Anton Semënovič Makarenko è una delle figure più significative e influenti nella storia della pedagogia sovietica, la cui eredità culturale e educativa continua a essere studiata e celebrata in Russia e oltre. Indagheremo la sua opera e il suo pensiero utilizzando il libro di James Bowen Soviet Education. Anton Makarenko and the years of experiment. Nato nel 1888 in una famiglia operaia nella cittadina ucraina di Belopole, Makarenko crebbe in un ambiente modesto ma culturalmente stimolante, dove l’importanza dell’istruzione e del lavoro erano valori fondamentali. Suo padre, Semën Grigor’evič, un pittore di carrozze ferroviarie, era un uomo severo ma giusto, con un forte senso della dignità personale e del dovere, mentre sua madre, Tat’jana Michajlovna, era una donna socievole e affettuosa, dotata di un fine senso dell’umorismo. Questi tratti familiari influenzarono profondamente il carattere di Makarenko che sviluppò fin da giovane una spiccata determinazione e una profonda sensibilità umana. La sua formazione scolastica fu brillante, tanto da diplomarsi con il massimo dei voti nel 1904, dimostrando una particolare predisposizione per gli studi umanistici. Dopo un corso accelerato di pedagogia, iniziò la sua carriera di insegnante in una scuola elementare a Kruikov, dove rimase per sei anni, sviluppando un approccio educativo basato sulla disciplina e sulla comprensione delle esigenze degli allievi. In questo periodo fu influenzato dalle idee rivoluzionarie che circolavano nella Russia dell’epoca, partecipando attivamente a riunioni politiche e manifestando simpatie per il movimento bolscevico, sebbene senza un coinvolgimento diretto nella lotta armata. Dopo un breve trasferimento a Dolinsk, dove insegnò per tre anni, Makarenko riuscì a iscriversi all’Istituto Magistrale di Poltava, una delle istituzioni più prestigiose per la formazione degli insegnanti. Qui approfondì le sue conoscenze pedagogiche e letterarie, coltivando parallelamente una passione per la scrittura che lo portò a pubblicare alcuni racconti e poesie su riviste satiriche. Con la Rivoluzione d’Ottobre e la successiva guerra civile la Russia si trovò ad affrontare una crisi sociale senza precedenti, caratterizzata da milioni di bambini abbandonati, orfani di guerra o vittime della carestia. Fu in questo contesto che Makarenko ricevette, nel 1920, l’incarico di dirigere una colonia per giovani delinquenti e orfani nei pressi di Poltava, la Colonia Gor’kij, chiamata così in onore dello scrittore che ammirava. Qui, davanti a un gruppo di ragazzi spesso violenti, disadattati e diffidenti verso qualsiasi autorità, Makarenko sviluppò un sistema educativo rivoluzionario, basato su principi di autogoverno, disciplina collettiva e lavoro produttivo. Il suo metodo si distingueva per l’approccio pragmatico e anti-idealista. Rifiutando le teorie pedagogiche astratte dell’epoca, Makarenko credeva che l’educazione dovesse fondarsi sull’esperienza concreta e sulla responsabilizzazione degli allievi. Organizzò la colonia come una comunità autonoma, con strutture militariggianti (uniformi, gradi, assemblee decisionali) e un sistema di lavoro che includeva attività agricole e artigianali, il cui ricavato contribuiva al sostentamento della colonia stessa. Attraverso questo modello i ragazzi acquisivano competenze pratiche e imparavano il valore della collaborazione, del rispetto reciproco e dell’autodisciplina. L’esperienza della Colonia Gor’kij divenne la base del suo capolavoro letterario, Poema pedagogico, un’opera che unisce memoir, trattato pedagogico e romanzo di formazione. Scritto tra il 1925 e il 1935, il libro racconta con tono epico e al tempo stesso intimista le sfide, le sconfitte e i trionfi di Makarenko e dei suoi allievi, trasformando una storia di redenzione sociale in un’opera di grande valore letterario. L’enorme successo del libro in URSS (con oltre un milione di copie vendute e traduzioni in decine di lingue) contribuì a diffondere le sue idee pedagogiche che influenzarono profondamente il sistema educativo sovietico. Nel 1927 Makarenko lasciò la Colonia Gor’kij per fondare e dirigere la Comune Dzeržinskij, un’altra istituzione per giovani delinquenti, questa volta sotto l’egida della polizia segreta sovietica. Qui perfezionò il suo metodo, introducendo attività industriali più avanzate (come la produzione di macchine fotografiche) e rafforzando l’idea che l’educazione dovesse preparare i giovani alla vita sociale e al lavoro in un’economia socialista. La sua esperienza in questa seconda colonia ispirò un altro romanzo, Bandiere sulle torri, pubblicato nel 1938. Negli ultimi anni della sua vita Makarenko si dedicò sempre più alla scrittura, producendo opere come Libro per i genitori, in cui estese le sue riflessioni pedagogiche alla famiglia, sostenendo che anche in ambito domestico fosse necessaria una combinazione di fermezza, affetto e responsabilità collettiva. La sua morte prematura nel 1939, a soli 51 anni, interruppe una carriera ancora in piena evoluzione ma il suo lascito intellettuale rimase vitale. Oggi Makarenko è considerato uno dei padri della pedagogia moderna, sebbene la sua ricezione in Occidente sia stata a lungo limitata da pregiudizi ideologici. Il suo approccio, spesso definito “pedagogia della collettività”, anticipò temi oggi centrali nel dibattito educativo come l’importanza del gruppo nella formazione individuale, il ruolo del lavoro come strumento educativo e la necessità di un equilibrio tra disciplina e autonomia. Nonostante alcune critiche per il suo presunto autoritarismo, la sua opera resta una testimonianza straordinaria di come l’educazione possa trasformare vite apparentemente perdute, restituendo dignità e speranza a chi era stato dimenticato dalla società.
- Lo sviluppo di un metodo
Il capolavoro pedagogico-letterario di Anton Semënovič Makarenko, Poema pedagogico, rappresenta il vertice della sua produzione intellettuale e una delle opere più significative nella storia della pedagogia mondiale. Questo imponente lavoro, sviluppato come trilogia, costituisce un documento eccezionale sia per il suo valore storico che per la profondità dell’analisi educativa, offrendo una testimonianza vivida e commovente del rivoluzionario metodo pedagogico applicato da Makarenko nella Colonia Gor’kij tra il 1920 e il 1927. Ciò che rende quest’opera straordinaria è la perfetta fusione tra rigore scientifico e qualità letteraria. Sebbene si tratti di un testo fondamentalmente pedagogico, possiede la forza narrativa e la complessità psicologica di un grande romanzo, capace di coinvolgere emotivamente il lettore mentre espone concetti educativi di profonda originalità. La genesi dell’opera è strettamente intrecciata con l’esperienza concreta di Makarenko nella Colonia Gor’kij, istituzione creata per accogliere i besprizorniki, quei ragazzi abbandonati che vagavano per le campagne e le città sovietiche nel caos seguito alla Rivoluzione e alla guerra civile. Quando Makarenko ricevette l’incarico di dirigere questa colonia si trovò di fronte a una sfida apparentemente impossibile: trasformare giovani criminali, spesso violenti e completamente sradicati da qualsiasi norma sociale, in cittadini produttivi della nuova società socialista. Le condizioni iniziali erano disastrose. La colonia disponeva soltanto di un vecchio podere abbandonato, risorse economiche minime e un gruppo di insegnanti demoralizzati. Eppure, in sette anni di lavoro instancabile, Makarenko riuscì non solo a creare una comunità autosufficiente ed efficiente ma sviluppò un sistema educativo così innovativo da diventare modello per tutta l’Unione Sovietica. La struttura della trilogia riflette perfettamente l’evoluzione del pensiero e della pratica makarenkiana, seguendo le tre fasi di sviluppo della colonia attraverso altrettante sedi. Il primo volume, corrispondente alla fase iniziale presso il vecchio podere, descrive il periodo di sperimentazione e apparente caos in cui Makarenko, privo di modelli precostituiti, dovette inventare giorno per giorno strategie per gestire ragazzi completamente fuori controllo. Qui emerge con particolare forza il realismo dell’autore, che non nasconde i propri dubbi, gli errori e le profonde crisi personali. Il secondo volume coincide con il trasferimento nella tenuta di Trepke, dove il metodo comincia a prendere forma organica: i ragazzi non sono più una massa indisciplinata ma una collettività organizzata, capace di autogoverno e lavoro produttivo. L’ultimo volume documenta la fase più matura, quando Makarenko applica il suo sistema alla colonia di Kurjaž, dimostrando così la potenziale universalità del suo approccio pedagogico. Ciò che rende unico Poema pedagogico è il particolare stile narrativo adottato da Makarenko. Scritto in prima persona con toni spesso introspettivi, il testo assume a tratti le caratteristiche di un