro identità nel momento della registrazione entrando nelle liste elettorali, non possiedono una carta d’identità o un passaporto. In alcuni stati, invece, alcuni documenti sono validi e altri no. Per esempio in Texas è valido il porto d’armi ma non il tesserino universitario. Altri modi per scoraggiare il voto sono il mantenimento della data delle elezioni in un giorno feriale che scoraggiano il voto in assenza dei permessi pagati e di conseguenza una perdita di salario per le ore non lavorate. Negli stati a guida repubblicana, invece, sono diffuse pratiche di ridisegno dei distretti elettorali per garantire maggioranze sicure al partito repubblicano o la progressiva riduzione del numero delle sezioni elettorali con conseguenze attese di ore per poter votare, creando anche file all’aperto nel mese di novembre. Tutto ciò si somma al ritorno di antiche forme di discriminazione e la presenza di una concezione elitaria del voto. A conferma di ciò ci sono due fatti citati da Cartosio, l’esclusione, nelle elezioni presidenziali del 2000 e del 2004, di oltre 5 milioni di afromaericani ed ex detenuti attraverso la manipolazione delle liste elettorali e il tentativo, nel 2005, in Georgia di reintrodurre la Poll Tax, ovvero una tassa di venti dollari per avere l’accesso al voto. La scarsa partecipazione al voto che tutto ciò genera fa sì che il presidente degli USA e gli eletti al Congresso poggino su un consenso popolare limitato. Questo contribuisce anche al già citato basso tasso di ricambio dei membri del Congresso che possono essere rieletti indefinitamente e rende i corpi elettivi poco rappresentativi del potere del popolo, sostituito dal potere dei pochi, spesso ricchi, rendendo gli USA, di fatto, una plutocrazia.
1.4. La situazione economica degli USA
Donald Trump vince le elezioni in un momento di ripresa economica generale del paese grazie alle scelte fatte da Obama. I suoi propositi in campo economico sono all’insegna dell’ostilità dichiarata verso Wall Street e la globalizzazione colpevole di aver portato all’esportazione di capitali e posti di lavoro. Trump denuncia anche gli accordi internazionali di reciprocità, prova ad incentivare il rientro in patria delle imprese, questo punto in continuità con Obama, e introduce unilateralmente dazi doganali con lo scopo di scoraggiare le importazioni e incentivare la produzione nazionale. Tutte queste scelte sono funzionali alla difesa, nelle idee di Trump, della produzione, del reddito e dei consumi interni ma hanno alimentato anche le guerre commerciali contro Messico, Canada, paesi europei e soprattutto Cina. L’insieme di autarchia produttiva, protezionismo economico e isolazionismo politico non sembra coerente con le logiche economico-finanziarie del capitalismo globalizzato. Hanno avuto, inoltre, delle conseguenze positive solo temporanee in termini di crescita ed occupazione che sono oltretutto distribuite in maniera ineguale e solo marginalmente hanno favorito gli stati agricoli ed ex industriali del Midwest fondamentali per l’elezione di Trump. Un’altra contraddizione nella politica economica dell’ex presidente degli USA risiede nel suo ergersi a difensore della parte dimentica del popolo americano mentre non ha fatto nulla per uscire dalla logica disegualitaria e distruttiva del neoliberismo. Al contrario, ha promosso una riforma fiscale favorevole agli interessi dei ceti abbienti e delle corporation riportando in auge l’economia dell’offerta e della trickle down economy, inclusa la curva di Laffer, dell’epoca di Reagan. Sempre per chiarire quali interessi di classe ha servito Trump, sotto la sua presidenza è stata smantellata la legge Dodd-Frank con cui Obama ha cercato di dare un minimo di regole alla finanza e, per rivitalizzare l’indifferenza del neoliberismo nei confronti dell’ambiente, ha promosso l’estrazione e l’utilizzo del carbone e l’estrazione del petrolio in Alaska e nel mare, facendo piazza pulita di tutte le limitazioni alle emissioni dannose delle automobili. In poche parole, sotto Trump si è scatenato il peggiore negazionismo del cambiamento climatico che ha portato alla denuncia degli accordi di Parigi sul clima. Quindi, se andiamo oltre la demagogia populista, Trump non ha operato per servire gli interessi del popolo ma del grande capitale e non ha corretto le storture della globalizzazione capitalista. Inoltre, andando oltre la retorica isolazionista, Trump non ha voluto mai bloccare i processi della globalizzazione, posto che sia possibile farlo, ma ha solo voluto combattere quella degli altri paesi, in primis eliminando la concorrenza cinese nel mercato interno statunitense e sui mercati