La notizia della scomparsa di Gianfranco La Grassa mi ha colpito con la forza di un’onda che arriva dopo un lungo viaggio, portando con sé non solo il dolore del presente ma i sedimenti di un’intera fase della mia vita. Per me Gianfranco non è stato semplicemente un autore da studiare ma il primo intellettuale marxista di statura che abbia mai incontrato. Lo conobbi quando ero un operaio in una piccola ditta di prodotti chimici. All’epoca ero già un maoista impregnato althusserismo e lui mi aiutò a mettere qualche punto in ordine nel mio modo di leggere Marx. Gianfranco La Grassa mi ha insegnato una cosa sopra tutte: che il pensiero critico è, prima di tutto, movimento, conflitto, capacità di mettersi in discussione. Mi ha insegnato che la fedeltà a un’idea non sta nel ripeterla dogmaticamente ma nel sottoporla costantemente al vaglio della realtà, anche a costo di doverla rivedere radicalmente. Non sono sempre stato d’accordo con le sue derive teoriche ma lo considero indubbiamente uno dei punti più alti raggiunti dal pensiero economico marxista in Italia e merita di essere ricordato in futuro.
– Francesco Barbetta
Gianfranco La Grassa inizia il suo saggio Il valore come connessione sociale individuando con precisione i due cardini fondamentali su cui, a suo avviso, si reggono molti attacchi al marxismo, sia in ambito economico che politico. Il primo punto è la dichiarata obsolescenza, quando non l’inesistenza, della legge del valore, spesso bollata come un retaggio metafisico del pensiero di Marx. Il secondo punto, strettamente correlato, è la riduzione delle entità economiche a un mero precipitato, un effetto secondario, di rapporti di forza sociali e politici, denunciando così una presunta carenza del marxismo: l’assenza di una vera e propria teoria politica e dello Stato. Da questa doppia critica scaturisce l’abbandono, considerato ormai necessario, della distinzione tra base economica e sovrastrutture, un reperto archeologico la cui caduta ha portato all’affermazione di una dominanza decisiva, a volte quasi esclusiva, delle istanze politico-ideologiche su tutti gli altri aspetti della società. Queste concezioni, sebbene si presentino in forme diverse tra loro, implicano conclusioni che La Grassa distingue in due filoni principali: uno prevalentemente riformista e l’altro soggettivisticamente rivoluzionario. Il primo filone pensa alla possibilità di una gestione politica della crisi capitalistica (interpretata a sua volta come puramente politica), da attuarsi attraverso il “farsi Stato della classe operaia”, una formula che, in termini più prosaici, significa l’ingresso dell’allora PCI al governo, l’accesso alla “stanza dei bottoni”. Il secondo filone semplifica invece lo scontro sociale in un confronto immediato e globale tra due soggetti monolitici: da un lato lo Stato, inteso come sintesi suprema di un comando capitalistico ormai totalmente unificato, e dall’altro il Proletariato, concepito come lavoratore collettivo di tipo capitalistico che tende a ricompattarsi grazie allo sviluppo delle forze produttive, visto peraltro in modo prevalentemente soggettivo, ideale e coscienziale. Da questi modi di interpretare la realtà derivano, per La Grassa, conseguenze teoriche e pratiche gravemente negative. La prima è la perdita di ogni nozione di un “centro” dell’articolazione sociale. Tutto viene disseminato sullo stesso piano, rendendo impossibile delineare una strategia e una tattica politica articolate, con obiettivi gerarchizzati in base alla loro importanza e priorità. La seconda conseguenza è l’impossibilità di distinguere le conflittualità propriamente antagonistiche, ossia quelle tra classe capitalistica e classe operaia, dalle conflittualità interne alla trama delle relazioni intercapitalistiche. Questa indistinzione contribuisce ulteriormente al decadimento della capacità strategica e tattica. Proprio contro questa corrente del marxismo moderno, accusato di sfociare spesso in un vero e proprio antimarxismo, La Grassa intende muoversi. Il suo obiettivo è riaffermare la centralità della questione del valore, poiché è solo a partire dalle categorie della critica dell’economia politica che una teoria politica marxista può avere senso. La sua tesi di fondo è che la legge del valore non è altro che la legge del valore di scambio, la legge che presiede alla circolazione del capitale e alla riproduzione basata sulla connessione estrinseca di attività lavorative socialmente autonome e separate. Ci si sarebbe dimenticati troppo spesso che Marx ha distinto più volte tra il valore e la sua forma fenomenica, il valore di scambio. Queste forme fenomeniche sono proprio le forme della connessione estrinseca, della circolazione, le quali si sono effettivamente profondamente modificate nel corso dello sviluppo capitalistico: dal mercato, agli apparati finanziari, fino agli organismi circolatori politici. Queste trasformazioni non implicano la scomparsa delle forme precedenti ma la loro sussunzione sotto quelle successive, in un processo che La Grassa suggerisce di intendere con il concetto di sovradeterminazione. Coloro che proclamano la decadenza della legge del valore e la dominanza del politico, quindi, non farebbero altro che riflettere in modo meramente fenomenico ed empiristico questi cambiamenti delle forme circolatorie, cadendo in un nuovo feticismo del politico e dell’ideologico, analogo al feticismo delle merci che Marx rimproverava agli economisti classici. Al di là di questi mutamenti fenomenici, il modo di produzione capitalistico mantiene una costante fondamentale: la riproduzione approfondita del rapporto di produzione capitalistico. È a questo livello profondo che va collocata la legge del valore, intrinsecamente connessa alla dinamica dello sfruttamento all’interno dei processi lavorativi, alla divisione tecnica del lavoro in quanto aspetto socialmente specifico del capitalismo. In questo modo di produzione lo sfruttatore non è un parassita passivo ma un organizzatore che penetra nel processo lavorativo e, controllandolo, contribuisce innanzitutto alla creazione di ciò che sarà prelevato, configurandosi così come funzionario della produzione. Mentre le forme circolatorie mutano, resta quindi costante la direzione dell’approfondimento dello sfruttamento, una direzione che però si afferma attraverso contrasti, contraddizioni e conflitti (sia antagonistici che intercapitalistici), e