Breve genealogia del “Filorussismo”

Alla radice diagnostica della pedante corrente putiniana in occidente

-Compagno Marco

Si è spesso sentita negli ultimi tempi una certa retorica (che forse è più di una mera retorica, bensì una vera e propria presa di posizione coscienziosa) tesa non solo ad esaltare la figura di Putin in quanto tale e le sue conseguenti matrici ideologiche, ma anche la Russia stessa come stato a livello costitutivo/strutturale. Ciò è accaduto e continua ad accadere in tutto l’occidente, nel quale la diffusione ha tuttora un seguito non di poco conto, con particolare eco in Italia: dove si vedono non così di rado intellettuali e scuole di pensiero provenienti dalla sinistra, o con affinità a quest’area, fornire giustificazioni o vero e proprio supporto alle decisioni strategiche, politico-economiche e militari del Cremlino; andando contro quegli stessi principi che hanno animato la parte vera e sincera di quel movimento operaio che ha fatto la storia della lotta di classe nel nostro paese, e ne è stato il punto di forza manifesto. Cercheremo di chiamare tale corrente di pensiero o di sistematizzazione ideologico-pragmatica con il concetto sintetizzante di “filorussismo”: concetto questo che vuole cercare di esprimere un macro-fenomeno comprendente anche fenomeni/correnti complementari o ascrivibili ad esso: come ad esempio il sovranismo, il populismo, il complottismo (movimenti no-pass e no-vax ), il rossobrunismo; ma anche realtà fenomeniche più profonde e radicate: il nazionalismo politico, spesso anche etnico ed altre minoritarie più epifenomeniche, decisamente da non sottovalutare, come il nazional-bolscevismo, l’euroasiatismo, il tradizionalismo e la più recente questione incel.

Tutte le correnti precedentemente elencate è chiaro che di per sé non implichino necessariamente il filorussismo come contenitore per essere concepite quali enti o realtà singole, tuttavia è impossibile negare un filo conduttore che le leghi e le faccia coesistere in maniera più sostanziale laddove si presenti un forte intersecamento con il filorussismo stesso, è implicita dunque anche una saldatura con la galassia della destra. Quest’ultimo infatti negli ultimi tempi è arrivato a consolidare correnti che prima potevano all’apparenza sembrare isolate e non direttamente assimilabili, o perlomeno ha rivelato delle tendenze profondamente radicate nel panorama politico e culturale europeo e non.

Ma arrivati a questo punto ci si chiede, o di norma ci si dovrebbe chiedere, come sia stato possibile il crearsi di questa situazione, soprattutto nel nostro paese? Quali sono state le ragioni, le cause per cui il filorussismo è arrivato ad essere il sentimento di reazione a tratti predominante in questi periodi di ciò che genericamente chiamiamo sinistra, o comunque quella parte che dovrebbe proporre un’alternativa sociale? Come è riuscito ad influenzare alcuni pensatori?

Queste sono domande a cui non è facile dare una risposta immediata e che necessitano di analisi complesse e profonde: intenzione qui è quella di offrire una disamina più generale su quello che rappresenta un problema tematico-culturale non di poco conto, e che può continuare ad esercitare profonda influenza sul nostro panorama politico, anche verso chi millanta presunte posizioni di “opposizione radicale” allo stato di cose presente.

Il mito della Russia in quanto stato-nazione ha una provenienza che già di per sé può essere facilmente deducibile da 3 principali fattori: l’anti-americanismo “religioso” (quasi paragonabile all’antitetico maccartismo), il revanscismo dell’anello debole che collima spesso con il “panslavismo grande-russo” e la teoria geopolitica-sociale. Tutti elementi riscontrabili con facilità in larga parte della odierna sinistra radicale, a cui si aggiunge un fervente e sempre intrinseco complottismo tout-court: che lungi dall’essere, come in parte già sottinteso in precedenza, una questione marginale, è un fatto puramente congiunturale nella nostra società, sia che si parli di linguaggio intrinseco alle idee/discorsi delle discipline che di logos implicito all’uomo a livello strutturale determinato su un piano storico-sociale.

