Intervista ad Alain Badiou

– Elia Pupil, Francesco Barbetta

Ringraziamo Salvatore Simioli per l’accurata traduzione e la grande disponibilità

Alain Badiou, nato a Rabat, in Marocco, il 17 gennaio 1937, è stato insegnante presso l’Università di Paris VIII Saint-Denis Vincennes. Attualmente è professore all’École normale supérieure di Parigi.

Tra i membri fondatori del Parti socialiste unifié, nel 1967 si unì ad un gruppo di studio intitolato a Baruch Spinoza, organizzato da Louis Althusser alla Scuola Normale e nello stesso anno partecipò alla fondazione dell’Union des communistes de France marxiste-léniniste, partito di ispirazione maoista di cui fu dirigente fino agli anni ’80. Partecipò al ’68. Influenzato dal pensiero di Althusser e Lacan, nel 1969 divenne membro dell’Università di Parigi VIII dove ebbe l’opportunità di confrontarsi con pensatori del calibro di Gilles Deleuze e Lyotard. Nel 1999 passa all’École normale supérieure. Badiou è anche un famoso drammaturgo.

Tra le sue opere principali troviamo: La République de Platon, Théorie du sujet, Saint Paul. La fondation de l’universalisme, L’Être et l’Événement, L’Hypothèse communiste e Métaphysique du bonheur réel.

1. Nel contesto dell’ipotesi comunista, come pensa che possa rinascere un nuovo polo rivoluzionario in Occidente, dopo il crollo delle socialdemocrazie e l’avvento della demagogia dell’eterogeneità nei movimenti? Come, e quale evento occorre attendere per sviluppare una situazione storica che sia favorevole a una rottura degli equilibri?

Le esperienze comuniste veramente significative, vale a dire l’URSS e la Cina popolare, si sono entrambe inscritte nel contesto di una guerra mondiale, e riguardano entrambe due nazioni estremamente grandi che non fanno parte, né l’una né l’altra, delle potenze capitaliste pienamente sviluppate e dominanti, come sono l’Inghilterra, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, o anche il Giappone. Ma il risultato è stato un comunismo ‘statalizzato’ che alla lunga è degenerato nella forma di un capitalismo monopolista di stato. La situazione attuale sembra più simile a quella descritta da Marx, che a quella descritta da Lenin o dal primo Mao: c’è bisogno di inventare una forma totalmente nuova di politica, piuttosto che di una sua efficace applicazione nella forma di un Partito militarizzato. Come Marx nel 1848, dobbiamo anzitutto lavorare in direzione di un’acuta consapevolezza dell’isolamento, per riattivare l’Ideale comunista, facendo un bilancio rigoroso della sua storia, nei suoi tre periodi: Marx e il momento dell’invenzione; Lenin e la vittoria sul piano dello Stato; ‘noi’ (in cui includo Mao) per come ci collochiamo sul piano del processo comunista in fieri. Non possiamo prevedere, in questa visione, quali potranno essere le circostanze a noi ‘favorevoli’. Potrebbe trattarsi nuovamente una guerra mondiale? O la decadenza dei vecchi imperialismi, Stati uniti compresi? O un sussulto rivoluzionario contro il capitalismo del monopolio di Stato in Cina? Non lo possiamo sapere. Ciò di cui c’è bisogno, per il momento, è di costituire una rete il più densa possibile e di promuovere le scuole politiche del comunismo, della sua storia, dei suoi scacchi e del suo avvenire.

2. Il concetto e la figura storica della rivoluzione culturale sono ricorrenti nelle sue posizioni politiche e filosofiche sull’ipotesi comunista e sull’evento in quanto taglio. Žižek sostiene che lei si concentri sulla dinamica della rivoluzione culturale nel tentativo di sottrarvi la politica del partito e dello Stato; potrebbe spiegare meglio il ruolo cruciale di questa formula? Che relazione si stabilisce tra questa elaborazione e l’ipotesi comunista, intesa come un invariante che si riattiva in modo differente a seconda delle sequenze e delle congiunture storiche, in opposizione ad ogni modello immobile e insormontabile?

La mia formula è che la Rivoluzione culturale è, per noi, ciò che fu la Comune di Parigi per Lenin. Lenin comprese bene che la questione non era la presa del potere in quanto tale, ma la distruzione della forma dello Stato borghese, ciò che la Comune tentò di mettere a segno. Mao e la Rivoluzione culturale ci insegnano che un Partito ‘comunista’ che conserva il potere può abbandonare completamente l’istanza comunista e diventare un partito della nuova borghesia. Vediamo, quindi, che tutto il lavoro politico torna sempre, potere o meno, a porre nuovamente la questione: ‘in cosa si trova l’istanza comunista?’. Porsi questa domanda equivale a far luce sulla situazione e sul da farsi a partire da quattro punti. 1. Il punto della collettivizzazione dei mezzi di produzione, la loro appartenenza al popolo nella sua interezza, e non allo Stato come tale. 2. Il punto della differenza, che deve essere progressivamente ridotta in vista di una sua completa sparizione, tra ruoli direttivi e quelli esecutivi, cosi come tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale. 3. La fine della differenza tra città e campagne, industria e agricoltura. 4. L’internazionalismo reale, dunque, la fine tanto delle nazioni quanto degli Stati, in quanto entità politiche. Ecco, tutto quel che s’accorda con questi punti deve essere allora esaminato e corroborato, tutto ciò che vi si oppone deve invece essere combattuto.