attraverso fasi periodiche di intensa ristrutturazione del substrato organizzativo e tecnologico. La legge del valore è connessa a queste fasi di ristrutturazione poiché i tempi di lavoro socialmente necessario che costituiscono la sostanza del valore sono relativi alle diverse configurazioni tecnico-organizzative che i processi lavorativi assumono in ogni fase storica. L’intento di La Grassa è dunque avviare una riflessione su come le forme moderne della circolazione si configurino sulla base di questa legge del valore, intesa come legge della dinamica specifica dello sfruttamento capitalistico. Da questa analisi scaturisce una ridefinizione dei concetti stessi di produzione e circolazione. La produzione è, in senso generale, un modo storicamente determinato di dominio della classe sfruttatrice, fondato proprio su quella divisione tecnica del lavoro. La circolazione, a sua volta, non è un ambito autonomo ma assolve alla funzione di connettere i molteplici processi lavorativi capitalistici che sono autonomi e separati, il cui numero aumenta continuamente complicando il sistema sociale. Questa funzione connettiva viene poi assunta da veri e propri processi di lavoro specializzati (lavoro circolativo), anch’essi soggetti alla dinamica capitalistica, con la conseguente crescita esponenziale delle esigenze di connessione in una società via via più complessa. Tali conclusioni devono scaturire da un’analisi logica del movimento del capitale nelle sue forme fenomeniche di riproduzione circolatoria dei singoli capitali. Per quanto riguarda la forma del valore La Grassa critica la cosiddetta economia marxista per aver trattato quasi sempre in modo superficiale l’aspetto qualitativo e formale del valore, privilegiandone esclusivamente l’aspetto quantitativo, la “sostanza” come coagulo di lavoro. In questa prospettiva la forma del valore, che occultava lo sfruttamento dietro l’equivalenza formale dello scambio, veniva considerata una semplice specificazione storica di una legge generale di appropriazione del pluslavoro valida per tutte le società di classe. Concentrandosi solo sulla sostanza Marx è stato così spesso interpretato come un continuatore e perfezionatore dell’economia classica, da lui storicizzata e radicalizzata con la teoria dello sfruttamento. Il valore (o il prezzo di produzione) fungerebbe da centro di gravità per i prezzi di mercato e sarebbe determinato dalla quantità di lavoro socialmente necessario. I valori di scambio reali rivelano così, quantitativamente, la distribuzione del lavoro sociale tra i vari rami produttivi e l’attribuzione delle quote del prodotto globale ai diversi soggetti sociali. L’economista, secondo La Grassa, si ferma a questo punto, dando per scontata la forma specifica della distribuzione capitalistica mentre è proprio questa forma che deve essere indagata per aprire l’analisi economica a una comprensione più complessiva della struttura sociale. È qui che l’economista veneto reintroduce la definizione marxiana cruciale: la forma del valore è la specifica forma capitalistica della connessione sociale. In ogni società la riproduzione materiale della vita richiede una forma di distribuzione delle attività produttive e dei prodotti. Nel capitalismo, caratterizzato dalla produzione generalizzata di merci, questa distribuzione non può che avvenire nella forma mercantile. Poiché il lavoro sociale complessivo è frammentato in innumerevoli punti di produzione controllati privatamente dagli agenti del capitale, la socialità del lavoro può emergere solo attraverso una connessione estrinseca, mediata dallo scambio dei prodotti. Il mercato, la circolazione, diventa così l’arena in cui si estrinseca la conflittualità e la concorrenza tra i capitalisti per la supremazia nella direzione di quote sempre maggiori di lavoro sociale. La subordinazione dei singoli alle leggi di questo meccanismo connettivo non è pura mistificazione bensì una realtà empirica del capitalismo, dove la produzione acquista carattere sociale solo attraverso l’interazione conflittuale delle sue parti separate. La Grassa condanna quindi la tendenza, presente in certe correnti marxiste, a ipostatizzare questo meccanismo connettivo, ergendolo a Soggetto unico e indipendente del comando capitalistico, che sia identificato di volta in volta con il Denaro, lo Stato o l’Ideologia. In realtà ciascuna di queste figure è una struttura complessa di rapporti sociali all’interno della quale si dispiega la conflittualità intercapitalistica che è lo strumento decisivo di quella socializzazione indiretta delle attività private. Sintetizzare la connessione in un soggetto unico ha effetti politici negativi perché non solo si smarriscono le contraddizioni interne alla classe dominante (e a quella operaia), immaginando uno scontro sociale schematico e immediato tra Capitale e Lavoro ma, soprattutto, si genera una pericolosa confusione tra la conflittualità interna al processo di riproduzione capitalistica (la concorrenza tra capitali) e il vero e proprio antagonismo di classe finalizzato al superamento del modo di produzione capitalistico. Riducendo il meccanismo connettivo a una sintesi immediata del Comando, la conflittualità che gli è intrinseca viene erroneamente interpretata come antagonismo di classe, con gravi ripercussioni sulla definizione di una corretta strategia politica.
L’analisi marxiana della merce e del valore si rivela fondamentale per decifrare la peculiare forma di connessione sociale che caratterizza il capitalismo, una connessione fondata su un’accesa conflittualità tra una moltitudine di produttori privati e indipendenti. È cruciale comprendere che questa conflittualità non è di tipo rivoluzionario, non mira cioè a sovvertire le forme capitalistiche stesse, ma costituisce piuttosto una dialettica circolare, interna ai meccanismi di riproduzione del capitale. In questo spazio della connessione sociale, intesa come sfera della circolazione e dell’interazione tra soggetti atomizzati, rientra a pieno titolo anche la lotta condotta dagli operai contro il capitale, purché essa rimanga confinata entro i limiti del tradizionale ambito sindacale che si tratti di rivendicazioni a livello di fabbrica, come il salario, i ritmi, le condizioni di lavoro, l’uso delle tecnologie o l’accesso alle informazioni gestionali, o di lotte di carattere sociale più ampio, come quelle sulle pensioni e il welfare.
