Come si lavora nel settore privato in Italia?

Questo mese vogliamo dedicare quattro saggi al problema del lavoro povero in Italia. Prima di procedere con analisi più specifiche sul lavoro povero, però, vogliamo utilizzare il libro collettivo Inchiesta sul lavoro. Condizioni e aspettative per fare il punto della situazione sul lavoro nel settore privato nel nostro paese. Questo lavoro della CGIL, come dice Francesco Sinopoli, presidente della Fondazione Di Vittorio, è pensato come uno strumento per ricostruire una rete di potere democratico a partire dalle trasformazioni del lavoro e dalla sua organizzazione. La sua analisi prende le mosse da un dialogo promosso nel 2021, durante la fase più acuta della pandemia, tra il sociologo Alain Touraine, il segretario generale della CGIL Maurizio Landini e un gruppo di ricercatori vicini alla Fondazione. In quel contesto inedito, segnato da profonde incertezze, si è avvertita l’esigenza di fare un bilancio critico degli ultimi trent’anni, ripartendo dall’analisi dei processi economici e sociali che hanno ridefinito il mondo del lavoro. Sinopoli sottolinea come la sociologia del lavoro, rappresentata da studiosi come Touraine, Aris Accornero, Alessandro Pizzorno e Luciano Gallino, abbia offerto strumenti fondamentali per interpretare le crisi ricorrenti delle democrazie occidentali. Attraverso il metodo dell’inchiesta i ricercatori hanno permesso alle organizzazioni sindacali di sviluppare una visione autonoma dei cambiamenti in atto, contribuendo alla formazione di una coscienza collettiva tra i lavoratori. Questo approccio ha radici storiche ben precise perché già negli anni ‘60 e ‘70 le grandi inchieste operaie, condotte in collaborazione tra sociologi, sindacalisti e lavoratori, avevano portato alla luce dinamiche cruciali, dall’organizzazione del lavoro alle condizioni di sicurezza, diventando un motore per le lotte che avrebbero democratizzato i rapporti di produzione e, di conseguenza, la società italiana nel suo complesso. Proprio in quel clima di mobilitazione, nel 1979, su impulso di Bruno Trentin, la CGIL fondò l’IRES (Istituto di Ricerche Economiche e Sociali), poi confluito nella Fondazione Di Vittorio con l’obiettivo di strutturare un’attività di ricerca capace di sostenere l’azione sindacale attraverso un’analisi rigorosa e interdisciplinare. Secondo Sinopoli questa tradizione di ricerca-intervento rimane oggi più che mai attuale, in un’epoca in cui il sindacato è chiamato a interpretare trasformazioni epocali, dalla digitalizzazione alla transizione ecologica, senza perdere il legame con i bisogni concreti dei lavoratori. L’inchiesta presentata da Sinopoli rivela alcune priorità emerse chiaramente dalle richieste dei lavoratori. In primo luogo la questione salariale, strettamente connessa alla formazione e al superamento della precarietà. I dati citati sono inequivocabili perché tra il 1990 e il 2020, l’Italia è stato l’unico paese avanzato in cui il potere d’acquisto dei salari è diminuito (-2,9%) mentre nella media OCSE è cresciuto del 18,4% e nell’Eurozona del 22,6%. Questo declino è il risultato di un modello economico basato sulla compressione dei costi del lavoro, favorito da un quadro normativo, a partire dagli anni ‘90, che ha legittimato la precarietà e indebolito la contrattazione collettiva. La stagnazione salariale ha avuto effetti devastanti visto che ha ridotto la domanda interna, scoraggiato gli investimenti in innovazione e consolidato una specializzazione produttiva a basso valore aggiunto, descritta da Ulrich Beck come una “brasilianizzazione” del mercato del lavoro. La proposta di un salario minimo legale (almeno 9 euro l’ora) rappresenta, secondo Sinopoli, un primo passo per invertire questa tendenza ma deve essere inserita in una strategia più ampia. Servono misure per garantire l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi (come previsto dall’articolo 39 della Costituzione), per contrastare i contratti pirata e per estendere i diritti sindacali ai lavoratori parasubordinati. La battaglia per i salari, insomma, non è solo una questione economica ma un tassello fondamentale della democrazia stessa perché quando il lavoro viene trattato come una merce e privato di soggettività, anche le istituzioni democratiche si indeboliscono. Un altro tema cruciale emerso dall’inchiesta è la richiesta di formazione e di maggiore autonomia nell’organizzazione del lavoro. Sinopoli richiama le riflessioni di Bruno Trentin sul legame tra lavoro e conoscenza. La dignità del lavoratore passa anche attraverso il riconoscimento della sua professionalità e della sua capacità di decidere sul proprio lavoro. Questo principio, già al centro delle lotte operaie del Novecento, come testimoniano autori come Barrington Moore, Vittorio Foa e Zygmunt Bauman, è oggi ancora più attuale di fronte alle sfide poste dall’automazione e dalla transizione ecologica. Eppure, negli ultimi decenni, gli investimenti in ricerca e sviluppo sono crollati mentre lo smantellamento dell’IRI e dei suoi laboratori ha privato il paese di un motore essenziale per l’innovazione. Senza una radicale inversione di rotta il declino italiano rischia di aggravarsi. Serve un nuovo modello di sviluppo che ponga al centro la giustizia sociale e ambientale, abbandonando l’illusione di una crescita infinita in un mondo dalle risorse limitate. Ma questa transizione sarà possibile solo se i lavoratori avranno voce in capitolo, se i diritti sociali torneranno a essere considerati inviolabili e se il sindacato saprà costruire alleanze con altri movimenti. Sinopoli riprende l’idea di Bruno Trentin di una “rete di potere democratico”, capace di unire lotte sindacali e battaglie per i diritti civili, per difendere la Costituzione e costruire una società più giusta. La posta in gioco è alta, infatti si tratta di ribadire, contro ogni riduzionismo mercantile, che il lavoro non è una merce ma l’espressione della dignità della persona e che senza giustizia sociale non può esserci vera democrazia. Daniele Di Nunzio, responsabile dell’Area Ricerca della Fondazione Di Vittorio e coordinatore scientifico dell’Inchiesta nazionale sulle condizioni e le aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori, riflette sul ruolo strategico dell’inchiesta sociale come strumento di conoscenza e azione per il movimento sindacale contemporaneo. La ricerca presentata, come ha già detto Sinopoli, si colloca all’interno di una lunga e consolidata tradizione di indagini sul campo che hanno storicamente accompagnato l’evoluzione del sindacalismo italiano, costituendo un ponte fondamentale tra analisi scientifica e pratica sindacale. L’autore ricostruisce con precisione metodologica il percorso storico delle inchieste operaie in Italia, partendo dalle pionieristiche esperienze degli anni ‘60 quando, sull’onda dei processi di industrializzazione e delle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, il movimento sindacale avvertì l’esigenza di dotarsi di strumenti conoscitivi autonomi per contrastare il monopolio padronale sulle informazioni riguardanti i processi produttivi. In quel periodo cruciale, figure intellettuali come Raniero Panzieri, Romano Alquati e Vittorio Rieser, attraverso i Quaderni rossi, elaborarono il metodo della conricerca che vedeva i lavoratori non come semplici oggetti di studio ma come soggetti attivi nel processo di produzione della conoscenza. Parallelamente nascevano riviste specializzate come Quaderni di Rassegna Sindacale e Inchiesta che contribuirono a creare un solido ponte tra mondo accademico e movimento operaio. L’inchiesta del libro si inserisce in questa tradizione ma si confronta con un contesto profondamente mutato, caratterizzato dalla fine del paradigma fordista e dall’affermarsi di un’economia reticolare e flessibile. Di Nunzio sottolinea come la ricerca odierna debba fare i conti con una realtà lavorativa estremamente frammentata, dove accanto alle tradizionali figure operaie convivono lavoratori della conoscenza, professionisti autonomi ad alta qualifica, lavoratori delle piattaforme digitali e una miriade di altre figure professionali che sfuggono alle tradizionali categorie di analisi. Proprio per cogliere questa complessità l’inchiesta adotta un approccio multidimensionale che combina analisi tematiche trasversali (salari, genere, salute, organizzazione del lavoro) con approfondimenti settoriali specifici (dall’agroindustria al credito, dalla metalmeccanica ai servizi pubblici). Particolare attenzione viene dedicata alle metodologie di rilevazione e alle innovazioni introdotte rispetto alle precedenti esperienze. L’autore ricorda come nel 2005, in occasione del centenario della CGIL, fosse stata condotta un’indagine su 6.015 lavoratori che aveva già evidenziato la crescente polarizzazione tra lavoratori stabili e professionalizzati da un lato e lavoratori precari e dequalificati dall’altro. Ancora più significativa appare l’inchiesta della FIOM del 2008, che con ben 96.607 questionari raccolti aveva documentato l’impatto dei nuovi modelli produttivi flessibili sulle condizioni di lavoro, registrando un preoccupante aumento dello stress e dell’insicurezza occupazionale. Uno dei punti di forza dell’attuale inchiesta risiede nella sua capacità di cogliere le trasformazioni più recenti, come quelle legate all’introduzione del sistema WCM (World Class Manufacturing) nelle grandi aziende industriali. Le ricerche condotte negli stabilimenti FCA e CNH (con 9.668 questionari nel 2019) hanno dimostrato come questi modelli organizzativi, pur presentandosi come innovativi, abbiano spesso determinato un peggioramento delle condizioni lavorative, con ritmi più intensi, maggiore stress e minori margini di partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali. Di Nunzio dedica particolare attenzione anche alle nuove forme di lavoro autonomo e professionale, citando le inchieste realizzate tra il 2016 e il 2018 sul cosiddetto “professionismo autonomo ad alta qualifica”, che hanno permesso al sindacato di avviare un dialogo con categorie tradizionalmente difficili da organizzare. Allo stesso modo, le indagini sul lavoro agile durante la pandemia (come quella condotta tra gli insegnanti e il personale tecnico-amministrativo universitario) hanno fornito dati preziosi per comprendere gli effetti del remote working sulla qualità del lavoro e sulla vita delle persone. L’analisi dei risultati evidenzia alcune tendenze trasversali che caratterizzano il mondo del lavoro contemporaneo: la centralità della questione salariale, il persistente rischio di precarizzazione, il crescente bisogno di formazione continua e la richiesta di un maggior coinvolgimento nei processi decisionali che riguardano l’organizzazione del lavoro. Tuttavia emerge con chiarezza come queste problematiche assumano connotazioni profondamente diverse a seconda dei settori, delle professioni e delle condizioni contrattuali, richiedendo al sindacato una capacità di analisi e intervento sempre più differenziata. L’inchiesta si rivela così un osservatorio privilegiato per comprendere le contraddizioni del presente e individuare le possibili vie d’uscita: dalla lotta contro la precarietà alla riconquista di salari dignitosi, dalla difesa della salute nei luoghi di lavoro alla rivendicazione di un ruolo attivo dei lavoratori nei processi di innovazione tecnologica e transizione ecologica. La scelta di un campione “aperto”, sebbene non probabilistico, ha permesso di intercettare una platea estremamente diversificata, pur con alcune inevitabili limitazioni nella rappresentatività di alcune categorie particolarmente marginali o difficili da raggiungere attraverso i canali sindacali tradizionali. La costruzione del questionario, articolato in 53 domande e somministrato sia online che in formato cartaceo tra maggio e settembre 2022, è stata il frutto di un complesso lavoro collegiale che ha visto la partecipazione attiva di tutte le categorie della CGIL attraverso un articolato sistema di comitati di pilotaggio nazionali e territoriali. I dati emersi dipingono un quadro preoccupante delle condizioni lavorative contemporanee, caratterizzato da un’intensificazione generalizzata dei ritmi e dei carichi di lavoro. Quasi il 40% degli intervistati deve confrontarsi regolarmente con scadenze temporali insostenibili mentre oltre un terzo denuncia carichi di lavoro eccessivi e ritmi insostenibili. Particolarmente significativo risulta il fenomeno degli straordinari non retribuiti, che riguarda il 14,4% del campione in modo sistematico e che si manifesta trasversalmente in settori e professionalità molto diverse, dall’agricoltura al terziario avanzato. Questo dato, unito alla diffusa percezione di un peggioramento delle condizioni lavorative post-pandemico (il 23% degli intervistati ha visto aumentare il proprio orario senza corrispondenti aumenti retributivi), delinea un mercato del lavoro sempre più caratterizzato da rapporti di forza squilibrati a favore delle imprese. La questione salariale emerge in tutta la sua drammaticità. Quasi la metà del campione (45%) dichiara un reddito netto annuo compreso tra i 15.000 e i 25.000 euro, con un preoccupante gender gap che vede il 53,8% delle donne contro il 30,7% degli uomini concentrarsi sotto la soglia dei 20.000 euro annui. Queste disparità permangono anche a parità di condizioni contrattuali, suggerendo l’esistenza di meccanismi discriminatori profondamente radicati nel sistema. La stagnazione salariale appare ancor più grave se letta in connessione con i dati sulla formazione professionale. Il 38% degli intervistati non ha avuto accesso ad alcuna attività formativa nel 2021 mentre un quarto si trova in condizioni di sotto-inquadramento, svolgendo mansioni superiori al proprio livello contrattuale senza adeguato riconoscimento economico o professionale. L’analisi delle condizioni psico-fisiche dei lavoratori rivela problemi muscolo-scheletrici (67,6%) e livelli elevati di stress (65,5%) che appaiono endemici, con picchi particolarmente acuti nei servizi socio-sanitari (68,7%) e nel commercio (65,3%). Solo una minoranza (24,4%) giudica adeguate le misure di prevenzione nella propria azienda, denunciando una preoccupante sottovalutazione dei rischi lavorativi da parte delle imprese. Le prospettive future non appaiono più rosee. La stragrande maggioranza degli intervistati (68,6%) teme riduzioni del personale mentre quote significative paventano delocalizzazioni (17,8%) o addirittura chiusure di attività (17,4%). L’indagine coglie con grande finezza le ambivalenze del rapporto tra lavoratori e innovazione tecnologica. Se da un lato una maggioranza relativa (59,1%) ritiene che la tecnologia possa migliorare le condizioni lavorative, una quota significativa (33,8%) teme invece un’ulteriore intensificazione dei ritmi. Il lavoro agile (o smart working), sperimentato dal 21% del campione, mostra effetti contrastanti con una parte degli intervistati (18,1%) che ne apprezza i benefici e vorrebbe mantenerlo o estenderlo mentre emergono al tempo stesso significativi divari nell’accesso a questa modalità lavorativa, fortemente condizionati da fattori come il livello di istruzione, il tipo di contratto e il settore professionale di appartenenza. Le assemblee aziendali si confermano come il principale momento di partecipazione sindacale (coinvolgendo quasi metà dei rispondenti) ma al tempo stesso emerge una preoccupante distanza tra il sindacato e alcune fasce di lavoratori: il 29,4% dei non iscritti dichiara di non conoscere le attività sindacali, percentuale che sale al 48% tra i più giovani. Particolarmente interessante è la differenziazione nelle motivazioni all’iscrizione. Tra i rappresentanti sindacali prevale una visione universalistica del sindacato (“per affermare diritti e tutele per tutti”, 42,4%), tra i semplici iscritti emerge maggiormente una prospettiva individuale (“per tutelare i miei diritti”, 42,3%). Uno dei dati più significativi dell’intera indagine riguarda l’impatto della contrattazione aziendale sulle condizioni retributive. Nei luoghi di lavoro dove è presente un accordo di secondo livello la percentuale di lavoratori con redditi superiori ai 35.000 euro annui netti (70%) è tre volte superiore a quella riscontrata tra i lavoratori con redditi inferiori a 15.000 euro (23%). Questo dato, più di qualsiasi analisi teorica, dimostra il valore concreto dell’azione sindacale e della rappresentanza collettiva nella vita delle lavoratrici e dei lavoratori. La sfida che emerge dai dati è quella di coniugare la tradizionale attenzione alle disuguaglianze strutturali con una rinnovata capacità di interpretare e rappresentare le nuove forme di frammentazione e precarizzazione, costruendo risposte innovative che sappiano tenere insieme la difesa dei diritti universali e l’attenzione alle specificità dei diversi contesti lavorativi. L’inchiesta offre una panoramica estremamente dettagliata e articolata anche delle aspettative delle lavoratrici e dei lavoratori italiani nei confronti dell’azione sindacale, rivelando un quadro complesso che riflette le profonde trasformazioni del mondo del lavoro nell’era post-fordista. Accanto a rivendicazioni tradizionali e trasversali emergono nuove esigenze legate alla crescente frammentazione e precarizzazione del lavoro. Al centro delle preoccupazioni dei lavoratori si conferma in modo schiacciante la questione salariale che si manifesta come vero e proprio filo rosso capace di unire generazioni e categorie professionali diverse. Un impressionante 68,5% degli intervistati indica l’inquadramento e la retribuzione come priorità assoluta per la contrattazione aziendale, dato che trova perfetta corrispondenza a livello nazionale dove il 68% chiede con forza un intervento sindacale per l’aumento dei salari. Questa convergenza tra livello aziendale e nazionale dimostra come la stagnazione salariale degli ultimi decenni rappresenti ormai una ferita sociale aperta, capace di condizionare profondamente la vita materiale dei lavoratori e le prospettive del sistema economico nel suo complesso. Accanto alla centralità della questione retributiva, l’inchiesta rivela una costellazione di altre priorità che disegnano una mappa articolata dei bisogni del mondo del lavoro contemporaneo. La formazione professionale emerge come seconda voce in classifica (29,4%), segnalando l’esigenza di migliorare le proprie competenze e di contrastare fenomeni diffusi di dequalificazione e sotto-inquadramento (un quarto degli intervistati dichiara di svolgere mansioni superiori al proprio livello contrattuale senza adeguato riconoscimento). A seguire troviamo la richiesta di stabilizzazione del personale (27,7%) e la riduzione dei carichi di lavoro (25,9%), due facce della stessa medaglia che riflettono l’impatto della precarizzazione e dell’intensificazione dei ritmi produttivi. La contrattazione nazionale si conferma come livello privilegiato di intervento sindacale per il 62,8% dei rispondenti ma il dato più sorprendente riguarda il forte interesse per la dimensione internazionale (33,4%) che supera addirittura la contrattazione territoriale. Questo risultato sembra riflettere una crescente consapevolezza dei rischi posti dalla globalizzazione, dal dumping salariale e dal potere delle multinazionali, suggerendo che i lavoratori italiani avvertono sempre più la necessità di risposte sindacali che superino i confini nazionali. Particolarmente significativo è anche il dato sulla contrattazione di appalto, sito e filiera (8,3%), che raggiunge picchi del 20% tra i lavoratori della pubblica amministrazione in appalto e del 31% nel settore delle pulizie e mense, dimostrando come la frammentazione produttiva generi bisogni specifici in determinati comparti. L’analisi dei servizi sindacali richiesti offre uno spaccato ancora più dettagliato dei bisogni concreti che attraversano il mondo del lavoro. Assistenza legale e nelle vertenze (45,1%) e supporto al reinserimento lavorativo (44,7%) si contendono il primo posto, seguite da assistenza fiscale/contabile e servizi sociali. Questa classifica rivela come accanto alle tradizionali funzioni di rappresentanza, i lavoratori chiedano al sindacato di essere sempre più un presidio di welfare e di supporto concreto nelle transizioni lavorative. Tra i lavoratori atipici, emergono con particolare forza le richieste di assistenza legale (36,8%) e per l’indennità di disoccupazione (36,2%), a testimonianza della maggiore vulnerabilità di queste categorie e della loro necessità di tutele specifiche. La fotografia che emerge dall’inchiesta mostra dunque un mondo del lavoro attraversato da tensioni opposte: da un lato la persistenza di bisogni universali e trasversali (salari dignitosi, stabilità, formazione), dall’altro l’emergere di esigenze sempre più differenziate legate a specifici contesti settoriali, generazionali e professionali. Le donne, i giovani e i migranti appaiono come categorie particolarmente esposte, sia in termini retributivi che di opportunità di rappresentanza sindacale. Allo stesso tempo, settori come il terziario avanzato o il lavoro agile pongono sfide completamente nuove alla tradizionale azione sindacale. La sfida per le organizzazioni sindacali appare dunque duplice, mantenere salda la capacità di rappresentare istanze collettive e universalistiche, sviluppando al contempo strumenti flessibili per intercettare e rispondere alla crescente diversificazione delle condizioni lavorative. L’inchiesta suggerisce la necessità di un approccio “reticolare” all’azione sindacale, capace di coniugare diversi livelli di contrattazione (dall’azienda alla dimensione internazionale) e diverse modalità di intervento (dalla vertenza tradizionale ai servizi di supporto individuale). 