Insomma il complottismo in sé per sé risulta essere, in un modo o nell’altro, quel qualcosa di onnipresente e non slegato dall’uomo contemporaneo: cioè quella componente senza la cui preclusione nulla di quanto abbiamo detto potrebbe essere fino in fondo analizzato e compreso seriamente; come composizione esso è quasi “metastorico” in quanto abbraccia e fortifica tutti gli altri fenomeni (ma anche strutture) prima elencati, e per quanto riguarda l’anti-americanismo, il panslavismo e la geopolitica alternativa non vi è sostanziale differenza: in questa triade il complottismo è ben radicato. Per meglio capire le 3 parti essenziali, facenti le veci di ciò che dapprima è stato definito filorussismo, occorre quindi lasciarsi alle spalle/ superare le caratteristiche del linguaggio normativo e della sintesi complottista: in primis per distaccarsi apertamente da esso, e in secondo luogo anche per comprendere al meglio da un punto di vista razionale e il più possibile oggettivo le tre correnti, senza appunto l’offuscamento ideologico. Si procederà ora ad analizzare i diversi aspetti.

1. L’anti-americanismo

l’anti-americanismo è un fattore che da sempre è stato presente nel modus operandi e nei pensieri di ampia fetta del movimento proletario (soprattutto a partire da quello del secondo dopoguerra, e correlato oggi sempre più all’anti-europeismo), in maniera più o meno larga e con intensità più o meno marcate. Le ragioni non sono poi così oscure: perlomeno in Europa e in Italia laddove gli Stati Uniti già dalla fine della guerra hanno da sempre rappresentato prima il nemico numero uno come stato-nazione; imponendo di fatto una non-belligeranza ai CLN e al PCI (Togliatti)dell’epoca mai veramente digerita da intere fette dei comitati di liberazione formati da partigiani, seppur per certi versi resasi necessaria dai fatti, insieme ad altri obblighi e ingiunzioni come le basi militari/atomiche create a partire dal 1949 con l’ingresso nel patto atlantico anch’essi poco graditi; e successivamente divenendo il principale aggressore imperialista per conto della classe padronale, sia direttamente che indirettamente: soprattutto verso il terzo mondo, dove da 70 anni a questa parte si sono susseguiti veri e propri massacri e genocidi documentati (basti solo ricordare delle innumerevoli stragi indonesiane degli anni 65-66 supportando il regime militare di Suharto) finalizzati non solo al puro “fatto in sé” come ogni Imperialismo, ma anche ad estrapolare varie risorse utili alle catene del valore nostrane, a depredare delle terre per ripartirle, ad esportare capitale, concentrare oltre che centralizzare la produzione ed estendere il potere e l’influenza, sia economica che politica, dei monopoli. Come si è visto dunque vi sono state buone motivazioni per un crescere, quantomeno nel senso comune e a livello affettivo, di quel sentimento d’odio popolare anti-imperialistico che ha costellato bene o male tutto il panorama europeo del comunismo e della cosiddetta “sinistra” di quegli anni; sentimento poi divenuto vera e propria forza trainante con l’avvento del sessantotto in Italia e altrove (movimenti per la pace, guerra in Vietnam e altre frange del movimento studentesco-universitario) attraverso l’organizzazione di una corrente sub-culturale perentoria. Il consolidamento di questo pseudo-movimento ha di certo aiutato la diffusione sempre più costante di associazioni dissimili e a tratti quasi mitiche (ad esempio le caricature parodistiche dei manifesti dello Zio Sam), la cui più rilevante è quella che si evince come sintesi di tutto il discorso: Stati Uniti=imperialismo, un’identificazione che non lascia spazio ad equivoci. Oggigiorno e con mente lucida si può dire che sebbene questi pensieri abbiano avuto senz’altro un’accezione positiva nelle lotte del passato, contribuendo anche a rendere concrete certe istanze e rivendicazioni dei movimenti più radicali, analizzandoli in sé per sé e con prospettiva posteriore si comprende senza troppe difficoltà come le associazioni semplicistiche, l’identificazione sovrana e localizzata del “potere”, la propaganda strumentale, specifiche caricature semiotiche, siano stati in realtà, e lo sono ancora, elementi più dannosi che vantaggiosi per la formazione di una reale corrente emancipativa teorico-pratica.