Proprio a questa sfera della connessione sociale estrinseca ai singoli soggetti appartiene la possibilità strutturale della crisi. Le cause immediate della crisi si manifestano in superficie come profondi disturbi funzionali del circuito circolatorio: la classica disproporzione tra offerta e domanda, ovvero tra produzione e consumo, deriva infatti da una serie di squilibri tra le varie sfere di attività dei soggetti, con eccessi o carenze relativi di certe produzioni rispetto ad altre. La crisi, nella sua possibilità logica e nelle sue manifestazioni più immediate e visibili, è insita nella specifica struttura capitalistica di socializzazione che è indiretta e mediata proprio dalla conflittualità tra attività autonome e separate. Abbandonare la problematica sviluppata da Marx attraverso la teoria del valore e l’analisi della merce significa, senza alcun dubbio, precludersi ogni possibilità di comprendere effettivamente i meccanismi di funzionamento del modo di produzione capitalistico, significa rinchiudersi definitivamente all’interno del feticismo delle forme circolatorie. Per La Grassa significa accettare, e volere che anche i conflitti di classe accettino, l’orizzonte borghese di semplici ritocchi, perfino di riforme definite “radicali”, pur sempre all’interno di una struttura sociale che rimane fondamentalmente capitalistica. Si cade continuamente in questo feticismo della circolazione se non si comprende che la forma di merce e di valore non si generalizza nella società se non sulla base di un modo di produzione già capitalistico e quindi sulla base della formazione di una struttura capitalistica dei rapporti sociali di produzione. Il fondamento della produzione generalizzata di merci, e quindi della generalizzazione di una forma peculiare di connessione estrinseca come mezzo di socializzazione indiretta delle singole attività, è il processo di valorizzazione del capitale che è evidentemente frammentato in una pluralità di singoli capitali che si valorizzano in modo indipendente l’uno dall’altro. Ne consegue che la forma generale di merce implica ormai necessariamente la merce capitalistica. Allo stesso modo, la circolazione semplice delle merci, rappresentata dalla formula M-D-M (merce-denaro-merce), implica in realtà il ciclo del capitale-merce (la forma III del ciclo analizzato da Marx), in cui la M iniziale rappresenta un insieme di merci prodotte capitalisticamente e quindi incorporate di plusvalore mentre la M finale è costituita dagli elementi del capitale produttivo, mezzi di produzione e forza-lavoro, acquistati sul mercato per dare vita, attraverso un nuovo processo produttivo, a un nuovo capitale-merce e a una nuova valorizzazione. Un’analisi più superficiale della formazione capitalistica individua una moltitudine di produttori autonomi e separati (che in realtà sono lavoratori collettivi subordinati al comando del capitale), delimitati spazialmente e interrelati in modo sincronico dal meccanismo mercantile. Un’indagine più profonda, al contrario, ci mostra questi stessi lavoratori collettivi, in quanto quote del capitale complessivo controllate da singole imprese, come l’autonomizzazione e la separazione spaziale dei diversi stadi che ogni capitale deve attraversare nel tempo, nel suo flusso diacronico, per potersi valorizzare. Questo flusso temporale, in cui il capitale passa continuamente dalla forma di denaro a quella produttiva e a quella di merce, appare dominato dalla dispersione spaziale dei molti capitali che sincronicamente si trovano in queste diverse forme secondo determinate proporzioni. Ciò avviene perché la separazione originaria tra mezzi di produzione e forza-lavoro fa sì che la valorizzazione sia una funzione dei singoli capitali, imponendo così la necessità della circolazione mercantile. In realtà, poiché il fine precipuo del capitale è la valorizzazione, l’elemento fondamentale della sua esistenza è il tempo, in particolare il tempo di lavoro, mentre la dislocazione frammentata nello spazio funge da mezzo adeguato a tale fine, dando per scontate le basi sociali del capitalismo create durante l’accumulazione originaria. Per Marx la forma III del ciclo, quella del capitale-merce (M’…M’), è la più complessiva e adeguata. A differenza dei cicli del capitale monetario (D…D’) e del capitale produttivo (P…P’), dove D e P potrebbero idealmente essere il primo capitale della storia, il ciclo M’…M’ mostra immediatamente la connessione e quindi la necessaria frammentazione dei molti capitali. All’inizio di questo ciclo, infatti, troviamo già la circolazione complessiva come presupposto: la vendita di capitale-merce già valorizzato e l’acquisto degli elementi produttivi per una nuova valorizzazione. Il ciclo del capitale-merce, dunque, spinge oltre se stesso, verso il concetto di capitale complessivo sociale. Questo capitale complessivo non è assolutamente un soggetto unico o una sintesi suprema del comando capitalistico ma è piuttosto il risultato dell’interazione conflittuale dei singoli capitali. Esso non esiste concretamente al di fuori di questa interazione. È una totalità che implica e non annulla mai la molteplicità delle sue quote individuali. Per il singolo agente la connessione generale e le sue leggi appaiono come un meccanismo estraneo e dominante che in realtà non è altro che la forma di esistenza dell’intreccio conflittuale (sebbene non antagonistico in questa sfera) tra i molti singoli. L’unità sintetica del capitale complessivo sociale è quindi il risultato della circolazione, ovvero lo spazio specifico della conflittualità interna alla riproduzione della struttura dei rapporti capitalistici. Il ciclo del capitale-merce inizia con una circolazione totale nella forma M-D-M che fa apparire la circolazione mercantile semplice come il presupposto del capitale. In realtà il vero presupposto è l’esistenza di un capitale già valorizzato (M’) e lo scopo della circolazione è una nuova valorizzazione. La forma III del ciclo evidenzia proprio come tra questo presupposto e questo fine si interponga la circolazione complessiva, mostrando che la