L’analisi operaista dell’università neoliberale

Questo nostro saggio intende fornire degli strumenti per comprendere come il pensiero operaista, dagli anni ‘80 in poi, ha analizzato le trasformazioni dell’università neoliberale, le mobilitazioni di chi in queste istituzioni lavora e le sue connessioni con una proposta politica radicale che ha come suo perno centrale la lotta per il Comune. 

  1. Le anticipazione di Romano Alquati

Il nostro saggio inizia ripercorrendo il modo in cui Romano Alquati tra gli anni ‘80 e ‘90 ha iniziato a riflettere sulle trasformazioni dell’università e il ruolo del sapere nel capitalismo. Per ricostruire le sue riflessioni ci serviremo del paper di Pietro Maltese La “baricentralità” della formazione in Romano Alquati e del libro La riproduzione del futuro. Le ipotesi di Romano Alquati per una trasformazione radicale. Iniziamo dal saggio Appunti quadro per una ricerca sulla «formazione» dove la formazione, intesa come riproduzione allargata del valore della capacità attiva umana, gioca un ruolo determinante nella costruzione della soggettività e delle competenze degli individui in quella che Alquati chiama Neo-modernità. Essa non è un semplice trasferimento di conoscenze o competenze ma una trasformazione più profonda che riguarda la capacità umana nel suo complesso e quindi l’intero essere degli individui. Alquati assume come ipotesi di base che gli attori, ossia gli individui, siano il prodotto di una combinazione tra eredità genetica, cultura e esperienza, con la formazione che diventa tanto più decisiva quanto più interagisce con l’esperienza. Siccome oggi l’esperienza diretta e autonoma degli individui è in fase di regressione, la formazione assume un peso crescente nel determinare la soggettività e le capacità delle persone, sia in termini assoluti che relativi. La formazione, dunque, è il principale vettore della costruzione della soggettività nel contesto della Neo-modernità e non riguarda solo la dimensione lavorativa e produttiva perché ingloba la persona nel suo insieme. In questo modo la soggettività viene concepita come un elemento in continua trasformazione che può riguardare tanto gli attori quanto le persone nel loro complesso. La formazione dell’attore, quindi, è solo un aspetto particolare di una più generale formazione della persona che non si riduce alla semplice acquisizione di competenze e implica una modellazione della capacità umana in senso lato. Alquati nel testo introduce il concetto di formazione come riproduzione allargata del valore della capacità umana e sottolinea come questa capacità, nel sistema capitalistico, sia trattata tendenzialmente come una merce. Il riferimento al valore è cruciale. Nella tradizione marxiana la merce possiede un valore d’uso e un valore di scambio e la capacità umana, in quanto merce, è soggetta alle stesse dinamiche. Per Alquati oggi c’è una forte resistenza a riprendere le teorie classiche del valore, nonostante queste offrano ancora chiavi di lettura efficaci per comprendere le dinamiche del capitalismo contemporaneo. Esiste un rifiuto diffuso delle vecchie categorie interpretative che viene giustificato sulla base della loro presunta obsolescenza mentre il sistema capitalistico continua a riprodurre invarianze fondamentali nelle sue strutture e nelle relazioni tra le variabili decisive. Alquati critica questa tendenza a scartare le teorie del passato solo perché considerate vecchie mentre il capitalismo, nelle sue caratteristiche essenziali, è più antico delle stesse teorie che cercano di descriverlo. Questa avversione nei confronti delle categorie interpretative classiche si accompagna a un atteggiamento conformista che trasforma ogni tentativo di cambiamento radicale in una forma di escatologia o di fede religiosa, senza affrontare le reali strutture del capitalismo. Nel quadro della Neo-modernità si verifica una contraddizione fondamentale: gli attori diventano sempre più capaci in termini di attività-merci ma il loro valore come soggetti si riduce. Questo paradosso evidenzia un’ambivalenza strutturale del sistema, in cui il potenziamento tecnico e produttivo si accompagna a un impoverimento delle capacità umane nella loro essenza. Gli attori possono cercare di accrescere il loro bagaglio di conoscenze e competenze ma la formazione non si riduce a un semplice incremento delle capacità tecniche perché implica un cambiamento qualitativo della soggettività. Inoltre, la formazione valorizza capacità umane-merce che sono usate da altri e per fini diversi da quelli del proprietario. In questo processo, chi realmente dispone della capacità umana cerca di incrementarne la potenza ma non il valore, generando un’asimmetria strutturale nei rapporti sociali. Questa asimmetria si traduce in un conflitto macrosistemico tra due grandi classi-parti: da un lato la parte iper-capitalista, che detiene il controllo della valorizzazione delle capacità umane, dall’altro la parte iper-proletaria, che ne è proprietaria ma non ne dispone pienamente. Questo conflitto, costitutivo del sistema capitalistico, è un elemento fondamentale nel modello teorico di Alquati che assume la sua esistenza come ipotesi di base per interpretare i fenomeni sociali della Neo-modernità. All’interno di questo conflitto, gli attori proprietari delle capacità umane non possono cambiare la loro condizione senza una ri-soggettivizzazione antagonistica, ossia senza un processo di trasformazione che implichi una presa di coscienza e una riformulazione del proprio ruolo nel sistema. La loro stessa condizione attuale rende difficile questa trasformazione perché per desiderarla dovrebbero già essere diversi da come sono. L’ambivalenza del movimento storico della capacità umana si riflette nell’ambivalenza della formazione che può essere letta in modi differenti. La riproduzione della capacità umana-merce è a carico degli iper-proletari ma si possono distinguere due dimensioni della formazione promossa da questi ultimi: l’autoformazione e la contro-formazione. L’autoformazione non significa semplicemente formare sé stessi perché può essere una formazione funzionale al capitale collettivo e sociale che utilizza la capacità umana-merce. La contro-formazione, invece, implica una formazione autonoma degli iper-proletari per sé stessi, il che presuppone che questi diventino soggetto attivo del proprio percorso formativo, condizione oggi poco realizzata. Da questa distinzione deriva la questione della contro-valorizzazione, ossia della possibilità di una valorizzazione della capacità umana che non sia subordinata agli interessi del capitale. Alquati individua quattro possibili vie per il cambiamento soggettivo degli attori iper-proletari, tutte tra loro combinabili: 1) un cambiamento indotto da un movimento collettivo capace di trascinare gli individui per imitazione o conformismo, come avvenne nel ‘68, ipotesi oggi improbabile per l’assenza di un movimento con tale forza di attrazione; 2) un cambiamento imposto dall’alto da un’autorità esterna, che però oggi non si intravede, dato che le uniche prospettive sono razionalizzazioni interne al sistema; 3) un cambiamento reattivo determinato dall’aggravarsi di contraddizioni sistemiche insostenibili, ipotesi difficile perché, nonostante le frustrazioni diffuse, non si è ancora giunti a una soglia critica di intollerabilità collettiva; 4) una riforma critica della formazione promossa da un’autorità illuminata con il consenso degli attori stessi, scenario altrettanto improbabile, data l’assenza di tale autorità e la scarsa consapevolezza degli iper-proletari sulla loro condizione. Queste strade condividono un elemento comune: il cambiamento avviene solo sotto la spinta di una pressione esterna che si configura anche come una forma di violenza. La formazione attuale spinge gli attori a massimizzare individualmente il valore della loro capacità in un contesto in cui il loro valore collettivo si riduce progressivamente. La concorrenza tra gli attori si traduce in una lotta per quote di remunerazione sempre più basse e la formazione ricevuta li rende inconsapevoli di questa condizione, impedendo loro di immaginare alternative. La questione centrale diventa allora quella degli interlocutori di questo discorso: chi può contribuire a un’esplorazione critica della formazione attuale e alla costruzione di un’alternativa? 