globali, difendendo, allo stesso tempo, la possibilità per le grandi corporation statunitensi di esercitare la propria libertà d’azione e la propria globalizzazione, ovvero la possibilità di muoversi liberamente, estrarre i propri profitti grazie alla posizione di monopolio nel mercato globale ed evitare i prelievi fiscali nei paesi dove sono a loro meno favorevoli. A conferma di ciò Cartosio cita le minacce di ritorsione verso l’UE da parte degli USA per quanto riguarda le multe elevate comminate alle grandi corporation statunitensi. Trump non è intervenuto neanche per fermare il costante declino della quota di reddito spettante ai lavoratori, una conseguenza della progressiva riduzione della loro forza contrattuale causata dalla deindustrializzazione e dalla desindacalizzazione dei luoghi di lavoro. Non essere intervenuti per fermare l’indebolimento del mondo del lavoro ha consentito che non ci fosse nessuno ostacolo per impedire gli aumenti delle disparità economiche tra vertici aziendali e lavoratori. Tutto ciò non è casuale. L’unione di neoliberismo, deindustrializzazione e globalizzazione ha generato la cornice dentro la quale ha potuto dispiegarsi una rivoluzione dall’alto socialmente regressiva che ha colpito tutto l’Occidente. Questo attacco alla classe operaia è composto da finanziarizzazione dell’economia, processo sostenuto dalle tecnologie informatiche, e spostamento dei capitali in luoghi lontani da quelli in cui i lavoratori hanno conquistato i loro diritti. Ciò che rimase agli USA furono le disuguaglianze sociali, sostanzialmente in calo dal 1945 all’inizio degli anni ‘70, in aumento dagli anni ‘80 fino ad essere più profonde di quelle esistenti a fine Ottocento. Un altro regalo di questa trasformazione del capitalismo sono le ex città industriali in rovina. Il caso limite per capire questo fenomeno è la città di Detroit dove, dal 1960 in poi, sono state abbattute 200.000 abitazioni e un terzo del suo territorio è vacant land. Processi analoghi si riscontrano in altre città con una storia simile come Philadelphia, Cleveland, St. Louis, Chicago, Baltimora. Tra il 2000 e il 2010 gli alloggi abbandonati a livello nazionale ma non ancora abbattuti per i costi elevati che ciò comporterebbe è passato da 7 a 10 milioni. Le unità residenziali vacanti nelle maggiori aree metropolitane del paese sono passate dal 10,5% del totale nel 2012 al 9,4% nel 2017. Sono invece mezzo milione i siti industriali abbandonati ancora non bonificati. Ovviamente questi problemi si concentrano maggiormente nelle città dove la crisi dell’industria tradizionale è più profonda. Inoltre il declino urbano si fonde con l’abbandono di vaste aree di queste metropoli da parte dell’iniziativa privata industriale-commerciale e la nuova economia legata, ad esempio, al settore tech non riesce ad offrire una quantità di buoni posti di lavoro paragonabile a quelli prodotti nel passato dall’industria tradizionale, non riuscendo neanche a soddisfare i bisogni sociali e culturali della comunità in cui si impiantano. Cartosio elenca dei casi per dimostrare il degrado delle ex città industriale negli USA che rendono ancora più chiaro lo stato di abbandono di pezzi interi del paese. Partiamo con Hartford, arrivata sull’orlo della bancarotta nel 2017. Si tratta della capitale del Connecticut e da sempre questa metropoli è considerata la capitale delle assicurazioni. Tra il 1970 e il 2017 ha perso un quarto della propria popolazione, un terzo dei suoi residenti è povero e il reddito medio annuo è di 30000 dollari, cioè meno della metà dei 71.000 dollari dello stato del Connecticut, il più alto reddito medio della nazione. Negli ultimi trent’anni gli addetti nel settore assicurativo presenti nella sua area metropolitana sono passati da 60.000 a 37.000 nel 2017 e delle trenta maggiori compagnia assicurative che avevano la sede in questa metropoli ne sono rimaste solo due, ovvero la Hartford e la Aetna che nel 2017 ha spostato la sua sede a New York. A tutto ciò si aggiunge la delocalizzazione delle imprese manifatturiere, la chiusura della grande distribuzione, la riduzione dei servizi da parte delle amministrazioni pubbliche locali e il trasferimento di pezzi della popolazione verso le aree con più prospettive occupazionali e migliori condizioni di vita. A rimanere in queste aree degradate sono i poveri distribuiti nelle zone marginali del tessuto urbano dove costituiscono una quantità trascurabile di consumatori che è diseconomico servire grazie ad una logica con cui le amministrazioni pubbliche sono trasformate in commercianti. Città come Detroit, invece, si ritrovano interi quartieri con l’illuminazione ridotta o