Tutte le caratterizzazioni e le singole determinazioni dell’antiamericanismo sono servite a fondarne una quasi-religione nel corso degli anni: hanno garantito la riduzione delle analisi a livelli facilmente comprensibili anche a chi non si poteva dotare delle cosiddette “armi intellettuali”; hanno fondamentalmente permesso a chi, pienamente cosciente dei loro effetti strategici, se ne dotava come trampolino elettorale: 1. Di raccattare qualche voto nei periodi di crisi dei “blocchi egemonici atlantisti”, 2. Di fondare una forza partitico-opportunista che fosse in grado di ritagliarsi uno spazio nel panorama politico a fini ovviamente lucrativi, come del resto avveniva anche per i movimenti opposti ma con lo stesso assetto qualitativo.

Come visto, queste caratteristiche strategiche hanno fatto fervido eco a una schiera di partiti e movimenti che avevano intenzione di dotarsi di una posizione valoriale velatamente “alternativa”, per poi finire col dire “tutto e il contrario di tutto” rivelando l’implicita natura utilitaristica e, come già detto, opportunistica.

L’antiamericanismo ha fornito un vasto arsenale di strumenti che, dal punto di vista sociale hanno costruito un nemico osservabile, chiarificato, particolarizzato e noto, da attaccare di per sé a livello apriorisitico: a volte senza neanche il bisogno di verificazioni e prove atte a giustificare ciò, basta che esso sia anche solo formalmente presente come valore nominale e da sé vengono le certezze dovute, in puro stile metafisico. D’altra parte tutto questo serve a costruire di contraltare, e lo si può a questo punto logicamente immaginare, una sorta di “nemesi originaria”o “Prometeo nazionale” opponente agli ostili Stati uniti: e in questo caso, tale nemesi, non può che essere rappresentata dalla Russia nella veste di stato-nazione.

La Russia non rappresenta di certo una novità se la si vede genericamente contrapposta all’America come potenza: basta anche solo pensare a tutto il periodo della guerra fredda, nel quale nonostante esistesse l’URSS quest’ultima veniva identificata non di rado nella singola Repubblica Federativa Sovietica Russa dal sentir comune e dai mezzi d’informazione, principalmente a causa della presenza della sede governativa (Cremlino), della capitale della federazione di repubbliche, e dall’ulteriore presenza in quest’ultima dello stesso soviet supremo dell’Unione Sovietica per motivi politici-amministrativi e di centralizzazione, a constatare la concezione di subordinazione ad essa da parte delle altre repubbliche già all’epoca; oppure si può pensare al suo ruolo post-’91, ovvero nella globalizzazione, in quanto appunto potenza: soprattutto sulla sua funzione negli equilibri delle relazioni internazionali e nell’economia globale, aspetto sul quale si tornerà in seguito.