  1. Prospettiva generale

Francesca Carrera e Cristina Oteri analizzano i persistenti divari di genere nel mercato del lavoro italiano mettendo in luce sia i progressi compiuti negli ultimi anni sia le sfide ancora aperte che richiedono interventi strutturali e culturali. Nonostante un lieve miglioramento nella partecipazione femminile al mercato del lavoro, i dati mostrano una situazione ancora fortemente squilibrata tra uomini e donne, con differenze territoriali e generazionali che accentuano ulteriormente queste disparità. In Italia il tasso di occupazione femminile (20-64 anni) si attesta al 55%, ben al di sotto di quello maschile (74,7%), con un divario che è addirittura aumentato di 0,5 punti percentuali tra il 2021 e il 2022, passando da 19,2 a 19,7 punti. Questo dato riflette una dinamica preoccupante perché mentre l’occupazione maschile è cresciuta più rapidamente (+2,3 punti percentuali), quella femminile è avanzata a un ritmo più lento (+1,8 punti). La situazione è particolarmente critica nel Mezzogiorno, dove solo una donna su tre risulta occupata, evidenziando un divario territoriale che si somma a quello di genere. Parallelamente il tasso di mancata partecipazione al lavoro (che include disoccupati e inattivi disponibili a lavorare) è significativamente più alto tra le donne (19,6%) rispetto agli uomini (13,5%), confermando che la forza lavoro femminile è ancora ampiamente sottoutilizzata, soprattutto nelle regioni meridionali. A livello internazionale l’Italia si posiziona in una situazione poco lusinghiera. Nel 2023 il Global Gender Gap Report del World Economic Forum ha collocato il Paese al 79° posto su 146, con un netto peggioramento rispetto all’anno precedente (-13 posizioni). Questo declino è dovuto alle persistenti criticità nell’istruzione e nel mercato del lavoro. Eppure la parità di genere non è solo una questione di equità sociale ma anche un fattore determinante per la crescita economica. Diversi studi citati (tra cui Inapp 2018, Ferrera 2008, Di Profeta 2022) dimostrano che il mancato utilizzo del potenziale femminile nel mercato del lavoro comporta una perdita significativa in termini di produttività e sviluppo economico. Nonostante le donne abbiano ormai superato gli uomini in termini di livello di istruzione (il 33,8% delle donne tra i 30 e i 34 anni è laureata, contro il 27,4% degli uomini), permangono forti squilibri nella scelta dei percorsi formativi. Le donne sono ancora sottorappresentate nelle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) che offrono maggiori opportunità occupazionali e retributive: solo il 17,6% delle laureate tra i 24 e i 35 anni ha un titolo in questi ambiti, contro il 33,7% degli uomini. Questo divario inizia già dai banchi di scuola, dove le ragazze tendono a essere indirizzate verso percorsi umanistici o sociali, spesso a causa di stereotipi di genere radicati. Anche nel mercato del lavoro le donne incontrano numerosi ostacoli, a cominciare dalla segregazione occupazionale. Sono sovrarappresentate in settori a bassa retribuzione (come i servizi alla persona, l’istruzione e la sanità) e sottorappresentate in ruoli dirigenziali e tecnico-scientifici. Inoltre le lavoratrici sono più esposte a forme di lavoro precario e atipico: il part-time riguarda il 30% delle occupate, contro il 9% degli uomini, e di queste, ben il 16,5% lo svolge involontariamente (a fronte del 5,6% degli uomini). Se da un lato il part-time può facilitare la conciliazione tra lavoro e vita familiare, dall’altro spesso si traduce in minori opportunità di carriera, retribuzioni più basse e pensioni più esigue, contribuendo a un circolo vizioso di disuguaglianza. Uno dei fattori che più influisce sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro è il carico sproporzionato di lavoro domestico e di cura che grava sulle donne. L’indice di asimmetria, che misura la quota di lavoro non retribuito svolto dalle donne nelle coppie in cui entrambi i partner lavorano, si attesta al 61,6%, con picchi del 67,5% nel Mezzogiorno. Sebbene questo dato sia in lento miglioramento (era del 71,9% nel 2009), dimostra che la divisione dei ruoli all’interno delle famiglie rimane fortemente sbilanciata. La maternità, in particolare, rappresenta ancora un forte ostacolo all’occupazione femminile. Le donne con figli sotto i 6 anni hanno un tasso di occupazione del 55,5%, contro il 76,6% di quelle senza figli. Al Sud, questa percentuale crolla al 38%, evidenziando come la carenza di servizi per l’infanzia e di politiche di conciliazione penalizzi ulteriormente le donne nelle regioni più svantaggiate. Anche il gender pay gap rimane una questione irrisolta. Sebbene in Italia sia inferiore alla media europea (4,2% contro il 13%), questo dato non tiene conto di fattori come il livello di istruzione, il ruolo ricoperto o l’anzianità lavorativa. Un indicatore più completo, il Gender Overall Earnings Gap, che considera anche le ore lavorate e il tasso di occupazione, rivela una disparità molto più ampia: 43% in Italia contro il 36,2% della media UE. Le donne, infatti, non solo guadagnano meno all’ora ma lavorano anche meno ore retribuite a causa del part-time e hanno minori probabilità di essere occupate. Le lavoratrici risultano fortemente concentrate in settori e professioni tradizionalmente considerati “femminili”, come i lavori d’ufficio (42,2% delle donne contro il 17,8% degli uomini), i servizi socio-sanitari e di cura alla persona (12,5% vs 3,3%) mentre sono quasi assenti in ruoli operativi specializzati e significativamente sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali (solo il 3% delle donne raggiunge questi livelli contro il 6% degli uomini). Questa segregazione professionale si traduce in una maggiore concentrazione femminile in imprese di piccole dimensioni, caratterizzate da bassi livelli di innovazione tecnologica (47,7% delle donne lavora in aziende poco innovative contro il 38,7% degli uomini) e scarsa attenzione alla sostenibilità ambientale (46,7% vs 48,5%). Si tratta di realtà aziendali più fragili e vulnerabili alle fluttuazioni del mercato, come dimostrato anche dall’impatto differenziato della pandemia che ha colpito in misura maggiore i settori a prevalenza femminile, dando vita al fenomeno della cosiddetta “she-cession”. La precarietà contrattuale rappresenta un altro nodo cruciale dell’analisi. I dati rivelano che solo il 58,3% delle intervistate gode di un lavoro stabile a tempo pieno, contro una percentuale significativamente più elevata tra gli uomini (84,7%). Al contrario, il 15,7% delle donne ha contratti atipici (con picchi del 23,3% nel Mezzogiorno), rispetto al 10,2% dei colleghi maschi. Particolarmente significativo è il fatto che questa precarietà colpisce in misura maggiore le giovani under 34 ma raggiunge il divario più ampio nella fascia d’età 35-49 anni (7,5 punti percentuali di differenza), fase cruciale per lo sviluppo professionale che spesso coincide con il periodo della maternità. Inoltre, tra coloro che hanno contratti temporanei, la durata è più breve per le donne: solo il 29% delle lavoratrici ha contratti di 12 o più mesi, contro il 37,3% degli uomini. L’analisi degli orari di lavoro rivela ulteriori disparità. Il part-time interessa il 31% delle donne intervistate (contro appena il 6,9% degli uomini), prevalentemente di tipo orizzontale (il 75,3% lavora 5 giorni a settimana). Circa un terzo delle lavoratrici part-time ha anche un contratto atipico, combinazione che aggrava ulteriormente la vulnerabilità occupazionale. Nonostante la riduzione dell’orario, il 60% delle intervistate dichiara di fare straordinari retribuiti (contro il 34,6% degli uomini) e il 33% ammette di svolgere spesso lavoro straordinario non pagato, segno evidente che per molte donne il part-time non rappresenta una scelta libera ma una necessità imposta da esigenze economiche e di conciliazione. Gli orari “antisociali” (lavoro serale, notturno o nei weekend) riguardano in misura simile entrambi i generi ma con differenze qualitative legate alla segregazione settoriale. Le donne sono più esposte a turni nei servizi e nel commercio. Le conseguenze economiche di queste disparità emergono con chiarezza dall’analisi dei redditi. Il 31% delle donne intervistate guadagna meno di 15.000 euro netti annui (contro il 12% degli uomini) mentre solo il 6% supera i 35.000 euro (11,4% per i maschi). Tra i lavoratori part-time il 63,6% delle donne rimane sotto i 15.000 euro contro il 58% degli uomini. Queste differenze si riverberano sul lungo periodo, determinando pensioni femminili mediamente inferiori del 30% rispetto a quelle maschili, con picchi del 47% tra i dipendenti e addirittura del 53,78% tra i parasubordinati. La ricerca approfondisce in modo particolare il fenomeno della “child penalty” (penalità da maternità) che emerge come un meccanismo strutturale del mercato del lavoro italiano. Il 38,4% delle madri con figli minori lavora part-time (contro appena il 4,7% dei padri) e la presenza di figli riduce significativamente la quota di donne in ruoli dirigenziali mentre per gli uomini si osserva l’effetto opposto, con un aumento delle posizioni di responsabilità tra i padri. Analoghe disparità riguardano la cura di familiari non autosufficienti che ricade prevalentemente sulle donne (29,5% contro 9,1% degli uomini) e ha ricadute negative sulle loro carriere. Questi dati confermano che la maternità e i carichi di cura continuano a rappresentare un fattore determinante di discriminazione occupazionale e retributiva per le donne, con effetti che persistono per molti anni dopo la nascita dei figli. L’indagine rivela inoltre un diffuso disagio psicologico nelle lavoratrici: il 7,1% delle donne si sente spesso discriminata sul lavoro (contro il 4,9% degli uomini) e il 4,6% subisce spesso soprusi o vessazioni. La percezione di discriminazione è particolarmente elevata tra le giovani generazioni e nelle realtà lavorative più tradizionaliste. Per quanto riguarda la soddisfazione lavorativa, emergono differenze di genere significative. Il 76% delle donne è insoddisfatta delle prospettive di carriera (contro il 73,8% degli uomini), con picchi particolarmente elevati tra le over 50 (81%). Solo il 51% si dichiara soddisfatta della retribuzione (55,4% per i maschi), con maggiore insoddisfazione nelle regioni del Sud (52,3%) e tra le lavoratrici part-time. Lo smart working, pur essendo potenzialmente uno strumento utile per migliorare la conciliazione vita-lavoro, risulta ancora sottoutilizzato con solo il 20,5% delle donne che lavora da casa (21,4% degli uomini), nonostante il 61,2% svolga professioni telelavorabili. Le intervistate mostrano comunque interesse per questa modalità lavorativa, con circa un quarto che ritiene ideale lavorare in remoto 1-2 giorni a settimana, mentre il 46% preferisce la presenza totale, probabilmente a causa delle difficoltà di conciliare lavoro da casa e carichi familiari. Dal punto di vista della composizione degli iscritti al sindacato, le donne rappresentano il 66,8% della base sindacale non attiva nei ruoli rappresentativi (contro il 59,6% degli uomini), dimostrando una significativa adesione formale all’organizzazione. Tuttavia questo dato positivo si scontra con una preoccupante sotto-rappresentanza femminile nei ruoli attivi: solo il 14,5% delle donne ricopre incarichi come Rsu, Rsa o Rls nei luoghi di lavoro, a fronte del 24,7% degli uomini. Questo squilibrio si riflette anche nella partecipazione concreta alle attività sindacali. Appena il 17,3% delle lavoratrici ha preso parte a manifestazioni nell’ultimo anno (contro il 27,1% dei colleghi maschi), il 21,6% a scioperi (30,8% degli uomini) e il 42,5% ad assemblee sindacali (53,9% degli uomini). Paradossalmente, mentre le donne mostrano un minore coinvolgimento nelle forme tradizionali di partecipazione sindacale, risultano più attive nell’utilizzo dei servizi territoriali offerti dall’organizzazione, indicando una diversa modalità di approccio e relazione con il sindacato che meriterebbe ulteriori approfondimenti. Le motivazioni che spingono all’iscrizione rivelano interessanti differenze generazionali e di genere. Per il 38,9% delle lavoratrici la scelta di iscriversi al sindacato nasce dall’esigenza di tutelare i propri diritti individuali, motivazione particolarmente sentita dalle generazioni più giovani. Un altro 37,3% riconosce al sindacato un ruolo più ampio e politico, come attore in grado di affermare diritti e tutele per l’intera cittadinanza. Emerge con forza un preoccupante deficit conoscitivo poiché oltre la metà delle intervistate dimostra una conoscenza scarsa o nulla del CCNL applicato nella propria azienda, segnale di un distacco tra base e strumenti contrattuali. Ancora più allarmante è il dato relativo alle giovani generazioni: il 32,1% delle lavoratrici under 35 dichiara di non conoscere affatto il sindacato (contro il 25,7% dei coetanei maschi), percentuale che addirittura aumenta tra gli over 35, configurando una vera e propria emergenza comunicativa e di coinvolgimento delle nuove generazioni. L’analisi delle aspettative verso il sindacato rivela un articolato mosaico di priorità differenziate per genere ed età. Sul fronte dei miglioramenti auspicati nei luoghi di lavoro, le lavoratrici over 50 (appartenenti alla generazione dei boomers) concentrano le loro richieste principalmente su tre aspetti: inquadramento contrattuale e retributivo (66%), aumento del personale stabile (34,8%) e riduzione dei carichi di lavoro (30,1%). All’estremo opposto, le giovanissime della Generazione Z mostrano preoccupazioni diverse, privilegiando la flessibilità degli orari e turni (44,4%) e gli strumenti per conciliare vita professionale e personale (35,1%). Le donne tra i 35 e i 49 anni (Generazione X e Y) dimostrano particolare attenzione alla formazione professionale (28,2%) mentre questa risulta meno prioritaria per le under 25 (17%). Complessivamente il 27,3% delle intervistate chiede interventi sui carichi di lavoro (contro il 24,3% degli uomini) e il 22% sugli orari (20,9% degli uomini), con picchi particolarmente elevati tra le più giovani. Significativo è anche il dato relativo alla conciliazione, richiesta con forza dal 22,8% delle donne con figli minori e dal 20,1% di quelle con familiari non autosufficienti a carico, confermando come i carichi di cura continuino a pesare in modo sproporzionato sulle lavoratrici. Nella dimensione del confronto con le istituzioni, le priorità indicate dalle donne rivelano una particolare sensibilità ai temi sociali. L’aumento dei salari è la richiesta più pressante (66,8%, con picchi del 71,5% tra le under 40), seguita dalla difesa dell’occupazione (43,6%) e dal contrasto alla precarietà (41%). Rispetto ai colleghi maschi, le lavoratrici mostrano maggiore attenzione allo sviluppo dei servizi pubblici (27,3% contro 19,2%) e alla lotta alle disuguaglianze (20,2% contro 18,8%) mentre dimostrano minore interesse per temi come le delocalizzazioni (11,2% contro 17,1%). Particolarmente interessante è l’attenzione delle giovani generazioni femminili alla tutela ambientale (16,5%), segnale di una crescente sensibilità ecologista tra le nuove leve del mondo del lavoro.

Per quanto riguarda le azioni sindacali da potenziare, le donne concordano con gli uomini nel privilegiare la contrattazione nazionale (62%) ma mostrano una marcata preferenza per la contrattazione sociale territoriale (20,5% contro 14,3% degli uomini), con particolare attenzione ai servizi di welfare locale. Questo dato riflette la maggiore sensibilità femminile alle problematiche di conciliazione e alla necessità di reti di sostegno sociale, confermando come per molte lavoratrici il sindacato rappresenti non solo un interlocutore sul fronte strettamente lavorativo ma anche un possibile alleato nella gestione dei carichi familiari e delle difficoltà quotidiane. L’area dei servizi sindacali vede le lavoratrici esprimere bisogni specifici e differenziati: l’assistenza legale è la priorità per il 42,5%, seguita dal reinserimento lavorativo (42,7%) e dai servizi sociali (31,6%). Le giovani under 25 evidenziano un particolare bisogno di assistenza per l’indennità di disoccupazione (39,9%), segnale delle difficoltà di ingresso e stabilizzazione nel mercato del lavoro che caratterizzano le nuove generazioni.  L’indagine condotta da Marcello Pedaci ed Emanuele Toscano offre invece una fotografia estremamente dettagliata e preoccupante del fenomeno del lavoro atipico in Italia, analizzato attraverso i dati dell’Inchiesta nazionale promossa dalla Cgil su un campione di 31.014 lavoratori, di cui 4.082 (pari al 13,3%) con contratti non standard. La ricerca si sviluppa come un’approfondita radiografia delle molteplici dimensioni della precarietà lavorativa, andando ben oltre la semplice instabilità contrattuale per esplorare le complesse interconnessioni tra condizioni occupazionali, redditi, tutele sociali e capacità di rappresentanza collettiva. Il quadro che emerge è quello di un mercato del lavoro sempre più frammentato e polarizzato, dove le forme atipiche di occupazione, dominate dai contratti a tempo determinato (65,1% del totale) ma comprendenti anche lavoro stagionale (10%), somministrazione (13,4% tra determinato e indeterminato), apprendistato (3,9%) e varie forme di collaborazione (4,8%), creano condizioni di vulnerabilità multidimensionale. Gli autori adottano infatti una concezione articolata di precarietà che considera non solo l’insicurezza del posto di lavoro ma anche la bassa retribuzione, il limitato accesso alle protezioni sociali, le scarse prospettive di carriera e la ridotta capacità di voice collettiva. Questa prospettiva multidimensionale permette di cogliere la complessità del fenomeno, mostrando come la precarietà sia un vero e proprio status sociale che condiziona ogni aspetto della vita dei lavoratori. Dal punto di vista demografico il lavoro atipico presenta caratteristiche peculiari: una marcata femminilizzazione (64,5% contro il 52,9% dei contratti standard), una forte componente giovanile (26,8% under 34 contro appena l’8,1% dei lavoratori stabili) e una distribuzione territoriale che vede maggiore concentrazione al Centro e nel Mezzogiorno. Particolarmente significativo è il dato sull’istruzione, che sfata alcuni luoghi comuni. I lavoratori atipici presentano sia una maggiore incidenza di titoli di studio bassi (16,5% contro 11,4%) che, seppur di poco, di titoli elevati (34,5% con laurea/master/dottorato contro 33,8%). Questo dato suggerisce come la precarietà non sia più un fenomeno circoscritto a specifici segmenti del mercato del lavoro ma stia diventando una condizione trasversale che colpisce sia i lavoratori meno qualificati che una quota crescente di giovani laureati, intrappolati in percorsi professionali frammentati e instabili.