valorizzazione non è affare di un ipotetico Capitale complessivo ma di una moltitudine di singoli capitali. La valorizzazione avviene in punti di condensazione dell’attività socialmente isolati gli uni dagli altri per i quali la connessione generale si presenta come uno spazio esterno, un campo di battaglia. La loro socialità e reciproca dipendenza appare a ciascuno di essi come un “altro da sé”, in acuta opposizione alla propria individualità. I cicli del capitale singolo e gli schemi di riproduzione che studiano le condizioni di equilibrio della loro interconnessione riescono soltanto a riprodurre teoricamente l’esistente nella sua forma capitalistica di frammentazione. Fermarsi a questo livello di analisi significa cadere in un grave empirismo che di fatto accetta l’esistenza capitalistica dei rapporti economici. È invece indispensabile ripercorrere l’indagine marxiana che mira a scoprire i nessi reali interni che spiegano quella determinata forma della circolazione. Non basta il modello della frammentazione e dell’interazione conflittuale, bisogna scoprire la logica che rende necessaria la frammentazione stessa. Riprendendo il ciclo del capitale-merce (M’…M’) ci si rende conto che esso, e quindi la connessione estrinseca tra le diverse attività produttive, presuppone la valorizzazione. Il ciclo inizia con M’, non con una merce semplice, perché M’ è il risultato di un processo produttivo (P) precedente. Dal punto di vista del singolo capitalista, che inizia il ciclo con il denaro (D…D’), il problema può sembrare più semplice: egli deve realizzare le sue merci sul mercato per ottenere un profitto. A lui, una volta che la produzione capitalistica è un dato di fatto, può persino sembrare che la circolazione sia di per sé produttiva di valorizzazione, come nel caso dell’intermediazione commerciale o bancaria. Se si considera il ciclo a partire da M’ diventa evidente che queste merci, che già incorporano plusvalore, potranno realizzare il loro valore solo se saranno indirizzate, come mezzi di produzione o come mezzi di sussistenza per i lavoratori, al processo di valorizzazione di altri capitali. Il ciclo del capitale-merce presuppone dunque un modo di produzione capitalistico pienamente sviluppato, dove la circolazione semplice è già completamente sussunta sotto quella capitalistica. Questo ciclo ci spiega la peculiare strutturazione del capitalismo, in cui il capitale può realizzare la sua valorizzazione solo attraverso la sua divisione in capitali separati e autonomi che trovano al di fuori di sé, sul mercato, le condizioni oggettive e soggettive (mezzi di produzione e forza-lavoro come merci separate) della loro valorizzazione individuale. Quindi il capitale non può realizzarsi se non è frammentato e connesso dalla circolazione. Tuttavia è cruciale notare che questa connessione circolatoria presuppone la valorizzazione, non la pone. La connessione dei frammenti non è una sintesi che annulla le particolarità, il vero “nesso interno”, il fondamento della connessione, sta nel processo produttivo (P), nella produzione-valorizzazione stessa.
Nei cicli del capitale “individuale” e negli schemi di riproduzione il momento produttivo (P) non viene analizzato nella sua internalità ma è trattato solo come un punto di passaggio, un’interruzione della circolazione in cui si presuppone la valorizzazione. Prendiamo il ciclo del capitale produttivo, P…P(P’). I suoi punti estremi, a differenza dei cicli del denaro e delle merci dove D e D’ o M’ e M” sono qualitativamente omogenei, non lo sono: il P iniziale è il processo di produzione-valorizzazione considerato nel momento in cui sfocia nel prodotto (M’) mentre il P finale è in realtà l’atto che pone il capitale nella forma produttiva (D-M<Lpm), è la produzione in potenza. Ciò che manca in questa rappresentazione è l’effettivo svolgimento del processo di produzione, l’articolazione concreta dell’attività lavorativa durante la sua erogazione che Marx aveva già analizzato nel Libro I del Capitale e che qui viene data per presupposta. Obliterare questa analisi fondamentale conduce a gravi fraintendimenti. Si perdono di vista le condizioni reali della valorizzazione, privilegiando il fatto empirico che essa non può realizzarsi concretamente senza la connessione estrinseca dei vari capitali. Così sembra che l’unica funzione del capitalista sia combinare elementi produttivi già separati e il mercato, da meccanismo di connessione, viene elevato a struttura essenziale del capitalismo. Il capitalista appare come colui che produce per il valore di scambio, trascurando le condizioni oggettive che fanno sì che questa produzione sia un mezzo per appropriarsi del plusvalore. Una volta presupposta la forma capitalistica della circolazione si tende a indicare come rapporto fondamentale la proprietà giuridica capitalistica dei mezzi di produzione, poiché è questa che, in apparenza, permette la separazione dei mezzi di produzione dalla forza-lavoro e la loro successiva unione sotto il coordinamento capitalistico. Con lo sviluppo capitalistico e la crescente politicizzazione delle forme della circolazione (ad esempio con l’intervento statale), questi fraintendimenti si amplificano. C’è chi vede nello Stato la sintesi suprema del comando capitalistico, chi nella frammentazione di questo comando tra varie istituzioni. In entrambi i casi si tende a dichiarare decaduta la legge del valore, obliterando lo specifico processo di valorizzazione che essa implica. Si registra inoltre un’errata comprensione della riproduzione: si pensa che la produzione riguardi i singoli capitali mentre la riproduzione riguarda solo la loro connessione esterna per ricreare le condizioni della produzione. Poiché oggi un’analisi empirica mostra che la riproduzione di queste condizioni, mezzi di produzione, infrastrutture sociali e forza-lavoro, è sempre più influenzata o assunta da apparati pubblici, si riapre la strada a concezioni “politiciste” che vedono nel Politico la struttura portante del capitalismo e l’unico spazio di una conflittualità immediatamente antagonistica tra capitale e lavoro.