2. il panslavismo/nazionalismo grande-russo

Insomma la Russia è riuscita da sempre a rappresentare il polo opposto e la minaccia maggiore per i blocchi costituiti dagli Stati Uniti nel corso della storia, almeno a livello empirico. Tuttavia ci sono determinate motivazioni, oltre a quelle sul piano storico-empirico appunto, per le quali la Russia è anzitempo considerata un ostacolo ai blocchi internazionali-imperialisti rivali. Il grosso peso della sinistra è in questo caso di aver incanalato tutte queste ragioni, laddove non si tratti solo di pura malafede nel corso di tutte le degenerazioni viste in questi decenni, in una dimensione come detto ideologica e sterile del dibattito intellettuale: dimensione che è stata forgiata attraverso i punti cardine della vecchia sinossi teorica leninista, a partire dalla questione dell’anello debole della catena di imperialismo mondiale, ovvero quell’aspetto che funge da prologo all’edificio degenerativo. Lenin utilizzò questo concetto per indicare come, nella situazione di primo dopoguerra ad inizio ‘900, vi fossero nella catena globale alcuni punti deboli della catena stessa, causati anche dallo sviluppo economico diseguale che era caratteristica dell’Imperialismo mondiale, e proprio in questi punti deboli si sarebbe potuto “rompere la catena” e far scoppiare la rivoluzione. L’allora concetto di anello debole fu associato da Lenin alla Russia e ai territori limitrofi per una serie di ragioni analitiche oggettive, sia teoriche che pragmatiche (su un preciso piano di azione politica) e questa associazione fu il principale traino tramite il quale si consolidò quell’ambiente consequenziale che, inutile ribadirlo, a partire dal 1905 avrebbe dato luogo alle cosiddette 3 rivoluzioni la cui più importante fu la Rivoluzione d’Ottobre, che andò a culminare col 1917 appunto questo periodo di sconvolgimento internazionale, in cui la Russia si rese protagonista indiscussa di mutamenti sociali: un esempio di rivincita nazionale verso le sofferenze patite a causa della guerra mondiale e un faro per l’avanzamento delle forze rivoluzionarie di tutto il mondo, ovviamente presa a modello dal movimento comunista in particolare. Quello che accadde in seguito ebbe forti ripercussioni culturali su tutto il socialismo internazionale, sebbene Lenin non si sarebbe mai sognato di “ossificare” determinate categorie da lui stesse prodotte/dedotte dalle analisi sulle forze materiali della sua situazione storica, fu proprio quello che accadde in seno agli eredi della terza internazionale: iniziò così il processo profondo dell’ideologizzazione leninista, a lungo ostracizzato negli studi, che andò a sedimentarsi in molte analisi da lui stesso eseguite.

in primo luogo il concetto stesso di anello debole fu ripreso da molte ramificazioni della sinistra e reso partecipe degli aspetti fondanti di quelle che furono le correnti “terzomondiste”, quindi spesso fu semplicemente emulato per altri paesi ritenuti gli anelli in grado di rompere la catena (appunto terzo mondo) e in un certo senso banalizzato e reso rozzo, anche per la fuoriuscita dello stesso in molti casi dalla tematica marxista e dalla lotta di classe in sé per sé, localizzandosi a conquiste mirate come le lotte per la liberazione nazionale, verso cui vi era particolare interesse, ma che erano slegate dalla lotta principale. In secondo luogo accadde qualcosa di sostanzialmente più grave e profondo: cioè l’edificazione del mito della Russia proprio in quanto assorbitore ideologico di tutta quella degenerazione che subiva il movimento “comunista”, se tale ancora poteva essere chiamato: essa a quel punto non rappresentava più solo l’anello debole individuato da Lenin 1 secolo fa, ma iniziò ad essere vista da tutto quell’ambiente, come detto, in profondo declino come l’unica spiagga o l’unico punto sul quale fare affidamento per portare avanti dei progetti di teoria e prassi mascherate.