soppressa, alcuni servizi vitali come quelli di polizia, della nettezza urbana, del trasporto pubblico e del pronto soccorso sono stati cancellati o drasticamente ridotti. Una situazione simile si registra a Flint accomunata da un destino simile a quello di Detroit generato dalla stessa causa, ovvero, lo smantellamento della produzione industriale e delle grandi fabbriche fordiste che sono state chiuse lasciando dietro di sé le loro rovine materiali e umane. Questo processo è legato alla lotta di classe scatenata dall’alto dai padroni che hanno sconfitto il movimento operaio in questo modo e hanno trasferito la produzione in luoghi dove il costo del lavoro è basso e i diritti dei lavoratori inesistenti. Le delocalizzazioni sono rese possibili dai processi di ristrutturazione del capitalismo che hanno preso di mira la pericolosa alta concentrazione operaia nelle fabbriche con il risultato di chiudere o ridimensionare le grandi fabbriche tramite il downsizing, cioè la riduzione del personale e della fabbrica, e le esternalizzazioni, ovvero l’outsourcing, di intere fasi della produzione. Un terzo elemento da prendere in considerazione è il re-engineering, cioè l’adozione su vasta scala delle innovazioni prodotte dall’automazione. Accanto a tutto ciò c’è una spietata politica antisindacale che ha portato, negli USA, all’espulsione dei sindacati dove erano già presenti oppure il tentativo di impedire l’accesso nei nuovi stabilimenti, specialmente nel sud del paese dove è inesistente una tradizione di lotta sindacale e le amministrazioni locali offrono incentivi fiscali e diretti per la costruzione di nuove fabbriche. Gli operai sono stati anche colpiti nelle loro comunità che vennero polverizzate per ostacolare la solidarietà di classe e nelle loro tasche cancellando la stabilità occupazionale, precarizzando i rapporti di lavoro e riducendo i salari. L’altra faccia della medaglia sono le città capaci di cavalcare l’onda dell’industria tech. Alcune di esse, come Pittsburgh, sono città industriali che hanno avuto la possibilità e la capacità restare a galla nel mondo della terza rivoluzione industriale, altre, come New York, hanno perso la loro componente manifatturiera per rilanciare attività già impiantate nella metropoli come la finanza. Realtà come Boston, invece, si sono reinventate nel settore hi-tech senza essere spinte in questa direzione da una crisi produttiva. Infine ci sono città che sono cresciute tramite la terza rivoluzione industriale, come Seattle e San Francisco. La prima metropoli si è rapidamente sviluppata grazie alla presenza degli stabilimenti Boeing e quindi dell’industria aerospaziale ma il salto di qualità del suo sviluppo viene dall’industria hi-tech, del commercio al dettaglio e delle vendite online. A Seattle hanno la loro sede società come Microsoft, Starbucks e Amazon. San Francisco, invece, deve le sue fortune all’espansione dell’industria hi-tech in tutte le sue forme e applicazioni grazie alla vicinanza con la Silicon Valley e Sacramento. Nella metropoli hanno la loro sede società come Twitter e Yahoo e tante start-ups come Uber e Airbnb. Grazie a questa dinamica di sviluppo in entrambe le città è aumentata la domanda di posti di lavoro qualificati e ben pagati ma anche quella del lavoro povero, in particolare nei servizi, senza il quale non esisterebbe il retroterra materiale su cui devono poter contare questi lavoratori specializzati. Il problema di questa relazione è che il lavoro povero utile al lavoro specializzato è maggiore di quest’ultimo e di conseguenza è molto più probabile che un lavoratore americano sia impiegato in un ristorante piuttosto che in un fabbrica e anche nella Silicon Valley è più probabile che lavori in un negozio rispetto al settore hi-tech. Il rischio concreto è vedere l’affermarsi del lavoro temporaneo, saltuario e/o a tempo parziale come la forma di occupazione dominante. A questo problema si aggiunge un altro elemento. I prodotti dell’industria tech sono ideati nei paesi a capitalismo avanzato come negli USA ma non producono nel paese lo stesso indotto che c’era ai tempi dell’industria dell’acciaio o delle auto perché è il vertice di una catena del valore transnazionale. Di conseguenza un iPhone è ideato in California ma tutte le attività a minore valore aggiunto sono svolte in giro per il mondo, soprattutto in Asia sfruttando i lavoratori cinesi nelle terribili ZES. Da ciò deriva una conclusione chiara: l’industria hi-tech senza il suo risvolto manifatturiero non è in grado di garantire un’occupazione estesa, stabile, con alti salari e benefits in maniera analoga a quanto faceva la grande fabbrica nel Novecento.