La Grassa insiste sul ciclo del capitale-merce come la forma ciclica che meglio individua la connessione circolatoria tra capitali diversi e che presuppone una produzione capitalistica già pienamente sviluppata. Questo ciclo rappresenta la preparazione effettiva all’analisi degli schemi di riproduzione e permette di osservare come ogni singolo capitale, nel suo funzionamento, produca costantemente mezzi di produzione o beni di consumo di lusso destinati ad altri capitali, oppure mezzi di sussistenza necessari alla riproduzione della forza-lavoro, quest’ultima intesa come un fattore produttivo che i vari capitali acquistano. Ne consegue che ogni processo produttivo capitalistico singolo trova al proprio esterno, prodotti da altri capitali, le proprie condizioni materiali di esistenza e, a sua volta, le riproduce per altri processi produttivi altrui. Se da questa constatazione concreta si astrae in modo indebito, fissando categorie generali di produzione e riproduzione, si giunge alla conclusione erronea che la riproduzione capitalistica consista semplicemente nella produzione di condizioni produttive esterne ai processi che le utilizzano, condizioni che diventano così un mero presupposto per la valorizzazione. In questa visione astratta la riproduzione si realizzerebbe esclusivamente nell’intreccio e nell’interconnessione circolatoria dei vari capitali, facendo apparire la circolazione come il nesso essenziale e decisivo dell’intero modo di produzione, dove i rapporti di produzione si riducono a puri rapporti di scambio tra produttori capitalistici che si scambiano gli elementi necessari alla loro produzione-valorizzazione. Naturalmente, dato che il fattore cruciale della produzione è il lavoro, il rapporto fondamentale sembra essere quello di scambio tra capitale-denaro e lavoro salariato, cioè la compravendita della forza-lavoro come merce. La riproduzione di questo rapporto di produzione fondamentale deve quindi essere mediata e la mediazione appare come l’elemento dominante della produzione stessa degli elementi (capitale e lavoro) che devono poi porsi in rapporto di scambio all’interno della riproduzione, attuata tramite la circolazione, del capitale complessivo sociale. In questo quadro riproduttivo e circolatorio avviene uno slittamento percettivo fondamentale. Il capitale, che nella sua essenza è denaro e quindi valore di scambio astratto, sembra invece far dominare il suo involucro, il valore d’uso. Questo avviene sia nel valore d’uso del denaro stesso, il cui uso specifico è proprio l’acquisto degli elementi della produzione, sia nel valore d’uso dei componenti del capitale costante, i mezzi di produzione, che devono essere acquistati in proporzioni quantitative precise avendo riguardo proprio alla loro materialità specifica. Allo stesso modo la forza-lavoro, che è un certo valore di scambio ed è la fonte dell’attività valorizzante, nella riproduzione circolatoria sembra far dominare il suo valore d’uso. Da un lato abbiamo il valore d’uso dei mezzi di sussistenza il cui consumo la riproduce, dall’altro il valore d’uso dell’attività lavorativa latente, già potenzialmente insita nella capacità lavorativa incarnata nel corpo dei lavoratori, un’attività che sembra poter essere semplicemente “attivata” e resa liquida non appena il capitale assume la sua forma produttiva, attraverso la semplice fornitura e combinazione con i mezzi di produzione adatti. Ciò che sfugge completamente in questa visione superficiale, resa possibile dalla mediazione circolatoria, è la specifica articolazione organizzativa e tecnica dei processi produttivi, la loro natura processuale e di struttura in divenire che è il vero fondamento della trasformazione della capacità lavorativa astratta in una specifica attività lavorativa concretamente valorizzante.
Proprio a causa di questa mediazione essenziale operata dal valore d’uso e dalla riproduzione nella forma della circolazione, la riproduzione allargata dei rapporti di produzione capitalistici finisce per essere concepita in termini puramente quantitativi, come un mero ampliamento della massa di denaro disponibile per l’acquisto di elementi produttivi, in special modo mezzi di produzione, da un polo, e come un ampliamento parallelo della massa della forza-lavoro salariata dall’altro polo. Questa visione meccanica porta all’idea che lo sviluppo capitalistico consista in un progressivo contrapporsi tra un numero sempre minore di capitalisti e una massa crescente di lavoratori espropriati, fino al punto in cui, raggiunto un certo grado di sviluppo quantitativo, scoccherebbe l’ora dell’espropriazione degli espropriatori e si realizzerebbe la socializzazione completa della produzione. Questa prospettiva è fuorviante perché riprodurre gli elementi della produzione, sia direttamente come mezzi di produzione che indirettamente come mezzi di sussistenza per i lavoratori, significa produrli e il capitale non produce se non per valorizzarsi. L’elemento cruciale e attivo della produzione è il lavoro vivo, l’attività lavorativa in atto, mentre ciò che viene riprodotto come merce è la forza-lavoro, la mera capacità. Quest’ultima viene riprodotta come merce proprio perché la produzione capitalistica non modifica mai la condizione base del rapporto, cioè la separazione tra i mezzi di produzione, i quali rimangono sotto il pieno potere di disposizione del capitalista, e il lavoro vivo che, pur sembrando di azionarli, è in realtà azionato dall’articolazione tecnico-organizzativa complessiva del processo lavorativo controllata dal capitale. Più che di una semplice estensione quantitativa, quindi, bisogna parlare di una intensificazione di questo rapporto di separazione nei suoi cicli riproduttivi successivi, man mano che le possibilità di disposizione dei mezzi di produzione vengono sempre più assorbite e interiorizzate nel capitale stesso, nella sua organizzazione complessiva.