In questo contesto si inserisce il suo dialogo molto critico con il primo movimento che ha contestato l’università neoliberale ovvero la Pantera. Questo confronto è ricostruito da Pietro Maltese nel suo saggio. Il 15 febbraio 1990 Alquati incontra la Pantera torinese in un momento cruciale della mobilitazione studentesca, cioè quando centinaia di facoltà sono occupate e tra gli studenti si diffonde la convinzione di poter ottenere una vittoria nello scontro con il governo pentapartitico guidato da Andreotti e con il ministro dell’Università Ruberti, esponente socialista ed ex rettore della Sapienza. La riforma promossa da Ruberti, sostenuta da Confindustria, segna l’avvio del processo di aziendalizzazione dell’università italiana, aprendo le porte ai finanziamenti privati e ponendo le basi per un disinvestimento progressivo da parte dello Stato. Alquati si approccia al movimento con un atteggiamento polemico che non deriva da una contrarietà alle occupazioni o da una qualche simpatia per la riforma, bensì da una delusione nei confronti dell’analisi portata avanti dagli studenti, giudicata superficiale e incapace di individuare i nodi strutturali della trasformazione in atto. Non è la solita accusa di carenza ideologica, spesso brandita contro i movimenti giovanili dagli esponenti delle vecchie generazioni, anche perché Alquati non è mai stato un ortodosso, neanche all’interno delle formazioni politiche e intellettuali a cui aveva dato un contributo fondamentale. La sua critica è piuttosto legata a un’incapacità del movimento di inquadrare la riforma universitaria nel più ampio contesto delle trasformazioni del capitalismo, in particolare rispetto al rapporto tra produzione del sapere e produzione di merci. Un primo aspetto che Alquati contesta è l’idealizzazione del sapere universitario da parte degli studenti in lotta, i quali tendono a considerare il sistema accademico come un luogo di elaborazione critica ancora sostanzialmente autonomo dalle logiche economiche. Questa visione porta a una sottovalutazione del modo in cui l’università si è già inserita nei processi di produzione e valorizzazione del capitale, facendo perdere di vista la funzione della conoscenza come forza produttiva direttamente implicata nei meccanismi dello sfruttamento. Per Alquati il problema non è solo l’interferenza delle imprese sulla ricerca attraverso i finanziamenti privati ma la mancata comprensione del ruolo che l’università, già prima della riforma, svolgeva nella riproduzione sociale e nella formazione della forza-lavoro qualificata. Il movimento non si interroga a sufficienza sul fatto che la trasmissione del sapere accademico non è un processo neutrale e che l’intellettuale in formazione non è un soggetto estraneo alle strutture di potere. Infatti è parte integrante di un sistema di disciplinamento e incorporazione nelle dinamiche della produzione capitalistica. Un’altra critica di Alquati riguarda il focus delle rivendicazioni della Pantera che si concentra soprattutto sul rischio di un condizionamento della ricerca da parte delle imprese, come conseguenza dell’apertura ai finanziamenti privati sancita dal d.d.l. n. 1935 del 1989 mentre trascura una riflessione più ampia sulla didattica e sulla formazione. Per Alquati l’inserimento dell’università in un sistema produttivo che esige un sempre maggiore controllo sulle conoscenze e sulle competenze dei futuri lavoratori non si esaurisce nella questione dei finanziamenti perché coinvolge l’intero assetto della formazione universitaria. Sebbene nelle facoltà occupate alcuni gruppi di studenti abbiano cercato di elaborare alternative didattiche, con Commissioni di studio impegnate a costruire modelli differenti sia rispetto al sistema pre-rubertiano sia rispetto alla riforma in arrivo, questi tentativi restano parziali. Le proposte formulate insistono sul legame inscindibile tra didattica e ricerca e si oppongono alla differenziazione sistemica tra università di insegnamento e università di ricerca, modello già diffuso nei paesi anglosassoni e che la riforma Ruberti voleva importare in Italia. Inoltre si spinge per una strutturazione dei corsi in forma seminariale, in opposizione a una didattica rigidamente trasmissiva e gerarchizzata. Alquati polemizza con la Pantera anche rispetto al giudizio sui corsi di diploma universitari professionalizzanti previsti dalla legge 341 del 1990, allora in via di approvazione. Questi corsi, pensati per decongestionare i percorsi di laurea tradizionali e rivolti a un pubblico proveniente da contesti sociali meno privilegiati, vengono respinti dal movimento perché ritenuti strumenti di differenziazione classista e di impoverimento culturale. La Pantera denuncia il rischio che tali corsi si trasformino in percorsi formativi dequalificati, in cui la didattica venga separata dalla ricerca e ridotta alla mera trasmissione di nozioni specialistiche di basso livello, funzionali solo alle esigenze immediate del mercato del lavoro. Alquati riconosce la fondatezza di queste critiche ma continua a ritenere che il movimento non riesca a cogliere fino in fondo la portata del cambiamento e il suo radicamento nei mutamenti complessivi del capitalismo contemporaneo. Nel suo intervento evidenzia anche un problema più profondo legato al fatto che la Pantera quando tematizzava la questione formativa lo faceva concentrandosi quasi esclusivamente sull’insegnamento e sui contenuti didattici, trascurando l’apprendimento e il metodo didattico. Questa impostazione impediva una riflessione sui meccanismi operativi della macchina della didattica e sul rapporto tra gli scopi della formazione e i modelli pedagogici, con il rischio di non comprendere come molte attività accreditate come formative non producessero un reale arricchimento della capacità vivente. La Pantera, pur mobilitandosi contro le inefficienze e le disfunzioni materiali dell’università, non metteva in discussione il processo più profondo di mercificazione della formazione, limitandosi a difendere un’idea astratta e ormai inattuale di università come spazio comunitario di sapere disinteressato. In realtà, l’università si configurava già da tempo come una wissenschaftlichen Produktionsbetrieb, un’impresa scientifica di produzione, e il movimento spesso non andava oltre richieste di efficientamento o di maggiore attenzione ai contenuti critici, senza però affrontare la questione dei metodi e delle strategie didattiche. Se da un lato Alquati poteva sottovalutare l’elaborazione delle Commissioni didattiche delle facoltà occupate, che in alcuni casi avevano prodotto riflessioni articolate sulla pedagogia universitaria, dall’altro colpiva nel segno nel sottolineare la diffusa impreparazione degli occupanti su temi legati alla formazione della capacità attiva. Questa lacuna risultava particolarmente grave in un contesto in cui il capitale italiano aveva già individuato da tempo la centralità della formazione e discuteva apertamente della necessità di rendere efficiente il sistema educativo sincronizzandolo con le esigenze del mercato. Dietro la retorica dell’efficienza si celavano obiettivi più complessi e stratificati, spesso non dichiarati, che esprimevano la consapevolezza imprenditoriale del primato della didattica negli interessi capitalistici. La didattica, infatti, non era un elemento neutrale, ma il principale strumento di riproduzione della capacità-attiva-umana come merce, ovvero una risorsa trasversale presente in tutte le attività lavorative e preliminare al loro svolgimento. Ancora più preoccupante era il fatto che la narrazione di un necessario rafforzamento del legame tra università e impresa non suscitasse particolare opposizione tra la maggioranza degli studenti, specialmente nel Nord. Questo atteggiamento non si limitava a coloro che erano esplicitamente contrari alle occupazioni ma coinvolgeva anche chi interpretava l’università principalmente come un investimento in capitale umano finalizzato ad aumentare la propria competitività nel mercato della forza-lavoro. Tale mentalità trovava riscontro anche nel Pci e nella Fgci, che aderirono alla mobilitazione con una posizione di apertura condizionata alla collaborazione tra pubblico e privato nell’ambito universitario, formulata attraverso il concetto di “privato controllato”. L’idea era quella di accettare forme di finanziamento privato a condizione che fossero trasparenti, regolamentate e non comportassero un disimpegno dello Stato, specialmente nei contesti socio-economici più fragili o nei settori di studio meno attrattivi per gli investitori privati, come le discipline umanistiche e le scienze dure orientate alla ricerca pura. Questa prospettiva scontava una grave incomprensione, ovvero la difficoltà, se non l’impossibilità, di stabilire una corrispondenza diretta tra l’aumento della qualificazione prodotta dal sistema formativo e l’aumento della produttività economica. Le presunte richieste del mondo economico risultavano sempre più indeterminate, rendendo irrealistica l’idea di una sincronizzazione tra formazione universitaria e mercato del lavoro. In questo scenario l’università si configurava sempre più come una knowledge factory, una fabbrica del sapere il cui scopo era sempre meno quello di generare conoscenza critica e sempre più quello di produrre capitale umano adattabile alle mutevoli esigenze del capitale. Alquati evidenziava come la narrazione neoliberale sulla sincronizzazione tra formazione universitaria e mercato del lavoro fosse basata su un presupposto fallace, cioè l’idea che un incremento della qualificazione degli studenti avrebbe automaticamente portato a un aumento della produttività e, di conseguenza, a una maggiore capacità del sistema economico di assorbire e remunerare il capitale umano. Questo paradigma ignorava il carattere strutturalmente contraddittorio del rapporto tra educazione e capitale, poiché il sistema formativo non poteva ridurre il mismatch tra domanda e offerta di lavoro semplicemente adeguandosi alle esigenze del mercato. La formazione non era mai stato un elemento neutro essendo un ingranaggio funzionale alla riproduzione dei rapporti sociali esistenti, modellato dalle necessità della valorizzazione capitalistica e non dalle logiche dell’emancipazione o della crescita autonoma della conoscenza. Durante il suo intervento del 1990 Alquati sottolineava come la mercificazione del sapere universitario fosse un processo già in atto da decenni, al contrario di quanto sostenuto sia dal movimento della Pantera sia dagli intellettuali progressisti che lo appoggiavano. Quest’ultimi, pur condividendo l’idea che l’università fosse minacciata da spinte mercificanti, non sembravano cogliere come l’istruzione superiore fosse già permeata dal dominio del capitale. Consideravano il capitale un semplice sistema di produzione di merci e non un complesso sistema di riproduzione dei rapporti sociali, all’interno del quale l’università svolgeva un ruolo chiave nella formazione e nella riproduzione della forza-lavoro qualificata. A riprova di questa inconsapevolezza Alquati citava le posizioni di Ingrao e Barcellona, che ritenevano possibile difendere una serie di “beni non mercificabili” dalla loro futura mercificazione. Questa