diario personale, con riflessioni che sconfinano nel monologo interiore. Questa scelta stilistica permette al lettore di seguire gli eventi esterni ma anche l’evoluzione del pensiero pedagogico dell’autore, in un continuo dialogo tra teoria e pratica. Makarenko non offre soluzioni preconfezionate e mostra il faticoso processo attraverso cui giunge a elaborare i principi della sua pedagogia: la centralità del collettivo come strumento educativo, l’importanza del lavoro produttivo, il valore formativo della disciplina consapevole. Particolarmente significativa è l’onestà intellettuale con cui registra sia i successi che i fallimenti, creando un’opera che, pur nella sua idealizzazione letteraria, mantiene una straordinaria autenticità. L’influenza di Maksim Gor’kij sull’opera è fondamentale sotto molteplici aspetti. Oltre a essere l’ispiratore del nome della colonia, Gor’kij rappresentò per Makarenko un punto di riferimento ideale, un modello di uomo nuovo che proponeva ai suoi allievi. La visita dello scrittore alla colonia nel 1928 costituisce uno dei momenti più alti del racconto, simbolo del riconoscimento del lavoro compiuto. Ma Gor’kij ebbe un ruolo cruciale anche nella genesi letteraria dell’opera perché fu proprio su suo incoraggiamento che Makarenko, dopo l’iniziale rifiuto dei suoi tentativi narrativi giovanili, si decise a scrivere questa monumentale testimonianza della sua esperienza pedagogica. Quando Makarenko arrivò alla colonia la situazione materiale era disastrosa, abbiamo già detto. I locali, un tempo proprietà di un istituto religioso, erano stati saccheggiati dai contadini della zona, che avevano portato via tutto ciò che poteva essere riutilizzato: infissi, mobili, persino gli alberi da frutto erano stati sradicati e trapiantati altrove. Makarenko notò con ironia che il saccheggio era stato compiuto con meticolosità, senza atti di vandalismo gratuito, quasi fosse una razionale redistribuzione delle risorse in tempi di carestia. Il personale a sua disposizione era esiguo e altrettanto impreparato. Oltre a lui c’erano solo un ex militare, Kalina Ivanovich Serdyuk, che fungeva da fattorino e tuttofare, e due insegnanti donne, Ekaterina Grigoryevna, una pedagoga di una certa esperienza, e Lydia Petrovna, una ragazza appena uscita dalla scuola magistrale. I primi sei ragazzi arrivarono solo mesi dopo l’insediamento di Makarenko, tutti con un passato criminale: quattro erano stati condannati per rapina a mano armata, gli altri due per furto. Fin dal principio dimostrarono un totale disprezzo per l’autorità della colonia, trattando Makarenko e i suoi colleghi con insolenza e continuando a vivere come se il luogo fosse solo un rifugio temporaneo. Di notte spesso scappavano per andare a Poltava, la città più vicina, tornando al mattino per dormire o oziare. Makarenko, inizialmente, cercò di adottare un approccio basato sulla fiducia e sulla persuasione, sperando che, vedendo la buona volontà degli educatori, i ragazzi si sarebbero gradualmente integrati. Ma i mesi passavano senza alcun miglioramento e l’atmosfera nella colonia diventava sempre più tesa, con episodi di violenza verbale, minacce e persino l’esibizione di coltelli davanti alle insegnanti. La svolta avvenne in modo drammatico. Un giorno, dopo un ennesimo atto di sfida da parte di Zadorov, uno dei ragazzi più ribelli, che lo aveva apostrofato con un insulto particolarmente volgare usando il “tu” familiare, Makarenko perse il controllo e lo colpì ripetutamente, arrivando persino a sollevarlo da terra per il colletto e a minacciarlo con un attizzatoio. L’episodio, invece di peggiorare la situazione, segnò un punto di rottura perché i ragazzi, sorpresi dalla reazione violenta di un uomo che fino a quel momento aveva cercato di essere paziente, cominciarono a rispettarlo, riconoscendolo come una figura di autorità genuina, capace di imporsi fisicamente nonostante la sua statura non imponente. Zadorov stesso, che era più grande e robusto di Makarenko, avrebbe potuto reagire, ma scelse di non farlo, forse intuendo che quell’episodio rappresentava una sfida alla sua stessa identità di leader del gruppo. Da quel momento la colonia cominciò a prendere una direzione più strutturata. Con l’arrivo di altri ragazzi, portati dalle autorità senza alcun preavviso, la comunità crebbe rapidamente ma le condizioni di vita rimasero durissime. La carestia che affliggeva l’Ucraina in quegli anni rendeva difficile procurare cibo a sufficienza e i coloni spesso mangiavano solo una brodaglia di miglio, chiamata “kondyor”. L’abbigliamento era insufficiente e molti ragazzi erano costretti a fasciarsi i piedi con stracci per proteggersi dal freddo. Makarenko, determinato a garantire la sopravvivenza della colonia, ricorse a metodi spesso al limite della legalità, falsificando ordini di approvvigionamento per ottenere farina e altri generi di prima necessità dai magazzini statali. Queste azioni, se da un lato erano necessarie per la sopravvivenza del gruppo, dall’altro creavano una contraddizione di fondo nel sistema educativo che Makarenko stava costruendo: predicava infatti l’onestà e la condivisione all’interno della colonia e allo stesso tempo insegnava ai ragazzi che, verso l’esterno, era lecito aggirare le regole pur di ottenere ciò di cui avevano bisogno. Uno degli aspetti più interessanti del metodo di Makarenko fu la creazione di un forte senso di appartenenza collettiva, ottenuto attraverso meccanismi di pressione sociale e l’uso strategico di minacce come l’espulsione. Un caso emblematico fu quello di Burun, un ragazzo che aveva rubato oggetti personali alla governante della colonia, un’anziana donna particolarmente amata dai ragazzi. Makarenko organizzò un “tribunale popolare” in cui tutti i coloni furono chiamati a giudicare Burun, accusandolo di furto e di aver tradito la fiducia della comunità. Il processo, descritto da Makarenko con toni quasi teatrali, assunse i contorni di un dramma morale, con i ragazzi che, uno dopo l’altro, condannavano il comportamento di Burun con veemenza, arrivando a suggerire punizioni severe come la fustigazione o l’espulsione. Alla fine Burun, piegato dal peso della disapprovazione collettiva, implorò perdono, giurando che non avrebbe più rubato e supplicando di non essere cacciato dalla colonia. Questo episodio dimostrò a Makarenko l’efficacia della minaccia di esclusione come strumento di controllo sociale. Un altro caso significativo fu quello di Chobot, un ragazzo problematico coinvolto in numerosi scontri violenti che culminarono in un’aggressione con coltelli ai danni di un altro colono. Makarenko decise di usarlo come esempio poiché lo espulse temporaneamente, dicendogli di tornare solo quando avesse capito che nella colonia non c’era posto per la violenza individuale. Chobot, dopo aver sperimentato la durezza della vita fuori dalla comunità, fece ritorno un mese dopo, visibilmente provato, e promise di cambiare. Sebbene questo episodio sembrasse un successo del metodo di Makarenko, nascondeva in realtà un lato oscuro, infatti Chobot non si integrò mai veramente e anni dopo, incapace di trovare un posto nel sistema rigido della colonia, si suicidò impiccandosi nella stalla. La sua tragedia rivelò i limiti di un’educazione che schiacciava l’individualità in nome del collettivo, senza offrire vie di fuga a chi non riusciva ad adattarsi. Nonostante queste contraddizioni Makarenko continuò a sviluppare il suo sistema, spingendo i ragazzi a identificarsi sempre più con la colonia, vista come un’avanguardia della nuova società socialista, in contrapposizione a un mondo esterno corrotto e moralmente inferiore. Un esempio di questa mentalità si vide quando organizzò spedizioni punitive contro i contadini della zona, colpevoli di produrre vodka illegalmente. Queste incursioni, condotte con toni quasi militareschi, rafforzarono nei ragazzi l’idea di essere moralmente superiori, custodi di una purezza rivoluzionaria minacciata dall’egoismo e dall’individualismo della vecchia società da abbattere. Lo sviluppo di una struttura formale all’interno della Colonia Gor’kij rappresentò una fase cruciale nell’evoluzione del sistema pedagogico di Anton Makarenko, un processo che emerse gradualmente dalla pratica quotidiana e che si concretizzò in una precisa organizzazione militare della vita comunitaria. Questo passaggio non fu improvvisato ma il risultato di una lunga riflessione interiore di Makarenko che nel corso dei primi due anni di attività della colonia aveva maturato una teoria educativa profondamente originale e in netto contrasto con le correnti pedagogiche dominanti nell’Unione Sovietica dei primi anni ‘20. Mentre la pedagogia ufficiale dell’epoca, influenzata dalle teorie di stampo romantico e libertario, predicava l’assoluta libertà dell’infanzia e condannava qualsiasi forma di punizione considerandola umiliante e contraria