Se a livello della sfera circolatoria la riproduzione sembra essere il fondamento della produzione e della valorizzazione, in quanto fornisce loro le condizioni oggettive e soggettive, in realtà è la valorizzazione che pure esiste solo come fine egoistico di ogni singolo capitale a costituire il mezzo essenziale attraverso cui la riproduzione degli elementi della produzione nella forma capitalistica può aver luogo. La valorizzazione, la quale comporta necessariamente la riproduzione approfondita del rapporto capitalistico di separazione, produce quindi le condizioni di base della sua stessa riproduzione e le produce nella forma che a tale riproduzione è adeguata, cioè la forma della circolazione. Quando si analizza la genesi storica del capitalismo, l’accumulazione originaria, è possibile postulare gli elementi base, mezzi di produzione concentrati e forza-lavoro libera, come presupposti estrinseci che interagiscono meccanicamente. Quando si affronta la riproduzione del modo di produzione già affermato, diventa limitativo pensare a una mera ripetizione allargata di quelle condizioni. Oggi o si pensa che il capitalismo debba ancora svilupparsi in estensione nelle aree sottosviluppate, oppure il modello interpretativo della riproduzione-accumulazione deve essere modificato. La valorizzazione è, in essenza, riproduzione approfondita del rapporto di produzione, è parcellizzazione e divisione tecnica del lavoro che si ripercuote in una crescente frammentazione sociale, intesa non come processo lineare ma come successione di fasi di disarticolazione e ristrutturazione. Se la direzione di questo processo va dalla divisione tecnica del lavoro, caratteristica specifica del capitalismo, alla divisione sociale del lavoro in forma capitalistica, allora il fine della valorizzazione implica un continuo accentuarsi della separazione tra potere di disposizione dei mezzi di produzione e forza-lavoro subordinata. Questa condizione decisiva è prodotta all’interno stesso del processo di valorizzazione, anche se poi si ripresenta costantemente nella forma fenomenica della proprietà separata e dello scambio tra capitale e lavoro salariato. Isolando il singolo atto di valorizzazione è impossibile stabilire una preminenza assoluta della produzione o della circolazione poiché ogni atto produttivo è incastonato tra atti circolatori e viceversa, in una successione circolare. Tuttavia non è il singolo processo a determinare la riproduzione circolatoria. La produzione determina la riproduzione solo in quanto essa è, in realtà, riproduzione del rapporto di produzione capitalistico, solo in quanto la divisione capitalistica del lavoro, concretizzante la valorizzazione, determina il presentarsi degli elementi di produzione come merci nell’intreccio dei diversi settori. Diventa quindi necessaria l’astrazione del capitale in generale che non può essere semplicemente identificata con il capitale complessivo sociale. Quest’ultimo, infatti, si presenta come una totalità solo attraverso la mediazione della circolazione tra le sue parti costitutive frammentate, cioè solo attraverso un nesso sociale estrinseco ai vari capitali. Tentare una sintesi unitaria e indifferenziata del capitale sociale significa quindi eliminare dalla teoria la circolazione nella sua specifica forma capitalistica di connessione esterna tra attività separate. Questo errore teorico può manifestarsi in due modi apparentemente opposti ma convergenti: enfatizzando il lato della produzione fino ad assorbirvi la circolazione, immaginando la società come una grande fabbrica pianificata, oppure, al contrario, espungendo la produzione e dissolvendola nella circolazione, confondendo i processi lavorativi connessi alle funzioni circolatorie con la funzione circolatoria stessa di pura mediazione, fino a rappresentare la sintesi sociale in figure astratte come Denaro, Banca o Stato, senza analizzarne le articolazioni concrete. La vera sintesi della frammentazione sociale non risiede quindi nella circolazione ma nella valorizzazione intesa come processo generale di erogazione di lavoro in forma capitalistica che provoca la continua riproduzione approfondita del rapporto capitale-lavoro. Non si tratta del singolo processo di valorizzazione, il quale è sullo stesso piano lineare della circolazione, ma del processo di lavoro capitalistico nel suo movimento specifico e generale che pone le condizioni per il suo presentarsi empirico come una moltitudine di processi autonomi connessi dalla circolazione. È la produzione nel senso più ampio che determina i vari momenti della totalità sociale. Per coglierne l’essenza non basta astrarre verso caratteristiche generali e medie ma bisogna individuarne la direzione di movimento fondamentale, già indicata da Marx come la separazione delle potenze intellettuali del lavoro cooperativo dai lavoratori e il loro assorbimento nel capitale. Questo movimento è quello di una struttura complessa che incarna i rapporti sociali antagonistici, una struttura che continuamente si disarticola, si frammenta e si riarticola con la tendenza costante a scindere direzione capitalistica ed esecuzione lavorativa. Questo movimento si concretizza empiricamente nella frammentazione sociale, con alcuni settori che fungono da avanguardia. Analizzare la direzione di questo movimento è indispensabile per comprendere sia i nessi intrinseci che connettono sotterraneamente i comparti separati della società, sia le forme squilibrate dello sviluppo, le crisi, le ristrutturazioni e il legame tra le forme del plusvalore relativo e quelle del plusvalore assoluto. L’iter concettuale seguito da Marx mira proprio a ricostruire teoricamente l’articolazione del nesso produzione-circolazione-riproduzione, per mostrare come il processo capitalistico riproduca i suoi specifici rapporti sociali di produzione. La produzione capitalistica, frammentata in unità autonome connesse dalla circolazione delle merci (mezzi di produzione e forza-lavoro), è la fase decisiva dove avviene la valorizzazione. La riproduzione nella sfera circolatoria indica le condizioni di possibilità per il flusso continuo della produzione ma il suo fondamento ultimo è la valorizzazione. Quest’ultima, implicando l’espropriazione reale e crescente dei lavoratori, si manifesta come accumulazione di plusvalore in forma di denaro a un polo e di lavoro espropriato, costretto a