- Introduzione
Ilan Pappé nel suo libro 10 miti su Israele intende sfatare le tesi che Israele fa passare come verità nel dibattito pubblico a giustificazione dell’esistenza del suo regime coloniale e di occupazione. Lo storico israeliano inizia il suo lavoro da una breve ricostruzione della storia della Palestina che esiste con questo nome dai tempi dei Romani. A metà del VII secolo la sua storia si unì a quella del mondo islamico ma a condizionare ancora il suo presente è stata l’occupazione ottomana che ha governato la regione per quattrocento anni finendo per influenzare il catasto, l’ordinamento giuridico e gli atti dei tribunali religiosi israeliani.
Quando arrivarono i primi coloni sionisti in Palestina, la maggior parte della popolazione era composta da musulmani sunniti e meno del 5% della popolazione era ebrea mentre una percentuale compresa tra il 10% e il 15% era formata da cristiani. Secondo la versione ufficiale della storia fornita dallo stato israeliano, con l’arrivo dei turchi iniziò l’emigrazione degli ebrei nella regione, contribuendo al suo sviluppo. Sono presentati come il cuore pulsante di quella società. Con il crollo dell’impero ottomano la Palestina, all’improvviso, sarebbe diventata una terra arida coltivata da contadini poveri. Questa versione della storia non ha alcun serio fondamento documentale ed è ormai contestata anche dai principali storici israeliani.
In realtà, prima del sionismo, la Palestina era una società araba molto dinamica e simile ad altre realtà del Mediterraneo Orientale, con infrastrutture sviluppate e importanti centri agricoli che servivano mezzo milione di persone, di cui solo una piccola percentuale era composta da ebrei, in massima parte ostili al sionismo.
Tra il XIX e il XX secolo le élite palestinesi metabolizzarono le idee nazionaliste e iniziarono a chiedere autonomia all’impero ottomano. Nel XIX secolo questo processo, affiancato da un tentativo di secolarizzazione della società, trovò anche il sostegno dei cristiani. Per Pappé, in assenza del sionismo, molto probabilmente anche gli ebrei vi avrebbero aderito. I palestinesi finirono per fare riferimento ad un’entità geopolitica chiara che voleva ottenere la sua indipendenza, magari all’interno di una Siria libera. I suoi confini furono successivamente definiti dal dominio inglese che subentrò a quello ottomano e fu decisivo per la vittoria sionista.
Per Pappé la tesi sionista della Palestina come terra di nessuno si accompagna a quella dei cristiani secondo cui gli ebrei, un popolo senza terra, dovranno tornare in Palestina per compiere il piano divino per la fine dei tempi, la resurrezione dei morti e la seconda venuta del Messia. Sono in particolare i protestanti a sostenere questa tesi che nasconde un forte antisemitismo di fondo perché considera gli ebrei non assimilabili dalle società europee e destinati ad essere una nazione nella nazione. Di conseguenza, afferma Pappé, il sionismo trova una sua legittimità nell’antisemitismo dei cristiani europei. Alcuni esponenti del governo inglese, guidati da un misto di zelo religioso e fiuto politico, sostennero i piani sionisti per destabilizzare l’impero ottomano attraverso il ritorno degli ebrei in Palestina. Ad incoraggiare questo processo troviamo anche il movimento pietista tedesco del tempio, nato dal luteranesimo tedesco e foraggiato dai nobili prussiani, che fondò colonie in Palestina i cui metodi furono adottati dai primi coloni sionisti. Questo movimento considerava la ricostruzione di un tempio ebraico a Gerusalemme essenziale nello schema divino per la redenzione e assoluzione.