allo sviluppo spontaneo della personalità, Makarenko giunse a conclusioni diametralmente opposte attraverso l’esperienza diretta con i suoi difficili allievi. La sua teoria, come egli stesso ebbe modo di esporre in una conferenza sulla disciplina tenuta già nel 1922, si basava su alcuni principi fondamentali che rappresentavano una vera e propria rivoluzione nel campo educativo. In primo luogo, Makarenko contestava radicalmente l’idea che la punizione fosse di per sé degradante, sostenendo invece che in una fase iniziale, quando ancora non esisteva un collettivo organizzato con sue tradizioni consolidate, né abitudini al lavoro e alla vita culturale, l’educatore non solo aveva il diritto ma il preciso dovere di ricorrere a misure coercitive. Questo approccio apparentemente autoritario nasceva dalla constatazione pratica che lasciare totale libertà a ragazzi cresciuti nella strada e nell’illegalità portava solo al caos e all’anarchia. In secondo luogo, Makarenko rifiutava il principio che l’educazione dovesse basarsi esclusivamente sugli interessi spontanei del bambino poiché riteneva che il senso del dovere e la capacità di affrontare compiti spiacevoli fossero qualità essenziali per la formazione del carattere e spesso in contrasto con le inclinazioni immediate dell’individuo. Il nucleo centrale della sua filosofia pedagogica ruotava attorno al concetto di “collettivo”, inteso come entità organica con una sua precisa fisionomia e gerarchia interna. Per Makarenko la creazione di un collettivo forte, entusiasta e quando necessario austero, rappresentava l’unica via per plasmare personalità capaci di vivere nella nuova società socialista. Queste idee suscitarono immediatamente aspre critiche negli ambienti pedagogici ufficiali, dove prevalevano concezioni più libertarie e psicologiste dell’educazione. I detrattori di Makarenko, da lui sprezzantemente definiti “scribacchini pedagogici”, continuavano a ripetere come un mantra la parola “bambino” senza comprendere, a suo avviso, le reali esigenze della formazione del carattere in un contesto rivoluzionario. Nonostante le opposizioni, Makarenko procedette con determinazione nell’applicazione delle sue teorie, introducendo gradualmente nella colonia elementi di stampo militare che avrebbero profondamente caratterizzato l’organizzazione della comunità. Questa scelta non fu del tutto casuale né dettata solo da considerazioni pratiche. Certo, in un’epoca in cui la Russia sovietica era ancora instabile e minacciata da conflitti interni ed esterni, una certa preparazione militare per i giovani poteva apparire necessaria ma per Makarenko l’adozione di forme militari rispondeva a esigenze più profonde, legate alla stessa natura del processo educativo. L’esercito rappresentava infatti l’istituzione per eccellenza in cui il gruppo prevale sempre sull’individuo, dove la disciplina e l’obbedienza sono valori assoluti e dove l’azione collettiva è finalizzata a obiettivi esterni. Molto rapidamente la colonia si trasformò in una vera e propria accademia militare in miniatura. Makarenko introdusse esercitazioni ginniche, addestramento al combattimento, marce e perfino l’uso di fucili veri, ottenendo persino il riconoscimento ufficiale come unità del Dipartimento Generale di Addestramento Militare. Con un certo compiacimento egli descrisse nelle sue memorie le complesse manovre invernali, durante le quali i coloni eseguivano assalti coordinati e cariche alla baionetta contro obiettivi simulati, suscitando non poco scompiglio tra i contadini dei dintorni. Queste attività erano un vero e proprio strumento pedagogico, volto a rafforzare lo spirito di gruppo, l’abitudine all’obbedienza e la capacità di agire in modo coordinato. Parallelamente alle esercitazioni militari, Makarenko introdusse una serie di rituali e simboli che contribuirono a creare un’atmosfera quasi monastica nella colonia. I ragazzi dovevano rispondere agli ordini con un secco “Molto bene!” accompagnato dal saluto pionieristico mentre i segnali quotidiani non venivano più dati con una campana ma con trombe suonate da giovani appositamente addestrati da un maestro di banda della vicina città. Questa militarizzazione della vita quotidiana raggiunse livelli tali che lo stesso Makarenko, in un momento di riflessione, ammise di non sapere esattamente come fosse nata questa passione per l’addestramento militare, attribuendola a un “istinto pedagogico inconscio”. Un ulteriore passo avanti nella formalizzazione del collettivo fu l’istituzione dei “distaccamenti”, squadre permanenti e temporanee che svolgevano compiti specifici sotto la guida di un comandante. Questo sistema organizzativo, che Makarenko difese con energia contro le critiche dei pedagoghi tradizionali, traeva ispirazione dalle formazioni partigiane della guerra civile e rispondeva a un istinto rivoluzionario innato nei ragazzi. I comandanti godevano di un’autorità assoluta durante le attività e sebbene vi fosse un tentativo di rotazione delle cariche per evitare concentrazioni di potere, Makarenko stesso ammise di non credere pienamente nel sistema elettivo, preferendo una leadership forte e centralizzata. Questa rigida organizzazione serviva a evitare che singoli individui emergessero troppo, mantenendo sempre al centro il collettivo come unico vero protagonista. Un esempio emblematico di questa filosofia fu il caso di Artemi, un muratore incompetente che, dopo aver fatto crollare una stufa da lui costruita, divenne nella colonia il simbolo del fanfarone incapace, usato da Makarenko come monito permanente contro l’individualismo e la presunzione. Nel 1923, con il trasferimento della colonia in una nuova sede, una ex tenuta nobiliare abbandonata, Makarenko segnò simbolicamente l’inizio di una nuova fase. Questo spostamento aveva un profondo significato pedagogico poiché rappresentava una rottura con il passato, un nuovo inizio in cui le esperienze precedenti potevano essere rielaborate in chiave mitica. Già dal 1922 Makarenko aveva chiesto che non gli fossero più inviati i dossier personali dei ragazzi, ritenendo che la rieducazione dovesse ignorare completamente le colpe precedenti e concentrarsi sulla costruzione di una nuova identità. La colonia, che ora contava ottanta membri, si presentava come un’unità compatta e militarizzata, con marce impeccabili, una banda musicale e una splendida bandiera di seta donata dal Commissariato del Popolo per l’Educazione in occasione del terzo anniversario della fondazione. Il 3 ottobre 1923, con una cerimonia solenne, la colonia lasciò la vecchia sede senza nemmeno voltarsi indietro, in un gesto carico di significato simbolico. Come scrisse lo stesso Makarenko, non c’era ostilità verso il luogo che li aveva ospitati per anni ma semplicemente una ferma volontà di non guardare al passato, di marciare verso il futuro senza rimpianti. Questa fase rappresentò per Makarenko la prima grande vittoria del suo metodo, la dimostrazione che era possibile trasformare ragazzi di strada, delinquenti e disadattati in una comunità disciplinata e produttiva. Makarenko era convinto che solo attraverso un’autorità forte e un’organizzazione ferrea si potesse plasmare l’uomo nuovo sovietico, un ideale che avrebbe continuato a guidare il suo lavoro negli anni successivi, anche quando le critiche al suo metodo si fecero più aspre e lo costrinsero a trasferirsi in una nuova colonia sotto la protezione della polizia sovietica. L’approccio di Makarenko si caratterizzò sempre per un marcato empirismo, per quel metodo per tentativi ed errori che lo portava a sperimentare soluzioni pratiche, a ritirarsi prudentemente quando incontrava resistenze insormontabili, per poi riprendere l’iniziativa non appena individuava un varco nelle difese psicologiche dei suoi allievi. Questo modo di procedere si basava su una straordinaria capacità intuitiva nella gestione delle relazioni umane, su quel fiuto pedagogico che gli permetteva di cogliere al volo le dinamiche di gruppo e di intervenire con tempestività. Quando una determinata pratica si dimostrava efficace, Makarenko la cristallizzava immediatamente in una norma stabile, in un rituale consolidato, creando così nel giro di pochi anni un sistema educativo estremamente strutturato e coerente. Verso il 1923, nonostante i tangibili successi ottenuti nel controllo del comportamento collettivo, Makarenko iniziò ad avvertire i limiti della sua comprensione teorica. Egli si rendeva perfettamente conto di saper gestire i gruppi entro certi parametri pratici ma sentiva di non aver ancora compreso appieno i meccanismi psicologici profondi che regolano sia l’azione individuale che i processi collettivi. Questa consapevolezza segnò l’inizio di una nuova fase del suo pensiero pedagogico, quella compresa tra l’ottobre 1923 e il marzo 1926, durante la quale la sua riflessione si fece più sistematica e approfondita.