La distribuzione settoriale del lavoro atipico mostra una concentrazione particolare nelle professioni impiegatizie e intellettuali (42,8%) e in quelle operaie/tecniche (38%), con marcate differenze di genere che riflettono le tradizionali segregazioni occupazionali. Il 55,3% degli uomini atipici lavora come operaio/tecnico mentre il 49,2% delle donne è impiegato in ruoli impiegatizi e intellettuali. Questa distribuzione disegna una geografia della precarietà che incrocia genere, classe e qualificazione professionale, mostrando come le diverse forme di vulnerabilità lavorativa si stratifichino lungo linee di disuguaglianza preesistenti. La situazione reddituale dei lavoratori atipici emerge come uno degli aspetti più critici con l’’83% degli intervistati che dichiara redditi lordi annui fino a 20.000 euro, con le donne in posizione ancora più svantaggiata (il 23,7% guadagna tra 5.001-10.000 euro e il 28,1% tra 10.001-15.000). I giovani under 34 risultano i più penalizzati, con il 21,3% che percepisce meno di 5.000 euro l’anno, una condizione di quasi-indigenza che diventa ancora più grave se si considera che il 35,7% ha figli minorenni a carico e l’8,4% deve assistere familiari non autosufficienti. Questi dati disegnano un panorama allarmante di working poor, dove il lavoro non garantisce più un’autentica emancipazione economica né la possibilità di costruire progetti di vita a medio-lungo termine. La pandemia da Covid-19 ha agito come un potente acceleratore di queste dinamiche precarizzanti. Il 37,2% degli intervistati ha subito una contrazione del reddito mentre il 29,3% ha visto aumentare il proprio orario di lavoro, spesso in concomitanza con il ricorso allo smart working. Particolarmente emblematico è il dato del 44,2% dei lavoratori atipici che non ha ricevuto alcun sostegno economico durante l’emergenza sanitaria, evidenziando le profonde lacune del sistema di protezione sociale italiano nel coprire le nuove forme di occupazione. Questo fallimento delle politiche pubbliche ha lasciato un’intera generazione di lavoratori esposta a rischi sociali ed economici senza adeguati ammortizzatori. Oltre all’instabilità contrattuale bisogna includere una costellazione di svantaggi come gap retributivi orari rispetto a colleghi con uguali mansioni, minori opportunità formative, orari di lavoro svantaggiosi che compromettono la conciliazione vita-lavoro, minore autonomia decisionale, maggiori rischi per la salute e sicurezza sul lavoro. A ciò si aggiungono le difficoltà di accesso alle protezioni sociali, sia per limitazioni formali che per l’eccessiva complessità burocratica, in quello che viene definito un tipico modello italiano di “flex-insecurity” dove la flessibilizzazione del mercato del lavoro non è stata accompagnata da adeguati strumenti di tutela. Un aspetto cruciale emerso dall’indagine riguarda la minore capacità di rappresentanza e voice dei lavoratori atipici, più distanti dalle tradizionali forme di organizzazione collettiva. Questa marginalizzazione sindacale deriva da molteplici fattori come la maggiore ricattabilità legata alla precarietà del posto, l’isolamento lavorativo tipico di molte forme di occupazione non standard, la percezione della propria condizione come transitoria (e quindi non meritevole di impegno collettivo), la scarsa conoscenza dei diritti e delle opportunità di tutela. Gli stessi sindacati faticano a organizzare questa forza lavoro dispersa in mille contratti diversi, spesso di brevissima durata o caratterizzati da ambiguità giuridiche (si pensi alle varie forme di collaborazione o al lavoro tramite piattaforme digitali). Il cuore dell’analisi si concentra sulla durata e sulla frammentazione dei contratti atipici, evidenziando come queste variabili determinino diversi gradi di instabilità lavorativa. Emerge con chiarezza che i contratti più brevi, quelli della durata massima di 4 mesi, predominano in settori come la somministrazione a tempo determinato (54,5%) e le collaborazioni occasionali (49,5%), mentre le forme contrattuali più lunghe (12 mesi o più) si riscontrano principalmente nella somministrazione a tempo indeterminato (77,9%) e nell’apprendistato (55,9%). Queste differenze contrattuali si traducono in percorsi lavorativi estremamente discontinui, con quasi la metà dei lavoratori con contratti brevi (48,2%) che dichiara di aver accumulato ben 6 o più rapporti di lavoro in un solo anno, un dato che scende al 29,4% per chi ha contratti di media durata (5-11 mesi) e al 22,4% per i contratti annuali. Questa estrema frammentazione occupazionale rappresenta solo il primo strato di un fenomeno complesso che gli autori analizzano attraverso la costruzione di un indice di instabilità che classifica i lavoratori in tre categorie: bassa instabilità (52,1% del campione), media instabilità (34%) e alta instabilità (13,9%). La distribuzione geografica e demografica dell’instabilità lavorativa rivela disparità significative. Le situazioni più critiche si concentrano nel Mezzogiorno (53,3% di media-alta instabilità), tra i lavoratori stranieri (59%) e in specifici settori professionali a bassa qualificazione come i servizi socio-sanitari (59,7% di media-alta instabilità), le vendite al pubblico (55,5%) e il lavoro operaio generico (55%). Particolarmente illuminante è la relazione inversa tra livello di istruzione e grado di instabilità. Tra coloro che possiedono solo la licenza media, ben il 18,8% vive situazioni di alta instabilità lavorativa, percentuale che si dimezza quasi (10,1%) tra i laureati. L’analisi del contesto organizzativo in cui operano i lavoratori atipici aggiunge un ulteriore tassello alla comprensione del fenomeno. Le piccole imprese (56% di media-alta instabilità) e quelle a bassa innovazione tecnologica (46,7%) presentano tassi di instabilità significativamente più elevati rispetto alle grandi aziende (41,1%) e a quelle più innovative (solo 9,2% di alta instabilità). Questo suggerisce che la precarietà non è distribuita casualmente nel tessuto produttivo italiano ma si concentra in particolare in quelle realtà economiche più fragili e marginali, creando vere e proprie sacche di vulnerabilità occupazionale. L’esame dei percorsi professionali rivela che il 27,4% degli intervistati ha cambiato tipologia di lavoro negli ultimi due anni, con picchi del 38,1% tra i giovani under 34. Questa discontinuità professionale è particolarmente acuta tra i possessori di lauree triennali e nelle regioni settentrionali, indicando forse una maggiore mobilità geografica e settoriale dei lavoratori del Nord. Il segmento più vulnerabile, che combina media-alta instabilità con incoerenza professionale, rappresenta il 17,6% del campione ed è composto prevalentemente da giovani poco qualificati impiegati come addetti alle vendite (30,4%), operai generici (27,4%) o in lavori d’ufficio esecutivi (23,4%), categorie particolarmente esposte al rischio di intrappolamento in condizioni lavorative precarie.

Le condizioni concrete di lavoro degli atipici appaiono particolarmente critiche. Il 35,6% lavora spesso su turni, il 33,7% nei weekend e nei giorni festivi e il 12,9% di notte. Particolarmente allarmante è il dato sugli straordinari non retribuiti, praticati “qualche volta” o “spesso” dal 32,9% degli intervistati, segnale di una diffusa vulnerabilità contrattuale che si traduce in un’effettiva incapacità di far valere i propri diritti. La mancanza di autonomia rappresenta un altro nodo cruciale con il 57,4% dei lavoratori atipici che non può gestire liberamente i propri orari di lavoro, il 41,8% non può scegliere o modificare i metodi di lavoro e solo il 20,8% partecipa alla definizione degli obiettivi lavorativi. Questa scarsa autonomia si correla fortemente con i bassi redditi. Tra chi guadagna meno di 15.000 euro annui, ben il 62,4% dichiara di non avere alcun controllo sui propri orari di lavoro, configurando una condizione di doppia vulnerabilità, sia economica che organizzativa. Il quadro della soddisfazione lavorativa è drammaticamente negativo. Il 69,8% degli intervistati si dichiara insoddisfatto delle prospettive di carriera, il 45,8% della retribuzione percepita e il 45,6% del livello di realizzazione professionale. Questa insoddisfazione generalizzata colpisce in misura particolare le donne (64% del totale degli insoddisfatti), i lavoratori tra i 35 e i 49 anni (41%) e chi possiede un diploma professionale (50%), rivelando come la precarietà non sia solo una condizione contrattuale ma uno stato esistenziale che permea ogni aspetto della vita lavorativa. Nonostante un tasso di sindacalizzazione sorprendentemente alto (70,3%, con picchi del 93% nella CGIL), la partecipazione attiva alle attività sindacali risulta estremamente limitata. Il 40% dei lavoratori atipici non ha preso parte ad alcuna iniziativa sindacale nel 2021 e solo il 5,5% ricopre ruoli rappresentativi, a fronte di una media del 18,7% nel campione complessivo. Le richieste rivolte al sindacato sono chiare e mirate: il 63% degli intervistati chiede un maggiore impegno per aumentare i salari, il 58,7% per contrastare la precarietà e il 50,5% per migliorare i servizi di reinserimento lavorativo. Sul fronte aziendale, emergono come priorità assolute i miglioramenti retributivi (66% delle risposte), le stabilizzazioni (40,4%) e la formazione professionale (28,7%), mentre temi più recenti come il diritto alla disconnessione e lo smart working sembrano avere un’importanza marginale (5,7% e 5,2% rispettivamente) nell’agenda dei lavoratori atipici. L’analisi mette in luce come il mondo del lavoro atipico presenti una preoccupante carenza di consapevolezza riguardo ai propri diritti e alle tutele previste dai contratti collettivi, con il 21,7% dei lavoratori atipici che dichiara apertamente di non conoscere affatto il CCNL applicato nella propria azienda, una percentuale che diventa quasi tre volte superiore a quella registrata tra i lavoratori standard (7,5%). Questa lacuna conoscitiva assume connotazioni ancora più marcate quando si esaminano le diverse tipologie contrattuali. I lavoratori stagionali (26,8% di non conoscenza) e quelli a tempo determinato (21,3%) si trovano in una posizione di particolare svantaggio informativo rispetto ai lavoratori in somministrazione (15,4-16,5%) e agli apprendisti (13,4%), dove probabilmente i maggiori investimenti in formazione e informazione da parte delle parti sociali riescono a produrre effetti più significativi. La situazione diventa drammaticamente più critica quando l’analisi si sposta sulla conoscenza della contrattazione di secondo livello. Qui il 69,7% dei lavoratori atipici ammette di non sapere se nella propria azienda esista un accordo aziendale mentre solo una minoranza del 17,1% ne può confermare con certezza l’esistenza. Questo dato assume particolare rilevanza se letto in correlazione con la durata dei contratti. Tra i lavoratori con rapporti brevissimi (1-4 mesi) l’ignoranza circa l’esistenza di accordi aziendali raggiunge il 71,2% mentre si riduce al 64% per chi beneficia di contratti più lunghi (12 mesi o più). Parallelamente, la consapevolezza dell’esistenza di rappresentanze sindacali in azienda mostra un’analoga progressione con ben il 44,2% dei lavoratori con contratti ultra-brevi che non sa se nella propria realtà lavorativa esista una RSU o RSA, contro il 25,7% di chi ha contratti annuali. Questi numeri disegnano un chiaro gradiente di esclusione informativa che corre parallelo alla precarietà del rapporto di lavoro, creando di fatto una doppia vulnerabilità per i lavoratori più marginali. Laddove la contrattazione di secondo livello riesce a penetrare e radicarsi i suoi effetti positivi sulle condizioni di lavoro emergono con chiarezza statistica. I lavoratori atipici che operano in contesti con accordi aziendali attivi mostrano un livello di soddisfazione retributiva significativamente superiore (60,9% contro 53,5%), un accesso più ampio a formazione finanziata dal datore di lavoro (68% contro 53,5%) e una migliore capacità di conciliare vita professionale e personale (59,2% contro 50%). L’analisi rivela inoltre come in queste realtà si registri una minore incidenza di condizioni lavorative particolarmente gravose. Il lavoro notturno e nei weekend scende al 33,9% (contro il 41,3% nelle aziende senza accordi), gli straordinari non retribuiti si dimezzano (10,5% contro 30,1%) e l’esposizione a rischi psico-sociali risulta significativamente ridotta (66,8% contro 59,9%). Questi dati quantitativi trovano un riscontro qualitativo nella maggiore richiesta di rafforzamento della contrattazione aziendale proprio da parte di quei lavoratori atipici (45,2%) che già ne sperimentano gli effetti positivi, a dimostrazione di come l’esperienza concreta di una rappresentanza sindacale efficace generi una consapevolezza diffusa del suo valore protettivo. La ricerca permette però anche di identificare con precisione quel segmento particolarmente vulnerabile del lavoro atipico che risulta intrappolato in una spirale di precarietà multidimensionale: contratti brevissimi e numerosi (fino a 6 o più rapporti di lavoro in un anno), redditi bassissimi, completa mancanza di autonomia decisionale e pressoché nulla conoscenza dei propri diritti. Questo gruppo, che rappresenta la fascia più marginale e invisibile del mercato del lavoro, è composto prevalentemente da lavoratori con bassi livelli di istruzione, operai generici, impiegati esecutivi, addetti alle vendite e lavoratori dello spettacolo, categorie che mostrano tassi particolarmente elevati di non iscrizione al sindacato e di non partecipazione ad alcuna iniziativa sindacale. La loro condizione di esclusione dal circuito dell’informazione e della rappresentanza li colloca in una posizione di estrema vulnerabilità, dove la mancanza di consapevolezza dei propri diritti si traduce in un’impossibilità pratica di farli valere, alimentando così un circolo vizioso di precarizzazione.

Un dato particolarmente significativo che emerge dall’indagine riguarda il ruolo cruciale delle strutture territoriali del sindacato come canale privilegiato di contatto con i lavoratori atipici. In un contesto caratterizzato da estrema frammentazione dei luoghi di lavoro e discontinuità occupazionale, le Camere del Lavoro e i servizi territoriali si confermano come punti di riferimento insostituibili per raggiungere quella forza lavoro dispersa in una miriade di piccole e piccolissime realtà produttive. La significativa percentuale di lavoratori (39,1%) che indica nella mancata conoscenza delle attività sindacali la principale ragione della propria non iscrizione al sindacato segnala con chiarezza l’esistenza di un ampio spazio di miglioramento nelle strategie di comunicazione e coinvolgimento adottate dalle organizzazioni sindacali. Beppe De Sario offre, infine, un quadro approfondito della condizione dei lavoratori migranti in Italia, esaminando le dinamiche occupazionali, le implicazioni sociali, le criticità strutturali e il ruolo del sindacato nella rappresentanza di questa componente sempre più rilevante della forza lavoro. Si parte da una premessa fondamentale: l’esperienza lavorativa degli immigrati in Italia è caratterizzata da una marcata segregazione nel cosiddetto mercato del lavoro secondario, contraddistinto da occupazioni precarie, scarsamente retribuite, fisicamente usuranti e socialmente marginalizzate. Questa condizione, sintetizzata efficacemente nelle “cinque P” (lavori pesanti, pericolosi, precari, poco pagati e penalizzati socialmente), riflette un modello di inserimento che, se da un lato garantisce un accesso relativamente facile all’occupazione, dall’altro perpetua forme di sfruttamento e marginalizzazione. Nonostante queste difficoltà il lavoro rappresenta per i migranti un fattore cruciale di integrazione, sia perché consente l’accesso a diritti e tutele, sia perché contribuisce a costruire un’identità sociale nella comunità di accoglienza. Questo processo è reso più complesso da una serie di ostacoli, a cominciare dalla “penalizzazione etnica” che colpisce gli stranieri, aggravata nel caso delle donne, le quali devono affrontare una doppia discriminazione, di genere e di origine. I dati mostrano che le lavoratrici migranti sono particolarmente esposte a occupazioni dequalificate, salari più bassi e minore stabilità contrattuale, un fenomeno che si è acuito durante le crisi economiche degli ultimi anni, in particolare durante la pandemia, quando il tasso di occupazione femminile straniera è crollato più drasticamente di quello maschile. Un altro aspetto centrale è la stabilizzazione demografica della popolazione migrante in Italia. Oggi i residenti stranieri superano i 5 milioni (a cui si aggiunge circa mezzo milione di persone irregolari, secondo le stime ISMU 2023), con un’incidenza sempre più significativa delle seconde generazioni e dei cosiddetti “naturalizzati”, ovvero ex stranieri che hanno acquisito la cittadinanza italiana. Quest’ultimo gruppo, in particolare, è cresciuto in modo rilevante. Nel 2021 si contavano circa 1 milione di nuovi cittadini per naturalizzazione, pari al 25% della popolazione straniera in età attiva. Si tratta di un dato significativo che testimonia un processo di radicamento sempre più stabile ma che allo stesso tempo solleva interrogativi sulle politiche di inclusione, considerando che l’accesso alla cittadinanza rimane un percorso lungo e complesso, soprattutto per chi proviene da paesi extra-UE. La ricerca evidenzia inoltre come la condizione lavorativa degli immigrati sia strettamente legata alle debolezze strutturali del mercato del lavoro italiano, un sistema storicamente caratterizzato da alta informalità, evasione contributiva e scarsa applicazione dei contratti collettivi. In questo contesto i migranti sono spesso impiegati in settori ad alta intensità di manodopera ma a bassa regolamentazione, come l’agricoltura, l’edilizia, la logistica e il lavoro domestico, dove il rischio di sfruttamento e caporalato è particolarmente elevato. Emblematico è il caso dei richiedenti asilo e rifugiati, la cui inclusione lavorativa è tra le più fragili in Europa, nonostante le normative italiane consentano loro di lavorare già dalle prime settimane di permanenza nel paese. Questo paradosso riflette una mancanza di politiche attive efficaci e una tendenza del sistema produttivo a relegare i migranti in posizioni subalterne e scarsamente tutelate. Molto rilevante è anche l’accesso al welfare che per gli stranieri si rivela spesso discriminatorio rispetto a quello garantito ai cittadini italiani. Se da un lato i contributi versati dai lavoratori migranti sostengono il sistema pensionistico e sanitario nazionale, dall’altro molti di essi incontrano ostacoli nell’accedere a servizi essenziali, come l’assistenza sociale o gli ammortizzatori sociali. Questo divario è particolarmente evidente nelle fasi di crisi, come dimostrato durante la pandemia, quando molti lavoratori stranieri, soprattutto quelli impiegati in nero o con contratti atipici, sono rimasti esclusi dalle misure di sostegno al reddito. L’indagine condotta dalla CGIL fornisce ulteriori elementi di riflessione. I dati raccolti rivelano che solo il 2,2% dei rispondenti è di cittadinanza straniera, una percentuale inferiore non solo alla quota di stranieri nella popolazione generale (8,6%) ma anche al peso che essi hanno nel mercato del lavoro (11,2% tra i dipendenti). Questo dato suggerisce una minore partecipazione dei migranti alle rilevazioni sindacali, probabilmente a causa di barriere linguistiche, culturali o di una minore familiarità con le strutture di rappresentanza. Tra gli stranieri che hanno risposto al questionario emergono differenze significative: quelli provenienti da paesi UE sono in maggioranza donne (65,5%) mentre i non-UE sono più giovani e con livelli di istruzione più bassi (il 37,7% ha solo la licenza media). I naturalizzati, invece, rappresentano il 3,1% del campione e hanno un’età media più elevata (49,3 anni), confermando che l’acquisizione della cittadinanza è spesso legata a percorsi migratori più lunghi e radicati. Dal punto di vista territoriale la distribuzione degli stranieri riflette le dinamiche del mercato del lavoro italiano. Circa il 60% risiede al Nord, dove la domanda di manodopera è più alta, mentre al Sud la presenza è marginale. Anche la composizione familiare mostra peculiarità interessanti con oltre il 55% dei migranti che vive in nuclei con figli minori (contro il 42,4% degli italiani), segno di un processo di stabilizzazione che però non sempre si traduce in migliori condizioni di vita, data la maggiore incidenza della povertà tra le famiglie straniere. La distribuzione occupazionale mostra una radicale differenziazione. Tra gli italiani prevale il lavoro impiegatizio e intellettuale (51,1%), gli stranieri invece sono massicciamente concentrati nel lavoro operaio e tecnico (70,1% per i non UE, 51,7% per i UE). Questa segregazione occupazionale si acuisce ulteriormente se si considera che, all’interno della categoria operaia, i migranti sono prevalentemente impiegati nei livelli più bassi della qualificazione professionale, con una pressoché totale assenza di tecnici specializzati tra le loro fila. Parallelamente si registra una sovrarappresentazione degli stranieri nei servizi socio-sanitari e di cura (16,4% per i UE, 13,2% per i non UE), settori tradizionalmente caratterizzati da bassi salari, alta precarietà e scarso riconoscimento sociale. La precarietà contrattuale costituisce un ulteriore elemento distintivo della condizione lavorativa migrante. Solo il 55,9% degli stranieri extracomunitari può contare su un contratto a tempo indeterminato, a fronte dell’87,4% degli italiani. Al contrario, i contratti temporanei riguardano il 29,6% dei lavoratori non UE (contro l’8,1% degli italiani) mentre forme ancora più instabili come il lavoro stagionale o in somministrazione mostrano un’incidenza significativamente maggiore tra la popolazione migrante. Questa fragilità contrattuale si traduce direttamente in una maggiore vulnerabilità economica. Il 33,3% degli italiani dichiara redditi superiori ai 25.000 euro annui, solo il 6,1% degli stranieri extracomunitari raggiunge questa soglia, con la maggioranza concentrata nella fascia tra i 15.000 e i 20.000 euro. Le condizioni concrete di lavoro disegnano un quadro ancora più drammatico. Gli stranieri sperimentano livelli di disagio fisico significativamente più elevati. Solo il 16,9% degli extracomunitari e il 18,5% dei comunitari riferiscono un basso o nullo affaticamento, contro il 27,6% degli italiani. L’incidenza del lavoro notturno e festivo raggiunge il 56,1% tra i non UE e il 45,9% tra i UE, quasi il doppio rispetto al 25,8% registrato tra i lavoratori autoctoni. Queste condizioni proibitive si riflettono in un tasso di infortuni più elevato (5,5% per i UE, 4,4% per i non UE contro il 3,2% degli italiani), con l’aggravante che una consistente quota di incidenti non viene nemmeno denunciata (9,2% dei casi tra i non UE, 4,3% tra i UE). L’accesso alla formazione professionale rappresenta un ulteriore terreno di disparità. Oltre la metà degli stranieri (54,7% UE e 57,8% non UE) non ha partecipato ad alcun corso di aggiornamento nel 2021, contro il 38% degli italiani. Ancora più significativo il divario nella formazione finanziata dalle aziende. Beneficia di questa opportunità il 52,7% degli italiani ma solo il 36,8% degli stranieri UE e il 31,8% dei non UE. Questa carenza formativa contribuisce a cristallizzare gli immigrati nelle posizioni lavorative meno qualificate, limitando drasticamente le loro possibilità di mobilità professionale. La soddisfazione lavorativa rispecchia queste condizioni sfavorevoli. Il 59,9% degli stranieri extracomunitari e il 53,3% dei comunitari esprimono insoddisfazione per la retribuzione (contro il 46,8% degli italiani) mentre la conciliazione tra vita e lavoro rappresenta un problema per il 47,3% dei non UE e il 44,6% dei UE (a fronte del 32,9% degli italiani). Significativamente le prospettive di carriera appaiono ugualmente fosche per tutti i gruppi (circa il 70% di giudizi negativi), suggerendo una crisi generalizzata del sistema delle opportunità professionali nel paese. Le richieste di miglioramento avanzate dai lavoratori stranieri evidenziano priorità differenziate. Se la retribuzione rappresenta la principale preoccupazione per tutti (circa il 70% delle risposte), gli immigrati pongono maggiore enfasi sulla necessità di interventi riguardanti orari e turni (39,6% non UE, 32,8% UE) e sulla salute e sicurezza sul lavoro (23,3% non UE, 21,5% UE), temi che tra gli italiani ricevono un’attenzione significativamente minore. La questione delle discriminazioni, del razzismo e della xenofobia rappresenta una realtà significativa e dolorosa per gli stranieri residenti in Italia, influenzando profondamente la loro vita quotidiana e la loro esperienza professionale. Già nei primi anni del decennio 2010, l’Istat segnalava che quasi un terzo degli stranieri (il 29,1% della popolazione straniera dai 15 anni in su) aveva subito almeno un episodio di discriminazione. Un dato particolarmente allarmante riguarda il mondo del lavoro, dove il 19,2% degli immigrati intervistati dichiarava di aver subito trattamenti iniqui sul posto di lavoro o durante la ricerca di un impiego. Questi fenomeni ledono la dignità delle persone e contribuiscono a rafforzare dinamiche di esclusione sociale e lavorativa, limitando le opportunità di integrazione e crescita professionale. Un’analisi più dettagliata dei dati raccolti dall’inchiesta CGIL rivela che la percezione di essere discriminati varia notevolmente tra italiani e stranieri. Mentre solo il 14,1% degli italiani afferma di sentirsi discriminato “qualche volta” o “spesso” sul lavoro, questa percentuale sale al 25,3% per i cittadini stranieri provenienti dall’Unione Europea e raggiunge il 39,1% per quelli extracomunitari. Le motivazioni alla base di queste discriminazioni sono molteplici. Oltre alla cittadinanza entrano in gioco fattori come l’etnia, l’aspetto fisico, la lingua e le differenze culturali. Anche i naturalizzati e i nati all’estero, nonostante abbiano acquisito la cittadinanza italiana, continuano a sperimentare livelli di discriminazione più elevati (22,4%) rispetto agli autoctoni, segno che l’integrazione formale non sempre si traduce in un’effettiva parità di trattamento. La situazione si fa ancora più critica quando si considerano gli atti concreti di vessazione, come soprusi e molestie. Gli stranieri non comunitari, in particolare gli uomini, sono i più esposti. Il 12,6% di loro dichiara di subire spesso comportamenti aggressivi o umilianti sul lavoro, contro una media del 4,4% tra gli italiani. Le donne straniere, invece, pur essendo meno rappresentate in queste statistiche, affrontano discriminazioni più sottili e meno visibili, spesso legate alla segregazione in settori lavorativi marginali e poco tutelati, come il lavoro domestico o i servizi di pulizia, dove il controllo sindacale è più debole e le relazioni con il datore di lavoro sono spesso caratterizzate da un forte squilibrio di potere.  