Questo processo iniziò già con la morte di Lenin, andando a generare la cosiddetta “febbre da falce e martello” e continuò imperterrito per decenni: dalla rivoluzione mondiale fallita al “primo stato socialista della storia”, dalla subordinazione di tutti i Partiti comunisti alle direttive di Mosca (Comintern prima su via fattuale, Cominform dopo) all’introiezione del DIAMAT come “filosofia” di tutte le organizzazione comuniste. In tutti questi casi e anche dopo vi fu dunque un chiaro e continuo rifarsi al ruolo dell’allora URSS come nazione, in quanto a base culturale e morfologica dell’agire politico, da parte di tutte le sedicenti organizzazioni, e anche se successivamente vi furono diverse resistenze se così si può definirle a questa tendenza, a partire dalla destalinizzazione, non si eliminò mai alla radice la subordinazione polimorfica all’apparato culturale sovietico e la sudditanza ai diktat del Cremlino, neanche nel periodo da criticare aspramente nell’altro senso dell’Eurocomunismo degli anni 80’, perlomeno nelle aspirazioni dei “vecchi compagni”. Spiegare tutte le ragioni per le quali tale fenomeno avvenne è necessariamente dispendioso e meriterebbe senz’altro altra sede di dibattito: intenzione non è qui, sia chiaro, quella di condannare in toto l’esperienza sovietica e di demonizzarla per intero, poiché ebbe anche risvolti sicuramente positivi, bensì quella di spiegare con la dovuta elucubrazione il perché questa stessa esperienza sia profondamente degenerata nel particolare aspetto mitico della nazione sovietica, che rievoca ciò che oggi con Putin viene propriamente definito il panslavismo grande-russo, vero punto culminante del processo e pronipote dell’ormai defunto nazionalismo grande-russo, quel sentimento scionivista della Russia zarista già condannato all’epoca dai bolscevichi. Come già accennato e poi descritto, a all’epoca Il movimento operaio internazionale era quasi costretto sia per debolezza che per difficoltà ingenti di varia natura, anche strutturali, a trovare un’identità sociale e politica sulla quale riversare incondizionato appoggio: anche sopprimendo gli spiriti d’autocritica analitica, anche eludendo ogni capacità organizzativa alternativa; questo appunto aprì la strada al concretizzarsi della mitizzazione russa, e spalancò progressivamente le porte anche al ripresentarsi sotto mentite spoglie di profonde razionalizzazioni in merito al panslavismo grande-russo, spesso giustificando e addirittura ponendo sotto 2 pesi e 2 misure nei confronti di altri potentati capitalisti le aggressioni imperialiste perpetuate prima dall’allora URSS (basti pensare al social-imperialismo in vari paesi, che di socialismo oramai manteneva solo il nome) ed oggi all’attuale Russia, verso la quale si tende ad avere sempre un giudizio più mitigato, ragguardevole e compassionevole rispetto all’occidente, sotto questo ed altri aspetti, cosa che vediamo con la guerra in Ucraina.

Inutile dunque continuare a ribadire di come l’ambiente a sinistra continui a preservare; vuoi per principi storici, empirici, ideologici, vuoi per travisamenti delle teorie, una visione idealizzata della Russia che si esprime in: errori valutativi voluti o meno, in atteggiamenti fideistici poco consoni all’onestà intellettuale (sentimenti che fanno ancora vedere di buon occhio la “madrepatria rossa”) ma soprattutto alle ragioni storico-sociali delle sue istanze emancipative.

La complessità di tale mito indica una fase insieme a dei postumi sintomatici che non sono mai stati del tutto superati da determinate aree politiche, tanto che permangono ancora oggi reiterazioni frequenti di questa logica da parte di figure, organizzazioni ed intellettuali eredi di quella tradizione deteriorata (i già citati sovranisti, populisti e rossobruni, e soprattutto vecchi e nuovi opportunisti della sinistra radicale) quasi come un richiamo nostalgico a tutte le vicissitudini ed istanze che hanno fondato quel periodo, e che ora si aggrappano ancora a quel ricordo pur di continuare ad esistere e fagocitare certe retoriche: qui in un certo senso si arriva a un punto di convergenza tra destra e sinistra moderna, dove la differenza sostanziale non esiste più, anche se in realtà non è mai esistita, e ci sono sempre più incontri territoriali comuni in dinamiche vuote come quella dell’euro-scetticismo, della dittatura “tecnocratica”, delle caste burocratiche (in Italia le forze anti-casta, in America deep-state) e sostanzialmente di tutto ciò che manca di una progettualità sociale seria; il filorussismo è infatti un macro-avvenimento che interessa pure la destra ed è questa un’area in cui ha maggiormente tessuto le sue ragnatele negli ultimi anni, anche tramite investimenti diretti e indiretti su partiti, spesso addirittura più di quanto abbia fatto tramite molti vecchi nostalgici ex PCI ormai mummificati e privi di forze motrici in grado di produrre qualche interesse significativo. Occorre comunque sia dirlo per dovere di cronaca che Putin non ha nulla a che vedere con l’Unione Sovietica in quanto tale o con un presunto “impero sovietico”, come piace dire all’informazione nostrana. Ciò che però interessava maggiormente il discorso precedente è come lo si pensa nell’immaginario collettivo: appunto a quali immagini e segni semplici, affermati e ripetuti viene associato il leader russo, e dunque lo Stato, specie da chi anche con le migliori intenzioni ingenuamente lo supporta perlopiù per nostalgia della storia sovietica, identificandolo come erede della stessa. Per comprendere ciò basti anche solo vedere il richiamo che lo stesso presidente/semi-dittatore fa al passato della sua nazione: le bandiere rosse affisse sui carro armati, il vaniloquio argomento della de-nazificazione alla “grande guerra patriottica” e ovviamente le pratiche discorsive tese a fomentare quel sentimento di unificazione nazionale (un solo popolo) tra russi e ucraini, ed è qui che si vede tutta la forza del panslavismo grande-russo dovuta alla sua parentela col più antico omonimo nazionalismo zarista grande-russo: nel fatto cioè che, oggi come allora, questo nazionalismo riesca a trarre in inganno anche numerosi compagni (ad esempio Plechanov, accusato dallo stesso Lenin all’epoca) e a fargli credere di supportare delle rivendicazioni giuste, quando in realtà li spinge a fornire appoggio a quello che è forse uno dei più spietati e brutali tra i capitalismi monopolistici di stato attuali.