In questo periodo cruciale Makarenko si immerse nello studio dei fondamenti della vita collettiva, ponendosi domande essenziali: qual è la natura dell’imperativo che spinge il collettivo ad agire? Dove risiede esattamente l’autorità all’interno di un gruppo organizzato? Qual è il vero rapporto tra individuo e collettività? Con quale “collante” si tiene unita una comunità? Questi interrogativi lo portarono addirittura a riflettere sul senso più profondo della propria esistenza e della propria missione educativa, una riflessione esistenziale che fu ulteriormente stimolata dalle critiche sempre più frequenti che il suo metodo riceveva a livello istituzionale. Nonostante le pressioni esterne e i dubbi interiori, Makarenko non mise mai veramente in discussione due capisaldi del suo sistema: il valore assoluto del collettivo come entità formativa e la sua visione idealistica della futura società sovietica. La sua ricerca si concentrò piuttosto sul tentativo di scoprire le leggi nascoste che regolano la vita di gruppo, quella che potremmo definire, pur nella consapevolezza che lo stesso Makarenko non utilizzò mai esplicitamente questa terminologia, la mistica del collettivo. Per Makarenko il collettivo non era mai un semplice strumento utilitaristico per raggiungere obiettivi pratici ma rappresentava piuttosto un’entità organica e assoluta, una concezione che trovava piena corrispondenza nell’ortodossia marxista allora dominante. La sua convinzione di fondo era che l’individuo potesse trovare la sua piena realizzazione solo all’interno del gruppo organizzato e che ogni forma di resistenza o deviazione andasse interpretata non come espressione di un conflitto intrinseco tra libertà personale e dinamiche sociali ma come segnale di un’imperfezione nel sistema educativo. Questo approccio monodirezionale lo portava inevitabilmente a interpretare ogni problema comportamentale come una sfida da risolvere attraverso un maggior controllo, piuttosto che come un’occasione per ripensare alcuni aspetti del metodo. Uno dei temi centrali della riflessione makarenkiana in questa fase fu il concetto di “dovere”, cioè quel meccanismo interiore che spinge le persone ad agire per il bene comune anche contro i propri immediati interessi. In una discussione particolarmente significativa riportata nel secondo volume del Poema pedagogico, emergono con chiarezza due visioni contrapposte: da un lato c’è Olya, che incarna la fiducia nel potere della ragione e della persuasione (“Se qualcosa deve essere fatto, la gente lo farà spontaneamente, senza bisogno di minacce”), dall’altro ci sono ragazzi come Karabanov e Burun, sostenitori convinti della coercizione (“Basta puntare loro una pistola perché obbediscano”). Makarenko, pur riconoscendo l’importanza fondamentale della razionalità nella motivazione umana, arrivò a comprendere che questa da sola non bastava. Il senso del dovere doveva radicarsi in una più profonda identificazione con i valori del gruppo, diventare parte costitutiva della personalità stessa degli individui. La vita quotidiana nella nuova sede di Trepke continuava a svolgersi secondo i rigorosi ritmi militarizzati ormai consolidati: lavoro agricolo nei campi, attività artigianali nelle officine, studio nella scuola del villaggio e addestramento paramilitare. L’obiettivo dichiarato rimaneva quello dell’autosufficienza economica ma parallelamente cresceva l’attenzione per la formazione di una vera e propria coscienza collettiva tra i coloni. Makarenko si impegnò sempre più nello studio dei meccanismi psicologici che permettono di trasformare un obbligo esterno (“devi fare questo”) in un’adesione interiore spontanea (“voglio fare questo perché è giusto”). La sua ricerca si concentrò sulle modalità per rendere le norme del gruppo così attraenti e convincenti da essere abbracciate senza riserve, senza che questo comportasse però un ripensamento del primato assoluto del collettivo sull’individuo. In questa fase di transizione del suo pensiero Makarenko oscillava costantemente tra pragmatismo e idealismo. Mentre sperimentava metodi sempre più strutturati e sofisticati per plasmare il comportamento dei suoi allievi allo stesso tempo rimaneva fedele all’utopia di una società futura in cui l’armonia collettiva sarebbe scaturita naturalmente dalla nuova coscienza socialista. In questo periodo sviluppa il principio del “movimento perpetuo” del collettivo, cioè l’idea che una comunità educativa non possa permettersi momenti di stasi ma debba essere costantemente proiettata verso nuovi obiettivi esterni per evitare il ripiegamento su dinamiche individualistiche. In questa visione la solidarietà di gruppo non nasce spontaneamente dalla condivisione di valori ma è il prodotto di una continua reazione a minacce e sfide, reali o costruite che siano. Questa costante ricerca di “nemici esterni” rivela il problema fondamentale del sistema makarenkiano: la mancanza di una solida base teorica per l’autorità educativa. Makarenko opera infatti una forma di condizionamento morale i cui criteri ultimi scaturiscono esclusivamente dalla sua personale interpretazione delle esigenze rivoluzionarie, senza un chiaro riferimento ai valori della società sovietica in formazione. La colonia, sempre più isolata e autosufficiente, sviluppa così una morale autonoma che rischia di rendere i suoi membri progressivamente inadatti a integrarsi nella realtà esterna. Questo conflitto tra i valori della colonia e quelli della società sovietica più ampia rappresenta una contraddizione irrisolta nel pensiero di Makarenko, aggravata dal fatto che i suoi metodi autoritari e collettivisti si scontravano con le tendenze ufficiali dell’educazione sovietica degli anni ‘20, ancora influenzate da ideali democratici e centrati sullo sviluppo individuale. L’atteggiamento di Anton Makarenko verso le autorità educative ufficiali rappresenta una delle più profonde contraddizioni del suo sistema pedagogico, un paradosso stridente tra l’imposizione di una ferrea disciplina interna alla colonia e il costante conflitto con le istituzioni esterne. Questo dissidio permanente attraversa tutte le sue opere, manifestandosi in un disprezzo spesso plateale verso i rappresentanti del sistema educativo sovietico che Makarenko considera teorici distaccati dalla realtà concreta dell’educazione. La sua avversione si esprime con particolare veemenza contro la pedologia, la scienza ufficiale dell’infanzia nell’URSS degli anni ‘20, che egli deride come astratta e inefficace. Un episodio emblematico è l’incontro con due studentesse dell’Istituto Pedagogico di Kharkov, K. Varskaya e R. Landsberg, giunte in colonia per osservare i metodi educativi. Makarenko ne fa una caricatura grottesca, ridicolizzando le loro domande sui “dominanti” psicologici degli allievi e rispondendo con sarcasmo alle indagini sulla personalità dei coloni: “Perché dovremmo studiare la personalità? Come potete lavorare su un materiale che non conoscete?”. Questo dialogo, riportato con toni che tradiscono una profonda insofferenza, rivela l’abisso tra l’approccio pratico di Makarenko e le teorie ufficiali. Le critiche al suo lavoro si intensificarono negli anni, assumendo toni più severi quando l’ispettrice Lyubov Dzhurinskaya del Commissariato del Popolo per l’Educazione visitò la colonia in seguito a denunce sui metodi punitivi impiegati. In un’epoca in cui la pedagogia ufficiale bandiva qualsiasi forma di castigo, Makarenko ammise senza remore di privare i ragazzi della cena come misura disciplinare, difendendo con fierezza le sue scelte: “Leggo molto, ma ho smesso di leggere libri di pedologia tre anni fa e non ne ho vergogna!”. Il confronto si concluse con un’affermazione di autonomia che suona quasi come una sfida: “Continuerò a fare le cose come ritengo necessario e nel modo che so”. Nonostante Makarenko racconti che l’ispettrice si sia allontanata apparentemente convinta, le accuse contro il suo operato persistevano su due fronti principali: l’uso di metodi personali anziché sovietici e l’impiego della competizione tra reparti, pratica considerata borghese e contraria allo spirito collettivista. Particolarmente significativo fu lo scontro con il professor Chaikin che condannò come “grossolanamente borghese” il sistema di premi in denaro differenziati in base ai meriti individuali. Di fronte a queste critiche, Makarenko si trovò disarmato sul piano teorico, incapace di articolare una difesa coerente del suo metodo e costretto a rifugiarsi in reazioni emotive. Nel suo diario definisce Chaikin un “rompiscatole” che meriterebbe “una buona frustata con una cintura da operaio”. Questi conflitti rivelano l’isolamento crescente di Makarenko nel panorama educativo sovietico e la sua incapacità di conciliare la pratica coloniale con le direttive ufficiali. Mentre la permanenza a Trepke volgeva al termine, Makarenko avvertiva sempre più acutamente la necessità di un cambiamento radicale. Il trasferimento dei coloni più anziani alle scuole superiori (il Rabfak) aveva privato la comunità dei suoi elementi guida, creando uno squilibrio generazionale che minacciava la stabilità del sistema. La soluzione ideale sarebbe stata il trasferimento nel maestoso palazzo Popov, dove Makarenko sognava di accogliere ottocento besprizorniki, ma il rifiuto del Commissariato alle Finanze a finanziare i necessari lavori di ristrutturazione fece naufragare il progetto. L’alternativa fu la colonia di Kuryazh, presso Kharkov, descritta nelle cronache ufficiali come un luogo di degrado e disperazione capace, però, di offrire a Makarenko la promessa di una libertà d’azione totale. Gli anni a Trepke avevano rappresentato per Makarenko un intenso laboratorio di sperimentazione pedagogica, durante il quale aveva elaborato principi fondamentali come l’importanza di una “avanguardia” interna al collettivo e la necessità di sfide continue per mantenere viva la coesione del gruppo. Eppure, nonostante questi progressi, l’essenza più profonda del collettivo, quella che chiamiamo qui la sua “mistica”, gli sfuggiva ancora. In momenti di riflessione solitaria Makarenko cadeva in crisi esistenziali profonde, dubitando del senso del suo sacrificio: “Perché ho dovuto sacrificare i migliori anni della mia vita solo perché una mezza dozzina di delinquenti potesse entrare al Rabfak?”