2. Secondo libro
Bruno Cartosio nel libro Gli Stati Uniti oggi. Democrazia fragile, lavoro instabile si riallaccia alla fine del precedente libro facendo il punto sulla repressione che ha portato al collasso della forza del movimento operaio tramite la lotta di classe scatenata dall’alto di cui abbiamo già parlato. L’autore sostiene che questa vittoria non è stata riportata tramite una repressione vecchio stile ma convincendo i lavoratori che la distruzione di tutte le loro difese li avrebbe resi più liberi con la possibilità, per ognuno, di essere padrone di sé e del proprio destino, con la possibilità di accedere a scale di valore e di merito senza l’inganno massificante di interessi comuni di classe da cui, veniva detto, traevano vantaggio i meno qualificati e meno capaci. Misure come la precarizzazione del lavoro, la distruzione del lavoro industriale e l’abbassamento dei salari erano presentate come l’unica scelta praticabile in un contesto dove il welfare state erano diventato troppo costoso a causa di uno Stato ipertrofico e di chi si faceva mantenere dalla comunità senza fare niente. Da questa ubriacatura neoliberista si è iniziati ad uscirne fuori con l’elezione di Obama del novembre 2008 che portò come reazione violenti attacchi razzisti e una ferma opposizione ai suoi programmi sociali come l’Affordable Care Act. Le forze più duramente neoliberiste e insofferenti verso i tentativi di controllo e trasparenza sugli affari introdotti da Obama hanno vinto nelle elezioni del 2016 con Trump. Queste componenti si sommano agli elementi più spiccatamente razzisti, xenofobi, maschilisti che sono dietro il successo dell’ex presidente degli USA. In questo modo Joe Biden, il suo successore, si è ritrovato a gestire una società divisa verticalmente dalla contrapposizione sul terreno ideologico-politico e orizzontalmente dal punto di vista dell’aumento delle diseguaglianze sociali e della polarizzazione sociale.
2.1 Biden contro il neoliberismo
La presidenza Biden è contraddistinta da un ambizioso piano di uscita dal neoliberismo. Nei primi tre mesi del suo mandato ha firmato 60 Azioni esecutive e 24 di esse avevano come scopo revocare le scelte sbagliate e socialmente dannose prese da Donald Trump. Sono state varate misure per accelerare le vaccinazioni contro il COVID-19, ridurre la disoccupazione e i disagi economici creati dalla pandemia tramite il Rescue Plan con i suoi 1900 miliardi di dollari. Nel maggio 2021 vengono formalizzati i due più ambiziosi programmi di riforma e di spesa, cioè il Jobs Plan di 2300 miliardi e il Families Plan di 1800 miliardi e sono collocate nelle posizioni di rilievo della macchina politico-amministrativa personalità spiccatamente progressiste nella materia delle politiche sociali. Questi piani prevedevano investimenti distribuiti su più anni diversamente dall’unica spesa rimasta intatta rispetto alla precedente amministrazione, ovvero le forme di assistenza al reddito o per chi lo aveva perduto nei mesi della pandemia. Nell’arco di un decennio impegnavano il governo federale nel finanziamento di una serie molto consistente di lavori pubblici, di interventi per il clima e l’ambiente, iniziative a favore di giovani e famiglie, ristrutturazione e/o ammodernamento delle infrastrutture del paese, produzione di energia pulita, incentivi per la produzione di auto elettriche, incentivi fiscali, innalzamento delle aliquote fiscali sui redditi più alti, riduzione dell’enorme debito scolastico accumulato nel corso dei decenni dagli studenti americani e infine, l’adozione di una nuova concezione della cosiddetta infrastruttura sociale, cioè misure inedite per qualità e quantità della spesa a sostegno dei lavori di cura a disabili e anziani, per l’iscrizione agli asili nido e alle scuole materne pubbliche e gratuite, l’iscrizione gratuita al biennio dei community college e i permessi pagati ai lavoratori per assenze dovute, ad esempio, a malattia o maternità. Se escludiamo il Rescue Plan, la spesa pluriennale preventivata dall’amministrazione