prospettiva era miope poiché non riconosceva che la conoscenza era già da tempo divenuta una merce e che la cosiddetta “cultura esplicita” non aveva alcuna valenza emancipatoria di per sé. Anzi, nel capitalismo avanzato, la cultura istituzionalizzata e formalizzata operava come uno strumento di de-soggettivazione, contribuendo a neutralizzare le capacità critiche degli individui e a integrarli nelle logiche di riproduzione capitalistica. Da questa consapevolezza derivava la critica di Alquati alle concezioni feticistiche della cultura diffuse nella sinistra che la consideravano un valore in sé e un veicolo di progresso umano indipendentemente dal suo contesto di produzione e dalle sue funzioni sociali. La vera sfida non consisteva quindi nel difendere l’università dalle logiche imprenditoriali ma nel ripensare radicalmente la sua funzione, ponendo al centro la questione della de-mercificazione del sapere. Un simile approccio avrebbe inevitabilmente portato a uno scontro con la maggioranza degli studenti che vedevano l’università non come uno spazio di elaborazione critica ma come un investimento necessario per acquisire competenze monetizzabili sul mercato del lavoro. Per questa ragione Alquati spostava l’attenzione sulla questione dei modelli pedagogici, mostrando come quelli prevalenti nelle università italiane fossero perfettamente compatibili con il programma neoliberale di ristrutturazione del sistema educativo. Faceva riferimento, in particolare, al modello del general problem solving elaborato da Simon e Newell che promuoveva un apprendimento basato sulla riproduzione di soluzioni standardizzate per problemi già strutturati. Questo approccio, che si rifletteva nelle pratiche didattiche diffuse negli atenei italiani, trovava il consenso di gran parte degli studenti, i quali erano interessati più a entrare rapidamente in possesso di metodologie già pronte che a sviluppare capacità critiche ed euristiche. Alquati non assumeva una posizione aristocratica o nostalgica nei confronti di questa tendenza. Anzi, riconosceva che la richiesta di una formazione standardizzata da parte degli studenti non era irrazionale e rispecchiava le caratteristiche del mercato del lavoro italiano, caratterizzato da una domanda di competenze poco qualificate e orientate all’operatività immediata. La banalizzazione della relazione educativa era coerente con la banalizzazione del lavoro iperindustriale, anche nei suoi aspetti cognitivi e intellettuali. Per Alquati il problema non risiedeva semplicemente nella diffusione di procedure standardizzate, le quali potevano avere una loro utilità, quanto piuttosto nel fatto che l’intera esperienza formativa fosse ridotta a questo tipo di apprendimento. Se l’università si limitava a distribuire conoscenza già prodotta altrove e a fornire agli studenti competenze predeterminate, essa finiva per assumere un ruolo non dissimile da quello di un’impresa commerciale, trasformando la didattica in una forma di commercio della conoscenza. Un’università realmente critica avrebbe dovuto rompere con questa logica, rifiutando l’idea che la formazione fosse semplicemente un processo di acquisizione di formule e metodologie già confezionate. La sfida consisteva nel promuovere un’educazione basata sulla capacità di problematizzazione, sulla ricerca euristica, sulla creatività e sull’inventività. Questo significava non solo mettere in discussione le modalità della didattica universitaria ma anche ridefinire il ruolo stesso del sapere all’interno della società, opponendosi alla sua riduzione a capitale umano funzionale alle esigenze del mercato. Da queste considerazioni, afferma Maltese, emergeva il ruolo centrale che la questione della formazione assumeva nell’ultima fase del pensiero di Alquati. Egli sosteneva che la tendenza all’industrializzazione e alla mercatizzazione dell’attività umana rendeva inevitabile un modello educativo povero, concepito unicamente per riprodurre le condizioni della produzione capitalistica. Di conseguenza la battaglia più importante non era tanto quella per il miglioramento delle condizioni materiali dell’università ma quella per un’inversione radicale di tendenza nel sistema formativo. Solo attraverso un simile cambiamento sarebbe stato possibile creare le precondizioni per un arricchimento reale dell’agente umano, inteso non come semplice incremento di competenze spendibili, ma come trasformazione qualitativa delle sue capacità e delle sue modalità di azione. Alquati distingueva infatti tra potenziamento e arricchimento. Il primo consisteva in un aumento delle abilità richieste dal mercato, il secondo riguardava la possibilità di sviluppare nuove forme di conoscenza e di esperienza, con implicazioni sociali e politiche dirompenti. In questa prospettiva l’università non avrebbe dovuto limitarsi a fornire strumenti utili all’inserimento lavorativo ma sarebbe dovuto diventare uno spazio di sperimentazione e di produzione di nuove modalità di pensiero e di azione, capaci di mettere in discussione le stesse basi del sistema capitalistico. Una possibile inversione di tendenza nel contesto capitalistico per Alquati si inserisce in una contraddizione intrinseca del sistema stesso. Da un lato il capitalismo è interessato a formare individui attraverso un sistema educativo che li doti di competenze, conoscenze e meta-conoscenze già predefinite e finalizzate a un uso sistemico, ovvero funzionale alle esigenze del sistema produttivo. Questo processo formativo tende a standardizzare e parcellizzare il sapere, riducendolo a moduli simili a quelli di una catena di montaggio, trasformando così il corpo e la mente in un insieme di “merci” o “quasi-merci”, ovvero capacità in via di mercificazione che non appartengono più pienamente all’individuo. Dall’altro lato, tuttavia, il sistema capitalistico ha bisogno di preservare una certa dimensione umana, poiché richiede forza-lavoro capace di innovare, modificare i processi e sviluppare nuove conoscenze. Questa capacità creativa e trasformativa non può essere completamente ridotta a una semplice riproduzione meccanica del sapere, in quanto richiede un residuo di autonomia e intenzionalità che non può essere del tutto annullato. Si crea così un’ambivalenza nel momento in cui il sistema spinge verso una standardizzazione formativa che omologa e mercifica le capacità umane mentre deve fare i conti con l’esigenza di mantenere vivo un elemento irrisolto, una parte della persona che sfugge alla completa assimilazione nel meccanismo produttivo. Questa tensione tra standardizzazione e necessità di creatività rappresenta, secondo Alquati, un vulnus congenito del regime capitalistico che non può risolversi pienamente senza compromettere le basi stesse del suo funzionamento. Avviandosi alle conclusioni Maltese afferma che Alquati analizza il ruolo dell’istruzione superiore nel contesto del capitalismo iperindustrializzato, evidenziando una tensione fondamentale tra due istanze, cioè la necessità di insegnare a convivere con problemi aperti, sviluppando capacità critiche e creative e l’esigenza di trasmettere meta-procedure risolutive già esistenti, mostrando come queste siano state inventate, standardizzate e integrate nel sistema produttivo. L’obiettivo ideale dell’istruzione dovrebbe essere quello di arricchire e potenziare l’agente umano ma nel regime capitalistico questo obiettivo viene distorto. Il sistema formativo, infatti, tende a privilegiare un potenziamento funzionale alle esigenze del sistema, piuttosto che un reale arricchimento delle capacità individuali. Questo approccio genera un “saldo negativo” tra potenziamento e impoverimento della capacità attiva umana poiché le istituzioni educative non sfruttano appieno le possibilità di sviluppo critico e creativo, limitando così il potenziale umano. Alquati individua due cause principali di questa dinamica. In primo luogo, la classe docente spesso ignora le alternative pedagogiche disponibili e non sperimenta metodi critici che potrebbero favorire un apprendimento più autonomo e creativo. In secondo luogo, il sistema capitalistico, per mantenere il proprio dominio, preferisce talvolta limitare il potenziamento delle capacità umane, anche a scapito della produttività, pur di evitare la formazione di soggettività rivali che potrebbero minacciare l’ordine discorsivo dominante.     Il capitalismo ha bisogno di individui capaci di innovare e al tempo stesso teme che un eccessivo potenziamento delle capacità umane possa sfuggire al suo controllo e generare alternative egemoniche. Questa contraddizione si traduce in una svalorizzazione della forza-lavoro che non si limita più alla tradizionale deflazione salariale perché si estende alla formazione stessa. La svalorizzazione coinvolge il valore di scambio della forza-lavoro e il suo valore d’uso, ovvero le capacità umane stesse. Questo processo, tuttavia, non è esente da problematicità per il sistema capitalistico, poiché la “merce-capacità umana” è speciale e complessa in quanto il suo depotenziamento rischia di compromettere la stessa capacità del sistema di innovare e riprodursi. Nonostante ciò, il capitalismo iperindustrializzato cerca di realizzare un equilibrio precario, impoverendo le capacità attive umane in modo da non compromettere del tutto la potenza produttiva potenziando le “sub-capacità” da sfruttare a minor costo. Al contempo, il sistema deve preservare un residuo irrisolto di informalità, latenza e ambivalenza, senza il quale non potrebbe funzionare. Questo residuo rappresenta una contraddizione interna al sistema e anche una possibile apertura per forme di resistenza. La svalorizzazione delle capacità umane, quindi, non ha solo una dimensione economica, ma anche e soprattutto politica. Essa risponde a esigenze di controllo e stabilizzazione sistemica, anche a costo di sacrificare l’innovazione e la produttività. Alquati sottolinea come, nel contesto iperindustrializzato, il “Politico” diventi la quintessenza dell’accumulazione, orientando le scelte formative in funzione del mantenimento dell’egemonia. Questo approccio, tuttavia, rischia di ridurre ulteriormente le possibilità di progettare percorsi alternativi, poiché l’impoverimento delle capacità umane si traduce in una diminuzione delle risorse critiche e creative disponibili. Alquati propone un approccio riformista critico che non rifiuta a priori alcune riforme didattiche purché finalizzate a frenare il trend dissipativo e a favorire un potenziamento non distruttivo delle capacità umane. L’obiettivo immediato non è la creazione di contro-soggettività ma la preservazione di spazi di resistenza e la possibilità di deviare l’innovazione verso fini antagonistici. Questo approccio potrebbe, nel lungo termine, innescare processi di contro-mutazione antropologica e culturale, trasformando le soggettività umane in direzione di una ri-soggettivazione critica e attiva, in combinazione con le soggettività macchiniche. Alquati immagina un movimento universitario trasversale, composto da studenti e docenti, che si batta per incrementare il valore d’uso delle capacità umane, opponendosi alla loro svalorizzazione e chiedendo almeno la riproduzione semplice delle capacità individuali, senza distruzione.