. Queste crisi personali si alternavano a slanci di ottimismo rivoluzionario, come quando, ispezionando il palazzo Popov, proclamava con fiducia che la differenza fondamentale tra il sistema educativo sovietico e quello borghese stava proprio nella capacità del collettivo infantile di “progredire e prosperare visualizzando un domani migliore”. La partenza per Kuryazh, a differenza del trasferimento a Trepke anni prima, avvenne in un’atmosfera carica di apprensione. I coloni non esplosero in evviva entusiastici ma accettarono la sfida con sobria determinazione: “Scriviamo a Gor’kij. E ricordatevi, ragazzi: niente lamentele!”, disse Lapot. Questa scena commovente, con il vecchio Kalina Ivanovich che incoraggia i giovani ad affrontare la nuova avventura, simboleggia il complesso percorso di Makarenko: un educatore geniale ma isolato, fermamente convinto della bontà del suo metodo ma incapace di conciliarlo con le direttive ufficiali, alla continua ricerca della “mistica del collettivo”. La decisione di trasferire la Colonia Gor’kij a Kuryazh nel marzo del 1926 rappresentò per Anton Makarenko il banco di prova definitivo del suo sistema pedagogico, il momento in cui tutte le teorie sviluppate negli anni precedenti avrebbero dovuto dimostrare la loro efficacia su scala ampliata e in condizioni estreme. Kuryazh si presentava come uno scenario apocalittico: edifici fatiscenti che cadevano a pezzi, condizioni igieniche spaventose, un personale educativo completamente demoralizzato e, soprattutto, quattrocento tra ragazzi e ragazze ridotti a uno stato di abbrutimento tale da aver perso qualsiasi barlume di dignità umana. Questa desolazione, invece di scoraggiare Makarenko, divenne per lui la sfida suprema, l’occasione per dimostrare che il suo metodo basato sul collettivo militarizzato poteva operare miracoli educativi anche nelle condizioni più disperate. L’operazione fu pianificata con la precisione di una campagna militare, riflettendo quella che era ormai diventata la cifra distintiva dell’approccio makarenkiano. “I kuryazhiti devono essere presi d’assedio” dichiarò Makarenko, consapevole che solo uno choc iniziale traumatico avrebbe potuto spezzare la spirale di degrado in cui versavano i nuovi ospiti. Il trasferimento fu orchestrato come una parata trionfale. In testa la bandiera della colonia, seguita dalla squadra dei trombettieri e tamburini, e poi i centoventi coloni veterani in perfetta formazione, con le loro camicie bianche immacolate e i corpi temprati dal lavoro agricolo. Questo spettacolo di ordine e disciplina fu calcolato per creare un impatto visivo ed emotivo devastante sui residenti di Kuryazh che assistevano attoniti a questa dimostrazione di forza comunitaria. Makarenko descrive con compiacimento come molti dei giovani kuryazhiti, come Nisinov e Zoren, si lasciarono immediatamente affascinare da questa visione di compattezza e fierezza, sognando già di far parte di quel gruppo organizzato, mentre i più ribelli dovettero arrendersi all’evidenza di non poter competere con la determinazione dei nuovi arrivati. Nei sessanta giorni successivi Makarenko applicò con rigore implacabile il suo sistema, in quella che può essere definita una vera e propria operazione di “deculturazione” seguita da rapida “riculturazione”. La prima fase fu brutale. I nuovi arrivati furono sottoposti a lavaggi disinfettanti, rasature complete e i loro stracci infestati furono bruciati. La disciplina fu imposta con metodi spicci, chi non lavorava non mangiava, e i gorkiani più robusti non esitavano a usare maniere forti per far rispettare gli ordini. Ma parallelamente a questa coercizione iniziale, Makarenko mise in atto un sofisticato sistema di coinvolgimento progressivo. I kuryazhiti furono immediatamente inseriti in reparti di lavoro misti con i veterani, dove potevano sperimentare direttamente i benefici dell’organizzazione collettiva. Il culmine di questo processo fu raggiunto il 15 maggio 1926 con una solenne assemblea generale in cui fu approvato un manifesto in tredici punti che sanciva la fusione completa delle due comunità sotto le regole della Colonia Gor’kij. Il successo di Kuryazh rappresentò per Makarenko la conferma definitiva di diversi principi pedagogici fondamentali che aveva elaborato negli anni precedenti. In primo luogo, l’idea che una forma esterna rigida, con i suoi rituali, le sue gerarchie visibili, i suoi simboli, fosse indispensabile come cornice per un autentico cambiamento interiore. “Lo stile e il tono, scrive Makarenko, sono sempre stati ignorati nella teoria pedagogica, ma in realtà queste qualità rientrano in una delle voci più importanti dell’educazione collettiva”. Per lui, creare uno “stile di vita” comunitario con abitudini, tradizioni e rituali condivisi non era un optional educativo ma la condizione sine qua non per formare la nuova personalità sovietica. In secondo luogo, Kuryazh dimostrò il potere attrattivo dell’esempio collettivo sul comportamento individuale. I kuryazhiti non furono costretti a cambiare solo con la forza ma furono progressivamente sedotti dalla superiore organizzazione della comunità gorkiana. Il pensiero pedagogico di Anton Makarenko raggiunge la sua massima articolazione nella riflessione sul rapporto tra disciplina collettiva e formazione dell’individuo, un nodo teorico che rappresenta allo stesso tempo il punto di forza e la contraddizione più evidente del suo sistema educativo. Partendo dal presupposto assoluto della priorità del collettivo sull’individuo, Makarenko sviluppa una concezione della disciplina che si distanzia radicalmente dalle correnti pedagogiche dominanti nell’Unione Sovietica, in particolare dalla teoria della “disciplina cosciente” allora in voga, che egli deride come astratto idealismo basato su “pure emanazioni dell’anima e idee”. La sua esperienza diretta con i besprizorniki lo aveva convinto che la vera disciplina non potesse scaturire da convinzioni intellettuali ma dovesse necessariamente passare attraverso un processo di interiorizzazione progressiva di norme esterne, mediate dalla “pressione amichevole” del gruppo. Questa visione si traduce in un approccio che potremmo definire di “ingegneria pedagogica”, dove il collettivo funziona come matrice formativa in grado di plasmare sistematicamente le personalità individuali. L’immagine che Makarenko utilizza è particolarmente rivelatrice: “era chiaro per me che molti dettagli della personalità e del comportamento umano potevano essere creati con degli stampi, semplicemente prodotti in serie”. Questa metafora industriale, che potrebbe apparire riduttiva, va però interpretata alla luce della complessa teoria motivazionale sviluppata da Makarenko che rappresenta forse il contributo più originale della sua pedagogia. Al centro del sistema makarenkiano troviamo infatti una sofisticata concezione della motivazione umana, articolata su due livelli complementari: da un lato gli incentivi immediati e concreti (tra cui, significativamente, il salario per il lavoro svolto), dall’altro la costruzione di quelle che chiama “prospettive future”, una vera e propria pedagogia della speranza organizzata. Makarenko arriva a formulare quello che può essere considerato il suo assioma pedagogico fondamentale: “educare un uomo significa fornirgli uno stimolo che porti alla gioia del domani”. In questa prospettiva il compito dell’educatore consiste nel creare progressivamente stimoli sempre più complessi e socialmente significativi, partendo da soddisfazioni immediate (un buon pasto, una gita al circo) fino ad arrivare all’identificazione con gli obiettivi dell’intera società sovietica. La grandezza dell’individuo, nella visione makarenkiana, si misura proprio dalla capacità di espandere progressivamente il proprio orizzonte esistenziale, identificando le proprie prospettive personali con quelle del collettivo: “Quanto più ampio è il collettivo con le cui prospettive future l’individuo riesce a identificare le proprie, tanto più bello e nobile appare quell’individuo”. È interessante notare come questa teoria, sviluppata in un contesto rigidamente collettivista, contenga in realtà un’intuizione profondamente umana sul ruolo della speranza e della progettualità nella formazione della personalità. Tuttavia il sistema mostrava una contraddizione fondamentale tra la negazione teorica dell’autonomia individuale e la pratica educativa che, attraverso il “sistema delle prospettive”, mirava effettivamente a liberare le energie creative dei giovani. Questa tensione irrisolta emerge con particolare evidenza nel confronto sempre più aspro tra Makarenko e le autorità pedagogiche ufficiali, culminato nella condanna del suo metodo come “non sovietico” da parte del professor Chaikin. La soluzione a questa impasse giunse con l’incontro con la polizia segreta sovietica, in cui Makarenko credette di riconoscere finalmente quell’ideale di solidarietà collettiva che aveva cercato invano di realizzare nella Colonia Gor’kij. Nelle sue parole: “finalmente vidi e sentii quella preziosa sostanza per cui non trovavo nome migliore di ‘adesivo sociale’, quel sentimento di prospettive comuni, quella consapevolezza reciproca in ogni fase del lavoro”. Fu questo incontro a spingerlo, nel settembre 1927, ad abbandonare la Colonia Gor’kij per assumere la direzione della Comune Dzerzhinsky, dove il suo metodo educativo avrebbe trovato la possibilità di un’ulteriore evoluzione.