ripresentarsi come forza-lavoro merce, all’altro polo. La riproduzione approfondita del rapporto di produzione è quindi la base della riproduzione del capitale sociale nella circolazione. La necessità di questo nesso diventa evidente quando si considera che la riproduzione del rapporto comporta una continua destrutturazione e ristrutturazione dell’organizzazione del lavoro, la quale a sua volta provoca la frammentazione della produzione e, quindi, la necessità imprescindibile della circolazione come forma di connessione. Il percorso logico della ricostruzione teorica marxiana va dunque dalla valorizzazione (in particolare tramite plusvalore relativo) alla riproduzione approfondita del rapporto, da questa alla frammentazione dei processi produttivi e dalla frammentazione alla necessità della circolazione come funzione sociale di ricomposizione conflittuale, sebbene Marx, nell’esposizione nel Capitale, parta opportunamente dalle forme di superficie della merce e del valore. Per Marx la produzione capitalistica era identificabile principalmente con l’industria e l’agricoltura ma il concetto di ciclo del capitale industriale, che deve contenere il momento produttivo (P) e non solo quelli circolatori (D-M e M’-D’), viene esteso a qualsiasi processo in cui si eroga lavoro vivo eccedente, a prescindere dalla materialità del prodotto. Solo la pura funzione di intermediazione connettiva, incarnata dal capitale commerciale e bancario nella loro attività specifica di facilitare il cambiamento di forma del capitale, è considerata improduttiva, in quanto si limita a far circolare valori già esistenti. La produzione capitalistica è l’istanza fondamentale perché è in essa che si sviluppano i processi di risparmio di lavoro che, mediate dall’interazione complessiva del mercato, si traducono in un aumento del plusvalore relativo. Questi stessi processi, però, sono i responsabili della segmentazione della produzione in unità separate, ponendo così essi stessi la connessione circolatoria come condizione della loro esistenza. La funzione connettiva, sebbene essenziale per la produzione frammentata, non ha autonomia reale e trova il suo fondamento nella valorizzazione, ragion per cui è improduttiva. L’apparato connettivo per eccellenza è, per Marx, il mercato e la sua concezione della circolazione rimanda alla forma merce. Da questa ricostruzione Marx trae conclusioni fondamentali ancora valide: la valorizzazione avviene solo nell’erogazione di lavoro vivo, non nella pura intermediazione e la razionalità pianificata interna ai processi lavorativi si rovescia sistematicamente in disfunzionalità e crisi nella sfera della connessione circolatoria. Per analizzare il capitalismo moderno è necessario operare uno spostamento o una rotazione dei concetti marxiani di produzione e circolazione. La Grassa si propone di accantonare provvisoriamente la complessa questione del lavoro produttivo e improduttivo, non perché irrilevante, ma per evitare che un’ortodossia sterile blocchi l’analisi di fenomeni contemporanei e di adottare invece il concetto più ampio di processo di lavoro. Questo concetto si applica a ogni comparto sociale in cui si condensa attività lavorativa finalizzata a ottenere valori d’uso, in una condizione di separatezza e autonomia reciproca. Senza cancellare le specificità dei diversi comparti, occorre cogliere l’elemento unitario che ne dirige la dinamica nel capitalismo: la logica della valorizzazione, cioè la ricerca del continuo risparmio di lavoro. Questa logica si manifesta concretamente nella parcellizzazione dei processi e, più in generale, nella separazione delle potenze mentali del lavoro cooperativo dalla massa dei lavoratori, con il loro conseguente accentramento in ruoli direttivi controllati dagli agenti del capitale. Questo movimento, nel tentativo di oggettivare sistemi organizzativi più produttivi, da un lato lancia nuovi settori produttivi e dall’altro frastaglia ulteriormente l’attività lavorativa sociale in unità sempre più numerose e separate, all’interno delle quali il potere di direzione può meglio oggettivarsi. Ne scaturisce un’incessante e acuta conflittualità tra gli agenti del capitale per il dominio su quote maggiori del lavoro sociale. Questa lotta di tutti contro tutti deve contemporaneamente “servire” altri agenti capitalistici, fornendo loro i valori d’uso necessari ai loro processi. La conflittualità deve quindi intrecciarsi continuamente con momenti di alleanza, coordinamento e mediazione. La sfera connettiva, la circolazione, diviene così il luogo specifico di questa mediazione conflittuale. Non più solo il mercato concorrenziale ma l’intera connessione sociale come ambito in cui la rigorosa pianificazione interna di ogni processo si apre a un ventaglio di possibilità che mescolano conflitto, mediazione e anche coercizione autoritaria. Quest’ultima, però, non può fondarsi sull’idea di una società riducibile a una singola fabbrica pianificata ma richiede sempre ampi spazi di mediazione ed elasticità nella connessione tra i frammenti sociali. È in questo spazio complesso della connessione circolatoria, dove la sintesi sociale non è mai data una volta per tutte ma è sempre in divenire attraverso il conflitto e la mediazione, che la circolazione stessa si apre necessariamente alla sfera della politica. La circolazione è uno spazio sociale costituito da una fitta rete di rapporti conflittuali e di atti di mediazione connettiva ma è, al contempo, una funzione specifica la cui essenza consiste nel connettere i vari comparti sociali e produttivi autonomi e separati. Questa funzione si concretizza in una serie di pratiche e di apparati, più o meno complessi e tendenzialmente sempre più complessi, che si assumono l’onere di esercitare tali pratiche. Quando questi apparati diventano più complessi, essi possono svolgere le proprie attività organizzando determinate attività lavorative, esercitate da molti lavoratori cooperanti. Simili processi di lavoro cooperativo sono necessariamente sussunti sotto la dinamica capitalistica, manifestando in modo particolare la divisione parcellizzata del lavoro tipica del capitalismo, la separazione delle potenze mentali che dirigono l’attività dalle mansioni meramente esecutive. È vero che la dinamica capitalistica si estende dai processi lavorativi produttivi a quelli circolatori ma questo fatto non annulla la distinzione