2. La nascita del sionismo
Alla fine del XIX secolo per la nascita del sionismo furono determinanti le persecuzioni antisemite all’interno dell’impero russo, da cui venne la prima ondata di coloni sionisti, e l’antisemitismo emerso all’interno del nazionalismo in Europa Occidentale. Gli ebrei erano visti come soggetti da non integrare come eguali in società. I sionisti risposero all’antisemitismo trasformando l’ebraismo in identità etnica in termini nazionali. Questo processo trova la sua origine nell’Illuminismo ebraico, in cui possiamo trovare intellettuali che volevano ridefinire come movimento nazionale l’ebraismo e colonizzare la Palestina, per ripotare gli ebrei nella terra da dove vennero espulsi dai Romani nel 70 d.C. e fondare delle colonie agricole. Ricordiamo che in molte zone d’Europa per gli ebrei non essa possibile possedere la terra.
Nel XIX secolo emerge la figura di Theodr Herzl, uno dei principali teorici del sionismo. Inizialmente pensava che la questione ebraica si potesse risolvere con la piena integrazione dell’ebreo in società. In seguito giunse a sostenere la sua soluzione attraverso la fondazione di uno stato nazionale in Palestina. Queste idee erano osteggiate sia dai rabbini, le reputavano un veicolo di secolarizzazione e modernizzazione, ma anche dai laici che pensavano potesse far sorgere dubbi sulla lealtà degli ebrei verso la nazione con la conseguenza di alimentare l’antisemitismo. Per i primi la questione ebraica andava risolta rinnovando il radicamento nei precetti religiosi mentre i secondi sostenevano l’assimilazione alla vita non ebraica.
Nel mondo degli ultra ortodossi l’opposizione al sionismo si basa sulla tesi secondo cui a porre fine all’esilio degli ebrei dovrà essere solamente la venuta del Messia e nel frattempo bisogna praticare uno stile di vita tradizionale. Alcuni rabbini erano, però, favorevoli al sionismo e gettarono le basi per il sionismo religioso che vede nella colonizzazione un’anticipazione della redenzione degli ebrei e della venuta del Messia.
Nel mondo laico troviamo la forte opposizione dei riformisti che non volevano riqualificare l’ebraismo come nazionalismo. Si consideravano cittadini del paese in cui sono nati ma di fede mosaica. Speravano di porre fine alle persecuzioni antisemite giurando fedeltà alla nazione in cui sono nati, confidando in un clima politico sempre più liberale. A sinistra emersero le critiche del Bund, un sindacato ebraico attivo in Europa Orientale, che accusò i sionisti di alimentare l’antisemitismo mettendo in discussione la lealtà degli ebrei verso la propria nazione. Per questa organizzazione politica la questione ebraica poteva essere risolta solo dalla rivoluzione socialista. Con il tempo entrambi i gruppi affievolirono la loro critica ai sionisti finendo per sostenere Israele.
3. La colonizzazione
I sionisti leggono la Bibbia come la storia di una nazione oppressa, pur promuovendo uno stile di vita laico e la secolarizzazione della società. La Bibbia è utilizzata per finalità politica, come giustificare l’esistenza di Israele fino al 70 d.C.
Dopo quella data, la terra che era di Israele rimase essenzialmente spopolata. Abbiamo già visto che questa tesi non corrisponde al vero ma era utile per giocare la carta della realizzazione del piano divino per la fine dei tempi e ottenere il sostegno dei cristiani alla colonizzazione e alla pulizia etnica della Palestina abitata in maggioranza da arabi. Per ottenere prove materiali a sostegno di questa storia emerse la cosiddetta archeologia biblica. In questo modo presero possesso di vecchie città palestinesi perché anticamente erano insediamenti ebraici e spacciarono tutto ciò per un movimento di liberazione. Sulle ceneri di queste città eressero i kibbutz egualitari e socialisti. Si tratta però di una forma di colonialismo che stride apertamente con l’universalismo socialismo.
L’utilizzo della Bibbia come strumento politico può prende strade anche più pericolose. Per esempio l’estrema destra israeliana la usa per dipingere i palestinesi come subumani ed eterni nemici grazie ai riferimenti biblici a popolazioni locali sterminate dagli ebrei. Queste sono le idee, dice Pappé, che guidano realtà come Mafdal impegnate nella colonizzazione della Cisgiordania dopo la guerra del 1967.