Nonostante queste difficoltà gli stranieri dimostrano un livello di sindacalizzazione superiore a quello degli italiani. Nel 2021 oltre un milione di immigrati risultava iscritto ai sindacati confederali (CGIL, CISL e UIL), rappresentando il 14,2% del totale degli iscritti, con un picco del 18,3% nella sola CGIL. Questa elevata adesione formale non sempre si traduce in una partecipazione attiva o in una reale capacità di rappresentanza. La presenza di delegati sindacali stranieri nelle aziende è infatti molto ridotta con solo il 23,2% dei lavoratori non comunitari e il 30,6% di quelli UE che dichiarano di avere una rappresentanza sindacale elettiva (RSU) nel proprio luogo di lavoro, contro il 59,1% degli italiani. Inoltre, una percentuale significativa di stranieri (35,3% UE, 43,6% non-UE) ammette di non sapere nemmeno se nel proprio ambiente lavorativo esista una rappresentanza sindacale, segno di una grave carenza informativa e di un possibile isolamento rispetto alle strutture di tutela collettiva. La minore partecipazione alle attività sindacali (scioperi, assemblee, elezioni delle RSU) da parte degli stranieri, con il 46% che non ha preso parte a nessuna iniziativa nell’ultimo anno, contro il 27,3% degli italiani, non è necessariamente indice di disinteresse ma riflette piuttosto la maggiore precarietà e ricattabilità a cui sono sottoposti. Molti lavoratori immigrati, infatti, temono ritorsioni in caso di attivismo sindacale, soprattutto se privi di un contratto stabile o di un permesso di soggiorno a lungo termine. D’altra parte, laddove le rappresentanze sindacali sono presenti e attive la partecipazione degli stranieri raggiunge livelli simili a quelli degli italiani, dimostrando che il problema non è la mancanza di volontà ma piuttosto l’assenza di strutture di supporto adeguate. Per quanto riguarda la conoscenza dei diritti contrattuali, quasi il 40% degli stranieri extracomunitari non sa quale contratto collettivo nazionale (CCNL) si applichi al proprio lavoro, una percentuale che scende al 20% tra gli stranieri UE ma che rimane comunque molto più alta rispetto all’8,8% degli italiani. Questo divario si riduce significativamente nelle aziende dove sono presenti rappresentanze sindacali. In questi casi circa il 38% degli stranieri dichiara di conoscere “abbastanza” o “molto bene” il CCNL, avvicinandosi al 48% degli italiani. Ciò conferma che la presenza sindacale nei luoghi di lavoro è un fattore chiave per colmare il gap informativo e garantire una tutela effettiva. Per quanto riguarda i servizi sindacali, gli stranieri si rivolgono più frequentemente alle Camere del Lavoro territoriali (39,4% dei non-UE, 33,7% degli UE) e ai Patronati per ottenere assistenza fiscale, sostegno al reddito e supporto nelle pratiche burocratiche. Al contrario, utilizzano meno i canali digitali (siti web sindacali) e hanno minore familiarità con gli strumenti di contrattazione collettiva avanzata, come gli accordi di secondo livello. Le loro richieste al sindacato si concentrano su bisogni immediati: aumento dei salari (priorità per il 68-74%, in linea con gli italiani), sostegno in caso di disoccupazione (22,7-26,3%, contro il 14,1% degli italiani) e lotta alle disuguaglianze (26,7% non-UE, contro il 19,4% degli italiani). Emerge inoltre una forte domanda di contrattazione sociale territoriale (29,1% non-UE), vista come strumento per migliorare l’accesso ai servizi pubblici e al welfare.  

3. Come si lavora in Italia nel settore privato?

Il settore agroalimentare italiano si conferma nel 2022 come uno dei pilastri fondamentali dell’economia nazionale, con un fatturato complessivo che raggiunge i 254 miliardi di euro generato da oltre 1,4 milioni di lavoratori impiegati in circa 800.000 imprese. Questo comparto, che spazia dalla produzione agricola alla trasformazione industriale, rappresenta una delle eccellenze del Made in Italy a livello globale, contribuendo in modo significativo al valore aggiunto nazionale con 64 miliardi di euro, posizionandosi così al primo posto tra i settori produttivi per contributo al PIL. Nonostante le difficoltà economiche legate alla pandemia da Covid-19, il settore ha dimostrato una notevole resilienza, registrando una crescita del 34% nelle esportazioni che hanno raggiunto il record storico di 58,8 miliardi di euro tra il 2019 e il 2022. Oltre al suo impatto economico, il settore agroalimentare riveste un ruolo cruciale nel tessuto sociale e occupazionale del Paese, combinando saperi tradizionali e innovazione tecnologica. Nonostante la sua importanza, la letteratura scientifica ha spesso trascurato l’analisi approfondita delle condizioni del lavoro dipendente in questo ambito. Per colmare questa lacuna, lo studio di Massimiliano D’Alessio si basa sui dati raccolti attraverso l’inchiesta nazionale della CGIL che ha coinvolto 1.726 lavoratori del settore agroalimentare, corrispondenti al 5,6% del campione totale dell’indagine. La composizione del campione riflette la struttura del settore, con una netta distinzione tra la componente industriale e quella agricola. Il 51,3% degli intervistati è occupato nell’industria alimentare, delle bevande e del tabacco mentre il 24,6% lavora nelle coltivazioni agricole e nell’allevamento, con le restanti categorie che includono la silvicoltura (17%), i servizi connessi all’agricoltura (6%) e, in misura minore, la pesca e l’acquacoltura (1%). Dal punto di vista demografico, il settore è caratterizzato da una maggioranza maschile (57,4%), con una presenza femminile pari al 40,3% e una quota residuale di risposte non binarie (0,3%), mostrando rispetto alla media nazionale una maggiore concentrazione di lavoratori uomini (+13,6%) che riflette una tendenza già osservata nei dati INPS dove gli uomini rappresentano il 66% dell’occupazione dipendente in agricoltura e nell’industria alimentare. L’età media dei lavoratori intervistati è di 46,6 anni, leggermente inferiore a quella del campione generale (48,2 anni), con la fascia 35-49 anni che è la più rappresentata (42,4%), seguita da quella 50-59 anni (35,7%) mentre i giovani sotto i 34 anni costituiscono il 14% e gli over 59 il 7,9%, evidenziando una forza lavoro matura ma con una leggera prevalenza di lavoratori più giovani rispetto alla media nazionale (+3,5% nella fascia under 34). Per quanto riguarda il livello di istruzione, il 61,1% dei lavoratori possiede un diploma o una qualifica professionale mentre solo il 9,4% ha un titolo universitario, mostrando rispetto al campione complessivo una minore scolarizzazione (-24,3% per i laureati) e una maggiore incidenza di lavoratori con licenza media (29%), segnale di un divario formativo che potrebbe influire sulle prospettive di carriera e sull’innovazione del settore. Per quanto riguarda l’origine geografica dei lavoratori, l’88,4% è nato in Italia mentre il 6,8% proviene da Paesi extra-UE e il 4,3% da Stati membri dell’UE, con una maggiore presenza di lavoratori stranieri (+6%) rispetto alla media nazionale, sebbene i dati INPS indichino che la componente immigrata nell’agricoltura raggiunga in realtà il 37% tra gli operai a tempo determinato, suggerendo una possibile sottorappresentazione nel campione. Dal punto di vista territoriale, i lavoratori agroalimentari si concentrano soprattutto nel Mezzogiorno (33%, di cui 27% al Sud e 6% nelle Isole), nel Nord-Est (27%) e in misura minore nel Nord-Ovest (17%) e nel Centro (23%), riflettendo le specificità produttive regionali con il Sud più orientato verso l’agricoltura e il Nord-Est verso l’agroindustria. L’analisi delle tipologie contrattuali rivela una situazione polarizzata. Il 65,2% dei lavoratori ha un contratto a tempo indeterminato ma una quota significativa (23,4%) è impiegata con contratti a termine mentre il 7,8% svolge lavoro stagionale, con un ulteriore 2,3% in somministrazione e una piccola percentuale (0,2%) che ha dichiarato di lavorare in nero, mostrando rispetto alla media nazionale una maggiore precarietà (+14,8% per i contratti a termine e +6,5% per il lavoro stagionale) che conferma una tendenza già emersa nei dati INPS dove il 69% dei dipendenti agricoli e agroindustriali ha una forma di lavoro non standard (prevalentemente a tempo determinato o stagionale). Per quanto riguarda le qualifiche professionali, la stragrande maggioranza (77,3%) è costituita da operai e tecnici mentre solo il 16% svolge mansioni impiegatizie o intellettuali, con quadri e dirigenti che rappresentano appena l’1,3%, una percentuale molto inferiore alla media nazionale (5,4%) che segnala una scarsa mobilità verticale e una limitata presenza di figure altamente specializzate. Le retribuzioni confermano un divario economico rispetto ad altri settori. Oltre la metà dei lavoratori (51%) guadagna meno di 20.000 euro annui mentre solo l’8% supera i 30.000 euro, mostrando rispetto al campione generale livelli retributivi significativamente più bassi (-10,4% nella fascia sotto i 20.000 euro) che riflettono una combinazione di precarietà, bassa qualificazione e frammentazione produttiva. Il contesto aziendale del settore agroalimentare presenta caratteristiche distintive che lo differenziano in modo significativo dal panorama complessivo del campione esaminato. Una prima peculiarità riguarda la struttura proprietaria delle imprese, dove si osserva una netta predominanza di aziende private, che occupano il 74,3% dei lavoratori intervistati, un dato che supera di ben 18,1 punti percentuali la media generale del campione. Questo dato va però letto insieme alla significativa presenza del Terzo Settore, che assorbe il 15,2% della forza lavoro, con uno scarto positivo di 4,5 punti percentuali rispetto al totale, una caratteristica che riflette la storica diffusione del modello cooperativo nel comparto, tanto che, secondo elaborazioni della Fondazione Metes su dati Istat, nel 2020 le cooperative rappresentavano il 9,7% degli occupati nell’industria alimentare. Dal punto di vista organizzativo le imprese agroalimentari si caratterizzano per una prevalenza di strutture plurilocalizzate (54,8%), sebbene questa incidenza sia inferiore di 8,4 punti percentuali rispetto alla media complessiva del campione. Questo dato suggerisce una certa frammentazione geografica delle attività produttive, probabilmente legata alla necessità di presidiare territori diversi per garantire l’approvvigionamento delle materie prime agricole. La dimensione aziendale rappresenta un altro elemento di interesse. Nonostante un’elevata percentuale di non risposte (47,2%), tra i lavoratori che hanno fornito informazioni valide emerge una netta predominanza di grandi imprese con oltre 250 dipendenti (56,6%), anche se con un divario negativo di 10,3 punti percentuali rispetto alla media generale. Le medie imprese (50-249 dipendenti) coinvolgono il 17% degli intervistati mentre le piccole realtà sotto i 15 dipendenti, soglia critica per la costituzione delle rappresentanze sindacali, riguardano appena il 2,4% del campione.  

Sul fronte dell’internazionalizzazione il 52,7% dei lavoratori opera in imprese non multinazionali mentre il 12% è occupato in multinazionali estere, un dato che riflette la doppia anima del settore, diviso tra una componente fortemente radicata nei territori e una più esposta alla competizione globale. Le strategie aziendali rivelano un quadro contrastante. Si registra una minore propensione all’innovazione rispetto alla media, con solo il 18,7% dei lavoratori che percepisce significativi investimenti in innovazione di processo (-2,5% rispetto al dato generale) e il 15,1% in innovazione di prodotto (-4,2%) mentre il settore dimostra una spiccata sensibilità alle tematiche ambientali, con il 27,2% dei dipendenti (+7,9%) che segnala una forte attenzione al risparmio energetico e il 19,2% (+3,8%) che riconosce l’impegno delle aziende nell’introduzione di innovazioni eco-compatibili. L’organizzazione del lavoro nel settore agroalimentare si distingue per un marcato ricorso alla flessibilità, con il 33,9% dei lavoratori (+10,2% rispetto alla media) operante con turni, il 21,7% (+3,5%) impegnato nei giorni festivi e il 17,3% (+9,3%) addetto a turni notturni. Lo straordinario retribuito riguarda il 15,5% degli intervistati (+3,4%) mentre un preoccupante 6,7% denuncia la presenza di straordinari non retribuiti né compensati con riposi. Le criticità occupazionali includono la monotonia dei compiti (32% dei casi, +7,9% rispetto al totale), gli sforzi fisici rilevanti (25,8%, +11,6%) e l’esposizione a pericoli fisici (11,2%, +4,6%), a cui si aggiungono fenomeni di discriminazione (6,3%, +1,2%) e vessazioni (4,8%, +1%). La soddisfazione lavorativa appare complessivamente bassa. Il 64,7% dei rispondenti (-4% rispetto alla media) valuta negativamente le prospettive di carriera, il 51,4% (+5,2%) esprime insoddisfazione riguardo alla realizzazione personale e il 36,3% (-7,9%) critica apertamente i livelli retributivi. La conciliazione tra vita professionale e privata rappresenta un problema per il 30,7% degli intervistati (+3,9%), un dato che riflette le particolari criticità di un settore caratterizzato da ritmi produttivi intensi e spesso legati alla stagionalità. L’adesione sindacale raggiunge l’85,6% (+3,9% rispetto al totale), con una quota di rappresentanti (25,6%) significativamente superiore alla media generale (18,5%). Le motivazioni dell’iscrizione combinano esigenze di tutela individuale (32,4% dei casi) con adesione a valori universalistici (34,1%). La partecipazione alle attività sindacali vede il 54,5% dei lavoratori (+7%) coinvolto in assemblee ma una quota non trascurabile (27,5%) non partecipa ad alcuna iniziativa. La contrattazione integrativa risulta meno diffusa (39,9%, -3,8%) che nel resto del campione, con un preoccupante 41,5% di lavoratori che dichiara di non conoscere l’esistenza di accordi aziendali. Per quanto riguarda le rappresentanze, le Rsu sono presenti nel 50,3% delle aziende (-7% rispetto alla media) mentre le Rls raggiungono il 32,8% (+3,6%), un dato che potrebbe riflettere la maggiore attenzione alle questioni di sicurezza in un settore ad alto rischio infortunistico. Le priorità indicate dai lavoratori per l’azione sindacale rivelano una chiara gerarchia di bisogni. In testa si collocano gli aumenti salariali (66,6% delle preferenze), la difesa dell’occupazione (49,4%, +6,2%) e il contrasto alla precarietà (43,6%, +2%). Tra i servizi da potenziare emergono con forza il reinserimento lavorativo (39,8%) e l’assistenza fiscale (33,3%, +5,3%). A livello aziendale, le richieste principali vertono sul miglioramento delle retribuzioni (64,5%), la razionalizzazione di orari e turni (30,4%, +9,6%) e il potenziamento della sicurezza sul lavoro (25,9%, +8%).  