Biden era di 6000 miliardi. La loro applicazione però ha incontrato una serie di ostacoli non solo dalla scontata opposizione repubblicana ma anche a causa dall’ostinato antagonismo di alcuni democratici, come i senatori Joe Manchin e Kyrsten Sinema, amplificato dalla situazione di parità tra repubblicani e democratici in Senato. I ridimensionamenti imposti ai piani di Biden da parte di questi reazionari, come la compressione o il taglio di specifici stanziamenti previsti, hanno salvato solamente l’Infrastructure Plan di 1000 miliardi di dollari. Un altro smacco subito da Biden è stata l’impossibilità di far passare in Congresso l’innalzamento del salario minimo orario a 15 dollari con una legge federale assieme alla protezione del diritto all’organizzazione e alla contrattazione sindacale con un progetto di modifica della legislazione sui rapporti di lavoro chiamato Protecting the Right to Organize. La situazione poteva ulteriormente peggiorare con le elezioni di midterm, momento in cui di solito il partito al potere perde terreno a vantaggio degli avversari, su cui poteva pesare il sostegno finanziario e militare degli USA all’Ucraina invasa da Putin. A salvare Biden ci ha pensato la Corte suprema egemonizzata dai repubblicani che nel giugno del 2022 ha cancellato la storica Roe vs Wade generando imponenti mobilitazioni in difesa del diritto di aborto sostenute sia dal presidente degli USA che dalla sua vice Kamala Harris. Questo ulteriore elemento in una società sempre più polarizzata ha funzionato sia per sottrarre voti ai repubblicani più moderati e ostili a Trump che per convincere gli astenuti a votare. La popolarità dell’amministrazione è stata anche risollevata, ad agosto, dal piano sulla riduzione dell’inflazione e dalle indagini sui fatti del 6 gennaio 2021, cioè il tentativo di Trump di ribaltare con la forza i risultati delle elezioni presidenziali del 2020. Nel novembre 2022, quindi, i democratici sono riusciti ad ottenere la maggioranza nel Senato perdendo, però, la Camera con uno scarto minimo di 222 a 213. Alla fine della fiera possiamo dire che le realizzazioni dell’amministrazione Biden sono state nettamente inferiori alle aspettative. Dei piani originari sono rimasti in piedi quello dedicato alle infrastrutture e il Families Plan riscritto due volte e alla fine confluito in quello per contrastare l’inflazione. Nonostante ciò bisogna evidenziare l’intento riformatore e radicale delle azioni di Biden. I due termini non sono in contrapposizione perché il riformismo può avere successo solo se abbastanza radicale da mettere in discussione il sistema dominante. La riforma di Biden aveva l’ambizione di essere alternativa quanto la svolta neoliberista degli anni ‘70 con l’intento di restaurare un capitalismo sociale con un forte welfare state, un ruolo centrale dello Stato in economia e una maggiore forza dei sindacati sostenuti dal presidente sin dalla ripresa dell’iniziativa operaia negli USA nell’autunno del 2021 con forti rivendicazioni per diritti e salario nel contesto della ripresa economica successiva alla pandemia che mostravano a tutti la reale natura di una crescita dell’occupazione basata largamente, nonostante la disoccupazione scesa al 3,6% nel 2023 e un Pil cresciuto del 5,7% tra gennaio e dicembre 2021 e del 2,1% nel 2022, sul lavoro precario, temporaneo, occasionale e privo di coperture assistenziali e previdenziali. La conclusione che possiamo trarre è la seguente: la spinta con cui Biden ha cercato di superare 40 anni di neoliberismo è stata insufficiente e a tre quarti del balzo è caduto nuovamente nel fossato. Questo perché progressivamente è venuto a mancare il sostegno dal basso garantito dai movimenti per fermare il pericolo Trump dopo la sua sconfitta. La caduta della tensione che ha tenuto insieme i suoi elettori nel novembre 2020 è stata fatale per le ambizioni della presidenza Biden in un contesto atipico rispetto al recente passato dove sia dall’alto che dal basso venivano denunciati i danni del neoliberismo.