Da quanto scritto possiamo trarre una conclusione: il sionismo è un movimento colonialista.
Quando i coloni giunsero in Palestina la trovarono abitata e si trovarono davanti allo stesso problema dei coloni europei giunti in Australia o nelle Americhe. Quello sionista, però, è un colonialismo di insediamento che non mira allo sfruttamento delle risorse naturali ma alla confisca delle terre. Le colonie fondate non dipendono da una madrepatria o da un impero ma mirano a creare una nuova patria. In questo contesto emerge quella che Patrick Wolfe chiama la logica dell’eliminazione che può prendere la forma di genocidio, pulizia etnica o azzeramento dei diritti della popolazione presa di mira e va di pari passo con la sua disumanizzazione. Questo porta a squalificare la legittimità della resistenza palestinese, soprattutto quando entra in gioco la tesi sionista della Palestina come terra senza popolo. La resistenza palestinese prende, secondo questa logica, la strada di un violento attacco contro gli ebrei. Non ha alcuna importanza sé le prime interazioni con i coloni furono pacifiche e divennero violente solo con la consapevolezza del processo di colonizzazione in atto a cui dobbiamo aggiungere l’ostilità dei sionisti per queste forme pacifiche di cooperazione. Arrivarono ad impedire l’impiego di forza lavoro araba con l’intento di escludere i palestinesi dalla vita economica.
Consapevoli di tutto ciò, è possibile inquadrare meglio la Nakba e la Guerra dei sei giorni del 1967. Volontariamente o meno, i palestinesi dovevano lasciare la propria terra. Finché non emerse l’occasione utile per un trasferimento forzato, i sionisti sostennero l’esodo volontario verso altri paesi arabi. Nel 1948 inventarono la storia della promessa degli altri paesi arabi di invadere Israele per cacciare gli ebrei per giustificare l’espulsione dei palestinesi. Secondo i sionisti, i palestinesi, forti di questa promessa, abbandonarono volontariamente il paese ma successive ricerche storiche fatte per rispondere alle pressioni degli USA per garantire il ritorno dei palestinesi smentirono clamorosamente questa storia. Le conclusioni di questi studi dimostrano come la famosa promessa dei paesi arabi fatta ai palestinesi non è mai esistita e il loro trasferimento era già iniziato prima del 1948. Fu accelerato dall’uso sistematico della forza e delle intimidazioni. I risultati non piacquero al governo israeliano che decise di nasconderli e realizzare un libro bianco che gli desse ragione.
Pappé sostiene che la guerra del 1967 non fosse altro che il naturale proseguimento degli eventi del 1948. La conquista di tutta la Palestina storica non fu immediatamente possibile per degli accordi presi con la Giordania per la preservazione dell’autonomia della Cisgiordania in cambio del loro mancato intervento militare a sostegno dei palestinesi. Ben Gurion si oppose fermamente alla sua conquista negli anni successivi perché ossessionato dalla demografia. Non voleva annettere oltre un milione di palestinesi in una nazione di poco più di un milione di abitanti ma nel frattempo aveva creato un regime militare per la gestione della minoranza araba copiato sul modello proposto dal colonialismo inglese per gestire una popolazione civile ostile. Questo modello venne abolito nel 1966 e riproposto nel 1967 per gestire l’occupazione di Cisgiordania e Gaza.
Tra gli anni ’50 e ’60 in Medio Oriente alcuni generali di idee progressiste presero il potere con un golpe. Fu il caso dell’Egitto di Nasser e successivamente di Iraq e Siria. Questi paesi erano sostenuti dall’URSS e si trovarono ad avere molti attriti con Israele, in particolare Nasser che adottò una politica di rischio calcolato per fare pressioni sul paese vicino senza intraprendere una guerra. Decise di spostare le sue truppe nel Sinai, una zona teoricamente smilitarizzata. Nel 1960 l’ONU si oppose a questa decisione del generale egiziano e Israele rifiutò di muovere guerra al paese arabo. Nel 1967 Nasser adottò la stessa strategia per risolvere le tensioni tra Israele e Siria ma questa volta ci fu la risposta militare israeliana, favorita dall’ONU che decise di ritirare le sue truppe dal Sinai, che non permise di trovare una soluzione alternativa alla guerra. Era un’occasione storica per leadership israeliana per termine il lavoro iniziato nel 1948 e che portò all’occupazione di Cisgiordania, Gaza, Gerusalemme Est, Sinai e Alture del Golan.
3. Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente?
Per Pappé la risposta è ovviamente no. Nel dibattito pubblico Israele è rappresentato come una democrazia incappata nella guerra del 1967 che ha portato alla sua trasformazione in potenza occupante, favorendo l’entrata in politica di gruppi messianici di estrema destra, ovvero i coloni insediati in Cisgiordania e un tempo anche a Gaza. Questa tesi non corrisponde al vero. Il regime di occupazione militare a cui sono sottoposti questi territori era lo stesso riservato alla minoranza araba di Israele fino al 1966.
“Se la cartina al tornasole di ogni democrazia è il livello di tolleranza verso le proprie minoranze, Israele è ben lungi dal poter essere considerato uno stato democratico. Ad esempio, dopo le nuove conquiste territoriali, il governo israeliano approvò diverse leggi che garantivano una posizione di superiorità alla maggioranza ebraica dello stato: quelle sulla cittadinanza, sulla proprietà fondiaria e, soprattutto, la legge sul ritorno, che concede automaticamente la cittadinanza israeliana a ogni ebreo del mondo, ovunque si trovi. Questa norma nello specifico è palesemente antidemocratica, poiché è accompagnata dal rifiuto categorico di riconoscere il diritto al ritorno dei palestinesi, sancito a livello internazionale dalla risoluzione 194 dell’assemblea generale delle Nazioni Unite del 1948. Questo diniego impedisce ai cittadini palestinesi di Israele di riunirsi ai loro familiari o a coloro che furono espulsi nel 1948. Negare alle persone il diritto al ritorno nella propria patria e allo stesso tempo concedere lo stesso diritto ad altri che non hanno alcun legame con questa terra è senza dubbio una pratica antidemocratica”1.
Altri esempi di discriminazione sono il rapporto con la leva. I palestinesi non erano ostili alla leva, soprattutto perché era un mezzo per sfuggire alla noia della vita di campagna. Durante le guerre non si sono mai comportati come una quinta colonna del nemico arabo. Tuttavia permaneva un forte sospetto nei loro confronti.
Per quanto riguarda le risorse economiche messe a disposizione per i villaggi arabi ed ebrei, Pappé fa notare come queste siano superiori nei secondi, generando forti diseguaglianze di reddito. Il più povero dei villaggi ebrei ha un reddito pro capite superiore al più ricco villaggio palestinese. A questo bisogna aggiungere che nelle regioni dove gli ebrei sono una minoranza viene incentivata la costruzione di nuovi villaggi in cui gli arabi non possono prendere la residenza. Anche nella gestione della terra emerge una forte discriminazione nei confronti dei palestinesi. Il 90% della terra in Israele è di proprietà del Fondo nazionale ebraico mentre i proprietari privati dei terreni non possono vendere la loro terra ai non ebrei. Infine, i progetti nazionali come la costruzione di nuovi villaggi per ebrei hanno sempre la priorità.
La fine del regime militare per la minoranza araba in Israele non pone fine, quindi, ai processi di discriminazione dei palestinesi. Nei territori che rimangono sotto l’occupazione israeliana, come la Cisgiordania, troviamo forti spinte alla colonizzazione, alimentate dall’estrema destra, che con la fondazione di colonie ebraiche illegali rompono la continuità territoriale di un futuro stato palestinese.
Proprio di quest’ultimo Pappé si occupa nel libro a partire dalla critica degli Accordi di Oslo, dietro cui si celano due miti. Il primo è che fu un vero processo di pace mentre il secondo riguarda il ruolo di Arafat nel lancio della Seconda Intifada che bloccò questa pacificazione tra arabi e israeliani.