3. Teoria geopolitica-sociale alternativa

Visti i 2 primi aspetti nella loro valenza sia passata che presente, si arriva al terzo punto del filorussismo, esprimente quella considerata la matrice geopolitica-sociale del mito russo, prima della quale occorre però fare una dovuta premessa: la Russia rappresenta ad oggi una potenza imperialista a tutti gli effetti (per quanto poi la stessa categoria di imperialismo in generale meriterebbe ri-modernizzazioni) ovvero uno stato con determinati interessi economici, politici e di espansione nelle sfere sociali più in generale, oltre ovviamente all’inquadramento nel ciclo di accumulazione di capitale, di valorizzazione del valore alla base dello stesso.

Poste come necessarie tali premesse, anche per screditare sul nascere qualsiasi concezione anche solo tendente ad accreditare alla Russia un privilegio in merito alla partigianeria politica, resta da chiarire che, comunque sia, la Russia mantiene non poche differenze rispetto all’occidente e ai suoi stati-nazione sotto molteplici aspetti e considerazioni: differenze tali da meritare un ampio e approfondito studio strutturale della società russa. Arrivati alla Teoria vera e propria del terzo aspetto, possiamo dire che un fattore di differenziazione che la interessa, ed anzi ne è il cardine principale, indica la profonda diversità che vi è tra le 2 formazioni socio-economico-sociali: difatti la formazione sociale russa è vista come radicalmente divergente rispetto alle nostre “occidentali” nello specifico, ed è di conseguenza anche trattata con diverso atteggiamento dagli stessi scienziati sociali che la studiano, ovviamente chi per un fine, chi per un altro; il concetto di formazione economico-sociale è dunque il tassello principalmente ripreso dagli intellettuali sia di sinistra che non, proclamandosi radicali e alternativi rispetto all’ordine sociale e “strutturale” occidentale (almeno a quello attualmente vigente) quando si parla di Russia, ma anche di Cina o di tutti gli altri paesi non assimilabili alla nostra galassia, al nostro modo di essere e di vivere.