Nicola Cicala e Roberto Errico analizzano le trasformazioni strutturali e organizzative del settore finanziario italiano basandosi sulle risposte di 3.326 lavoratori del comparto. Il saggio si concentra su quattro elementi chiave che hanno plasmato il settore: la crescente centralità della finanza nell’economia, la concentrazione in pochi grandi gruppi, la fragilità agli shock esterni e l’impatto della digitalizzazione. A partire dagli anni ’80 il settore ha subito una radicale trasformazione, guidata dalla deregolamentazione e dalla globalizzazione, che ha ampliato il ruolo della finanza nell’economia e favorito la concentrazione in pochi oligopoli. La crisi del 2008 e l’avanzamento della digitalizzazione hanno ulteriormente accelerato i cambiamenti, ridisegnando modelli organizzativi e professionalità. In Italia, tra il 2008 e il 2022, il numero di banche è crollato da 796 a 439, con un calo del 20% dei dipendenti e del 40% delle filiali. Le assicurazioni, meno colpite dalla crisi, hanno mantenuto l’occupazione stabile ma la competizione ha eroso salari e diritti, portando alla nascita di contratti meno tutelati. La digitalizzazione ha rivoluzionato il settore, espandendo i servizi online e integrando l’intelligenza artificiale, con un crescente ricorso a partnership con fintech e insurtech per ridurre i costi. Questa trasformazione ha ridefinito mansioni e competenze. Ad esempio il ruolo del cassiere è destinato a scomparire, sostituito da soluzioni automatizzate. Le filiali e le agenzie si sono convertite in centri commerciali, con un aumento dello stress lavoro-correlato. Le nuove assunzioni privilegiano competenze IT specializzate mentre i sindacati temono perdite occupazionali e l’erosione dei confini tra settori. Nonostante salari più alti della media italiana (grazie al peso dei lavoratori anziani) e una minore incidenza del lavoro atipico, la “grande trasformazione” del settore ha alterato profondamente l’organizzazione del lavoro. L’analisi delle condizioni di lavoro nel settore finanziario, con particolare attenzione ai tempi, ai luoghi di lavoro, all’autonomia, all’intensità lavorativa, alla salute e alla soddisfazione dei dipendenti, restituisce un quadro complesso e articolato, caratterizzato da una forte adozione del lavoro agile ma anche da significative criticità organizzative e psico-fisiche. Innanzitutto, per quanto riguarda i tempi e le modalità di lavoro, emerge una struttura tradizionale per la maggior parte dei lavoratori, con contratti full-time concentrati su cinque giorni settimanali e senza turni. La vera novità è rappresentata dalla massiccia diffusione del lavoro da remoto, resa possibile dalla natura stessa delle attività del settore che presentano un indice di tele-lavorabilità del 99%. Attualmente il 41,5% dei dipendenti opera in modalità ibrida o completamente da remoto, una percentuale che raddoppia la media generale di tutti i settori lavorativi (20,9%). Questo dato è ancora più accentuato tra i lavoratori degli uffici di direzione, dove le aziende hanno investito in modo significativo in strumenti tecnologici per supportare lo smart working, con un incremento dei costi IT del 6,8% nel solo 2020. Durante i periodi più critici della pandemia il ricorso al lavoro da remoto è stato pressoché totale per i dipendenti delle direzioni generali assicurative (99%) e molto elevato per quelli bancari (66%). Al contrario, i lavoratori delle filiali bancarie e delle agenzie assicurative in appalto hanno continuato a operare in presenza, sia per la natura essenziale dei servizi offerti sia per scelte organizzative interne. Le preferenze dei lavoratori del settore finanziario rispetto alle modalità di lavoro rivelano una chiara propensione per modelli ibridi che alternino giorni in ufficio e giorni da remoto. Il 75,3% degli intervistati ritiene ideale una combinazione delle due modalità, con il 43,8% che predilige lavorare da remoto 1-2 giorni a settimana (contro il 22,7% della media generale) e il 20% che opterebbe per 3-4 giorni (a fronte dell’8,8% del totale dei rispondenti). Solo il 20% dei lavoratori finanziari preferirebbe lavorare sempre in presenza, una percentuale significativamente inferiore rispetto alla media complessiva (circa il 50%). L’atteggiamento verso il lavoro agile varia in base a diverse variabili demografiche: i più giovani (under 34) e i più anziani (over 60) sono i più favorevoli, con percentuali rispettivamente del 39,5% e del 39%. Gli uomini mostrano una maggiore convinzione (37,7%) rispetto alle donne (34,8%) mentre a livello geografico il nord-ovest si distingue per la più alta adesione (43,8%), seguito dal nord-est (36,2%), dal centro (30,7%) e dal Mezzogiorno (23,9%). Nonostante la flessibilità offerta dal lavoro da remoto, il settore presenta rilevanti criticità in termini di autonomia e controllo. Il 61,9% dei lavoratori denuncia un livello di autonomia basso o nullo (contro il 54,8% della media generale), con obiettivi e metodi di lavoro spesso definiti dall’alto senza un reale coinvolgimento dei dipendenti. Solo il 34,1% degli under 35 e il 45% degli over 60 dichiarano un livello medio-alto di autonomia mentre tra i non-quadri questa percentuale scende al 32%. Questo scarso controllo sul proprio lavoro si traduce in un’elevata intensità lavorativa. L’86,4% dei dipendenti del settore finanziario segnala un carico di lavoro medio-alto, un dato superiore alla media generale (79,9%), nonostante il settore non preveda sforzi fisici o condizioni di pericolo tipici di altri ambiti lavorativi. In particolare, l’80% dei rispondenti afferma di dover sostenere ritmi e carichi di lavoro eccessivi e il 78% lavora spesso con scadenze rigide e strette. Un dato significativo è che il 20,2% dei lavoratori dichiara di assumere spesso responsabilità superiori alle proprie mansioni, suggerendo una gestione poco strutturata delle attività e una possibile discrepanza tra ruoli formali e compiti effettivi. Le conseguenze di queste condizioni di lavoro sulla salute psicofisica dei dipendenti sono particolarmente gravi. Il 40% dei lavoratori del settore finanziario sperimenta un disagio fisico complesso, il dato più alto tra tutti i settori analizzati, condiviso solo con quello della comunicazione e dell’editoria. Le patologie più diffuse includono mal di schiena e dolori muscolari (59,2%), mal di testa (37,2%) e problemi alla vista (54,1%). Lo stress colpisce il 62,4% dei dipendenti mentre ansia, depressione e insonnia riguardano il 46,4%, con una maggiore incidenza tra gli under 50. Le donne over 60 sono particolarmente esposte a problemi muscolo-scheletrici (73,5%). Inoltre, il 17,8% delle lavoratrici ha dichiarato di sentirsi discriminata sul luogo di lavoro (contro il 7,8% degli uomini), un dato che, seppur in linea con la media generale, riflette dinamiche di genere problematiche all’interno del settore. La soddisfazione complessiva dei lavoratori risulta piuttosto bassa, soprattutto in relazione alle prospettive di carriera (72% di insoddisfatti) e alla realizzazione personale (54% di insoddisfatti). In tema di retribuzione, si osserva una netta divisione generazionale. Il 31,7% degli under 50 si dichiara poco o per nulla soddisfatto dello stipendio, contro il 19,8% degli over 50. Questo divario è riconducibile ai cambiamenti nei percorsi professionali avvenuti negli ultimi decenni, con la progressiva riduzione degli avanzamenti di carriera automatici a favore di modelli più competitivi e basati sulla specializzazione. Per quanto riguarda il rapporto con i sindacati, il dato complessivo mostra un tasso di sindacalizzazione eccezionalmente elevato, con oltre il 90% degli intervistati iscritti a un’organizzazione sindacale, di cui la stragrande maggioranza (92,1%) alla CGIL, a testimonianza di un radicamento storico del sindacato in questo settore. Proprio questa apparente omogeneità nasconde significative differenze interne che rischiano di minare la capacità rappresentativa del sindacato nel medio-lungo periodo. La frattura generazionale emerge con particolare evidenza nell’analisi delle motivazioni dell’iscrizione sindacale. Mentre i lavoratori più anziani (over-60) aderiscono al sindacato principalmente per il suo ruolo nell’affermazione collettiva di diritti e tutele (54,8%), i giovani lavoratori (under-34) mostrano un approccio più strumentale e individuale, con solo il 27,4% che condivide questa visione collettiva. Questa differenza di prospettiva si riflette nella partecipazione concreta alle attività sindacali. Se tra gli over-60 solo il 29,7% dichiara di non aver partecipato a nessuna iniziativa sindacale nell’ultimo anno, questa percentuale sale al 42% tra gli under-34. Il divario è ancora più marcato se si considerano forme di partecipazione attiva come gli scioperi (coinvolgono solo l’11,9% dei giovani contro il 27,9% dei senior) o le elezioni sindacali (8,5% vs 17,4%). Un aspetto particolarmente preoccupante è la scarsa conoscenza degli strumenti contrattuali tra le nuove generazioni. Il 64,2% degli under-35 ammette di avere una comprensione limitata del CCNL applicato al proprio lavoro mentre addirittura il 43,1% ignora l’esistenza stessa della contrattazione aziendale di secondo livello. Ancora più significativo è il dato secondo cui il 37,7% dei giovani lavoratori non sa se nella propria azienda esista una rappresentanza sindacale, contro una media del 7% tra gli over-34. Questa carenza informativa rappresenta un serio rischio per la futura capacità del sindacato di mantenere il proprio ruolo rappresentativo. Le differenze generazionali si manifestano con uguale intensità nelle priorità rivendicative. I lavoratori under-50 concentrano le loro richieste principalmente su salari e inquadramenti professionali (70,1% degli under-34 e 66% dei 35-49enni), riflettendo le difficoltà economiche e le scarse prospettive di carriera che caratterizzano queste fasce d’età. Al contrario, i lavoratori più anziani mostrano maggiore preoccupazione per temi come la stabilità occupazionale e la creazione di nuovi posti di lavoro, dimostrando un approccio più solidaristico e di lungo periodo. La situazione appare particolarmente critica al Sud, dove si registra non solo una contrazione occupazionale più marcata ma anche un minore radicamento sindacale tra i giovani lavoratori. Questo dato territoriale si interseca con il divario generazionale, creando una situazione a macchia di leopardo che richiederebbe interventi differenziati e mirati.

La sfida per il sindacato appare quindi duplice perché deve riuscire a colmare il gap informativo e partecipativo che lo separa dalle giovani generazioni di lavoratori e deve trovare il modo di conciliare le diverse (e a volte contrapposte) esigenze delle varie fasce d’età, mantenendo al tempo stesso la propria unità d’azione. La capacità di rispondere a questa sfida complessa determinerà in larga misura la possibilità per le organizzazioni sindacali di mantenere il loro tradizionale ruolo di riferimento nel settore finanziario nei prossimi decenni. Emergono inoltre differenze significative nell’utilizzo dei servizi sindacali. I lavoratori più anziani tendono a rivolgersi al sindacato per questioni specifiche e hanno una relazione continuativa mentre i giovani lavoratori mostrano un approccio più sporadico e utilitaristico, contattando il sindacato solo in caso di necessità immediate. Per quanto riguarda il settore metalmeccanico, il libro offre un’indagine condotta da Matteo Gaddi basata su un campione di 3.947 lavoratori. I dati raccolti rivelano una composizione del settore fortemente segmentata, con una preponderanza di rispondenti impiegati nella fabbricazione di prodotti metallici (25,54%), macchinari e impianti (16,49%) e in altre industrie manifatturiere (32,20%), quest’ultima categoria inclusa nell’analisi per l’alta percentuale di iscritti alla Fiom. La distribuzione geografica evidenzia una marcata concentrazione nel Nord Italia, che da solo rappresenta quasi il 70% del campione, con il Nord-Ovest al 40,97% e il Nord-Est al 28,83% mentre il Mezzogiorno si ferma a un esiguo 6,44%. Questa disparità territoriale riflette le dinamiche industriali del Paese, con il Nord motore produttivo e il Sud in posizione marginale. Dal punto di vista demografico il settore rimane a forte predominanza maschile (72,27%), sebbene si registrino percentuali più elevate di lavoratrici in alcuni sotto-settori, come le “Altre industrie manifatturiere” (38,7%) e la fabbricazione di apparecchi elettrici ed elettrodomestici (31,3%). L’età media dei lavoratori è piuttosto elevata, con il 39,43% degli intervistati nella fascia 50-59 anni e solo l’11,73% sotto i 34 anni, segnale di un possibile problema di ricambio generazionale. Il livello di istruzione mostra una maggioranza di diplomati (64%) mentre quasi un lavoratore su cinque possiede solo la licenza media e circa il 17% ha un titolo universitario. Uno dei temi centrali dell’analisi è l’impatto dell’innovazione tecnologica, in particolare delle soluzioni legate all’Industria 4.0, che sta ridefinendo processi produttivi e organizzazione del lavoro attraverso l’integrazione di connettività, automazione avanzata, big data e sistemi di controllo digitale. Emerge una netta divergenza nella percezione di queste innovazioni tra operai e impiegati/quadri. Mentre il 29% degli impiegati e quadri riconosce un investimento significativo in innovazione degli strumenti di lavoro, solo il 14,5% degli operai concorda con questa valutazione. Allo stesso modo, per quanto riguarda l’innovazione di prodotto o servizio, il 24,5% degli impiegati/quadri la giudica rilevante, contro appena il 10,4% degli operai. Questa discrepanza può essere interpretata in diversi modi. Una prima ipotesi è che le innovazioni abbiano interessato maggiormente il lavoro d’ufficio e la gestione digitale, rendendole più visibili agli impiegati. Al contrario, gli operai potrebbero non percepire immediatamente i cambiamenti tecnologici nelle macchine o nei sistemi di produzione, soprattutto quando si tratta di aggiornamenti software o integrazioni con piattaforme ERP/MES. Per quanto riguarda l’accesso alla formazione, i dati mostrano che tra gli operai che hanno ricevuto corsi di aggiornamento la percentuale di chi riconosce gli investimenti in innovazione è quasi doppia rispetto a chi non ne ha avuti. Ciò suggerisce che la mancata consapevolezza delle trasformazioni in atto sia legata anche a un deficit di informazione e formazione. L’indagine esplora le conseguenze dell’innovazione sulle condizioni lavorative, in particolare sul rischio di sostituzione del lavoro umano con macchinari autonomi, sull’aumento dei ritmi produttivi e sul peggioramento dello stress psico-fisico. Vengono utilizzati indicatori complessi per misurare l’”intensità del lavoro” e la “dipendenza tecnologica”, evidenziando come le nuove tecnologie possano portare a un maggiore controllo sui tempi e sui compiti dei lavoratori, con possibili ricadute negative sul benessere individuale. Le risposte rivelano preoccupazioni diffuse riguardo all’aumento della pressione lavorativa e alla riduzione dell’autonomia decisionale, con un impatto significativo sulla salute fisica e mentale dei dipendenti. La questione della sicurezza sul lavoro è un altro nodo cruciale perché l’introduzione di macchinari più avanzati non sempre si traduce in una riduzione degli infortuni, anzi, in alcuni casi l’interazione uomo-macchina può generare nuovi rischi. Inoltre l’aumento dello stress legato alla sorveglianza digitale e alla richiesta di prestazioni sempre più efficienti contribuisce al deterioramento delle condizioni psico-sociali.  

Gli operai dimostrano una maggiore apprensione rispetto agli impiegati-quadri riguardo agli effetti potenzialmente negativi delle innovazioni tecnologiche, con un 21,48% di loro che teme la sostituzione del proprio lavoro da parte della tecnologia, una percentuale più che doppia rispetto al 9,13% registrato tra gli impiegati-quadri. Allo stesso modo, la preoccupazione per un incremento dei ritmi lavorativi indotto dalle nuove tecnologie è significativamente più marcata tra gli operai (41,31%) che tra gli impiegati-quadri (34,20%).  

Emerge una contraddizione rilevante nelle risposte degli operai. Il 59,02% ritiene che la tecnologia possa migliorare le loro condizioni lavorative, una percentuale non trascurabile (41,31%) esprime timori circa l’aumento dei ritmi produttivi. Questa apparente incongruenza potrebbe essere interpretata come il riflesso della natura intrinsecamente ambivalente delle innovazioni tecnologiche, capaci di generare contemporaneamente effetti positivi e negativi. Da un lato, infatti, le nuove tecnologie possono portare a miglioramenti ergonomici, riducendo ad esempio la necessità di sollevare carichi pesanti o assumere posture dannose, e possono aumentare i livelli di sicurezza. Dall’altro lato, però, questi stessi progressi sono spesso funzionali all’obiettivo primario delle aziende, cioè l’incremento della produttività, che si traduce in ritmi più serrati, carichi di lavoro più intensi e una maggiore pressione sui lavoratori. Le condizioni di lavoro nel settore appaiono già critiche, con una larga maggioranza di lavoratori che segnala la presenza di scadenze rigide e strette (oltre il 60% tra gli operai e addirittura il 76% tra gli impiegati-quadri riferiscono di affrontarle “qualche volta” o “spesso”) e di ritmi di lavoro eccessivi (62,3% degli operai e 65,43% degli impiegati-quadri). Questa situazione è ulteriormente confermata dall’indice di intensità del lavoro, che colloca oltre il 70% degli operai e il 77,6% degli impiegati-quadri nella fascia di carico lavorativo medio-alto. Questi dati suggeriscono che l’organizzazione del lavoro nel settore metalmeccanico è già caratterizzata da un elevato livello di stress e pressione, indipendentemente dall’introduzione di nuove tecnologie. Tra gli operai il 37,58% afferma che i propri ritmi sono “spesso” vincolati da macchinari o robot, una percentuale che scende drasticamente al 2,77% tra gli impiegati-quadri. Al contrario, questi ultimi risultano più influenzati dai programmi informatici per l’assegnazione dei compiti, con il 25,69% che dichiara di subirne l’impatto “spesso”. L’indice di dipendenza tecnologica rivela che il 16,95% degli operai si trova in una condizione di alta dipendenza dalla tecnologia, contro appena il 3,21% degli impiegati-quadri, sottolineando come l’autonomia decisionale degli operai sia fortemente limitata dai sistemi tecnologici. Le analisi statistiche più avanzate, basate su regressioni lineari e logistiche, evidenziano come la percezione dell’impatto delle tecnologie vari in base a fattori quali la professione, l’età e la dimensione dell’azienda. Gli operai generici, ad esempio, mostrano la maggiore preoccupazione riguardo al rischio di sostituzione, mentre impiegati e operai qualificati appaiono meno allarmati. Allo stesso tempo, la convinzione che la tecnologia possa migliorare le condizioni lavorative è più diffusa tra i lavoratori specializzati, sia tecnici che amministrativi, ma tende a affievolirsi all’aumentare delle dimensioni aziendali e dell’età dei lavoratori. Questo dato potrebbe indicare che nelle grandi aziende, dove gli investimenti in tecnologie avanzate sono più consistenti, i lavoratori sperimentano direttamente gli effetti negativi dell’innovazione, come l’aumento dei ritmi e la riduzione dell’autonomia. Un ulteriore elemento degno di nota è la differenza di percezione tra iscritti e non iscritti al sindacato, con i primi che tendono a esprimere maggiori preoccupazioni riguardo alla sostituibilità del lavoro e alla dipendenza tecnologica. Questo potrebbe riflettere una maggiore consapevolezza delle criticità legate all’innovazione tecnologica tra i lavoratori più attivi sindacalmente ma anche sollevare interrogativi sulla capacità del sindacato di rappresentare efficacemente queste istanze nelle sedi opportune. La percezione della prevenzione dei rischi per la salute e la sicurezza è negativa per il 26,15% degli operai, una percentuale più che doppia rispetto al 10,89% degli impiegati mentre solo il 29,79% degli operai e il 49,53% degli impiegati la giudicano “buona”. Questi dati assumono un carattere particolarmente allarmante se letti alla luce degli incidenti sul lavoro e delle patologie professionali, anche quelle non ufficialmente riconosciute.  