Pappé non considera quello di Oslo un vero processo di pace perché è basato sulla spartizione delle terre. L’idea non è nuova. Possiamo ritrovarne le tracce già nelle proposte sioniste degli anni ’30 del XX secolo. Con il passare del tempo, la percentuale di terra assegnata alla Palestina è diminuita fino al 20% del totale. I palestinesi furono costretti ad accettare gli Accordi di Oslo in assenza di alternative per ottenere la pace. Fu, quindi, un compromesso. La soluzione a due stati nella riflessione di Pappé diventa solo un’ufficializzazione della partizione dei territori che produrrà la formazione di bantustan e cantoni palestinesi in tutto il territorio palestinese, comprese Gaza e Cisgiordania. Questo permetterebbe ad Israele di controllare la Cisgiordania senza occupare direttamente le aree densamente popolate dai palestinesi. Gli accordi, inoltre, non stavano portando al ritiro israeliano dai territori occupati nel 1967 e alla creazione di un vero stato palestinese. Queste sono le motivazioni alla base della Seconda Intifada del 2000. Il processo di pace arenò nei 5 anni successivi ad Oslo anche per responsabilità israeliana. Non possiamo dimenticare l’uccisione di Rabin e l’ascesa al potere del Likud. A conclusione di tutto ciò, c’è stato il ritiro israeliano da Gaza che lo storico israeliano legge come il prezzo da pagare per mantenere il controllo della Cisgiordania, pur controllando la striscia indirettamente, rendendola una gigantesca prigione a cielo aperto.
Per quanto riguarda Gaza ci lasciano perplesse alcune riflessione su Hamas che Pappé ritiene un movimento di liberazione nazionale e non un’organizzazione terroristica. Ricostruisce il mondo in cui Israele ha sostenuto la sua ascesa per limitare il potere delle forze politiche laiche e socialiste che hanno sempre contraddistinto la resistenza palestinese ma non fa neanche sconti a quest’ultime, colpevoli di non aver offerto delle risposte coerenti ai bisogni dei palestinesi poveri o rinchiusi nei campi profughi. Davanti al loro fallimento si sono buttati a braccia aperte nell’islam politico. A noi pare sottovalutare gli aspetti negativi di una forza politica come Hamas. Samir Amin nel suo libro Il mondo arabo nella storia e oggi inquadra molto bene la natura di simili movimenti legati all’islam politico. Non si tratta di movimenti di liberazione ma di sottomissione che respingono la “modernità emancipatrice” e in questo modo rifiutano la democrazia. Per Amin rispondono agli interessi di una borghesia compradora che mira ad integrarsi nel sistema capitalista da posizione subalterna. Nel libro porta l’esempio dei mamelucchi che imponevano la sharia sopra ogni legge mentre per realismo politico accettavano la loro subalternità nella modernizzazione capitalista. Rappresentano un vicolo cieco per la causa palestinese, nonché dei nemici per chiunque si dichiari comunista.
Nelle conclusioni Pappé afferma che la soluzione a due stati, con relativa ripartizione dei territori, è morta e sepolta. Bisogna fare lo sforzo di andare oltre questa falsa soluzione per ripensare i rapporti tra ebrei e palestinesi su basi nuove, democratiche e senza rapporti di sfruttamento, nella cornice della soluzione a uno stato. Resta difficile ottenere un simile scopo con leadership politiche come quelle del Likud e di Hamas. La palla passa senz’altro a quella parte di società israeliana che si oppone alla risposta militare criminale in atto a Gaza che sempre più sta assumendo i contorni di un vero e proprio genocidio.
- Ilan Pappé, 10 miti su Israele, Tamu Edizioni, Napoli 2022, la citazione è ripresa da un file ebook, pertanto non sono disponibili le pagine. Si ricorda che l’editore ha reso gratuitamente scaricabile dal proprio sito il libro. ↩︎