fondamentale tra la circolazione, intesa come funzione connettiva, e il processo di erogazione del lavoro. Coloro che confondono la funzione connettiva con la dinamica capitalistica dei vari comparti sociali commettono un errore poiché non avviene una semplice estensione del dominio capitalistico dalla produzione alla circolazione, né si manifesta una tendenza ad organizzare l’intera società come una grande fabbrica. Il capitale, invece, ingloba nel suo movimento i vari processi lavorativi che si svolgono nei diversi comparti sociali. Questo movimento non è solo estensivo, ma, tramite il processo di analisi e parcellizzazione delle attività lavorative subordinate alla sua direzione, crea continuamente nuovi processi di lavoro come nutrimento per un’ulteriore frammentazione. Pertanto, con l’approfondirsi del rapporto di produzione capitalistico e della crescente espropriazione reale dei lavoratori, non si va verso una presunta unificazione del comando capitalistico sull’intera società, al contrario il capitale si disarticola e si frammenta continuamente in un numero sempre maggiore di attività separate, fra le quali si interpone la sfera della connessione, di tipo estrinseco. Diventa quindi evidente che i nuovi comparti di attività lavorativa cooperativa e sussunta sotto il capitale non nascono solo dalla necessità di nuovi metodi e tecniche per aumentare la produttività ma anche dalla logica intrinseca del capitale di parcellizzare il processo di lavoro, frammentando l’attività complessiva in “spezzoni” separati e conflittuali. Questa frammentazione genera a sua volta crescenti esigenze connettive del sistema globale, facendo nascere nuovi apparati per soddisfarle e nuovi processi di lavoro che esercitano le pratiche relative alla funzione connettiva. Ogni volta che il capitale, personificato dai suoi agenti, subordina a sé un settore dell’attivitá lavorativa sociale che svolge una funzione connettiva, quest’ultima non viene annullata. La dinamica capitalistica di parcellizzazione provoca anzi ulteriori frammentazioni sociali, con l’esigenza di nuove mediazioni conflittuali, di nuovi apparati connettivi e di nuovi processi lavorativi, in una spirale di crescente complicazione del quadro sociale. Oltre a questo occorre ricordare che, sebbene la dinamica generale dei processi lavorativi capitalistici sia la stessa, le logiche sistematiche che concernono i processi di lavoro svolti nei diversi punti di condensazione, separati e conflittuali, sono diverse. Una contraddizione del capitale, che non conduce fuori dal sistema ma solo a suoi periodici sconvolgimenti, è quella tra la continua ricerca di una rigorosa sistematizzazione organizzativa del lavoro cooperativo per aumentare sfruttamento e valorizzazione e la continua divisione del lavoro sociale complessivo in attività autonome e concorrenti, rette da logiche diverse e non integrabili rigorosamente. L’integrazione e il coordinamento devono quindi basarsi su metodi che incorporino la conflittualità e la separatezza, ricorrendo a mediazioni elastiche o, quando necessario, a comandi imperativi che restano comunque esterni ai diversi comparti. Non esiste la possibilità oggettiva di sintetizzare questi comparti in un insieme più vasto che li tratti come sottosistemi rigorosamente integrabili, come avviene invece nei reparti di una fabbrica. A differenza dell’integrazione sistematica dei lavori parcellari all’interno di un singolo processo lavorativo, l’integrazione dei differenti processi di lavoro e dei diversi comparti sociali è molto più aperta a numerose possibilità, ciascuna delle quali ingloba obiettivi, strategie e sistemi di alleanze specifici. Ogni strategia consta di obiettivi alternativi con sistemi alternativi di alleanze ma ogni obiettivo è il fine di un singolo comparto sociale o agente capitalistico in contrasto con gli altri. Ogni sistema di alleanze “serve” il perseguimento di fini tra loro in contrasto e implica quindi la lotta o il “gioco” conflittuale. È la conflittualità interna alla riproduzione dei rapporti capitalistici che entra in gioco ed è il rapporto di forze intercapitalistico che determina la concretizzazione di una possibilità piuttosto che un’altra. Nell’ambito della mediazione conflittuale, ovvero il contenuto della connessione circolatoria, prevale dunque il conflitto. Questa conclusione deriva direttamente dalle considerazioni sulla crescente divisione sociale del lavoro nel capitalismo: ogni frammentazione esige maggiore connessione ma quest’ultima, attuata attraverso processi di lavoro subordinati alla dinamica capitalistica che a sua volta li parcellizza, provoca necessariamente un’ulteriore frammentazione. Ogni spezzone di attività capitalistica, essendo autonomo e separato, non può che essere in continuo conflitto con gli altri. Indubbiamente l’articolazione della società odierna è molto più complicata del semplice insieme di produzione e circolazione mercantile. I confini tra razionalità organizzativa capitalistica e mediazione dei conflitti sono estremamente mobili e sfumati, rendendo la lettura della realtà capitalistica attuale molto meno semplice che all’epoca di Marx. Non è possibile semplificare il compito ricorrendo al criterio del comando dispotico per l’unità di base del lavoro cooperativo e alla mediazione per la connessione circolatoria perché in quest’ultima non si esplicano solo atti di mediazione ma spesso anche comandi imperativi. Sarebbe necessario individuare il tipo di rapporto che una direzione capitalistica prevalentemente coercitiva ha con il dispositivo tecnico-organizzativo del processo lavorativo: se il comando è estrinseco, ha una funzione circolatoria, se la coercizione è intrinseca all’organizzazione e alla tecnologia, implica il coordinamento sistematico del processo lavorativo stesso. L’analisi è complicata dal fatto che in molti casi vi sono commistioni di funzioni negli stessi apparati e agenti del comando capitalistico. Tuttavia è in questa direzione che deve muovere l’analisi per recuperare la lezione fondamentale di Marx sul primato della produzione alla luce della struttura capitalistica odierna e per contrastare le teorie della circolazione e della frammentazione che, impedendo una visione unitaria della società capitalistica, fanno da battistrada a ideologie sempre più improntate a una sorta di neoliberalismo o di neoanarchismo.