Come già prefigurato il concetto stesso è però stabilito sulla base di una più ampia teoria, denominata appunto “geopolitica-sociale” perché insieme eterogeneo di concettualizzazioni e blocchi di ipotesi atti a stabilire che: la formazione sociale russa abbia in sé elementi che la rendono auspicabile rispetto alle matrici nostrane per motivi di organizzazione sociale, non definibili o rientranti nei criteri del capitalismo generico; la Russia attuale abbia esplicitamente un ruolo “geo”politico-strategico non solo similare a quello dell’Unione Sovietica durante il “bipolarismo”, ma addirittura più importante, in quanto può auspicare al predominio mondiale delle sfere sociali, quindi a una ridefinizione egemonica delle stesse insieme ad altri partner come Cina o India; l’avanzamento di queste potenze novizie aprirebbe a un periodo di “multipolarismo” nel quale nazioni considerate sub-imperialiste, come l’Italia, potrebbero tornare ad acquisire la loro importanza tattica, economica e politica tra i gruppi di direzione; la figura di Putin sia quella tutto sommato del buono statista con ricette economiche funzionali, necessarie e che hanno risollevato una Nazione in crisi portando benessere (costruzione di un culto del regime putiniano); le “democrazie” occidentali che peraltro, si tiene a ribadirlo, prendendo il termine sul serio non sono mai esistite, hanno fallito e devono essere sostituite da un modello di forma tecnico-governativa più efficiente, capace e autoriario anche magari a discapito di alcune libertà; le istituzioni in generale sono in crisi, non possiamo più fidarci e di conseguenza bisogna rifugiarsi nell’altro, nel puritano anticonformista e avulso da qualsiasi corruzione, credere a tutto ciò che esso ci dice sulla base di una demonizzazione del sistema vigente (e qui si coniuga egregiamente la matrice complottista, arrivando a cospirazioni come la Russia che avrebbe una banca centrale “non controllata dai Rotschild” e dunque dai “poteri forti”amministratori del mondo). Argomentazioni di questo tipo nascono spesso da un sopravvalutare la geopolitica come materia di studio, appunto fondante la teoria così denominata, poiché in assenza di altre formulazioni valide delle scienze sociali spesso si ricorre proprio ad essa per far fronte alle sfide moderne, prendendola come assunto: tuttavia essa ha diversi limiti dati implicitamente dal suo statuto, basandosi su degli assiomi concernenti la spazialità e lo stato secondo cui appunto per ragioni legate proprio allo spazio, alla geografia e alla cultura, vi sarebbero comportamenti politici discendenti da una costituzione “biologico-naturalistica” degli stati-nazione, come se questi fossero organismi viventi e di conseguenza avessero modalità di azioni-reazioni speculari e ripetitive nei contesti storici, in base a fattori, alcuni dei quali statici come: risorse disponibili, estensione territoriale, clima, morfologia, relazioni internazionali. In altre parole, un qualsiasi Stato sarebbe tendente a comportarsi quasi sempre alla stessa maniera per via della sua costituzionalità, così ad esempio la Russia, ma potrebbe trattarsi di qualsiasi altro stato, tenderebbe ad invadere e “riprendersi” i territori dell’est-europa, a prescindere da quale forma di governo abbia o da quale regime sociale sia guidata; si capisce bene dunque che la materia sia per sé limitativa, perlomeno in alcuni suoi statuti e possa fare gola a molti personaggi, per avvalorare anche determinate posizioni superficiali in assenza di esami più seri del reale.

La teoria complessiva riassunta qui a grandi linee è appunto avallata da tutti quei pensatori e quegli intellettuali spazianti dalla destra estrema alla sinistra radicale che, quando parlano di Russia, ritengono di ritrovarsi a fare i conti con una realtà completamente non assimilabile alla nostra, capace di stravolgere e cambiare la cultura e società che ci appartengono, cambiamento che è esplicitamente,sempre secondo loro, perlopiù positivo. Questa gente, contrariamente a quanto visto precedentemente, non mira a un’emulazione del mito sovietico, non è “nostalgica” o almeno non in senso stretto: essa è determinata a superare lo status quo, a volte anche con intenzioni non così incondivisibili (se si parla di gente che non strizza l’occhio alle destre), ma nella maniera, nei mezzi e nei fini completamente sbagliati; cercando sostanzialmente soluzioni dove esistono solamente specchi per le allodole, dove cioè le rivendicazioni colludono maggiormente con forme di para-fascismo.