- La Comune Dzerzhinsky
Il passaggio di Anton Makarenko dalla Colonia Gor’kij alla Comune Dzerzhinsky segnò una svolta fondamentale nel suo percorso pedagogico, non solo per il cambiamento di contesto materiale ma anche per l’evoluzione del suo pensiero. Se nella Colonia Gor’kij aveva dovuto affrontare condizioni di vita spartane, costruendo quasi tutto con le proprie mani e lottando quotidianamente contro carenze strutturali e resistenze interne, nella Comune Dzerzhinsky si trovò immerso in un ambiente radicalmente diverso, progettato per essere un monumento alla memoria del rivoluzionario Felix Dzerzhinsky. Qui, lussuosi pavimenti in parquet, bagni impeccabili, docce calde e fredde e decorazioni murali creavano un’atmosfera lontanissima dalle baracche e dai campi di lavoro di un tempo. Questo nuovo scenario, se da un lato suscitò critiche per il suo eccessivo sfarzo, dall’altro offrì a Makarenko la stabilità necessaria per sistematizzare le sue teorie, libero dalle distrazioni pratiche che avevano caratterizzato gli anni a Gor’kij. Nella Comune Dzerzhinsky assunse il ruolo di teorico e organizzatore, consolidando ciò che aveva appreso. La differenza tra i due approcci emerge chiaramente nei suoi scritti. Poema pedagogico è un racconto diretto, quasi caotico, delle lotte quotidiane, pieno di emozioni e improvvisazioni, Bandiere sulle torri è un’opera più strutturata, in cui la narrazione è affidata a un personaggio fittizio, Zakharov, che incarna l’educatore perfetto, calmo, metodico, sempre in controllo, a differenza dello stesso Makarenko che a Gor’kij non aveva esitato a scontrarsi fisicamente con i ragazzi ribelli o a condividere con loro le ultime sigarette. Questo cambiamento di tono riflette una maggiore sicurezza nel metodo e una visione più idealizzata del collettivo come strumento di trasformazione sociale. Al centro della sua riflessione nella Comune Dzerzhinsky c’erano tre questioni fondamentali: la definizione ultima del collettivo come entità educativa, il processo attraverso cui l’individuo aderisce volontariamente a tale collettivo e la misura in cui le strutture esterne, dalle regole quotidiane all’organizzazione del lavoro, plasmano l’identità personale. A differenza dei primi anni, in cui aveva lavorato con orfani di guerra traumatizzati e selvaggi, ora si trovava ad affrontare una generazione più vicina alla delinquenza giovanile, ragazzi e ragazze che avevano già assorbito la cultura della strada. Per garantire continuità al progetto, Makarenko portò con sé cinquanta ex allievi della Colonia Gor’kij che avrebbero dovuto fungere da nucleo fondante, trasmettendo ai nuovi arrivati lo “spirito” del collettivo già consolidato. Bandiere sulle torri racconta questo processo attraverso le storie di tre personaggi simbolici: Igor Chernogorski, un abile falsario; Grisha Ryzhikov, un borseggiatore incallito e Wanda Stadnitskaya, una giovane prostituta. Le loro vicende, che si intrecciano prima nella strada e poi nella Comune (ribattezzata “Colonia Primo Maggio” nel libro), servono a Makarenko per esplorare le dinamiche di integrazione e resistenza al sistema. Igor e Wanda, chiamati sempre per nome nel testo, rappresentano il successo del modello. Attraverso un percorso di disciplina, lavoro e appartenenza al gruppo riescono a trasformarsi in “nuovi sovietici”, pienamente integrati nella collettività. Ryzhikov, invece, indicato quasi sempre per cognome, incarna il fallimento, un individuo che, nonostante gli sforzi del sistema, rimane un estraneo, incapace di abbandonare la sua identità deviante. L’organizzazione della Comune Dzerzhinsky era improntata a un rigore quasi militare, con una struttura che combinava scuola, lavoro e vita comunitaria in un sistema altamente regolamentato. I ragazzi erano divisi in “distaccamenti” di sette-quindici membri, ciascuno con compiti rotativi, e indossavano uniformi che ricordavano quelle dell’esercito: tunica, stivali e berretto con visiera per i maschi; gonna pieghettata e scarpe con calze per le femmine. L’ingresso ufficiale nella comunità era sancito da una cerimonia di iniziazione, in cui i nuovi membri ricevevano un distintivo speciale e il diritto di farsi chiamare “coloni”. La giornata era scandita da suoni di tromba, ordini scritti e un complesso sistema di gerarchie interne, con tanto di saluti, guardie e passaggi obbligati. Ma è nel lavoro produttivo che il modello makarenkiano raggiungeva la sua massima espressione. Le officine della Comune, dove si producevano mobili e strumenti metallici, erano organizzate come un vero e proprio fronte di battaglia. Le squadre gareggiavano per superare le quote di produzione e i risultati erano pubblicati su bollettini che usavano un linguaggio bellico. Questo approccio, ispirato al movimento stacanovista, mirava a trasformare il lavoro in un’esperienza collettiva ed eroica, dove l’obiettivo non era solo l’efficienza economica ma la formazione di una coscienza socialista. Nonostante l’apparente perfezione del sistema, il fallimento con Ryzhikov, così come quello precedente con Chobot nella Colonia Gor’kij, mise in luce una contraddizione di fondo: l’assunto che tutti gli individui, se correttamente guidati, desiderino naturalmente integrarsi nel collettivo. Makarenko non sembrò mai mettere in discussione questo principio, neanche di fronte a casi di evidente incompatibilità. Per lui, il collettivo era l’unità sociale fondamentale e l’educazione doveva servire a plasmare l’individuo nella sua immagine.
L’ingresso di Igor Chernogorski nella Comune Dzerzhinsky rappresentò una sfida aperta al sistema educativo di Makarenko. Fin dai primi momenti Igor incarnò lo spirito ribelle dell’individuo che rifiuta qualsiasi forma di costrizione collettiva. “E se non volessi lavorare?” fu il suo pensiero provocatorio, sintetizzando una filosofia di vita anarchica che vedeva nella disciplina comunitaria una forma di schiavitù inaccettabile. Il giovane, abituato alla vita randagia delle strade, approcciò la Comune con lo stesso atteggiamento opportunistico che aveva caratterizzato la sua esistenza precedente: accettava i vantaggi materiali, il cibo caldo, i vestiti puliti, un letto dignitoso, ma rifiutava categoricamente di contribuire al lavoro comune. Questo dualismo iniziale tra diritti e doveri divenne presto il terreno di uno scontro fondamentale. Quando i responsabili della Comune osarono negargli il cibo finché non avesse iniziato a lavorare (misura tecnicamente illegale secondo la legislazione sovietica), Igor tentò di reagire presentando un reclamo formale, scoprendo con sorpresa che il procedimento prevedeva un’audizione pubblica davanti all’assemblea generale dei coloni.