2.2 Il risveglio del movimento operaio negli USA
Dopo la fine del capitalismo sociale di matrice keynesiana e influenzato dall’esperienza del New Deal e la conseguente ascesa del neoliberismo, i lavoratori sono stati privati di ogni legittimità nella loro costituzione in classe. Come un secolo e mezzo fa, il mondo del lavoro è costretto a ripartire da zero o quasi e con molta fatica stanno tornando le lotte dei lavoratori americani. Essi devono fare i conti con le grandi corporation che monopolizzano la scena economica e finanziaria, esercitando il loro comando non solo sulla forza lavoro ma sulla società in generale con la collaborazione della politica, salvo le parziali eccezioni di Obama e Biden. La loro egemonia si esprime nell’imposizione di linee di comportamento nei rapporti di lavoro. I padroni di oggi, come quelli di ieri, non tollerano la presenza dei sindacati nelle loro aziende. Se i Ford e i Rockefeller non accettavano i sindacati nei loro stabilimenti, questo valeva per l’intero settore in cui operavano. Lo stesso vale per Bezos a Amazon o Sundar Pichari a Google e di conseguenza per tutto il settore hi-tech. I padroni di ieri per riuscire in questo scopo, mentre costruivano ospedali, biblioteche pubbliche o il Greenfield Village, non esitavano a sparare addosso agli operai che chiedevano alti salari e sindacati. Quelli di oggi, invece, usano l’arma del licenziamento contro i lavoratori che scioperano, protestano o provano a fare proselitismo sindacale per conservare la supremazia conquistata con la distruzione, nei passati decenni, delle organizzazioni sindacali. Nonostante ciò iniziano ad emergere i primi fermenti di rivolta dei lavoratori. A fine 2021, con Sundar Pichari ad amministrare Google, inizia la resistenza dei lavoratori tech di questo pilastro del capitalismo delle piattaforme contro il loro licenziamento e hanno formato l’Alphabet Workers Union, aderendo alla Communications Workers of America. Nella primavera del 2023 questo sindacato aveva 1400 iscritti su 260000 dipendenti di Google. Si tratta di un sindacato anomalo, non formalmente riconosciuto e che esiste solo in quanto iniziativa solidale autonoma e attiva fuori dall’impresa, senza alcuna capacità contrattuale e di rappresentanza interna. L’onda della sindacalizzazione non si ferma qui. Nel dicembre 2021, a Buffalo, i sindacati sono riusciti ad entrare nella prima caffetteria di Starbucks tramite l’iniziativa di Starbucks Workers United che sono riusciti a sindacalizzare altri 250 locali dell’azienda, circa il 4% del totale, nonostante l’ostruzionismo dei padroni, i trattamenti differenziati nei confronti dei lavoratori sindacalizzati, esclusi dagli aumenti concessi nell’ambito della strategia antisindacale padronale, e il rifiuto di ogni ipotesi di contrattazione collettiva. Tutto ciò è certificato dal National Labor Relations Board. Sulla stessa linea di ferma opposizione ai sindacati si attesta Jeff Bezos che non ha alcuna intenzione di sedersi ad un tavolo con i rappresentanti dei lavoratori per discutere di linee, tempi, orari e carichi di lavoro. La lotta del movimento sindacale per entrare nei magazzini di Amazon inizia nel marzo 2021 con il tentativo della Retail, Wholesale and Department Store Union di sindacalizzare il magazzino di Bessemer in Alabama. Questa iniziativa sindacale ha avuto il sostegno di molte organizzazioni sociali come Black Lives Matter e Democratic Socialists of America. Alle elezioni per far entrare il sindacato in azienda hanno votato solo una parte dei 6000 dipendenti di Amazon a Bessemer, sconfiggendo coloro che volevano sindacalizzare lo stabilimento. Tre mesi dopo, però, il National Labor Relations Board annullava le elezioni a causa dei tentativi di Amazon di intimidire i dipendenti, per il mancato rispetto della segretezza nell’esercizio del voto e per le interferenze nel procedimento elettorale, falsando il risultato. Alla ripetizione del voto, a fine marzo 2022, quasi due terzi dei dipendenti si sono astenuti e la componente contraria al sindacato aveva un esiguo vantaggio. Dopo l’Alabama, dove il tasso di sindacalizzazione del settore privato non agricolo è dell’8,5%, il più alto nel Sud, è arrivato il turno di New York, dove il tasso di sindacalizzazione è del 21%. Cartosio sottolinea un’altra differenza. In Alabama la campagna è stata lanciata dai vertici sindacali nazionali dall’alto e da fuori lo stabilimento. A Staten Island, a New York, l’iniziativa sindacale è partita dal basso e dall’interno del magazzino, in opposizione ai licenziamenti e alla repressione tramite un gruppo che si è formato fuori dall’orario di lavoro grazie all’azione di militanti interni ed esterni all’azienda tra le cui fila spicca la figura carismatica di Christian Smalls, licenziato due anni prima per aver criticato Amazon. Questa rete di solidarietà ha portato alla creazione dell’Amazon Labor Union che ha ottenuto il riconoscimento da parte del National Labor Relations Board per poter imporre una scadenza elettorale all’azienda. Dopo due anni di lavoro, i lavoratori, tramite il loro voto, sono riusciti a sindacalizzare il magazzino. Si tratta dell’inizio di una lunga e dura lotta per i lavoratori americani di Amazon che dovranno intraprendere un percorso dagli esiti non scontati, come dimostra le successive sconfitte nei magazzini Amazon sia nella stessa Staten Island che ad Albany. Nel 2023 gli scioperi si estendono anche ad Ups, ai lavoratori di Hollywood, agli hotel workers e infine alle industrie dell’auto tramite un combattivo United Auto Workers guidato da Shawn Fain.