Insomma, come detto anche all’inizio, aldilà della semplice retorica questo agglomerato di pensieri chiamato filorussismo risulta oggi essere una realtà abbastanza tangibile, e si può senza ombra di dubbio affermare che esso assume molte altre declinazioni rispetto a quanto si è visto, basti solo pensare alla recente indagine del COPASIR sui personaggi in Italia che supportano Putin e le sue decisioni; declinazioni che arrivano fino alla questione sanitaria-vaccinale, ad esempio con le esaltazioni di carattere panegirico e vuoto, costruite ad arte dalla propaganda, del vaccino russo sputnik e la sua presunta superiorità rispetto ai colleghi occidentali. Ciò che rappresenta questa “corrente” a livello di pericolosità è sotto gli occhi di tutti: far passare tutto ciò che pratica il mito come buono e giusto, fornendo ragionamenti per assurdo, negazionismi e denigrazioni verso le controparti che sono in conflitto con esso; riducendo tutte le analisi e le critiche all’unidimensionalità della lotta morale, tra il giusto e lo sbagliato, tra il bianco e nero: tra un paese aggredito militarmene come l’Ucraina, considerato univocamente “nazista”anche quando si parla di civili massacrati, e un paese aggressore come la Russia che cerca di “liberarlo dal male” e si fa portatore di quel bene autentico e puro capace di sconfiggerlo, con crimini indicibili verso innocenti a suon di bombe.

In conclusione si può senz’altro dire che tutta la questione legata alla diagnosi qui effettuata è piuttosto seria, non merita atteggiamenti per cui si tentenni sulla sua piena attualità, intensità o si receda sull’approfondimento delle analisi; scopo non è quello di creare paladini, santi/martiri o di inerpicarsi nella logica del più o del meno, del “più buono o più cattivo” e quindi di porre Stati Uniti, Europa o occidente in generale come positivi in toto e condannare in tutto e per tutto Russia o qualsiasi altro paese alla gogna eterna e universalistica (riproducendo difatti un mito contrario con la stessa logica di quello combattuto finora, come alcuni oggi fanno ad esempio fagocitando barbaramente una russo-fobia irrazionale). Lo scopo ultimo che bisogna porsi è all’apparenza uno molto più semplice bensì complesso se si scava a fondo: quello di dire la verità, avere la forza di enunciarla, di riflettere e di conseguenza condannare tutti gli imperialismi, le guerre e la miseria che causano; facendo luce sulle contraddizioni del mondo e della società in cui viviamo e quella in cui vivono altri uomini. Stigmatizzare ciò che la Russia in qualità di nazione imperialista sta facendo al popolo ucraino, con tutte la barbarie del caso, non è solo frutto di un gioco intellettuale, di un perbenismo dilettantesco, ma è un vero e proprio dovere verso la nostra serietà in quanto comunisti, e lo dobbiamo apertamente ribadire: noi saremo sempre dalla parte degli oppressi in qualunque situazione, e nonostante l’Ucraina come stato abbia non poche contraddizioni e lati negativi, noi supportiamo e continueremo a supportare la resistenza del popolo (non coincidente con l’istituzione statuale) contro l’invasore ed oppressore.

Ciò che rimane a noi, e che deve rimanerci dalla trattazione di tutte le tematiche è dunque la capacità di pensare sul serio, di attingere alle risorse della ragione in quanto uomini: scansare cioè le dimensioni conoscitive dovute agli affetti, alle passioni e alle illusioni che creiamo, allontanandoci dalla schiavitù della nostra parte appetitivo-animalesca e quindi dipendenza rudimentale verso il mondo il più che possiamo, di modo da avere dei quadri chiari su ciò che studiamo, analizziamo e schematizziamo evitando confusioni, conoscenze riduttive ed Ideologie sugli oggetti da noi interpretati; questo perché l’uomo deve conformarsi a quanto lo contraddistingue dagli altri esseri finiti in natura, deve dominare e farsi guidare dalla ragione, elevandosi nei confronti delle cause esterne e superiori a cui è subordinato e dunque liberarsi; poiché nonostante tutto: “egli sa di sapere (l’uomo), ha la ragione: quanto più è ragionevole tanto più è libero, veramente reale, perfetto.”

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