Quell’esperienza rappresentò la prima crepa nel suo muro di diffidenza. Mentre camminava fuori dall’edificio dopo l’udienza, continuava a criticare mentalmente “quell’orgoglio stupido per regolamenti, saluti e distintivi”, ma qualcosa aveva iniziato a smuoversi nella sua percezione. La vera svolta avvenne grazie a un dialogo illuminante con Zorin, un colono anziano che incarnava i valori della Comune. “Nessuno ti trattiene qui con la forza”, gli disse Zorin con una calma che disarmò Igor, “puoi andartene quando vuoi, soprattutto se credi di poter fare meglio altrove”. Questa semplice affermazione, che sfidava direttamente il suo orgoglio e la sua autosufficienza, costrinse Igor a porsi domande fondamentali. “Ma allora qual è il senso di tutto questo?” chiese, cercando una giustificazione razionale. La risposta di Zorin fu un capolavoro di pedagogia makarenkiana: “Il senso è che ne abbiamo bisogno. Tu mangi il nostro pane, indossi i nostri vestiti, occupi un nostro letto, eppure osi gridare ‘Non avete il diritto!’? Ma da dove pensi che vengano queste cose? Dal lavoro di tutti”. Gradualmente, osservando la vita quotidiana della Comune, Igor iniziò a percepire qualcosa di profondamente diverso dalla sua esperienza precedente. Nella sala da pranzo notò con sorpresa l’assenza totale di litigi, di toni aggressivi, di quelle tensioni che invece avevano caratterizzato la sua vita randagia. La comunità funzionava come un organismo armonioso, dove ogni individuo trovava il proprio posto in un equilibrio collettivo. Questo spettacolo di convivenza civile esercitò su di lui un fascino crescente, anche se la sua adesione rimaneva ancora intellettuale più che emotiva. Il vero banco di prova arrivò quando Igor, assegnato alla levigatura delle gambe di sedie, trovò il lavoro insensato e si rifiutò di completarlo. Portato davanti al temuto Consiglio dei Comandanti, visse momenti di intensa apprensione quando sentì avanzare l’ipotesi della sua espulsione. “Potrebbero davvero cacciarmi!” pensò con un moto di panico inaspettato, rivelando un attaccamento alla Comune che nemmeno lui sospettava. Fu allora che Zakharov (il personaggio fittizio che rappresenta Makarenko nell’opera) pronunciò le parole decisive: “L’uomo non può vivere solo. Devi imparare ad amare il collettivo, conoscerlo, comprenderne gli interessi e farli tuoi. Levigare quelle gambe oggi non ti interessa, ma è necessario per la colonia, e quindi deve diventare importante anche per te”. Questa illuminazione segnò l’inizio di una trasformazione radicale. Tornato al lavoro, Igor scoprì una nuova dimensione nella soddisfazione del dovere compiuto, nelle lodi dei compagni, nel raggiungimento degli obiettivi comuni. Senza quasi accorgersene, come annota Makarenko, “non notò neppure il momento esatto in cui il suo carattere era cambiato”. Da ribelle individualista, divenne prima comandante di distaccamento, poi segretario del Consiglio dei Comandanti, incarnando perfettamente il successo del metodo collettivista. Completamente opposta fu l’esperienza di Grisha Ryzhikov, che rappresentò il fallimento dello stesso sistema educativo. Ryzhikov dimostrò un’abilità diabolica nel simulare adattamento, assumendo tutte le forme esteriori della vita comunitaria con tale perfezione da diventare persino un comandante esemplare. Ma sotto questa maschera di conformismo, continuava a rubare sistematicamente (orologi, strumenti di precisione) rivendendoli a Kharkov e arrivando persino a manipolare la comunità per far ricadere le colpe su innocenti.
La crisi esplose quando, scoperto ubriaco durante una notte fuori dalla Comune, molti coloni difesero il suo “periodo di transizione”, dimostrando quanto fosse riuscito a ingannare la collettività. I continui furti, culminati nel furto di due cappotti, minarono irrimediabilmente la fiducia reciproca che era il fondamento della vita comunitaria. La Comune si trasformò in un campo di sospetti e accuse incrociate, dove nessuno si fidava più di nessuno. Lo smascheramento finale fu drammatico: catturato e trascinato davanti al Consiglio, Ryzhikov confessò con tono monotono non solo i furti ma anche atti di sabotaggio come l’incendio del vecchio stadio. La reazione della comunità, prima paziente e comprensiva, si trasformò in un’ondata di rabbia collettiva che dimostrò i limiti del sistema di fronte a un’individualità irriducibile. Alla fine, Makarenko dovette ricorrere alla polizia, ammettendo implicitamente il fallimento del metodo educativo in questo caso. L’epilogo delle due storie rappresenta una fondamentale ambivalenza nella pedagogia makarenkiana. Da un lato, il successo di Igor dimostrò che il collettivo poteva effettivamente trasformare gli individui attraverso una combinazione di pressione razionale, sostegno comunitario e strutturazione graduale dei comportamenti. Dall’altro, il fallimento con Ryzhikov rivelò i limiti intrinseci di un sistema che, nella sua rigidità, non sapeva affrontare le eccezioni. Significativamente, Makarenko interpretò questo fallimento come un’eccezione confermante la regola, consolidando così una visione in cui il collettivo, perfetto in teoria, doveva sempre prevalere, anche a costo di escludere chi non riusciva o non voleva adattarvisi. La lezione finale, impartita da un poliziotto alla comunità scossa dall’esperienza, sintetizzò bene questa filosofia: “Il nemico non si presenta in modo ovvio. Cerca di abbagliarvi, di conquistare la vostra fiducia”.
3. Il lascito pedagogico di Makarenko
Utilizzando il libro collettivo Makarenko “didattico” 2002-2009. Tra pedagogia e antipedagogia intendiamo fare il punto sul lascito pedagogico di Makarenko concentrando la nostra attenzione sulla dimensione del lavoro. La rivoluzione, per affermarsi, aveva dovuto conquistare il consenso delle masse popolari attraverso misure concrete come la fine della guerra, la redistribuzione delle terre ai contadini e campagne di alfabetizzazione. Senza questo sostegno diffuso l’esperienza narrata da Anton Makarenko nel Poema pedagogico non avrebbe potuto realizzarsi. Le colonie per ragazzi emarginati e delinquenti, infatti, non erano semplici istituti di rieducazione ma laboratori sociali in cui si sperimentava la costruzione di un “uomo nuovo”, capace di vivere e lavorare in una collettività socialista.
Nel contesto di grave miseria in cui lavorò all’inizio della sua esperienza si sviluppò un’economia di sussistenza che era anche etica e pedagogica. Il lavoro non era imposto come punizione perché diventava strumento di riscatto, dignità e crescita collettiva. Quando la Colonia Gor’kij nel Poema pedagogico scopre un podere abbandonato, un luogo in rovina ma ricco di potenzialità, che i coloni decisero di riabilitare con tenacia e speranza, quel “cadavere” di proprietà, distrutto dalla violenza e non dal tempo, divenne una metafora dei ragazzi stessi: apparentemente perduti ma capaci di rinascere attraverso il lavoro e la responsabilità condivisa. L’organizzazione interna della colonia fu rivoluzionaria. Makarenko introdusse i reparti fissi, strutture stabili con comandanti eletti, e soprattutto i reparti misti, gruppi temporanei formati per svolgere compiti specifici, in cui ogni ragazzo, a rotazione, assumeva il ruolo di leader. Questo sistema evitava la formazione di caste privilegiate e insegnava sia il comando che l’obbedienza, in un continuo scambio di ruoli che rafforzava il senso di appartenenza al collettivo. I ragazzi partecipavano attivamente alla pianificazione e alla gestione del lavoro, sviluppando autonomia e spirito critico. L’economia della colonia, basata su agricoltura, artigianato e piccola industria, divenne così il perno di un’educazione integrale, in cui la disciplina nasceva dalla consapevolezza del proprio ruolo nella comunità.