Tra i problemi di salute fisica più diffusi spiccano i dolori muscolari e il mal di schiena, segnalati dal 69,72% degli operai e dal 44,96% degli impiegati, un dato che trova riscontro anche a livello europeo, dove l’indagine EWCTS 2021 riporta che il 61% dei lavoratori nell’UE e il 56% in Italia soffrono di disturbi simili. Altre problematiche frequenti includono il mal di testa (17,66% operai, 27,90% impiegati), i problemi alla vista (18,84% operai, 42,32% impiegati) e, tra gli operai, i disturbi all’udito (13,87%) e le lesioni fisiche (6,53%). Sebbene non sempre riconosciuti come patologie professionali, questi disturbi sono percepiti dai lavoratori come direttamente legati all’attività lavorativa. L’indice di disagio fisico (SALFI) mostra che solo il 23,97% degli operai e il 36,60% degli impiegati si trovano in una condizione di assente o basso disagio mentre il 30,27% degli operai e il 27,54% degli impiegati sperimentano un disagio fisico complesso. A questi si aggiungono i disturbi psico-sociali, con livelli elevati di stress (47,25% operai, 54,04% impiegati) e ansia/depressione (25,71% operai, 32,10% impiegati). L’indice di disagio psico-sociale (SALPSI) conferma che solo il 46,56% degli operai e il 39,32% degli impiegati hanno un disagio assente o basso mentre il 20,50% degli operai e il 26,34% degli impiegati presentano un disagio psico-sociale complesso. Combinando disagio fisico e psico-sociale, l’indice SALTOT rivela una situazione ancora più preoccupante, solo il 14,37% degli operai e il 18,11% degli impiegati non sperimentano alcun disagio significativo, il 36,53% degli operai e il 37,80% degli impiegati si trovano in una condizione di disagio psico-fisico complesso. Questi dati sono strettamente legati alle condizioni lavorative, caratterizzate da ritmi elevati, mansioni ripetitive (42% degli operai le svolgono “spesso”), dequalificazione (46% degli operai) e responsabilità sproporzionate rispetto all’inquadramento (54% degli operai).  

L’indice di esposizione al rischio psico-sociale (ESPRIS) mostra che il 44,78% degli operai e il 41,01% degli impiegati sono esposti a un rischio medio-alto mentre l’indice di autonomia e controllo evidenzia che il 75,60% degli operai e il 36,32% degli impiegati hanno scarsa o nessuna autonomia nella gestione del proprio lavoro. Questi fattori contribuiscono a un ambiente lavorativo rigido e controllato che contrasta con la retorica dell’Industria 4.0, spesso presentata come un miglioramento delle condizioni lavorative attraverso l’arricchimento delle mansioni. Nonostante l’elevata presenza sindacale nelle aziende (il 90% degli operai e l’86% degli impiegati dichiarano di avere una RSU), emerge una scarsa conoscenza degli strumenti contrattuali. Il 9,02% degli operai e il 6,30% degli impiegati non conoscono il CCNL applicato nella loro azienda. Il 44,72% degli operai e il 51,22% degli impiegati ne hanno una conoscenza solo superficiale. Ancora più preoccupante è il fatto che il 29,76% degli operai e il 31,67% degli impiegati non sappiano se nella loro azienda esista un accordo di secondo livello, segnalando un deficit di comunicazione e coinvolgimento. Le motivazioni di iscrizione al sindacato sono principalmente legate alla tutela collettiva (46,41% operai, 50,96% impiegati) mentre solo una minoranza lo considera utile per servizi individuali (13,17% operai, 15,75% impiegati). Tra i non iscritti le ragioni principali sono il costo elevato (28,57% operai, 24,60% impiegati) e la mancata conoscenza delle attività sindacali (25,71% operai, 30,44% impiegati). Le richieste di miglioramento da parte dei lavoratori si concentrano soprattutto su retribuzione (76,41% operai, 66,31% impiegati), formazione professionale (36,86% operai, 36,00% impiegati) e riduzione dei carichi di lavoro (24,91% operai, 22,06% impiegati). La salute e sicurezza è una priorità per il 26,98% degli operai ma solo per il 6,14% degli impiegati, riflettendo una diversa percezione del rischio tra le due categorie. Temi come smart working e diritto alla disconnessione, invece, sono rilevanti soprattutto per gli impiegati (26,62% e 7,40%). Sara Corradini, Umberto Bettarini e Clemente Tartaglione analizzano i settori industriali rappresentati dalla categoria Filctem che abbraccia un ampio spettro produttivo comprendente la moda, la chimica farmaceutica, la gomma-plastica, il vetro-ceramica e l’energia. Questo aggregato industriale riveste un’importanza strategica per l’economia italiana, con numeri che ne sottolineano il peso specifico: oltre 1.140.000 addetti, di cui il 91% dipendenti, un fatturato complessivo che supera i 540 miliardi di euro e un export di 180 miliardi. Una caratteristica distintiva dell’aggregato è la sua eterogeneità, sia in termini di struttura produttiva che di composizione della forza lavoro. La presenza femminile si attesta al 40% con forti disparità settoriali. Nel sistema moda le donne rappresentano il 56% degli occupati, nei settori dell’estrazione-raffinazione, dell’energia-gas-acqua e del vetro la loro incidenza scende al 15-20%. Anche la distribuzione anagrafica mostra squilibri con i giovani under 29 che costituiscono solo il 10% della forza lavoro, con punte minime nel settore estrattivo (5,3%) e nella gestione delle reti idriche (2,9%). La componente straniera, invece, ha raggiunto il 15%, riflettendo la crescente internazionalizzazione del mercato del lavoro. Dal punto di vista dimensionale le micro e piccole imprese (fino a 49 addetti) rappresentano il 42% dell’occupazione dipendente e il 64% delle unità produttive ma contribuiscono solo al 20% del fatturato complessivo, segnalando una marcata polarizzazione tra piccole realtà artigianali e grandi gruppi industriali. La geografia produttiva è altrettanto disomogenea. Il Nord Italia assorbe quasi il 60% degli addetti, con la Lombardia in testa (25% del totale) mentre il Centro pesa per il 24% (di cui il 13% in Toscana) e il Mezzogiorno per il 16%, con la Campania che da sola rappresenta un terzo di quest’ultima quota. L’analisi dei singoli settori rivela differenze ancora più marcate. Il sistema moda, con i suoi 473.144 occupati e un fatturato di 85 miliardi, si caratterizza per la preponderanza di piccole imprese (73% della forza lavoro), un elevato tasso di femminilizzazione (56%) e un massiccio ricorso al part-time (24%, contro una media manifatturiera del 12%). Nonostante il peso rilevante nell’export (65% del fatturato), il comparto mostra criticità formative, con il 33% dei lavoratori in possesso al massimo della licenza media. L’Italia detiene il primato europeo in questo settore, con il 26% dell’occupazione UE. All’estremo opposto si colloca la chimica farmaceutica che con 186.917 addetti e un fatturato di 98,9 miliardi è un settore dominato da grandi imprese (solo il 18% degli occupati lavora in aziende sotto i 50 dipendenti) e con una struttura occupazionale più qualificata (solo il 33% di operai, contro una media manifatturiera del 66%). L’export rappresenta il 70% del fatturato, collocando l’Italia al terzo posto in Europa, dopo Germania e Francia. Il comparto gomma-plastica, con 200.047 occupati e un fatturato di 55 miliardi, presenta una marcata componente operaia (71%) e una limitata presenza femminile (27%). L’export pesa per il 44% del fatturato, posizionando l’Italia al terzo posto nel contesto europeo. Particolarmente interessante è il caso del vetro e della ceramica. Se il vetro, con 55.386 addetti e un fatturato di 10,7 miliardi, mostra performance di export più modeste (44%), la ceramica italiana domina invece il mercato europeo, con il 34% dell’occupazione UE e un export che raggiunge l’81% del fatturato (5,2 miliardi su 6,5 totali). Il settore energia-gas-acqua, infine, con i suoi 136.381 occupati e un fatturato record di 228 miliardi, si distingue per la netta prevalenza di grandi imprese (solo il 40% degli addetti lavora in aziende sotto i 250 dipendenti) e per una struttura occupazionale fortemente maschilizzata (79% uomini). L’Italia si colloca al quarto posto in Europa per occupazione in questo comparto. Sul piano contrattuale l’83% dei lavoratori ha un impiego a tempo pieno e indeterminato ma le donne mostrano un ricorso al part-time molto più accentuato (18,2% contro il 2,6% degli uomini). La dimensione aziendale conferma la polarizzazione del sistema produttivo. Il 45,3% degli intervistati lavora in imprese con oltre 250 dipendenti, con punte del 73% nel petrolio e del 62% nell’energia, mentre solo nella moda si registra una quota significativa (9%) di occupati in microimprese. Nonostante l’interesse crescente per il lavoro da remoto, emerso soprattutto durante la pandemia, il 78% degli intervistati non ha mai svolto attività in questa modalità. La distribuzione settoriale è tuttavia molto disomogenea. Nei settori a più alta intensità manifatturiera, come gomma-plastica, moda e vetro-ceramica, la quasi totalità dei lavoratori (90%) non ha mai avuto accesso al telelavoro mentre nel comparto delle utility la percentuale scende al 42%. Questo dato riflette la natura delle mansioni, con le professioni più autonome e intellettuali (tipiche dei settori a più alto valore aggiunto) che presentano una maggiore predisposizione al lavoro agile. L’autonomia lavorativa è comunque un fattore limitato in generale. Solo il 14% dei lavoratori intervistati ha un controllo significativo sull’organizzazione del proprio lavoro, potendo gestire in modo flessibile orari, metodi o obiettivi. Tuttavia nei settori utility e chimica farmaceutica, dove il lavoro da remoto è più diffuso, i livelli di autonomia sono leggermente superiori (16-18%), suggerendo una correlazione tra le due dimensioni.  

Quasi la metà dei lavoratori (48,5%) non ha partecipato ad alcuna attività formativa nell’ultimo anno, un dato che nasconde però profonde differenze settoriali. Nel settore moda, il 69% degli intervistati non ha svolto formazione mentre nelle utility questa percentuale crolla al 23%, segnalando una maggiore attenzione delle aziende di questo comparto allo sviluppo delle competenze. Quando la formazione viene erogata, nel 89,4% dei casi è finanziata interamente dal datore di lavoro, indicando un ruolo marginale di altre fonti di finanziamento (come fondi interprofessionali o iniziative personali). Le condizioni di lavoro presentano numerosi elementi di criticità. Il 36,2% dei lavoratori deve affrontare scadenze rigide e pressanti, il 33,9% svolge mansioni ripetitive e monotone mentre il 30,7% denuncia ritmi eccessivi e il 28,1% carichi di lavoro insostenibili. Un lavoratore su cinque (18%) si trova spesso a svolgere compiti dequalificati rispetto alle proprie capacità e una piccola ma significativa quota (8%) opera in condizioni di pericolo fisico, con picchi del 11% nei settori della chimica-farmaceutica e del petrolio. Preoccupa anche il 4% che dichiara di subire soprusi, vessazioni o molestie sul luogo di lavoro. La soddisfazione lavorativa è generalmente bassa con solo il 2,5% degli intervistati che si dichiara molto soddisfatto delle prospettive di carriera, l’8,4% della retribuzione e l’11% della conciliazione tra vita professionale e privata. Considerando anche chi si ritiene “abbastanza soddisfatto”, le percentuali salgono rispettivamente al 62% per la retribuzione e al 66% per l’equilibrio vita-lavoro. Il settore moda registra i livelli più bassi di soddisfazione (50,4% per la retribuzione e 59,9% per la conciliazione) mentre i lavoratori del petrolio e delle utility sono i più contenti, con il 73,3% soddisfatto dello stipendio e il 75,4% della gestione del tempo tra lavoro e vita privata. Le prospettive di carriera restano invece un punto dolente in tutti i comparti, con solo il 26,1% degli intervistati complessivamente soddisfatto. La crisi pandemica ha avuto ripercussioni molto diverse a seconda dei settori. Nel comparto moda solo il 19% delle aziende non ha sospeso l’attività, contro il 70% delle utility e della chimica farmaceutica. Le chiusure prolungate (oltre sei mesi) sono state comunque un fenomeno marginale in tutti i settori. Anche l’impatto sui redditi è stato diseguale. Se il 65,6% del campione totale non ha subito variazioni retributive, nei settori moda, petrolio e vetro-ceramica questa percentuale scende al 55%, con il 35% dei lavoratori che ha visto diminuire il proprio reddito. In media, quasi un quarto degli intervistati (23,8%) ha subito un calo retributivo a causa della pandemia. Solo il 13,9% dei lavoratori dichiara di non aver avuto alcun problema di salute legato all’attività professionale. I disturbi più diffusi sono di natura muscolo-scheletrica (61,2%), seguiti da stress (54,1%), ansia, depressione e insonnia (32,2%) e problemi alla vista (30,5%). Gli infortuni denunciati all’INAIL riguardano il 2,4% del campione e le malattie professionali riconosciute sono pari al 2,4%. Una quota significativa di lavoratori (17,1%) giudica insufficienti le misure di prevenzione adottate dalla propria azienda, con punte del 23,6% nella moda e del 21,1% nella gomma-plastica. Le utility emergono come il settore più dinamico in termini di innovazione: il 38,1% dei lavoratori ritiene che la propria azienda abbia investito molto in prodotti o processi innovativi mentre nel comparto petrolifero il 43% valuta positivamente l’impegno nel risparmio energetico. Al contrario, moda, gomma-plastica e vetro-ceramica mostrano percentuali molto più basse (15-25%), segnalando un ritardo negli investimenti in innovazione e sostenibilità. La maggior parte dei lavoratori (76%) non ritiene che il proprio lavoro possa essere sostituito dalla tecnologia, anche se il 36,8% teme che l’automazione possa portare a un aumento dei ritmi lavorativi. L’indagine rivela che circa l’80% degli intervistati della categoria Filctem è iscritto a un sindacato, senza differenze significative di genere o settore. Tuttavia mentre il 62,1% è iscritto senza ricoprire ruoli rappresentativi, il 20,1% svolge attivamente funzioni sindacali come RSU, RSA o RLS. Un dato interessante è la discrepanza di genere in questi ruoli. Il 23,6% degli uomini intervistati sono rappresentanti sindacali, contro solo il 15,3% delle donne. Il 17,8% del campione, invece, non è iscritto ad alcuna organizzazione sindacale.  

Le motivazioni dell’iscrizione al sindacato sono chiare. Il 44,5% degli iscritti ritiene che il sindacato giochi un ruolo cruciale nell’affermazione dei diritti collettivi e il 39,7% lo vede come uno strumento di tutela individuale. Tra i non iscritti il 27% dichiara di non conoscere sufficientemente le attività sindacali e il 25% cita i costi elevati dell’iscrizione come deterrente. L’indagine ha approfondito le aspettative dei lavoratori verso l’azione sindacale, evidenziando priorità ben definite. La maggior parte degli intervistati (69,4%) chiede un maggiore impegno sul fronte dell’inquadramento professionale e delle retribuzioni. In termini di strategia contrattuale, il 58,7% ritiene che la contrattazione nazionale debba essere potenziata mentre il 50,5% focalizza l’attenzione sulla contrattazione integrativa aziendale. Sul piano politico-istituzionale, i lavoratori chiedono al sindacato di concentrarsi principalmente su tre fronti: l’aumento dei salari (67%, con un picco del 75% nel settore moda), la difesa dell’occupazione (47%) e il contrasto alla precarietà (40,1%). Per quanto riguarda i servizi, emerge la richiesta di un potenziamento dell’assistenza per l’inserimento lavorativo (52%) e del supporto legale nelle vertenze (42%). Un dato preoccupante riguarda la conoscenza degli strumenti contrattuali. Il 57% dei lavoratori ammette di conoscere poco o nulla il CCNL applicato nella propria azienda e solo l’8% dichiara di averne una padronanza approfondita. Inoltre il 35% degli intervistati (con punte del 50% nel settore moda) non è nemmeno a conoscenza dell’esistenza di una contrattazione integrativa di secondo livello nella propria azienda. Lo studio condotto da Chiara Mancini offre una panoramica sulle condizioni di lavoro nel settore dei trasporti, con un focus specifico sull’intensità del lavoro, il disagio fisico e psico-sociale e l’impatto dell’innovazione tecnologica. Il campione analizzato è composto da 1.169 questionari, rappresentativi di diversi sotto-settori: il trasporto ferroviario (271 questionari), il trasporto pubblico locale (227), il magazzinaggio e le attività di supporto ai trasporti (205) e il trasporto merci via terra (203). Altri settori, come il trasporto aereo (68 questionari), risultano meno rappresentati, con meno di 40 unità ciascuno. Dal punto di vista professionale il campione è composto per due terzi da operai e tecnici mentre un terzo è rappresentato da impiegati, con una quota residuale di quadri e dirigenti (4%) e di lavoratori impegnati nella vendita al pubblico (2%). La distribuzione varia tra i sotto-settori. Ad esempio nel magazzinaggio e nel trasporto pubblico locale la componente operaia raggiunge rispettivamente il 78,5% e il 77,5% mentre nei settori del trasporto aereo e della viabilità e autostrade prevale il lavoro impiegatizio. Le ferrovie, invece, si distinguono per una maggiore presenza di quadri e dirigenti (12,9%), un dato significativamente più alto rispetto agli altri comparti. Il settore dei trasporti si caratterizza per una forte prevalenza maschile (71,3%), con un’eccezione nel trasporto aereo, dove le donne rappresentano il 42,6% del campione. L’età media dei lavoratori è concentrata nelle fasce 35-49 anni (43,6%) e 50-59 anni (27,6%) mentre gli over 60 costituiscono il 10,4% e gli under 35 il 18,4%. Quest’ultimo dato è superiore alla media generale dei settori analizzati (10,9%), suggerendo una maggiore presenza di giovani nel comparto, soprattutto in ruoli operai e tecnici (19,7% degli under 35). Dal punto di vista geografico quasi la metà dei questionari proviene dal Nord Italia (56,1%), seguito dal Centro (33%) e dal Mezzogiorno (18,5%), con una maggiore incidenza di risposte dal Sud rispetto alla media generale. La maggior parte dei lavoratori ha un contratto a tempo indeterminato full-time (77,7%) e un livello di istruzione medio-alto, con il 67,1% in possesso di un diploma o qualifica professionale. Le retribuzioni seguono una distribuzione gaussiana, con il 67,9% del campione che percepisce un reddito annuo compreso tra 15.001 e 30.000 euro. I lavoratori delle ferrovie e della viabilità e autostrade hanno redditi più elevati mentre quelli del magazzinaggio e del trasporto merci si collocano al di sotto della media settoriale. Il campione è fortemente sindacalizzato. Il 63,5% è iscritto a un sindacato e il 23,9% ricopre ruoli di rappresentanza. Solo il 12,5% non è né iscritto né rappresentante. La presenza di strutture sindacali varia notevolmente tra i sotto-settori. Ferrovie e trasporto pubblico locale mostrano un’elevata presenza di RSU e RLS con una forte copertura della contrattazione di secondo livello. Trasporto merci via terra e magazzinaggio registrano invece una minore rappresentanza sindacale. Nel trasporto merci, ad esempio, il 19,1% dichiara l’assenza totale di rappresentanza (contro una media del 7,2% negli altri settori) e solo il 15,1% ha una RSU. La contrattazione di secondo livello è presente nel 55,2% dei casi ma nel trasporto merci questa percentuale scende al 38,4%, con quasi la metà dei lavoratori (48%) che dichiara di non sapere se esista. I dati sulla salute dei lavoratori sono particolarmente critici. Solo il 13% del campione non ha riportato nessun problema di salute legato al lavoro nell’ultimo anno. Le patologie più diffuse includono: mal di schiena e dolori muscolari (65,1%), con picchi nel magazzinaggio (73,9%) e nel trasporto merci (71,5%); stress (55%), particolarmente elevato nel trasporto merci (57%) e nel trasporto pubblico locale (57,1%); ansia, depressione e insonnia (33,5%), più frequenti nelle ferrovie (37,2%) e problemi alla vista (26,4%), con un divario di genere significativo, infatti le donne ne soffrono in misura maggiore (con differenze di 10-14 punti percentuali rispetto agli uomini). Questi dati sono in linea con le statistiche INAIL che evidenziano come l’81% delle malattie professionali nel settore riguardano l’apparato muscolo-scheletrico, spesso a causa di sollevamento di carichi, posture scorrette e movimenti ripetitivi. Inoltre il 39,8% degli occupati percepisce un elevato rischio legato a posizioni lavorative stancanti o dolorose. L’organizzazione del lavoro gioca un ruolo cruciale nel disagio fisico e psico-sociale. Tra i fattori più critici abbiamo:  

1. Turni irregolari: il 55,8% lavora spesso a turni, con punte del 66,2% nel settore ferroviario.  

2. Lavoro notturno e festivo: il 43% lavora spesso nei weekend/festivi mentre il 26% svolge turni di notte.  

3. Bassa autonomia decisionale: il 45% del campione dichiara di non avere alcun controllo su orari, metodi o obiettivi di lavoro, con ripercussioni sulla soddisfazione lavorativa.  