Questi assalti sono il sintomo della ribellione dei lavoratori a 40 anni di neoliberismo ma ancora non è un movimento di massa paragonabile alle lotte del movimento operaio negli anni ‘60 e ‘70 ma non è neppure qualcosa di facilmente liquidabile. I lavoratori sono sempre più combattivi e non sono più disposti ad accettare, anche se non sono molto organizzati, cattive condizioni di lavoro. Gli scioperi sono affiancati da un numero senza precedenti di dimissioni dal posto di lavoro che descrivono una sorta di sciopero generale non organizzato ma diffuso. Questi due fenomeni si sono presentati in contemporanea, cioè nel momento di ripresa economica dopo la pandemia che innalza la domanda di forza lavoro favorendo l’iniziativa dei lavoratori sia collettivamente, tramite i sindacati, sia con l’abbandono individuale del posto di lavoro che, pur essendo un’azione di un singolo, assume una dimensione di massa con molte persone sintonizzate sulla stessa lunghezza d’onda. La coincidenza dell’individuale e del collettivo ci fa parlare di sciopero generale formalmente non dichiarato. Quindi, scioperi e grandi dimissioni sono connessi e rappresentano la rottura del precedente stato di forte lealtà dei lavoratori alle imprese lungo due direttrici, quello della voce, cioè degli scioperi, e quella della defezione, ovvero della fuga dei vecchi posti di lavoro per trovarne di migliori in termini di salario e condizioni di lavoro. Un altro elemento che emerge dall’analisi di questi movimenti è il ritorno di una vecchia tradizione del movimento sindacale americano, ovvero la presenza di militant minorities fondamentali per la costruzioni di organizzazioni dal basso e della loro combattività. Si tratta di attivisti presenti nei luoghi di lavoro molto politicizzati a sinistra e riconosciuti come leader da parte dei lavoratori che oggi provengono dal mondo delle professioni, dalle università e dai movimenti, come quello che ha sostenuto Sanders. Questo segna una convergenza tra diplomati di college di classe media e classe operaia fondamentale per ringiovanire il mondo sindacale.
Accanto a questa ripresa della lotta di classe negli USA negli ultimi anni si è assistito alla crescita del cosiddetto gig work. Si tratta di lavoro precario codificato come prestazione individuale svolta in un luogo diverso dalla sede dell’azienda committente. La prestazione si basa sul rapporto a tre tra corporation-piattaforma che gestisce l’attività, gli individui che richiedono il servizio occasionale e coloro che prestano la loro opera a chiamata per un compenso pattuito con l’impresa proprietaria della piattaforma. Il termine gig deriva dal mondo dello spettacolo. Si tratta dei numeri svolti da un attore senza compagnia qualora si abbia bisogno di lui e per i quali viene pagato. In questo rapporto di lavoro non esiste alcuna continuità contrattuale. Le aziende che utilizzano maggiormente il gig work sono espressione del capitalismo delle piattaforme e la maggior parte di esse è nata a San Francisco. Parliamo di società come Uber e Lyft oppure la più anziana TaskRabbit. Negli ultimi dieci anni è enormemente cresciuta la domanda di gig workers che offrono prestazioni poco costose per le aziende e gli utenti ma sono legati alla piattaforma da prestazioni che, per la frequenza con cui vengono svolte, fanno assumere al rapporto di lavoro la forma del classico lavoro dipendente. Queste attività, però, sono quasi sempre pagate al di fuori delle norme previste dalla legge negli USA per quanto riguarda paghe, orario, coperture assistenziali, previdenziali e responsabilità dei datori di lavoro. Questa situazione è accettata dalle piattaforme, dagli utenti e da metà dei lavoratori coinvolti mentre il restante inizia a vedere come un problema la richiesta di una disponibilità pressoché perenne a cui i lavoratori sono chiamati e la contemporanea assunzione a proprio carico di tutti i rischi e costi, l’assenza di benefits assistenziali e previdenziali. Ciò ha spinto parte di questi lavoratori ad iniziare una serie di mobilitazioni contro la loro condizione precaria