L’obiettivo di Makarenko era formare individui capaci di contribuire attivamente alla società socialista. La colonia divenne un modello di democrazia operativa, dove le decisioni venivano prese in assemblee collettive e l’autorità era esercitata in modo dinamico e partecipativo. Attraverso esperienze concrete, come l’allevamento di maiali o l’introduzione di tecniche agricole innovative, i ragazzi imparavano il valore del lavoro, della cooperazione e dell’innovazione. La figura dell’”uomo nuovo” non era un’astrazione ideologica ma il risultato di un percorso educativo che univa pratica e teoria, impegno individuale e solidarietà. Il Poema pedagogico di Anton Makarenko rappresenta una monumentale testimonianza del potere trasformativo del lavoro nell’educazione dei giovani emarginati, un’opera che travalica i confini del semplice manuale pedagogico per diventare un vero e proprio romanzo di formazione collettiva. Nella colonia Gor’kij Makarenko sviluppa una filosofia educativa rivoluzionaria che fa del lavoro strumento di redenzione individuale e fulcro di una vera e propria rigenerazione sociale. Il lavoro inizialmente viene affrontato con goffaggine e resistenza dai membri della colonia. Un momento emblematico è lo scontro tra Kalina Ivanovič e i ragazzi durante l’aratura. L’anziano, osservando i loro maldestri tentativi, li deride come incapaci, scatenando una reazione di orgoglio ferito che però contiene già i germi del cambiamento. Questo episodio, apparentemente minore, rivela una verità fondamentale nel pensiero di Makarenko: il lavoro è anzitutto una questione di dignità e la competenza tecnica ne rappresenta il presupposto indispensabile. La figura di Sofron Golovan’, il fabbro kulak dalla straordinaria abilità manuale, incarna perfettamente questo principio. Nonostante le sue origini socialmente sospette, Sofron viene rispettato per le sue capacità concrete, dimostrando che nella nuova società socialista ciò che conta non è l’estrazione sociale ma il contributo reale alla collettività. Attorno a personaggi come lui si sviluppa gradualmente un’atmosfera nuova. La fucina, inizialmente un luogo di fatica, diventa presto uno spazio di creatività dove il ritmo allegro dell’incudine si mescola alle risate dei ragazzi. Makarenko descrive con straordinaria vivacità questa trasformazione, mostrando come il lavoro manuale, dalla falegnameria alla costruzione di arnie, diventi per i ragazzi mezzo di sussistenza e fonte di autostima e identità. Particolarmente significativo è il caso di Mitjagin, il ladro pentito che scopre nella precisione del lavoro artigianale una soddisfazione più profonda di quella del furto. Attraverso decine di episodi simili, l’autore dimostra come il lavoro organizzato possa sostituirsi alla delinquenza offrendo alternative più gratificanti. L’organizzazione del lavoro nella colonia raggiunge il suo apice con l’introduzione dei reparti misti, un sistema rivoluzionario in cui ogni ragazzo sperimenta a rotazione sia il ruolo di esecutore che quello di comandante. Questo meccanismo, apparentemente semplice, ha conseguenze profonde perché dissolve le gerarchie rigide, sviluppa la capacità di assumere responsabilità e soprattutto trasforma il lavoro da imposizione esterna a scelta consapevole. La descrizione delle assemblee in cui si pianificano i compiti settimanali è una delle pagine più illuminanti dell’opera, mostrando come la democrazia operaia possa nascere dalla pratica concreta piuttosto che da astratti principi ideologici. Il tema del salario completa questo quadro pedagogico. Per Makarenko la retribuzione non è un semplice incentivo economico ma uno strumento educativo fondamentale. Attraverso di essa i ragazzi imparano a gestire risorse, a pianificare il futuro, a comprendere il valore sociale del loro impegno. In una scena particolarmente significativa, alcuni coloni discutono animatamente su come investire i primi guadagni, dimostrando una maturità impensabile solo mesi prima. La festa per l’inaugurazione della seconda colonia rappresenta il punto culminante di questa trasformazione. Ciò che colpisce gli ospiti non è tanto l’aspetto materiale delle nuove costruzioni, quanto l’atteggiamento dei ragazzi, ormai diventati giovani lavoratori capaci di organizzarsi con disciplina e allegria. La scritta sul portale, “E pianteremo sulla terra la rossa bandiera del lavoro!”, non è più una vuota frase ideologica ma l’espressione concreta di un’esperienza vissuta. Tuttavia Makarenko non cade mai nell’idealizzazione. Le pagine finali del poema mostrano come il percorso educativo sia costellato di errori, ripensamenti, momenti di crisi. La stessa introduzione delle ragazze nella colonia, rappresentata dal dialogo commovente con Vera, rivela quanto sia complesso conciliare le aspirazioni individuali con le esigenze collettive. Le critiche rivolte al metodo di Makarenko da parte di alcuni pedagoghi ortodossi, che lo accusano di enfatizzare troppo il “dovere”, vengono implicitamente confutate dall’intera narrazione: nella colonia Gor’kij, il dovere non è un’imposizione esteriore ma il frutto maturo di una scelta consapevole. La sua concezione del lavoro non si limita a una semplice attività produttiva o a un dovere sociale, in quanto assume una dimensione profondamente educativa, morale e persino civilizzatrice. Per Makarenko il lavoro è il fondamento stesso della vita umana, il motore del benessere individuale e il cardine del progresso sociale. Attraverso il lavoro l’uomo non solo si sostenta materialmente ma plasma il proprio carattere, sviluppa la propria personalità e contribuisce attivamente alla costruzione di una società più giusta e solidale. La visione makarenkiana del lavoro si distingue per la sua natura collettiva e creativa. Egli ritiene che il lavoro, per essere veramente educativo, debba essere svolto in un contesto comunitario, dove l’individuo non agisce isolatamente ma in stretta collaborazione con gli altri. Makarenko insiste particolarmente sul concetto di “lavoro creativo”, ovvero un’attività che non sia meccanica o ripetitiva, ma che stimoli l’iniziativa personale, l’ingegno e la capacità di risolvere problemi. In questo modo il lavoro diventa un’espressione della personalità e uno strumento di autorealizzazione. L’educatore, in tale contesto, ha il compito di guidare i giovani verso un approccio attivo e propositivo nei confronti del lavoro, incoraggiandoli a vederlo come un’opportunità per contribuire al bene comune e, al tempo stesso, per sviluppare le proprie potenzialità. Un altro aspetto cruciale della pedagogia del lavoro in Makarenko è il suo legame indissolubile con la dimensione etica. Il lavoro collettivo, infatti, è anche un mezzo per formare cittadini moralmente integri. Attraverso l’esperienza concreta della cooperazione, i giovani imparano valori fondamentali come la solidarietà, il rispetto per il prossimo, l’equità e la condanna dell’ozio e dello sfruttamento. Makarenko arriva a sostenere che solo chi partecipa attivamente al lavoro collettivo può sviluppare un autentico senso di giustizia e un atteggiamento positivo verso gli altri membri della società. Nei suoi Consigli ai genitori Makarenko estende queste riflessioni anche all’ambito familiare, esortando madri e padri a non trascurare l’educazione al lavoro nella crescita dei figli. Secondo lui, un’infanzia priva di stimoli lavorativi, intesi non come sfruttamento minorile, ma come occasioni di impegno proporzionato all’età, rischia di formare individui egoisti, incapaci di affrontare le difficoltà della vita e privi di un solido senso di responsabilità verso la comunità. Al contrario, abituare i bambini a compiti pratici, anche semplici, li prepara a diventare adulti autonomi e consapevoli del proprio ruolo nella società. Il tema del lavoro nella pedagogia di Makarenko si lega a quello, altrettanto fondamentale, della felicità. Per Makarenko la felicità non è un’astrazione metafisica né un traguardo individualistico ma una condizione concreta e collettiva, strettamente legata alla realizzazione dell’uomo nel mondo reale. La sua idea di felicità è intrinsecamente mondana, priva di finalità trascendenti, perché per lui l’esistenza umana trova il suo significato nell’impegno terreno, nella lotta contro le avversità e nella costruzione di una vita migliore attraverso la collaborazione sociale. In una lettera del 1938 a un ex-allievo Makarenko riflette sul senso della vita, respingendo l’idea che essa debba avere un “fine” assoluto o predeterminato. Per lui la ricerca di un obiettivo ultimo è un falso problema: la vita ha valore in sé, nella sua immediatezza e nella sua dinamica di lotta, creatività e solidarietà. L’uomo non vive per un destino prestabilito ma per essere felice qui e ora, in un orizzonte collettivo che supera l’individualismo. Il socialismo rappresenta il culmine di questa evoluzione storica verso forme sempre più avanzate di cooperazione, dove la felicità individuale si fonde con il benessere comune. La morte stessa, spesso temuta come una tragica conclusione, è accettata da Makarenko come parte naturale dell’esistenza, senza che questo sminuisca il valore della vita, anzi, è proprio nella consapevolezza della finitezza che l’uomo impara a dare pieno significato al presente, lottando per un futuro migliore senza cadere in illusioni metafisiche. Questa filosofia si traduce in una pedagogia orientata alla felicità concreta. Makarenko critica l’educazione tradizionale per aver trascurato questo aspetto, concentrandosi solo sulla formazione di lavoratori o cittadini obbedienti. Al contrario, egli sostiene che l’educazione deve avere come obiettivo primario la felicità dell’individuo, intesa come capacità di vivere con gioia, dignità e partecipazione attiva alla società. I genitori, come gli educatori, devono preoccuparsi non solo del successo materiale dei figli ma della loro realizzazione umana integrale. La felicità, però, non si insegna con prediche astratte, si costruisce attraverso esperienze concrete, abitudini, valori condivisi e soprattutto attraverso la prospettiva di un futuro migliore.
Proprio il concetto di “prospettiva” è cruciale nel sistema educativo di Makarenko. Le prospettive rappresentano la tensione continua verso un domani più ricco di possibilità che alimenta l’entusiasmo e l’impegno quotidiano. Senza questa spinta verso l’infinito, inteso non in senso religioso, ma come desiderio di miglioramento perpetuo, il lavoro e la disciplina rischiano di diventare meccanici e privi di slancio vitale. Makarenko vuole che i giovani vivano con passione, sentendo ogni giorno la bellezza della lotta e della costruzione collettiva. La felicità, quindi, non è uno stato di appagamento statico, ma un processo dinamico, fatto di sfide, conquiste e soprattutto di condivisione. La rivoluzione sovietica è vista da Makarenko come la realizzazione storica di queste possibilità, garantendo a tutti i cittadini il diritto alla felicità attraverso un ordine sociale giusto. Tuttavia la sua visione non è acriticamente ottimista. Egli sa che la felicità richiede impegno, disciplina e soprattutto un’educazione che formi caratteri forti, capaci di affrontare le difficoltà senza perdere la speranza. La vera felicità, per Makarenko, risiede nell’equilibrio tra realizzazione personale e contributo al bene comune, tra l’orgoglio individuale e la gioia di far parte di un progetto più grande. La sua pedagogia è un inno alla vita nella sua pienezza terrena, una vita che, pur nella sua finitezza, può essere “meravigliosa” proprio perché libera da dogmi e aperta alla continua creazione collettiva del futuro.