Un dato particolarmente preoccupante riguarda le condizioni dei giovani lavoratori under 35 che risultano maggiormente esposti a situazioni lavorative estreme. Il 69,3% di loro lavora spesso a turni, il 59,4% nei fine settimana o nei giorni festivi e il 38,7% di notte, percentuali che decrescono progressivamente con l’aumentare dell’età. Il 51% dei giovani dichiara di subire un’alta intensità lavorativa, contro il 40,6% degli over 60. Queste condizioni si traducono in un maggior disagio psico-sociale. Il 39,4% degli under 35 sperimenta un disagio complesso, a fronte di una media del 27,4% nelle altre fasce d’età. Tale situazione riflette una crescente sensibilità delle nuove generazioni verso tematiche legate al benessere mentale e all’equilibrio tra vita privata e professionale. Le priorità di miglioramento indicate dai lavoratori confermano queste criticità. La retribuzione si conferma come la principale preoccupazione, indicata dal 65,3% del campione (con picchi del 69,3% tra i giovani). Seguono gli orari e i turni di lavoro (42,9% ma 52,5% tra gli under 35), i carichi di lavoro (29%) e la conciliazione tra vita professionale e privata (22,7%, con punte del 32,1% tra i più giovani). La possibilità di contrattare individualmente le proprie condizioni lavorative incide sulla soddisfazione. Chi può farlo riporta livelli più alti di contentamento rispetto a retribuzione, conciliazione e realizzazione personale. Si tratta di una minoranza mentre la maggioranza dei lavoratori denuncia una scarsa soddisfazione su questi fronti. Le differenze tra rappresentanti sindacali, iscritti e non iscritti al sindacato sono significative. I rappresentanti sindacali attribuiscono maggiore importanza a orari e turni (47,8%) e alla salute e sicurezza sul lavoro (27,8%) mentre i non iscritti mostrano un interesse più marcato per lo smart working (18,1% contro una media dell’8,3%). Inoltre i non iscritti chiedono con più forza aumenti salariali (75,4%) e sostegni economici in caso di povertà o disoccupazione (21,7%) mentre i rappresentanti sindacali spingono per interventi sull’occupazione (51,8%) e sul contrasto alla precarietà (49,3%). Per quanto riguarda il livello di innovazione tecnologica nel settore dei trasporti, i dati rivelano una situazione complessivamente poco dinamica, con il 46% delle imprese che dichiara bassi investimenti in innovazione negli ultimi due anni, il 30,4% livelli medi e solo il 23,6% alti livelli di innovazione. Questa fotografia riflette una tendenza generale medio-bassa, simile a quella di altri settori (dove le percentuali sono rispettivamente 41%, 28% e 20%), ma con significative differenze tra i vari comparti del trasporto. Emergono due realtà contrapposte: da un lato, i settori delle ferrovie e della viabilità autostradale mostrano tassi di innovazione più elevati, dall’altro, il trasporto merci, il magazzinaggio, il trasporto pubblico locale (TPL) e il trasporto aereo registrano performance inferiori alla media. Questa disparità è strettamente legata alla dimensione aziendale. Le piccole imprese (fino a 49 dipendenti) presentano un indice di innovazione particolarmente basso (72,9% con bassi livelli, contro una media del 46,2%) mentre solo l’8,6% di esse raggiunge alti livelli di innovazione (contro una media del 23,5%). Al contrario, le grandi aziende, spesso ex statali come nel caso di RFI e ASPI, dispongono di maggiori risorse per investire in innovazione, confermando che la scala aziendale gioca un ruolo determinante.  

Un dato particolarmente significativo è la correlazione tra innovazione e presenza di contratti aziendali di secondo livello. Il 66,3% delle imprese con media innovazione e il 65,6% di quelle con alta innovazione hanno accordi sindacali, a dimostrazione del fatto che buone relazioni industriali non solo non ostacolano l’innovazione ma possono anzi favorirla. Questo aspetto è cruciale perché sfata il luogo comune secondo cui il sindacato sia un freno al progresso tecnologico. La percezione dei lavoratori rispetto all’impatto dell’innovazione tecnologica è un altro elemento centrale dell’analisi. Il 68,6% del campione ritiene che il proprio lavoro non sia sostituibile dalla tecnologia, un livello di ottimismo superiore alla media generale di tutti i settori (dove solo il 13,2% teme la sostituzione). Tuttavia le opinioni variano sensibilmente a seconda del settore di appartenenza. Nel trasporto merci via terra, ad esempio, il 76,8% dei lavoratori non teme la sostituzione ma il 45,6% (con una netta differenza tra operai, al 51,5%, e impiegati, al 35,4%) ritiene che la tecnologia aumenterà i ritmi di lavoro. Questo dato si spiega con l’attuale utilizzo di algoritmi per l’organizzazione del lavoro, spesso finalizzati a intensificare la produttività piuttosto che a migliorare le condizioni operative. Nel trasporto pubblico locale, invece, il 62,3% dei lavoratori crede che la tecnologia migliorerà le loro condizioni, grazie soprattutto al rinnovo del parco mezzi in molte realtà locali, che ha avuto un impatto positivo sul benessere fisico degli autisti. Allo stesso tempo, solo il 33,2% teme un aumento dei ritmi, con una differenza significativa tra operai (meno preoccupati) e impiegati (più pessimisti, al 37,8%), probabilmente a causa del maggiore carico di lavoro di coordinamento legato ai sistemi di gestione dati. Il magazzinaggio presenta un quadro diverso. Qui il 24,3% dei lavoratori (con un picco del 26% tra gli operai) teme di essere sostituito dalla tecnologia, un dato coerente con la crescente automazione dei processi logistici. Nonostante ciò, il 54,7% ritiene che le condizioni di lavoro miglioreranno mentre solo il 33,3% (35,1% tra gli operai) si aspetta un aumento dei ritmi, un dato sorprendentemente basso rispetto alla letteratura sul tema che invece evidenzia rischi significativi di intensificazione del lavoro in questo settore. Nelle ferrovie, infine, il 27,2% dei lavoratori teme la sostituzione, un dato elevato che riflette la consapevolezza delle potenzialità tecnologiche del settore, nonostante il ruolo ancora insostituibile del personale nella sicurezza operativa. Allo stesso tempo, il 65% crede in un miglioramento delle condizioni di lavoro ma il 41,1% si aspetta un incremento dei ritmi, suggerendo una possibile correlazione tra automazione e pressione lavorativa. Una delle contraddizioni più interessanti emerse dall’indagine è la coesistenza di fiducia nel miglioramento delle condizioni di lavoro (58,2%) e preoccupazione per l’aumento dei ritmi (38,1%). Questa apparente “scissione” può essere spiegata dal fatto che l’innovazione sembra associarsi a una maggiore autonomia dei lavoratori nella gestione di orari, metodi e obiettivi. Pur in un contesto generale di scarsa autonomia, questa aumenta progressivamente con il livello di innovazione. Nelle aziende ad alta innovazione il 13,4% dei lavoratori gode di alta autonomia, contro solo il 3,8% nelle realtà a bassa innovazione. Ciò suggerisce che i lavoratori attribuiscono grande valore alla possibilità di scelta, considerandola forse più importante degli stessi effetti dell’innovazione sui ritmi produttivi.  

Le differenze generazionali sono un altro aspetto rilevante. Gli under 35 mostrano maggiore preoccupazione per la sostituzione (28,6% contro una media del 19,7%) e per l’aumento dei ritmi (46% contro il 38,1% medio) ma anche maggiore fiducia nel miglioramento delle condizioni (62,1% contro il 58,2%). Al contrario, gli over 60 sono più ottimisti (l’80% non teme la sostituzione), probabilmente perché il loro orizzonte lavorativo è più breve. Un altro dato significativo è il disallineamento tra la base e i rappresentanti sindacali. I non iscritti esprimono maggiore ottimismo sugli impatti della tecnologia mentre i delegati sono più critici, segnalando una possibile divergenza di percezioni tra lavoratori e loro rappresentanti. L’innovazione sembra avere ricadute positive anche sul benessere lavorativo. Nelle imprese ad alta innovazione il disagio psico-sociale complesso interessa solo il 22,9% dei lavoratori (contro il 29,5% medio) mentre il 43,6% riporta un disagio assente o basso (contro il 35,4% generale). Anche la soddisfazione per la realizzazione personale è più elevata. Il 12,5% si dichiara “molto soddisfatto” nelle aziende più innovative, contro una media del 6,6%. Allo stesso modo, la qualità della prevenzione nei luoghi di lavoro è giudicata migliore. Il 42,7% la valuta “buona” nelle realtà ad alta innovazione, contro il 26,9% medio. Francesca Mandato nel libro si occupa dei servizi privati in Italia. L’indagine si concentra sui settori di riferimento della Filcams che rappresentano il 20,5% del campione totale (6.368 questionari su 31.014) mentre l’intero comparto dei servizi (pubblici e privati) copre il 72,3% delle risposte. Uno degli aspetti più rilevanti è l’estrema eterogeneità dei settori analizzati, cosa che rende difficile tracciare confini netti tra le diverse attività. Il gruppo più consistente è quello del “Commercio, ristorazione e alberghi”, con 2.487 questionari (8% del totale), di cui il 47,4% proviene dal commercio al dettaglio, il 21,8% dalla ristorazione e il 9,5% dagli alberghi. Seguono il “Pulimento, mense, sorveglianza e giardinaggio” (711 questionari, di cui 316 sul pulimento e 226 sulle mense), le “Attività per famiglie e personale domestico” (88 questionari), le “Agenzie di viaggio e servizi immobiliari” (76) e l’informatica (689). Una quota significativa (1.761 questionari) non ha specificato il settore ma è stata classificata come servizi privati in base al tipo di datore di lavoro. Dal punto di vista demografico emerge una forte prevalenza femminile (54,4% come media nazionale), con picchi nel pulimento e mense (77%) e nel commercio e ristorazione (72,4%) mentre l’informatica è dominata da uomini (69,2%). L’età media è elevata. Solo l’11,6% ha meno di 35 anni, con una maggiore presenza giovanile nel commercio (13,4%) e nell’informatica (12%) mentre il pulimento e le attività domestiche hanno una forza lavoro più anziana (oltre il 14% con più di 60 anni). Geograficamente i lavoratori si concentrano al Nord (57,6%), con l’informatica che arriva al 64% di presenze settentrionali mentre il Mezzogiorno è sotto-rappresentato (11,7% contro una media nazionale più alta). I titoli di studio sono generalmente medio-bassi, con il 40,5% dei lavoratori del pulimento che possiede solo l’istruzione primaria mentre l’informatica e le attività domestiche registrano percentuali più elevate di laureati (rispettivamente 23,9% e 31,8%). Sul piano occupazionale i dati confermano un elevato tasso di precarietà. Nel commercio e ristorazione il 18,4% ha un contratto a termine e il 41,2% un part-time involontario mentre nel pulimento e mense queste quote salgono rispettivamente al 16,8% e al 59%. Una parte significativa del lavoro in questo settore (63%) è svolta in appalto per la pubblica amministrazione, con picchi del 77,8% nelle mense e del 75% nel giardinaggio. Le tipologie occupazionali variano notevolmente. Nel commercio al dettaglio prevale la vendita al pubblico (83,4%), nel pulimento il lavoro operaio (75,2%) mentre nell’informatica dominano gli impiegati (84,2%). Le condizioni di lavoro sono critiche, con ritmi elevati, carichi eccessivi e scarsa autonomia. Quasi il 46% dei lavoratori del commercio e ristorazione dichiara un’”alta intensità lavorativa” mentre il 26,9% segnala di operare spesso in condizioni di pericolo fisico. La conciliazione vita-lavoro è un problema per il 48,9% degli addetti al commercio, contro una media nazionale del 36,4%. Lo smart-working è poco diffuso (solo il 5,3% nel commercio), fatta eccezione per l’informatica (77,7%). Il lavoro a turni, notturno e festivo è molto comune, con il 65,2% nel commercio e il 53,9% nel pulimento che lavora spesso con turnazioni. L’autonomia decisionale è limitata infatti il 49,4% nel commercio e il 54% nel pulimento non hanno alcun controllo su tempi, metodi o obiettivi del proprio lavoro.  

I redditi sono inferiori alla media nazionale, con il 31,9% dei lavoratori del commercio che guadagna tra 10.000 e 15.000 euro lordi annui e solo il 6,6% supera i 25.000 euro. La pandemia ha aggravato la situazione con il 37,1% del commercio e il 28,6% del pulimento che hanno visto diminuire il reddito mentre il 28,5% ha subito un aumento del tempo di lavoro. La conoscenza del CCNL di riferimento varia notevolmente. Nel commercio, ristorazione e alberghi, il 13,4% dei lavoratori dichiara di non conoscerlo affatto mentre il 48,8% ne ha una conoscenza solo superficiale. La situazione è ancora più critica nel pulimento, mense, sorveglianza e giardinaggio, dove il 22,9% ignora completamente il proprio contratto collettivo. Per quanto riguarda le motivazioni dell’iscrizione al sindacato, prevale una visione universalista. Il 42% degli intervistati aderisce perché riconosce al sindacato un ruolo cruciale nell’affermare diritti e tutele per tutti. Una quota significativa (38,5%) lo fa per ragioni individuali, principalmente per tutelare i propri diritti. Nel pulimento e mense questa motivazione personale sale al 53,1% mentre nell’informatica prevale invece l’orientamento universalista (53,4%). Tra i non iscritti le ragioni principali sono la scarsa conoscenza delle attività sindacali (29,4%) e il costo elevato dell’iscrizione (23,6%). Alcuni lavoratori percepiscono il sindacato come troppo remissivo (18,7%) o, al contrario, eccessivamente antagonista (4,6%) mentre una minoranza (10%) teme ripercussioni sul lavoro. Le priorità sindacali indicate dai lavoratori riflettono le criticità del settore. A livello aziendale le richieste principali riguardano inquadramento e retribuzioni (64,5% nel commercio e 77,4% nel pulimento), orari e turni (49,4% e 34,3%) e carichi di lavoro (26,9% e 27,9%). Emerge anche l’esigenza di migliorare la conciliazione vita-lavoro, specialmente nel commercio, e di rafforzare la sicurezza sul lavoro, specie nel pulimento e mense. A livello nazionale le rivendicazioni principali sono l’aumento dei salari (74,2% nel commercio, 79,1% nel pulimento), la difesa dell’occupazione e il contrasto alla precarietà. Un’ulteriore richiesta è quella di sostegni economici in caso di povertà o disoccupazione, legata alla stagionalità e alla discontinuità lavorativa in settori come il turismo e gli appalti. La contrattazione di sito, appalti e filiera è particolarmente rilevante per il pulimento e mense (31,7%) rispetto a una media generale dell’8,3%, evidenziando la necessità di strategie sindacali più articolate in contesti lavorativi frammentati. Infine tra i servizi delle Camere del Lavoro i lavoratori richiedono soprattutto assistenza legale, supporto per il reinserimento lavorativo e aiuto nell’accesso all’indennità di disoccupazione, quest’ultima particolarmente sentita nei comparti con alta instabilità occupazionale. Marco Benati analizza il comparto delle Costruzioni in Italia che comprende Edilizia (incluso il restauro dei beni artistici), Cemento, Lapidei, Laterizi, Manufatti, Legno e Arredo. L’indagine, pur non essendo statisticamente rappresentativa, fornisce spunti significativi sulle condizioni di lavoro, le aspettative verso il sindacato e il rapporto tra formazione e innovazione, correlati alle azioni sindacali della Fillea Cgil e ai trend rilevati dagli enti bilaterali e dagli Osservatori nazionali.  Negli ultimi anni il settore delle costruzioni ha registrato una forte crescita, trainata dagli investimenti in opere pubbliche e dai bonus fiscali, in particolare il Superbonus. Nel 2021 la produzione ha raggiunto 78 miliardi di euro in più rispetto al 2020 (anno segnato dalla crisi pandemica) e 52 miliardi in più rispetto al 2019, confermando una ripresa che si è protratta anche nel 2022 e nella prima metà del 2023. Il comparto è stato il principale motore della crescita economica italiana, contribuendo per il 27% all’aumento del Pil nel 2021 (+6,7%), una performance superiore a quella di altri paesi europei come Francia (24%), Germania (2,6%) e Spagna (dove il contributo è stato negativo nonostante una crescita del Pil del 5,5%). L’aumento degli investimenti ha favorito una crescita occupazionale, soprattutto nell’edilizia, che da sola rappresenta il 75,4% degli occupati del comparto (1.045.942 lavoratori nel 2021). Tuttavia la struttura del settore rimane frammentata, con una netta predominanza di microimprese. Nel 2021 il 96,63% delle aziende aveva meno di 10 dipendenti mentre solo lo 0,04% superava i 250 addetti. Tra il 2017 e il 2021 si è osservata una lieve riduzione delle imprese più piccole a favore di quelle con 10-49 dipendenti (+0,49% nell’edilizia), suggerendo un lento processo di concentrazione. Un dato significativo riguarda l’età media dei lavoratori che nel settore edile è di 47,2 anni, la più alta tra i comparti del privato. Tra il 2014 e il 2021 la quota di under 30 è diminuita del 2,26% mentre gli over 50 sono aumentati del 10,44%. L’89% delle nuove assunzioni riguarda lavoratori migranti, evidenziando una difficoltà nell’attrarre giovani e manodopera locale. Nonostante l’aumento dell’occupazione il settore soffre di una grave carenza di competenze specializzate. Le stime indicano una mancanza di circa 90.000 figure professionali nel 2023, con picchi che potrebbero raggiungere 150.000 unità considerando le esigenze del Pnrr. Tra le figure più richieste abbiamo muratori specializzati (70.000), carpentieri, cappottisti, idraulici, pavimentisti (30.000), tecnici digitali/BIM e esperti di efficienza energetica (7.000) e addetti a macchine complesse e autisti (8.000). Il 53% delle imprese ha dichiarato di aver rinunciato a lavori per mancanza di personale e il 46% identifica questa carenza come il principale ostacolo alla crescita nel 2023, dopo l’aumento dei prezzi (68%) e i ritardi nelle consegne (60%). Per rispondere a questa emergenza, viene proposto un Piano Straordinario di Formazione che includa il potenziamento delle scuole edili e del Catalogo Nazionale Formativo (previsto dal CCNL 2022); lo sviluppo di Its dedicati e percorsi di formazione professionale regionale; programmi per l’inserimento di migranti e richiedenti asilo e accordi con paesi extra-Ue per il riconoscimento di flussi migratori autorizzati. Il comparto delle Costruzioni presenta un elevato tasso di infortuni, soprattutto in edilizia, con una mortalità dello 0,47% sul totale delle denunce, il dato più alto tra i settori industriali. Gli infortuni riguardano quasi esclusivamente uomini (97%), riflettendo la composizione di genere della forza lavoro. Nonostante le normative in materia, la scarsa prevenzione nei cantieri rimane un problema strutturale che richiede interventi urgenti per migliorare le condizioni di sicurezza. La composizione di genere del campione conferma la storica predominanza maschile in questi ambiti lavorativi. I maschi costituiscono il 68,49% dei rispondenti nel settore delle costruzioni, il 66,67% nel legno e addirittura l’88,33% nei settori del cemento e affini. Nell’edilizia si registra una presenza femminile più significativa (30,14%) rispetto agli altri comparti, dovuta principalmente alla presenza di figure tecniche-amministrative e restauratrici, quest’ultime particolarmente qualificate e spesso in possesso di titoli di studio elevati. Dal punto di vista geografico l’indagine ha riscontrato una minore partecipazione dal Sud Italia, con solo il 10,61% dei rispondenti nel settore delle costruzioni, l’8,18% nel legno e il 15,38% nei settori del cemento e lapidei. Al contrario, il Nord-Est ha mostrato una forte rappresentanza nel comparto del legno (44,03% delle risposte) mentre il Centro Italia è emerso come area predominante per i settori del cemento e lapidei (61,54%). Questa distribuzione geografica riflette la dislocazione delle attività produttive e anche le difficoltà del sindacato nel raggiungere i lavoratori delle piccole imprese e del Mezzogiorno, dove la frammentazione aziendale e il lavoro irregolare rendono più complessa l’organizzazione sindacale. Per quanto riguarda il livello di istruzione, oltre la metà dei rispondenti (52,7%) possiede un diploma o una qualifica professionale mentre il 16,6% ha un titolo universitario o superiore. Il dato più rilevante è l’anomalia nel settore delle costruzioni, dove il 24,31% dei lavoratori ha una laurea, una percentuale significativamente più alta rispetto agli altri comparti (5,5% nel legno e 3,3% nei materiali). Questo fenomeno è spiegabile con la presenza di figure altamente specializzate come i restauratori e i tecnici di cantiere che spesso richiedono percorsi formativi avanzati. Le mansioni prevalenti sono quelle operaie e tecniche che rappresentano il 55,6% delle risposte nell’edilizia, il 67,2% nel legno e l’81,7% nei settori del cemento e affini mentre gli impiegati costituiscono una quota minore (38,4% nell’edilizia, 26,2% nel legno e 16,7% nei materiali). Un aspetto cruciale emerso dall’indagine è il forte coinvolgimento sindacale dei rispondenti: il 75% è iscritto al sindacato o ricopre ruoli di rappresentanza (RSA, RSU, RLS), un dato che suggerisce una sovrarappresentazione di lavoratori con condizioni contrattuali più stabili e protette rispetto alla media del settore, dove invece il sommerso e la precarietà sono diffusi, specialmente nelle microimprese e nelle filiere dei subappalti. Questo limite metodologico va tenuto in considerazione nell’interpretazione dei risultati poiché è probabile che le condizioni più critiche (lavoro nero, infortuni non denunciati, sottoinquadramento) siano sottostimate.  