2. Il collettivo edu-factory 

Nel 2008, nel momento in cui stava emergendo il secondo grande movimento italiano contro l’università neoliberale, ovvero l’Onda, la casa editrice del Manifesto pubblica il libro Università globale. Il nuovo mercato del sapere dove viene presentato il progetto Edu-factory che nasce da una riflessione critica sull’affermazione “ciò che un tempo era la fabbrica, ora è l’università”, che diventa un punto di partenza per un ripensamento radicale del ruolo dell’università nel capitalismo contemporaneo. Questo progetto si sviluppa come una mailing-list transnazionale, attiva dal 2007, che coinvolge circa 500 militanti, studenti e ricercatori di tutto il mondo, focalizzata sulle trasformazioni dell’università, la produzione dei saperi e le forme del conflitto. Edu-factory rappresenta uno spazio globale di discussione e azione politica che supera i confini nazionali e si interroga sulla crisi dell’università come terreno di battaglia politico. La rete, spesso idealizzata come orizzontale e spontanea, viene invece interpretata come una struttura gerarchica, dove l’orizzontalità è il risultato di un rapporto di forze. Edu-factory si propone di organizzare la rete, assumendola come un campo di battaglia attraversato da differenziali di potenza e linee di forza antagoniste, in cui la produzione del comune si scontra con i tentativi di catturarlo da parte del capitale. Questo approccio rifiuta il “pensiero molle” della rete che confonde il superamento della rappresentanza con la liquidazione dell’organizzazione e della rottura mentre punta a costruire nuove forme di istituzionalità autonoma, come le organized networks teorizzate da Ned Rossiter. L’università è analizzata come un’istituzione in rovina, non solo a causa dell’aziendalizzazione e della globalizzazione ma anche come esito di un ciclo di lotte che ha messo in crisi il modello tradizionale di università statale e di massa. La crisi dell’università non è vista con nostalgia essendo un’opportunità per trasformare il campo di tensione disegnato dai processi di ristrutturazione capitalistica in forme di resistenza e linee di fuga. Tuttavia l’università non funziona esattamente come una fabbrica. Sebbene il concetto di knowledge factory colga il divenire produttivo dell’università e il suo ruolo centrale nel capitalismo contemporaneo, esso risulta analiticamente insufficiente per comprendere le specificità della produzione dei saperi che non può essere organizzata in modo tayloristico. La sfida politica è quindi quella di ripensare l’organizzazione nella crisi dell’università, superando le forme tradizionali del sindacato e del partito, e situandosi all’interno della nuova composizione del lavoro vivo, dove non esiste più un “fuori” praticabile. Una delle linee di ricerca politica emerse dal dibattito di edu-factory è l’autoformazione, praticata non come nicchia marginale ma come forma di lotta del lavoro cognitivo nel capitalismo contemporaneo. Esperienze come la Rete per l’Autoformazione di Roma, il Vidya Ashram di Varanasi e l’Universidad Experimental di Rosario dimostrano come l’autoformazione possa essere al contempo conflitto sulla produzione dei saperi, costruzione del comune e organizzazione di istituzioni autonome. Queste pratiche rappresentano una risposta alla svalorizzazione delle capacità umane e alla precarizzazione del lavoro accademico che si manifesta attraverso processi di inclusione differenziale e gerarchizzazione nel mercato della formazione. La crisi dell’università è quindi un terreno di conflitto sul tempo e sulla misura cognitiva, dove il capitale cerca di imporre unità di misura artificiali per mantenere la legge del valore mentre il sapere vivo eccede queste misurazioni. Il comune, inteso come autonomia e autorganizzazione della cooperazione sociale, diventa la posta in palio di un processo costituente che mira a liberare la potenza del lavoro vivo. Le istituzioni autonome, come le esperienze di autoformazione in giro per il mondo, rappresentano esempi storici di come l’esodo possa conquistare l’autonomia organizzando le proprie istituzioni. Edu-factory si situa quindi sulla frontiera tra l’università e la metropoli, tra formazione e lavoro, tra le macerie dell’università tradizionale e l’esodo verso nuove forme di organizzazione del comune. La sfida è quella di trasformare l’università in un luogo politico per la lotta e l’esodo, ripensando l’attualità della rivoluzione dopo l’esaurimento delle sue forme classiche. In questo contesto, le istituzioni autonome e del comune diventano il terreno su cui sperimentare nuove forme di organizzazione e resistenza, aprendo la strada a una trasformazione radicale dei rapporti sociali. Il progetto Edu-factory si configura quindi come un laboratorio di elaborazione teorica e politica che mira a connettere le lotte globali e a sperimentare nuove forme di organizzazione autonoma.

3. L’università neoliberale tra Italia e USA

3.1 Crisi dell’università e lavoro cognitivo

Molte delle proposte d’indagine del collettivo Edu-factory si ritrovano nel libro di Gigi Roggero The production of living knowledge: the crisis of the university and the transformation of labor in Europe and North America che inizia con un’analisi densa e articolata delle trasformazioni del lavoro e del capitale a partire dagli anni ’70, con un focus particolare sulle teorie e le pratiche politiche emerse dal contesto dell’operaismo che, come corrente teorica e politica, ha avuto un ruolo significativo nell’anticipare e analizzare le trasformazioni del lavoro e del capitale. Il metodo operaista si caratterizza per la ricerca di un “segno partigiano” all’interno della genealogia del presente, ovvero per l’analisi delle relazioni capitalistiche dal punto di vista del lavoro vivo. Questo approccio ha permesso di cogliere le trasformazioni produttive, come il passaggio da un modello industriale fordista, basato su grandi fabbriche e alta concentrazione operaia, a un modello post-fordista, caratterizzato dalla produzione di servizi e conoscenza, organizzata in reti transnazionali. Il contesto in cui si inseriscono queste trasformazioni è quello della globalizzazione, un fenomeno che ha reso il mondo un’unità compiuta, superando i confini nazionali e ridefinendo il ruolo degli Stati. La globalizzazione non ha portato alla scomparsa dello Stato ma ha radicalmente riconfigurato le sue funzioni. Da un lato si assiste a un indebolimento delle funzioni di governo e sovranità mentre dall’altro si moltiplicano le responsabilità di controllo e regolazione amministrativa. Questo processo transnazionale supera costantemente i confini degli Stati nazionali, rendendoli unità di analisi sempre meno efficaci per comprendere le trasformazioni contemporanee. 