di cui il gig work rappresenta l’evoluzione. Infatti il precariato storicamente si basava su occupazione a tempo saltuario o limitato in cui è tuttavia l’azienda a fissare gli orari di lavoro, a fornire i mezzi di produzione ai lavoratori e i locali in cui svolgere la propria attività. Le innovazioni tecnologiche rendono possibile andare oltre le regole vigenti che regolano i rapporti di lavoro e impongono oneri a carico delle imprese. L’immagine-tipo del nuovo lavoratore flessibile e autonomo è stata costruita intorno agli autisti a chiamata di Uber e di Lyft. Si tratta di un lavoratore che svolge la propria prestazione per mezzo di un auto di cui è proprietario, di cui paga l’assicurazione, il carburante e della cui usura deve tenere conto. Tutto ciò si svolge in un luogo altro rispetto la sede dell’azienda che però gestisce il sistema tramite la sua piattaforma che viene utilizzata dagli utenti per far partire l’attività degli autisti.
Da questo sistema traggono i maggiori vantaggi le imprese che possono utilizzare la precarietà del lavoro, i bassi compensi ricevuti dai lavoratori e il basso costo del lavoro per macinare grandi profitti. Non a caso le imprese che utilizzano i gig workers si sono battute duramente per evitare una loro riclassificazione come lavoratori dipendenti al posto della figura del lavoratore autonomo. Questo emerge platealmente nel modo in cui si sono opposte all’Assembly Bill 5 detto Ab5. Si tratta di un’iniziativa legislativa della California volta a sciogliere la questione giuridicamente fondamentale della classificazione dei gig workers che risale al luglio 2019. La legge è entrata in vigore il 1 gennaio 2020 e prevede la classificazione di molti gig workers, soprattutto autisti e corrieri, come employees, ovvero lavoratori dipendenti con tutte le garanzie che ne conseguono in termini di salario minimo, sussidio di disoccupazione, assistenza sanitaria e infortunistica, permessi per la maternità e la malattia, rimborsi spese… Una parte dei lavoratori non era d’accordo con questa trasformazione, anche grazie alla pressioni dell’azienda sotto la forma di concessioni e migliorie offerte per smontare la loro lotta, e di conseguenza alcune categorie come camionisti, scrittori e giornalisti furono esentati da questo cambiamento di regole. Le imprese risposero immediatamente investendo oltre 224 milioni di dollari in lobbying e propaganda per sostenere l’abolizione della legge tramite il Proposition 22, un referendum svoltosi in contemporanea alle elezioni del novembre 2020. Molti gig workers lottarono contro questo referendum, favorendo l’incontro tra organizzazioni di lavoratori diverse e costringendo le imprese ad aumentare benefits e compensi per smontare la loro lotta. Nonostante ciò il referendum venne vinto dal fronte pro-imprese, facendo regredire tutti i gig workers alla posizione di lavoratori autonomi privi di tutele. Alcune delle organizzazioni di questa categoria denunciarono la California contestando l’incostituzionalità della Proposition 22. Nel 2021 il Tribunale superiore dello Stato diede ragione ai lavoratori ma le imprese del capitalismo delle piattaforme si sono appellate e nel marzo del 2023 la Corte d’Appello rovesciò la sentenza dandogli ragione. Questa battaglia californiana aveva delle sue espansioni anche a livello nazionale dove i repubblicani intervennero prima dell’entrata in carica di Biden con il Fair Labor Standard Act per favorire le imprese per quanto riguarda le norme dei contratti dei lavoratori autonomi. Prima della sua entrata in vigore venne sospesa e cancellata dall’amministrazione Biden. Le imprese risposero con una denuncia del ministro del lavoro Walsh presso il tribunale federale del Texas per irregolarità procedurali nell’azione abrogativa del suo ministero a cui i democratici risposero con nuove norme entrate in vigore nell’ottobre 2022. Le nuove regole stabiliscono che qualora il gig worker fosse economicamente dipendente dall’attività prestata, senza integrare in altri modi il proprio reddito, deve essere considerato un lavoratore dipendente.