Le condizioni di lavoro descritte dai rispondenti sono caratterizzate da un’elevata intensità. Il 53,68% degli intervistati svolge mansioni ripetitive e noiose, il 64,3% riferisce carichi di lavoro eccessivi e il 67,08% lamenta ritmi di lavoro insostenibili, spesso legati a scadenze rigide (70,62%). Nonostante questa situazione, l’innovazione tecnologica è vista con un certo ottimismo. Il 65,11% dei lavoratori dell’edilizia e il 64,91% di quelli del legno si aspettano che l’introduzione di nuove tecnologie possa migliorare le loro condizioni lavorative. Solo una minoranza teme di essere sostituita dalle macchine (11,95% nelle costruzioni, 25,3% nel legno), un dato coerente con il basso livello di robotizzazione attuale nel settore (solo il 2,4% delle imprese edili utilizza robot, contro il 19,1% della media manifatturiera). La formazione professionale risulta diffusa soprattutto nell’edilizia, dove il 55% dei rispondenti ha partecipato a corsi nel 2021, grazie anche al ruolo degli enti bilaterali e delle scuole edili. Al contrario, nel settore del legno il 65,79% dei lavoratori non ha svolto alcuna formazione, un dato preoccupante se si considera la crescente complessità tecnologica delle lavorazioni. La correlazione tra formazione e sicurezza sul lavoro è evidente. Quasi la metà dei rispondenti (49%) opera in condizioni pericolose, con il 16,21% che si trova spesso in situazioni di rischio. Gli infortuni sono frequenti (8% nell’edilizia, 7% nella fabbricazione di mobili) ma la percentuale di quelli non denunciati all’INAIL è elevata (33% nell’edilizia), segno di un fenomeno di sottodichiarazione legato alla precarietà e alla paura di ritorsioni. I sistemi di prevenzione sono giudicati insufficienti dal 16,8% dei lavoratori nell’edilizia e dal 27,9% nel legno, settori in cui i rischi sono amplificati dall’uso di macchinari pesanti e dalla frammentazione produttiva. I problemi di salute più diffusi includono disturbi muscolo-scheletrici (mal di schiena per il 60% nell’edilizia e l’80% nel restauro), stress (40,7% nell’edilizia, 57,3% nel legno) e ansia/depressione (23,3% nell’edilizia). Sul fronte retributivo nel 2021 il 57,3% dei lavoratori dell’edilizia guadagnava tra 15.000 e 30.000 euro netti annui, con differenze significative tra i settori: nel restauro, ad esempio, il 35,8% rientrava nella fascia 15.001-20.000 euro, mentre nei laterizi e manufatti il 30,9% dichiarava un reddito tra 20.001 e 25.000 euro. Dal 2020 il reddito è diminuito per il 24,6% degli addetti nell’edilizia e per quasi il 30% nel legno mentre è aumentato per il 16,4% nell’edilizia e per il 24,5% nel restauro, settore che ha beneficiato di un rilancio post-pandemico. Parallelamente i tempi di lavoro sono rimasti stabili o sono aumentati per la maggioranza dei rispondenti, con casi significativi di straordinario non retribuito (10,9% “spesso” nell’edilizia). Le richieste principali rivolte al sindacato riguardano l’aumento dei salari (72,6% nell’edilizia), la difesa dell’occupazione (40,9%) e la lotta alla precarietà (37,3%). Un tema particolarmente sentito è quello del sottoinquadramento che nell’edilizia colpisce il 49% dei lavoratori (60% tra gli operai), con punte del 55% tra i migranti, spesso relegati ai livelli più bassi nonostante l’anzianità. Nonostante gli sforzi del sindacato, la questione ambientale fatica a emergere come priorità, segno di una percezione ancora limitata del legame tra transizione ecologica e opportunità occupazionali. Chiudiamo con il capitolo il “Professionista oggi” di Daniele Di Nunzio ed Emanuele Toscano che rappresenta un approfondimento significativo sulle condizioni del lavoro autonomo ad alta qualificazione in Italia, inserendosi all’interno di un più ampio percorso di ricerca e azione portato avanti in collaborazione con la CGIL e le sue strutture sindacali. La ricerca si propone di analizzare le dinamiche che caratterizzano la vita professionale di queste figure, con l’obiettivo di fornire strumenti utili per migliorarne la rappresentanza sindacale e le tutele. Il quadro teorico di riferimento evidenzia come il lavoro autonomo ad alta qualificazione sia un universo estremamente eterogeneo, sia a livello internazionale che nel contesto italiano. A livello globale si osserva una crescita costante di queste figure, soprattutto nei settori dei servizi e della conoscenza, trainata da modelli produttivi che privilegiano flessibilità, specializzazione ed esternalizzazione di attività anche altamente qualificate. Questa forma di lavoro presenta rischi strutturali, tra cui la precarizzazione, la subordinazione mascherata e la mancanza di adeguate tutele sociali. La letteratura internazionale distingue tra una definizione hard e una soft di lavoro autonomo. La prima si basa su criteri oggettivi, come l’assenza di dipendenti, mentre la seconda considera aspetti qualitativi, come l’autonomia decisionale e la propensione all’imprenditorialità. Questa distinzione è cruciale per comprendere le diverse condizioni in cui operano i professionisti autonomi che possono variare notevolmente in base al contesto normativo, al settore di attività e alle caratteristiche individuali. Uno dei temi centrali emersi dalla letteratura è il rischio di una progressiva precarizzazione del lavoro autonomo, legato alla diffusione di forme ibride che sfumano i confini tra subordinazione e autonomia. Fenomeni come il falso autonomo o il lavoro autonomo economicamente dipendente sono sempre più diffusi, soprattutto in contesti caratterizzati da modelli produttivi basati su flessibilità e riduzione dei costi. Allo stesso tempo i professionisti autonomi mostrano livelli di soddisfazione più elevati rispetto ai dipendenti per quanto riguarda l’autonomia e la realizzazione personale ma esprimono maggiori preoccupazioni per la sicurezza del reddito e la stabilità lavorativa. Un altro aspetto rilevante è quello dell’azione collettiva. Tradizionalmente i professionisti autonomi sono stati poco inclini alla sindacalizzazione ma negli ultimi anni si sono sviluppate nuove forme di mutualismo e auto-organizzazione, soprattutto in settori come il giornalismo, lo spettacolo e le professioni creative. Queste esperienze dimostrano che, nonostante l’individualizzazione del lavoro, esistono margini per costruire reti di solidarietà e rivendicazione. Il contesto italiano presenta specificità che rendono il lavoro autonomo particolarmente complesso e frammentato. Con circa il 20% degli occupati coinvolti in questa forma di lavoro, l’Italia si colloca al di sopra della media europea ma il sistema è caratterizzato da un dualismo tra professioni regolamentate (con albi e ordini professionali) e non regolamentate, con conseguenti differenze in termini di tutele e riconoscimento sociale. Le professioni non regolamentate, in particolare, sono più esposte al rischio di precarietà e sfruttamento, spesso a causa della mancanza di un quadro normativo chiaro e di protezioni adeguate. Tra le caratteristiche principali del professionismo autonomo in Italia la ricerca evidenzia l’alta qualificazione richiesta per l’accesso a queste professioni, spesso legata a percorsi universitari o di alta formazione, e la forte propensione all’autonomia e alla responsabilizzazione individuale. Questa autonomia si scontra con una crescente subordinazione di fatto ai committenti che limita la libertà decisionale e aumenta il rischio di sfruttamento. La pandemia di Covid-19 ha ulteriormente accentuato le fragilità del lavoro autonomo, mettendo in luce l’assenza di ammortizzatori sociali specifici e l’esclusione da molte misure di sostegno al reddito. Molti professionisti hanno subito una drastica riduzione delle commesse, con ripercussioni economiche significative, soprattutto in settori come lo spettacolo e la cultura. Allo stesso tempo l’accelerazione della digitalizzazione ha introdotto nuove sfide, come l’uso crescente di piattaforme di intermediazione che, se da un lato facilitano l’accesso alle commesse, dall’altro aumentano il controllo sui lavoratori attraverso sistemi di reputazione e algoritmi. Il lavoro da remoto, già diffuso tra i professionisti autonomi prima della pandemia, è diventato ancora più pervasivo, con implicazioni sia positive (maggiore flessibilità) che negative (isolamento e difficoltà di conciliazione vita-lavoro). L’inchiesta è stata condotta attraverso un questionario online compilato da 878 professionisti autonomi, di cui 624 risposte sono state considerate valide. Il campione si caratterizza per una forte presenza femminile (61,6%), un’età media relativamente giovane (il 60% ha tra i 31 e i 50 anni) e un elevato livello di istruzione (il 60% possiede almeno una laurea, il 10% un dottorato). Le professioni più rappresentate sono gli archeologi (15,8%), i traduttori (14,1%) e gli attori (8,6%), settori in cui la CGIL ha storicamente investito in azioni di rappresentanza. Il 69% dei rispondenti svolge professioni non regolamentate, confermando la frammentazione e la diversificazione del lavoro autonomo in Italia. I risultati dell’inchiesta rivelano una serie di criticità comuni a molte di queste figure. In primo luogo l’impatto della pandemia è stato particolarmente severo, con una significativa riduzione delle commesse e delle opportunità di lavoro. In secondo luogo il rapporto con i committenti è spesso caratterizzato da una subordinazione di fatto, nonostante la formalità del lavoro autonomo, con conseguenti rischi di sfruttamento e precarietà. La formazione e le competenze digitali sono un altro tema cruciale. Sebbene l’uso delle tecnologie sia diffuso, mancano spesso percorsi di aggiornamento strutturati, soprattutto per le professioni non regolamentate. Infine la rappresentanza sindacale rimane un nodo critico. Solo una minoranza aderisce a sindacati o associazioni di categoria ma tra chi lo fa, prevale la scelta della CGIL, segnalando un potenziale per rafforzare il dialogo con queste figure. La pandemia di Covid-19 ha avuto un impatto profondo e differenziato sul lavoro indipendente in Italia, mettendo in luce fragilità strutturali già presenti ma amplificate dall’emergenza sanitaria. I dati raccolti dall’inchiesta rivelano che oltre il 25% dei lavoratori autonomi intervistati, uno su quattro, ha dovuto ricorrere a lavori diversi da quelli abituali per compensare il crollo dell’attività professionale durante il 2020, l’anno più critico. La discontinuità lavorativa è emersa con forza. Il 15% dei professionisti ha affrontato periodi di inattività tra una commessa e l’altra della durata di 4-6 mesi, il 7,4% ha vissuto pause di 7-9 mesi e il 6,5% addirittura di 10-12 mesi senza lavoro. Il 2021 ha segnato una parziale ripresa, con il lavoro indipendente che è riuscito a riassorbire l’impatto della crisi, tornando a livelli di attività simili a quelli pre-pandemici. Il governo italiano ha cercato di mitigare gli effetti economici della pandemia attraverso misure come il decreto “Cura Italia” (marzo 2020) e il “Decreto Rilancio” (maggio 2020) che hanno garantito sostegni economici mirati, soprattutto per i settori più colpiti come turismo e spettacolo. Nonostante questi interventi, il 36,5% dei lavoratori autonomi non ha ricevuto alcuna forma di sostegno al reddito nel 2020 mentre per il 47% l’indennità Covid-19 è stata l’unica fonte di aiuto. Solo una minoranza, poco più del 12%, ha potuto contare su sostegni erogati dalle casse professionali di riferimento, evidenziando una frammentazione del sistema di protezione sociale per questa categoria. La maggior parte (68,5%) degli autonomi opera con un numero limitato di clienti (1-5) mentre il 20% lavora in regime di mono-committenza, dipendendo cioè da un unico soggetto. La pandemia ha ridotto il numero di committenti ma non ha modificato sostanzialmente la struttura delle relazioni lavorative. Differenze significative emergono tra le varie professioni. Gli architetti presentano la più alta incidenza di mono-committenza (26,1%) mentre gli psicologi mostrano una maggiore diversificazione, lavorando con più clienti in modo paritario. Per valutare il grado di autonomia o subordinazione dei lavoratori autonomi lo studio ha considerato due variabili chiave: la quota di reddito proveniente dal committente principale e il livello di controllo esercitato da quest’ultimo sull’organizzazione del lavoro. I dati rivelano che il 22% dei professionisti dipende per oltre l’80% del proprio reddito da un unico committente, un dato che solleva interrogativi sulla reale autonomia di queste figure. Sul piano organizzativo il 53,5% degli intervistati dichiara di non subire vincoli significativi da parte dei committenti mentre il 26,2% deve rispettare orari di lavoro imposti e circa il 30% utilizza strumenti o spazi forniti dal cliente, elementi che avvicinano la loro condizione a quella dei lavoratori dipendenti. La percezione soggettiva dei professionisti conferma questa ambivalenza. Il 66% si definisce un “professionista autonomo con scarse tutele”, il 21% semplicemente un “lavoratore autonomo” e il 13,2% ammette di essere di fatto un “lavoratore dipendente non regolarizzato”. Le aspettative per il futuro riflettono un desiderio di maggiore stabilità. Il 44% chiede più tutele per il lavoro autonomo, il 23,7% auspica compensi più elevati e solo il 10,7% preferirebbe un impiego dipendente a tempo indeterminato. Le condizioni di lavoro dei professionisti autonomi si caratterizzano per ritmi intensi e carichi elevati. Il 34,6% supera le 40 ore settimanali mentre un quarto degli intervistati (25%) lavora meno di 20 ore, configurando una forma di part-time involontario. La continuità dell’attività è altamente variabile con il 62,4% che lavora tutti i giorni del mese ma il 10,5% ha meno di 10 giornate lavorative mensili, un dato che riflette la precarietà del settore. Sul fronte contrattuale emergono criticità significative. Quasi la metà dei professionisti svolge mansioni non previste nell’incarico originario e il 17,5% ha lavorato senza alcun contratto formale. La sicurezza sul lavoro è un altro nodo irrisolto. Il 9,8% ha subito infortuni professionali ma solo il 2% li ha denunciati, spesso per mancanza di coperture assicurative adeguate. La pandemia ha accelerato l’adozione di strumenti digitali, infatti il 38% dei professionisti utilizza social network generalisti (Facebook, Instagram) per promuovere la propria attività, il 37% piattaforme professionali (LinkedIn) e il 22% un sito web personale. Le piattaforme di intermediazione online hanno giocato un ruolo crescente, con il 20,5% degli intervistati che ha ottenuto commesse attraverso questi canali. Nonostante la digitalizzazione, l’autonomia operativa rimane alta. L’82% dei professionisti mantiene un controllo medio-alto sui progetti gestiti via piattaforma. La formazione è un altro ambito trasformato dalla crisi. Il 29% ha aumentato gli investimenti in qualificazione rispetto al periodo pre-pandemico, spesso sostenendone i costi in prima persona (45,5% dei casi). La formazione a distanza è stata valutata positivamente per accessibilità (70%) ed economicità (37%), nonostante alcune criticità nell’interazione con i docenti (30%) e nell’approfondimento dei contenuti (32%). Il sindacato rimane un riferimento per una parte significativa dei professionisti. Il 36% è iscritto a un’organizzazione sindacale o a un’associazione di categoria. Le richieste principali rivolte al sindacato includono: maggiori informazioni su diritti e normative (22,7%), assistenza per l’accesso alle indennità di disoccupazione (17,7%) e supporto legale per il recupero crediti (22,7%). In termini di priorità d’azione, i professionisti chiedono soprattutto tutele contro l’interruzione dell’attività (34,6%), aumenti dei compensi (33%) e protezioni in caso di malattia o maternità (15,9%).  

Il quadro economico dei lavoratori autonomi è preoccupante però, infatti il 30% guadagna meno di 10.000 euro netti all’anno, una soglia che configura situazioni di “lavoro povero”. Solo il 6,2% supera i 50.000 euro, con un divario di genere marcato. Le donne sono sovrarappresentate tra i redditi più bassi mentre gli uomini predominano nelle fasce alte.  

Il sistema previdenziale presenta gravi lacune. Solo il 28% dei professionisti è affiliato a una cassa professionale e appena il 21% ha una previdenza complementare, sebbene il 37% progetti di attivarla in futuro. Le prestazioni più richieste sono un aumento della pensione (52,7%) e un sostegno economico in caso di malattia (49,4%) mentre il 24,1% non è disposto a pagare ulteriori contributi.  

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