Uno degli aspetti centrali dell’analisi di Roggero è la trasformazione del lavoro, sia nel suo contenuto che nelle sue forme occupazionali con il passaggio da un modello di lavoro stabile e a tempo pieno a un modello basato sulla flessibilità e sulla precarietà che rappresenta una delle principali caratteristiche del capitalismo contemporaneo. Questo cambiamento ha portato alla crisi del concetto di “lavoro normale”, tipico del periodo fordista, e all’affermazione di nuove forme di lavoro atipico, caratterizzate da una maggiore instabilità e frammentazione. La flessibilità, inizialmente vista come una minaccia al sistema di lavoro salariato, è diventata un elemento centrale delle politiche del lavoro, ridefinendo le coordinate spazio-temporali del lavoro e le forme di soggettività ad esso associate. La precarietà, quindi, non è più un’eccezione ma una norma che ridefinisce le condizioni di vita e di lavoro di una vasta fascia della popolazione. L’affermazione del lavoro cognitivo e flessibile ha provocato una crisi del concetto di “lavoro normale”, sfidando le tradizionali dicotomie tra tempo di lavoro e tempo libero, occupazione e disoccupazione, formalità e informalità. Ne consegue che la precarietà non può essere considerata semplicemente come una forma di esclusione dal mercato del lavoro perché si tratta di una tecnica di inclusione segmentata e gerarchizzata. La società a pieno impiego, che era stata a lungo l’obiettivo delle istituzioni del movimento operaio, si è realizzata in modo paradossale: non come una società di lavoro stabile e protetto ma come una società in cui lo sfruttamento assume nuove forme, caratterizzate da una produttività potente del lavoro vivo e da una permanente precarietà e impoverimento. Nel suo libro Roggero critica le narrazioni dominanti che rappresentano i nuovi soggetti del lavoro precario come privi di diritti, protezioni e occupazione, enfatizzando l’assenza dello Stato e la crescente marginalizzazione di una massa di “vite sprecate”. Queste rappresentazioni, spesso influenzate da una prospettiva nostalgica per le forme di lavoro e welfare del passato, rischiano di ridurre i lavoratori precari a mere vittime, privandoli di soggettività e agency. In realtà i nuovi soggetti del lavoro precario non sono semplicemente vittime passive ma attori che contribuiscono attivamente alla produzione di ricchezza sociale e che, in alcuni casi, si organizzano per rivendicare i propri diritti e trasformare le condizioni del lavoro. Il lavoro flessibile diventa un campo di battaglia in cui si confrontano pratiche di autonomia e processi di precarizzazione che sono il prodotto di un conflitto tra forze antagoniste. La genealogia del lavoro flessibile è quindi intrinsecamente conflittuale e non può essere ridotta a una semplice dialettica tra progresso e regresso. In questo contesto la priorità delle lotte dei lavoratori rispetto allo sviluppo capitalistico è sia una questione cronologica che qualitativa poiché le lotte dei lavoratori hanno sempre anticipato e influenzato le trasformazioni del capitale. L’analisi di Roggero prosegue soffermandosi sul ruolo dell’università come contesto privilegiato per analizzare le trasformazioni del lavoro cognitivo e la precarizzazione del lavoro accademico, sia in Italia che negli Stati Uniti. La sua ricerca, avviata nel 2003, si inserisce in un contesto in cui l’aziendalizzazione dell’università e la precarizzazione del lavoro accademico erano già tendenze visibili, sebbene non ancora pienamente consolidate. L’obiettivo era comprendere come queste dinamiche si inserissero all’interno delle trasformazioni produttive più ampie e, soprattutto, come potessero essere messe in discussione dai conflitti sociali. In Italia il sistema universitario stava attraversando un periodo di riforme, in particolare con l’attuazione del Processo di Bologna, promosso dal ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer e portato avanti dal suo successore Ortensio Zecchino. Questo processo mirava a creare uno spazio europeo dell’istruzione superiore ma ha anche accelerato la precarizzazione del lavoro accademico, trasformandola da una fase transitoria a un elemento strutturale e permanente. Negli Stati Uniti la situazione non era molto diversa. La scelta di prendere come caso di studio comparativo gli Stati Uniti non era dettata dall’idea di un modello puro o di una tendenza oggettiva ma dalla necessità di analizzare un sistema universitario che, in Italia, era più mitizzato che realmente compreso. Negli Stati Uniti, la precarizzazione o “adjunctification” aveva invaso anche il cuore delle università di ricerca, sfumando la tradizionale distinzione tra centro e periferia. Le lotte dei lavoratori precari e degli studenti, in particolare dei dottorandi e degli assistenti insegnanti, hanno assunto un ruolo centrale nel contesto dell’aziendalizzazione dell’università. Queste lotte, come quelle alla Yale University negli anni ’90 e alla NYU nei primi anni 2000, hanno cercato di ottenere il riconoscimento dei diritti sindacali e hanno rappresentato una forma di resistenza alla precarizzazione. In Italia le mobilitazioni contro la riforma Moratti nel 2004 e 2005, che ha coinvolto 150.000 studenti e lavoratori precari, hanno dimostrato la natura conflittuale del lavoro cognitivo all’interno dell’università in trasformazione. Queste lotte hanno messo in luce come il lavoro cognitivo non sia semplicemente un prodotto delle mutazioni in corso ma un soggetto attivo, capace di agire dentro e contro l’università. Inoltre hanno anche rivelato alcune criticità, come la tendenza a scivolare verso una politica identitaria, in cui le istanze di conflitto si riducono a una semplice richiesta di riconoscimento all’interno di una gerarchia lavorativa ormai accettata come naturale. Questo approccio rischia di limitare la capacità trasformativa del lavoro cognitivo, riducendolo a una questione di consapevolezza individuale piuttosto che di organizzazione collettiva. Roggero propone quindi di interrogare l’università come luogo privilegiato per analizzare due concetti chiave: la cognitivizzazione e il lavoro cognitivo. La cognitivizzazione è intesa come un processo di trasformazione generale che attraversa l’intera composizione del lavoro, introducendo nuove forme di gerarchizzazione e di sfruttamento. Il lavoro cognitivo, invece, si riferisce a figure specifiche, come i precari accademici, che incarnano queste trasformazioni. Questi due concetti, sebbene in parte contraddittori, sono uniti da una base comune e aiutano a descrivere la relazione tra composizione tecnica e politica del lavoro in termini nuovi. L’obiettivo non è identificare un’egemonia delle figure del lavoro universitario ma testare le possibilità di generalizzazione e le specificità delle caratteristiche in esame, come l’autonomia, le forme di resistenza e le pratiche di organizzazione. A questo punto Roggero riflette sul concetto di sapere vivo e sulla sua relazione con le trasformazioni del lavoro cognitivo, concentrandosi in particolare sul ruolo dell’università come spazio privilegiato per osservare queste dinamiche. Si parte dall’abbandono dell’idea di una relazione speculare tra composizione tecnica e politica del lavoro, un’idea che presupponeva un rapporto diretto e meccanico tra le forme di organizzazione del lavoro e le lotte politiche. Al contrario, Roggero propone di indagare i differenziali di potere e le centralità mobili dei soggetti produttivi, partendo dalla loro capacità di rompere le gerarchie e le segmentazioni imposte dal capitale. Questo approccio si basa sull’ipotesi che i soggetti produttivi, attraverso le loro pratiche e lotte, possano aprire percorsi comuni di trasformazione, superando le logiche di sfruttamento e controllo capitalistico. Il concetto di sapere vivo è centrale in questa analisi e richiama esplicitamente la categoria marxiana di lavoro vivo, contrapposta al lavoro morto oggettivato nel sistema delle macchine. Il sapere vivo non si limita a descrivere il ruolo della scienza e della conoscenza nel processo produttivo perché si concentra sulla loro immediata socializzazione e incorporazione nel lavoro vivo. Questo significa che il sapere non è più qualcosa di separato dai lavoratori, come avveniva nel modello tradizionale in cui la scienza era incorporata nel capitale e utilizzata contro il lavoro. Al contrario, il sapere vivo è inseparabile dai soggetti che lo producono, diventando una forza produttiva che agisce sia all’interno del sistema capitalistico che in modo autonomo. Questa duplicità crea una tensione permanente tra autonomia e subordinazione, tra autovalorizzazione e controllo, che è al centro della crisi della legge del valore. Il sapere vivo è caratterizzato da una doppia dimensione: da un lato, è un prodotto della cooperazione sociale e della produzione cognitiva; dall’altro, rappresenta una potenza produttiva che può agire sia per il capitale che in modo autonomo. Questa duplicità rende difficile per il capitale ridurre il sapere vivo a unità di misura astratte, come dimostrano le pratiche artificiali di misurazione del tempo nel sistema universitario. La crisi della legge del valore si manifesta proprio in questa tensione permanente tra autonomia e cattura, tra la capacità di eccedere e le forme di controllo imposte dal capitale. Il sapere vivo sfugge alle logiche di misurazione e standardizzazione del capitale, ponendo una sfida radicale alle forme tradizionali di sfruttamento. L’università emerge come un luogo privilegiato per osservare queste trasformazioni, non perché sia l’unico o il principale spazio di produzione del sapere vivo ma per il suo rappresentare un concetto e uno spazio di crisi, strutturalmente superato dalla produzione cognitiva. L’università moderna, che un tempo trovava la sua definizione nel rapporto con lo Stato, oggi esiste solo come “rovina”, in una fase di transizione in cui cerca di ridefinire il proprio ruolo in relazione alla produzione di saperi all’interno delle coordinate spaziali e temporali della metropoli. L’aziendalizzazione dell’università non può più essere intesa come una semplice intrusione del capitale privato nel mondo accademico ma come un processo in cui l’università stessa diventa un’impresa, adottando tecniche specifiche per catturare il lavoro vivo e competere nel mercato educativo. Questo processo trasforma l’università in un attore tra gli altri nel mercato della conoscenza, rendendo sempre più labili i confini tra università e metropoli. Tuttavia Roggero critica i parallelismi troppo semplicistici tra università e fabbrica che rischiano di sottovalutare le cesure e le trasformazioni nel sistema politico ed economico. Questi confronti però possono essere utili per misurare le continuità e le discontinuità nel rapporto tra lavoro e capitale, evidenziando le nuove qualità dello sfruttamento, della cattura del valore e del conflitto. L’università, quindi, è sicuramente il luogo di adattamento alle logiche imprenditoriali ma assomiglia sempre di più ad uno spazio anticipatorio dei processi di cognitivizzazione e della crescente permeabilità tra i tempi della vita e del lavoro. Attraverso l’analisi dell’università, è possibile comprendere meglio le trasformazioni del lavoro cognitivo e le forme di resistenza e autonomia che emergono nel contesto del capitalismo contemporaneo. La crisi dell’università viene affrontata in modo critico e articolato, rifiutando di offrire un’immagine semplificata o lineare delle dinamiche in atto. Studiando l’università negli USA e in Italia Roggero mette in luce le differenze tra due modelli: da un lato, il modello sviluppato dell’università-azienda, dall’altro, la co-presenza eterogenea e apparentemente incongrua di elementi che caratterizzano l’università italiana. Quest’ultima dimostra come ciò che appare “arcaico”, come la sopravvivenza di relazioni e forme di governo che potremmo definire “feudali”, non possa essere liquidato come un residuo non funzionale ma debba essere ripensato nella sua peculiare co-presenza e combinazione differenziale con i nuovi paradigmi della transizione. Con il termine “transizione” si intende un processo eterogeneo, non lineare e permanentemente aperto, che può oscillare tra la ripetizione di relazioni di sfruttamento e la possibilità di una trasformazione radicale. La riforma universitaria italiana, spesso sintetizzata con l’etichetta 3+2, viene analizzata all’interno di questo contesto di crisi globale dell’università. Questa riforma, inserita in un processo di riforma permanente che ha caratterizzato il sistema accademico italiano per decenni, è stata oggetto di critiche diffuse e spesso ridotte a luoghi comuni: la frammentazione e rigidità dei percorsi formativi, la riduzione del sapere a merce da supermercato, la “scuolificazione” dell’università e la mancanza di connessione con il mondo del lavoro. Queste critiche rischiano di alimentare una resistenza conservatrice, nostalgica di un’università moderna ormai in rovina, vista come una torre d’avorio da difendere o come una cittadella del sapere violata. Questo approccio nostalgico, però, non coglie la complessità della crisi attuale e non è ciò che interessa al testo di Roggero. Ciò che emerge, invece, è la necessità di interrogare il fallimento della riforma a partire dalla disintegrazione irreversibile della dialettica tra pubblico e privato su scala transnazionale. La governance rappresenta una risposta flessibile e situata alla crisi dei meccanismi tradizionali di governo basati su quella distinzione. La nostalgia per i valori di un’università moderna e statale si scontra con il cortocircuito tra passato e presente che caratterizza le trasformazioni contemporanee. Sia il passato che il futuro perdono la loro funzione normativa, rivelando la co-presenza di diverse temporalità che si combinano in un prisma globale. La flessibilizzazione del lavoro, nella sua tensione ambivalente, tende ad abolire l’idea stessa di futuro, sia nelle sue dimensioni di insicurezza che nelle aspettative utopiche di una salvezza legata al progresso storico. La sfida posta dalla crisi permanente dell’università va colta in questa prospettiva. Non c’è un progetto incompiuto della modernità occidentale da realizzare perché con la fine della malinconia utopica del “non ancora”, l’unico tempo che la possibilità di liberazione conosce è la pienezza materiale del presente. È proprio nella centralità del vettore temporale che si situa la nuova qualità dell’antagonismo tra lavoro vivo e cattura capitalistica. La sua traiettoria è disegnata da ciò che viene definito come la produzione del comune. Il comune, basandosi sulla fine della dialettica tra pubblico e privato e sull’autonomia del sapere vivo rispetto al sapere morto, non va inteso come una semplice duplicazione enfatica del concetto di cooperazione. Esso rappresenta, allo stesso tempo, il livello della produzione di soggettività e di ricchezza sociale, e lo spazio della composizione del lavoro vivo e della sua autorganizzazione. Indica il capovolgimento temporale delle tecniche di cattura capitalistica, costrette ad agire a valle, dove devono abbandonare l’organizzazione del ciclo a monte. Questo non prefigura alcun esito garantito. La finanziarizzazione, ad esempio, è una forma concreta e reale dell’economia capitalistica in un sistema produttivo che deve valorizzare ciò che non può misurare. A partire dalle diverse esperienze dei frammenti diffusi che già esistono, dai black studies alle pratiche di autoformazione, il problema è trasformare la crisi dell’università in un campo di ricerca per indagare le nuove forme di organizzazione dell’autonomia del lavoro cognitivo, ovvero ciò che viene definito come le istituzioni del comune. Da questa prospettiva, l’eccesso oltre misura del lavoro vivo può cessare di essere un semplice fatto descrittivo per diventare il potere costituente di nuove relazioni sociali. La crisi dell’università non è solo un problema da risolvere ma un’opportunità per immaginare e costruire nuove forme di organizzazione e di produzione del sapere che sfuggono alle logiche di controllo capitalistico.

3.2 L’aziendalizzazione dell’università 

Roggero descrive le università come incubatori di innovazione e spazi strategici all’interno di un regime di accumulazione flessibile, dove la conoscenza, la cultura e il linguaggio diventano elementi centrali per interpretare le dinamiche della produzione contemporanea. Questo ruolo privilegiato delle università le rende un osservatorio privilegiato per analizzare come i sistemi educativi si stiano adattando, o resistendo, a logiche di mercato e a processi di globalizzazione. Uno dei temi centrali di Roggero è la transizione verso un modello di “capitalismo accademico”, particolarmente evidente nel contesto anglo-americano. Questo concetto si riferisce agli sforzi delle università di ottenere finanziamenti esterni attraverso meccanismi di mercato, con docenti e personale sempre più coinvolti in attività competitive che sfumano i confini tra settore pubblico e privato. Negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 rappresenta un momento cruciale in questa trasformazione. Questa legge ha incentivato le università a commercializzare la ricerca prodotta con fondi federali, favorendo la creazione di brevetti e il trasferimento tecnologico. Di conseguenza le università americane hanno iniziato a privilegiare la ricerca con un’immediata rilevanza commerciale, trasformando i docenti in stakeholder e avvicinando le istituzioni accademiche al modello delle imprese for-profit. Questo processo, tuttavia, non è nuovo visto che i legami tra università e industria negli Stati Uniti hanno una lunga storia ma il Bayh-Dole Act ha intensificato queste relazioni, portando alla nascita della cosiddetta “corporate university”. Questo modello è caratterizzato da una gestione di tipo aziendale e dalla pressione sui docenti per assumere ruoli manageriali. In Europa, il Processo di Bologna, avviato nel 1999, rappresenta un tentativo di creare uno spazio comune per l’istruzione superiore, con l’obiettivo di armonizzare i sistemi educativi dei paesi partecipanti. Le riforme introdotte includono la diversificazione dell’offerta formativa, l’adozione di un sistema di laurea a due livelli (3+2) e l’introduzione di crediti formativi per misurare il rendimento degli studenti. Questo processo è interpretato come un allentamento dei legami tradizionali tra università e Stato-nazione, con una spinta verso una maggiore integrazione europea. L’implementazione del Processo di Bologna è stata disomogenea. In Italia, ad esempio, è stato utilizzato come leva per accelerare riforme interne, spesso senza un dibattito parlamentare approfondito. La riforma Berlinguer-Zecchino, ispirata al Processo di Bologna, è stata implementata rapidamente e senza una fase di sperimentazione, portando a critiche diffuse e a dubbi sulla sua efficacia. Il sistema universitario italiano è descritto come un compromesso tra un controllo centralizzato da parte dello Stato e l’autogoverno delle facoltà, con riforme che hanno avuto un impatto limitato sulla struttura tradizionale di governance. La resistenza culturale, l’inerzia burocratica e il potere consolidato delle lobby accademiche hanno reso difficile una trasformazione profonda. In confronto il sistema statunitense è caratterizzato da una maggiore flessibilità e decentralizzazione, con ogni Stato che regola autonomamente le proprie università. Questa struttura ha permesso una rapida adattabilità alle forze di mercato e lo sviluppo di un modello universitario di tipo aziendale. Negli Stati Uniti non esiste un’autorità nazionale che regoli l’intero sistema accademico, il che ha favorito l’emergere di un ambiente competitivo e innovativo. In Italia, invece, il sistema è dominato da una “doppia autorità”, con lo Stato che definisce il quadro generale e le facoltà che gestiscono le singole università. Le riforme degli ultimi decenni non hanno sostanzialmente modificato questa struttura, lasciando intatto il tradizionale equilibrio tra burocrazia centralizzata e autonomia accademica. Quindi, nonostante i tentativi di riforma, il sistema universitario italiano rimane lontano dal modello statunitense, spesso evocato come ideale ma di fatto irraggiungibile a causa delle specificità storiche, culturali e politiche del contesto italiano. La mancanza di investimenti privati nella ricerca e nell’istruzione, unita alla struttura frammentata delle imprese italiane, ha limitato la capacità delle università di adattarsi alle logiche di mercato. Inoltre, il passaggio da un sistema di governo centralizzato a una governance policentrica, con attori nazionali e sovranazionali, è ancora lontano dall’essere realizzato. Il risultato è un sistema universitario che fatica a conciliare le esigenze di modernizzazione con le tradizioni consolidate, in un contesto globale in cui le università sono sempre più chiamate a competere per risorse e visibilità internazionale. Con la globalizzazione viene meno anche il ruolo dell’università come custode della cultura nazionale in sintonia con lo Stato-nazione. Il ridimensionamento dello Stato ha fatto perdere all’università questa missione istituzionale, trasformandosi in un’istituzione burocratica e transnazionale, sempre più integrata con organismi sovranazionali come l’Unione Europea o con grandi aziende globali. Al posto della cultura nazionale, è subentrata l'”ideologia dell’eccellenza”, un concetto vago e dereferenziato che sostituisce i valori kantiani della ragione e humboldtiani della cultura, diventando il nuovo mantra dell’università contemporanea. Questa ideologia riflette una logica neoliberale, in cui l’università è ridotta a un’azienda che produce risorse umane attraverso insegnamento e ricerca e in cui il calcolo costi-benefici diventa il lessico dominante. La precarizzazione è un tema centrale in questa trasformazione, colpendo non solo i lavoratori accademici, sempre più soggetti a contratti temporanei e part-time, ma anche la produzione stessa della conoscenza che perde il suo riferimento culturale e si riduce a una merce scambiabile in un mercato globale. L’università diventa uno spazio immediatamente produttivo di plusvalore, in cui la soggettività stessa è messa al lavoro. Questo cambiamento è analizzato attraverso la lente dell’aziendalizzazione dell’università, un processo che va oltre la semplice dicotomia pubblico-privato. L’aziendalizzazione non si limita all’aumento dei finanziamenti privati o alla creazione di istituzioni educative gestite da privati ma riguarda piuttosto l’adozione di logiche e parametri aziendali all’interno delle università pubbliche. Questo processo è guidato dalla teoria del new public management che dagli anni ’80 ha introdotto meccanismi competitivi, criteri di valutazione e una gestione strategica delle risorse, trasformando le università in entità che operano come aziende private pur rimanendo formalmente pubbliche. Nel contesto italiano l’aziendalizzazione assume forme diverse perché le aziende private mostrano scarso interesse a investire nel sistema educativo. In Italia questo fenomeno si manifesta piuttosto come un adattamento delle università a logiche di mercato in un contesto di riduzione dei finanziamenti statali e di crescente competizione per risorse sempre più scarse. Questo adattamento assume forme peculiari, in cui coesistono relazioni feudali, attività di ricerca artigianale, precarizzazione del lavoro accademico e una gestione para-taylorista della produzione di conoscenza. L’università italiana, pur lontana dal modello anglo-americano, non è estranea alle tendenze globali ma le interpreta attraverso una logica adattiva che combina elementi tradizionali e moderni. Un esempio emblematico di questa dinamica è la fondazione dell’Associazione per la qualità delle università italiane statali (AQUIS), un’iniziativa di alcune delle maggiori università italiane per competere direttamente per i fondi statali, sfidando il monopolio della Conferenza dei Rettori (CRUI). Questo caso illustra come meccanismi tradizionali di governo e forme di potere feudali possano sopravvivere e riprodursi all’interno di un contesto trasformato, dimostrando che lo sviluppo capitalistico può nutrirsi e assorbire relazioni di potere apparentemente anacronistiche. L’università italiana, quindi, non è semplicemente un’istituzione in ritardo rispetto ai modelli globali ma un caso particolare in cui le trasformazioni neoliberali si intrecciano con strutture di potere preesistenti, creando un sistema ibrido e complesso. Roggero propone anche una riflessione critica della categoria di fabbrica della conoscenza, utilizzata per descrivere l’università contemporanea. Se da un lato questa categoria coglie efficacemente la trasformazione dell’università in un’istituzione produttiva e centralizzata, dall’altro rischia di essere insufficiente dal punto di vista analitico. La produzione di conoscenza, infatti, non è riducibile ai principi del taylorismo o della misurazione scientifica del lavoro, poiché è intrinsecamente creativa e non serializzabile. Bisogna però ricordare che l’imposizione di una temporalità artificiale e di criteri di valutazione quantitativi rappresenta una forma di controllo sul lavoro vivo che genera tensioni e conflitti. Questi processi di misurazione si scontrano con la crescente complessità e pluralità dell’educazione che si svolge in una molteplicità di spazi fisici e virtuali, seguendo percorsi individuali e unici, difficilmente localizzabili e misurabili. L’educazione contemporanea, quindi, sfugge ai criteri tradizionali di valutazione, presentandosi come un eccesso qualitativo e soggettivo rispetto agli spazi convenzionali come la famiglia, la scuola, l’università e il lavoro. Allo stesso modo, la produzione di conoscenza e l’educazione non si conformano ai criteri classici dell’economia, poiché non sono beni scarsi e non si consumano con l’uso ma anzi si arricchiscono attraverso la condivisione e la diffusione. L’aziendalizzazione dell’università, quindi, può essere vista come un tentativo di imporre artificialmente la scarsità su un sistema che per sua natura tende all’abbondanza, riducendo la conoscenza a unità di misura temporali, come nel caso del sistema ECTS (European Credit Transfer and Accumulation System) introdotto dal Processo di Bologna. Questo sistema cerca di quantificare la conoscenza in modo artificiale, ignorando la sua natura intrinsecamente sfuggente e non misurabile ed è collegato alla trasformazione della conoscenza scientifica in una merce, un processo che, sebbene non nuovo, ha subito un’intensificazione negli ultimi decenni. La riduzione del tempo tra scoperta e applicazione, insieme alla crescente dipendenza dell’industria dalla conoscenza generata all’interno e all’esterno delle istituzioni accademiche, ha portato a una capitalizzazione della conoscenza senza precedenti. Questo processo è stato favorito da diversi fattori, tra cui la riduzione dei finanziamenti statali alle università e la pressione sulle aziende per accedere a un ambiente innovativo in cui acquistare conoscenza. La relazione tra università e industria si è così istituzionalizzata, superando i confini tradizionali e diventando globale. Tre movimenti chiave hanno caratterizzato questa capitalizzazione: la produzione e protezione della proprietà intellettuale, la riorganizzazione dei gruppi di ricerca per generare brevetti e copyright e la diffusione di strumenti imprenditoriali come gli spin-off per massimizzare i profitti derivanti dalla proprietà intellettuale. Il modello tradizionale di “flussi di conoscenza”, basato su una rigida divisione dei ruoli tra università, industria e governo, è stato sostituito da un modello a “tripla elica”, in cui le funzioni di questi attori si sovrappongono. Le università assumono responsabilità imprenditoriali mentre le aziende si impegnano in attività educative e accademiche. Anche la distinzione tra ricerca esplorativa e applicata si è attenuata con la scienza che diventa sempre più immediatamente applicabile e commercializzabile. Questo processo ha portato a una contraddizione irrisolvibile: da un lato, la scienza dovrebbe basarsi sulla comunicazione aperta e sulla condivisione della conoscenza; dall’altro, il segreto e l’appropriazione privata diventano strumenti per mantenere il controllo sulle scoperte e sui prodotti della ricerca. Per questo motivo Roggero introduce il concetto di “furto della conoscenza”, ripreso dalle tesi dell’operaismo italiano degli anni ’60 e ’70 e dalla sociologia industriale americana. Secondo questa prospettiva, l’organizzazione del lavoro non si basa sulla gestione scientifica di Taylor ma sull’apprendimento e l’appropriazione delle pratiche, delle astuzie e persino delle micro-resistenze dei lavoratori. Nel contesto dell’impresa della conoscenza, questo furto diventa centrale per ricomporre il comando e i meccanismi di valorizzazione. Un esempio emblematico è quello del biocapitale, dove la valorizzazione avviene attraverso la trasformazione della vita in dati e sequenze di conoscenza. In questo processo, il genoma, come informazione, diventa un’astrazione della vita che si combina con l’astrazione del denaro, dando vita a processi di finanziarizzazione. La commercializzazione immediata e la rigidità dei brevetti rischiano però di bloccare le forme di condivisione della conoscenza necessarie per la ricerca. Contemporaneamente l’università non è più l’unica istituzione incaricata di fornire le qualifiche necessarie per il mercato del lavoro e diventa uno dei tanti luoghi in cui è possibile accumulare capitale umano. La conoscenza perde il suo carattere astratto e neutrale, diventando un terreno di lotta e di potere. La critica della conoscenza, quindi, implica la critica del soggetto moderno e del modello uniforme di temporalizzazione capitalista, restituendo alla conoscenza la sua dimensione contraddittoria e conflittuale, come processo cooperativo e singolare. La conoscenza diventa un elemento centrale anche nei meccanismi di selezione del sistema universitario, segnando il passaggio da un modello basato sull’esclusione netta a uno di inclusione differenziale. In questo modo il valore del curriculum individuale non si definisce più unicamente sulla base della semplice frequenza universitaria ma dipende in misura crescente da quali istituzioni di istruzione superiore si sono frequentate, sia formali che informali. L’accreditamento di istituti, programmi post-laurea e corsi di formazione professionale certifica le competenze educative e rappresenta anche uno strumento per accumulare capitale sociale e relazionale. In Italia il meccanismo selettivo ha subito delle trasformazioni nette. Se in passato l’accesso all’università costituiva un collo di bottiglia molto stretto, situato tra la fine del liceo e l’ammissione agli studi superiori, questo sbarramento oggi è stato progressivamente indebolito ma non per una razionalizzazione interna al sistema capitalistico, bensì grazie ai conflitti generati dai movimenti studenteschi e sociali. Il 1968 è stato il momento simbolico di questa rottura, aprendo la strada alla cosiddetta università di massa. Nonostante l’ampliamento dell’accesso, l’Italia rimane uno dei paesi OCSE con il più basso tasso di laureati e ciò indica che, pur essendo stato eliminato un blocco rigido all’ingresso dell’università, il sistema educativo continua a essere caratterizzato da dinamiche selettive. Il Processo di Bologna ha istituzionalizzato la differenziazione dei percorsi educativi attraverso la formula 3+2, con una frammentazione dei curricula funzionale alla costruzione di un mercato formativo più flessibile. Nel modello statunitense, la selezione è avvenuta invece attraverso una diversificazione istituzionale che riflette una gerarchia formale tra community college, college quadriennali e università, corrispondenti ai tre livelli di laurea (bachelor, master e PhD). Qui la competizione accademica è elevata a tutti i livelli e l’accesso viene regolato da test attitudinali che orientano e determinano il percorso formativo dello studente, attuando quello che è stato definito il cooling-out process, ossia la progressiva riduzione delle aspirazioni individuali. In entrambi i modelli la crisi dei meccanismi di esclusione ha portato a una ricollocazione del conflitto: non più sull’accesso in sé ma sulle modalità e sulla qualità dell’inclusione. Negli Stati Uniti, l’affirmative action è stata una risposta diretta alle lotte dei movimenti afroamericani degli anni ’60 e ’70, dimostrando che i cambiamenti nei criteri di selezione non sono mai neutrali ma frutto di conflitti sociali. In Italia, il passaggio all’università di massa ha minato la tradizionale divisione tra lavoro intellettuale e manuale, ponendo le basi per la crisi del rapporto sociale fordista. L’università, non più in grado di gerarchizzare la forza lavoro in modo efficace, si è trasformata in un nodo di regolazione del mercato del lavoro, con i conflitti che si sono spostati dal confine tra istruzione e occupazione all’interno stesso del sistema educativo. Il problema non è più solo chi accede all’università, ma come e con quali conseguenze viene incluso. Questo processo ha portato a una progressiva dequalificazione del sapere, fenomeno che alcuni definiscono come “licealizzazione” dell’università. L’innalzamento delle credenziali richieste non corrisponde a un miglioramento delle opportunità lavorative, diventando una condizione necessaria, sebbene insufficiente, per muoversi all’interno del mercato occupazionale. L’istruzione non è più garanzia di mobilità sociale e il diritto allo studio perde di incisività perché l’accesso stesso si accompagna a una svalutazione del titolo di studio. Di conseguenza le lotte studentesche e precarie si ridefiniscono come conflitti contro le barriere imposte all’interno del percorso educativo: tra lauree generali e specialistiche, tra percorsi post-laurea e dottorati, tra istituzioni più o meno riconosciute. L’obiettivo non è più solo quello di accedere ma di contrastare i filtri che regolano la circolazione del sapere e, di conseguenza, il valore della forza lavoro. Questo declassement è un fenomeno diffuso a livello transnazionale. Ad esempio in Francia ha rappresentato un elemento centrale delle proteste contro il Contratto di Primo Impiego (CPE) nel 2006. Negli Stati Uniti, la svalutazione della forza lavoro si lega anche alla crescente diffusione del debito studentesco. L’accesso all’istruzione superiore comporta prestiti federali e privati che possono arrivare a decine di migliaia di dollari. In Italia, dove i costi educativi sono inferiori e i rendimenti economici della laurea sono più bassi, il debito è spesso assunto nei confronti della famiglia. Il debito diventa un meccanismo di controllo biopolitico, spostando il rischio dalle imprese agli individui e interiorizzando la possibilità di fallimento come colpa personale. Marazzi ha evidenziato il legame tra produzione di conoscenza e valorizzazione finanziaria, mostrando come il Processo di Bologna abbia applicato all’istruzione le logiche della produzione post-fordista: aumento delle tasse, privatizzazione dei costi e competizione tra istituzioni educative in base alle esigenze del settore privato. L’istruzione diventa sinonimo di precarizzazione e la riforma universitaria non si propone di preparare a un lavoro precario specifico bensì alla precarietà in generale. L’università disciplina attraverso ritmi accelerati di studio, obblighi di frequenza e crediti formativi, rendendo la precarizzazione sia un mezzo che un fine del controllo sulla forza lavoro. L’intersezione tra mercato educativo e mercato del lavoro si fa sempre più fluida grazie a tirocini e stage non retribuiti che diventano parte integrante del percorso formativo mentre sempre più studenti lavorano durante gli studi in condizioni precarie. Con il venir meno della linearità tra studio e impiego, il futuro diventa un dispositivo artificiale che normalizza l’incertezza del presente. Gli studenti non sono più semplicemente lavoratori in formazione ma già lavoratori, sebbene in una posizione irriconoscibile e non retribuita. Il legame tra istruzione e lavoro è stato il punto di crisi della riforma italiana. Nel 1999, Umberto Eco difese il modello 3+2 sostenendo la necessità di avere più laureati, anche se meno formati ma gli studenti hanno messo in crisi questa impostazione. Infatti per Roggero pochi si fermano alla laurea triennale mentre l’80% di loro prosegue gli studi. Questo prolungamento può essere una strategia per migliorare la propria posizione, ritardare l’ingresso nel mercato del lavoro o rifiutare esplicitamente l’impiego “normale”. In ogni caso, questo ha ridefinito le forme del conflitto studentesco, creando una convergenza tra le lotte dei precari e quelle degli studenti che si riconoscono non solo per solidarietà politica ma per condizioni materiali e percorsi biografici comuni. 

3.3 Le mobilitazioni dei precari dell’università

Per Roggero è necessario comprendere come, nella produzione della soggettività, si formino forze capaci di costituirsi autonomamente e di resistere alle tecniche di comando, sfruttamento e segmentazione che abbiamo descritto. Un esempio significativo è quello della New York University, analizzata non come modello della corporate university globale, ma attraverso le sue lotte. Nel 2001, dopo grandi mobilitazioni, NYU fu la prima università privata americana a riconoscere un sindacato di studenti laureati, il Graduate Student Organizing Committee (GSOC). Tuttavia, nel 2005, l’amministrazione guidata da John Sexton ruppe le trattative con il sindacato, favorita anche dal cambiamento della composizione della National Labor Relations Board sotto la presidenza di George W. Bush. Ma l’offensiva contro il sindacato non era solo repubblicana perché anche esponenti dell’amministrazione Clinton sedevano nel board accanto a Sexton, rendendola un’azione bipartisan. In risposta, nell’estate del 2005, iniziò una mobilitazione radicale degli studenti laureati, con manifestazioni, atti di disobbedienza che portarono a oltre cento arresti e uno sciopero a oltranza a partire da novembre. L’amministrazione della NYU e altre università private, come Yale e Columbia, opposero due principali argomentazioni retoriche alle lotte degli studenti. La prima riguardava la loro definizione. Nonostante svolgessero attività di ricerca e sostenessero una parte significativa del carico didattico, i graduate students non venivano riconosciuti come lavoratori, bensì come studenti in fase di apprendistato e quindi privi del diritto a organizzarsi sindacalmente. La seconda argomentazione faceva leva sulla libertà accademica, difesa tradizionalmente dai liberali contro le ingerenze del potere politico. Secondo l’amministrazione, se gli studenti laureati si organizzavano come lavoratori, rinunciavano alla loro identità di intellettuali in formazione e ai privilegi associati alla libertà accademica. Questi argomenti facevano leva sulla percezione che i docenti hanno di sé stessi. Molti si considerano professionisti piuttosto che lavoratori e guardano con sospetto qualsiasi forma di organizzazione collettiva. In un contesto in cui la figura dell’intellettuale viene managerializzata o dissolta in forme cooperative di produzione del sapere, la rivendicazione di un ruolo tradizionale, ormai svuotato, diventa solo un’affermazione di potere e status all’interno delle gerarchie di mercato. Più cresce la retorica della comunità accademica, più si rafforza la trasformazione dell’università in un’impresa. Di conseguenza, le mobilitazioni degli studenti laureati rompono un immaginario consolidato, secondo cui chi sceglie il percorso accademico sarebbe mosso esclusivamente dalla passione per il sapere e dall’ambizione individuale, felice di abitare la torre d’avorio. In realtà, i precari dell’università risultano tra i lavoratori più sindacalizzati negli Stati Uniti. Il conflitto sul significato dell’apprendistato è centrale nelle trasformazioni dell’università. Etzkowitz, Webster e Healey mostrano come il rapporto tradizionale tra studente laureato e professore sia stato spezzato dalla precarizzazione e dalla mancanza di garanzie di accesso a posizioni stabili ma anche dai diritti di proprietà intellettuale che permettono a docenti e amministrazione di appropriarsi dei prodotti intellettuali generati dagli studenti. Viene utilizzato il termine indentured per descrivere l’apprendistato, evocando sia i contratti medievali che vincolavano un lavoratore a un padrone per un periodo determinato, sia il sistema di lavoro servile diffuso negli Stati Uniti nei secoli XVII e XVIII, in cui l’obbligo di lavoro poteva essere prolungato a causa di debiti. Questa condizione non è esattamente sovrapponibile all’apprendistato accademico ma vi si avvicina nella misura in cui lo studente-lavoratore è obbligato a rimanere in una fase di formazione indefinita, privo di diritti lavorativi e gravato da un debito crescente. Questo processo produce una sorta di “feudalizzazione” dell’università, in cui la capitalizzazione del sapere avviene attraverso un regime gerarchico che ricorda quello feudale. Nel contesto della produzione cognitiva la definizione di cosa sia educazione e cosa sia lavoro diventa il nodo centrale della lotta, poiché determina l’accesso al reddito e il diritto all’organizzazione sindacale. La distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo assume qui una connotazione puramente politica: la mobilitazione degli studenti laureati è un conflitto sullo statuto stesso del lavoro cognitivo. Rifiutando la subordinazione ai docenti e identificando direttamente nell’amministrazione il nemico, i precari dell’università hanno reso visibile la linea di classe che attraversa la corporate university, spaccando la retorica della comunità accademica. Ai docenti non rimane altra scelta se non schierarsi: o con i lavoratori o con l’amministrazione. Molti studenti laureati sottolineano il ruolo centrale della mobilità nelle università americane, vissuta sia come imposizione del mercato del lavoro sia come opportunità per sfuggire ai ricatti dell’amministrazione e trovare spazi di autovalorizzazione. Tuttavia le mobilitazioni della NYU non sono riuscite a creare una strategia collettiva di uscita da questo sistema, finendo per difendere una professione priva di riconoscimento giuridico. Dove la possibilità di uscita è bloccata, la voce si chiude nei confini della legittimazione delle relazioni di subordinazione esistenti. Questo è evidente nei movimenti dei ricercatori precari in Italia, dove l’assenza di un mercato per il lavoro cognitivo e la rigidità accademica perpetuano un sistema gerarchico basato sulla fedeltà personale ai baroni, più che sulla produttività. La micropolitica delle relazioni di potere universitarie si basa su un codice informale che riproduce la figura dell’homo academicus descritta da Bourdieu. Seguendo Foucault, si può leggere questa dinamica come un ordine del discorso che impone una verità dominante e produce una logofobia verso narrazioni alternative. I ricercatori precari, richiedendo solo la stabilizzazione, si sono inseriti nei meccanismi di selezione e subordinazione invece di contestarli, abbandonando la lotta per un sapere vivo autonomo dal controllo capitalistico. Ricomponendosi attorno a un’identità di status, i precari hanno legittimato le gerarchie accademiche, interrompendo l’aggregazione orizzontale con studenti e dottorandi che si era basata sulla lotta contro la precarietà e sull’autonomia della formazione. Usando le categorie di Hirschman, la loro voce si è basata sulla fedeltà all’istituzione, mirando a cambiare le posizioni individuali più che a mettere in discussione il sistema. Il sacrificio dell’autonomia sull’altare dell’inclusione ha rafforzato la subordinazione. La lotta degli studenti laureati, pur mostrando pratiche e linguaggi di classe, si è spesso limitata a rivendicazioni sindacali economiche, senza superare le divisioni interne. La questione di classe rischia di essere ridotta a un’identità economica fissa mentre la classe dovrebbe essere pensata come un processo di soggettivazione e di conflitto. La composizione tecnica del lavoro cognitivo non è mai neutra. Essa è la risposta capitalista alla crisi di governabilità prodotta dalle lotte. Il rischio è che le differenze si trasformino in segmentazioni interne alla gerarchia capitalistica, neutralizzando il conflitto. Ripensare la classe significa vederla come un processo di disidentificazione e produzione del comune, non come un dato preesistente. In un’epoca in cui il lavoro cognitivo è centrale, l’autonomia e le nuove forme di comunità non segnano la fine della classe ma il campo stesso del suo possibile riemergere.

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