3. L’evento viene da lei concepito come un’anomalia che interrompe il corso del ‘mondo’ e che, allo stesso tempo, sottostando alle leggi della logica matematica, deve potersi configurare come un’eccezione che era già contemplata nella legge stessa: questo annullamento dell’evento (che è incluso ma esterno, vincolato per sua natura alla sua stessa soppressione) è la condizione fondamentale per la creazione di un soggetto (l’evento chiama a sé, possiede una voce), un animale umano definito da procedure di verità. Ma in cosa consistono esattamente queste procedure? Come si realizza il superamento dell’animalità nel vivere secondo un’ideale universale?

La logica matematica non configura mai l’evento secondo una sua caratteristica prevedibile. Infatti, come potremmo mai prevedere la costruzione di un qualsiasi sotto-insieme generico della situazione, se il suo essere ‘generico’ significa precisamente che non possiamo rifarci a nessuna delle parole o delle nozioni che sono presenti nel linguaggio della situazione stessa? Il ‘soggetto’ non è che lo sviluppo immanente di una conseguenza che è inscritta nell’evento, sviluppo che produce l’universalità d’un sottoinsieme generico (ossia un ‘opera’ di verità). L’umanità trasgredisce l’animalità ogni qualvolta si adopera per la creazione generica di una verità universale, vale a dire di un’esistenza che non sia riducibile ai predicati esistenti, e che, in quanto tale, non rispondendo ad alcun bisogno animale legato alla semplice sopravvivenza, possa per questa stessa ragione, essere nell’interesse di tutti. Tale è il comunismo (ad esempio): una figura esclusa dall’ordine delle cose, apparentemente inutile, e che comunque dei soggetti vogliono inscrivere nella Storia come un principio universale dell’esistenza umana.

4. Lei classifica quattro forme di verità: scienza, arte, amore e politica. I campi di ricerca che di più interessarono Platone. Per quale motivo solo queste quattro forme di verità? Come mai la sfera politica è da lei presentata come forma e non come un’espressione generale, come invece sembra essere per i post-strutturalisti da Deleuze, per i quali la politica non è mai una categoria formale (vedasi le tre figure del pensiero in “Cos’è la Filosofia?”: arte, scienza e filosofia), ma piuttosto qualcosa che si estende universalmente a tutto l’insieme, una potenza vitale che produce nuove forme di vita?

Io, in effetti, contrariamente a Deleuze, penso non solo che la politica sia una categoria singolare del sistema delle verità di un’epoca, ma che il suo essere consista di un carattere peculiarmente formale. Infatti, si può distinguere tra diverse forme di Stato, diverse forme d’organizzazione, e diverse forme di propaganda, che ‘mettono in forma politica’ i rapporti di classe di un’epoca. Come se ci fossero già delle distinzioni di carattere formale in seno alle varie scienze (puramente matematiche, sperimentali, sociali, …), nell’arte, in rapporto alle epoche (pittura figurativa o astratta, musica tonale o seriale etc.) e nell’amore (passione sessuale, amore passionale di stampo romantico, amore platonico, amore di carattere familiare etc.). Tutto ciò costituisce la molteplicità, strutturale sul piano più astratto, ma che appartiene alle molteplicità nel dettaglio della storia. La filosofia è ciò che determina, all’interno delle condizioni storiche date, il ‘comune’ di queste molteplicità, vale a dire il modo d’esistenza delle loro verità, e inoltre, il concetto predominante di ‘verità’ in ogni procedura.

5. A questo proposito, come riconnettere l’istanza politica del “esiste un solo mondo” con la descrizione filosofica di una molteplicità immanente di mondi come differenti trascendentali logici?

La questione “un solo mondo o molti mondi?” è una questione intra-politica. Per esempio, chiunque ammetterebbe che per ciascun dominio di studio, esiste una sola scienza. Il problema politico dell’unità del mondo risulta dalle divisioni e dalle ineguaglianze presenti nelle diverse politiche in un momento dato. Di colpo, la questione dell’unità del mondo si confonde con la questione dell’universalità, in un momento dato, di una politica. È la sequenza marxista: schiavitù antica, servitù aristocratica, capitalismo moderno. Il comunismo è la verità a-venire del capitalismo, e fissa la molteplicità in una sorta di deterioramento dei poteri, qualsiasi essi siano (il deterioramento dello Stato), a profitto dell’affermazione comune ed egualitaria di un solo mondo per l’umanità intera.

6. Cosa pensa esattamente del concetto di potenza a cui fa spesso riferimento il post-strutturalismo, oggetto centrale di molte dissertazioni contemporanee sulla verità in Spinoza, in quanto viene spesso contrapposto a quello di potere, in analogia all’opposizione di Trieb e Macht? È semplicemente una costruzione esasperata di un monismo vitalità o possiede ancora oggi un contenuto fertile?

Ho fatto economia del concetto di potenza, il quale è aristotelico (l’essere in potenza) e per nulla platonico. Penso che quello di ‘possibile’ sia sufficiente per designare le istanze del divenire, compreso quelle soggettive.

7. In una recente intervista, ha rivelato di nutrire non pochi sospetti per la fiducia con cui numerosi gruppi della sinistra radicale, si rivolgono ai mezzi di comunicazione moderni e ai dispositivi telematici. Guardando a questi ambienti, che fanno sempre più proseliti, in particolare gli ambienti della xeno-lift anglosassone e dell’accelerazionismo di sinistra, non può darsi che dietro lo spettro, seppur in buona fede, della creazione di un intelletto e di un’intelligenza collettiva, ci sia in realtà un pericoloso feticismo tecnologico che ostacola la strutturazione del soggetto politico?

Il luogo reale della direzione collettiva di un processo, della ‘collettivizzazione’ dei mezzi di produzione ad esempio, non potrebbe mai essere mediato da immagini o registrazioni. Niente può sostituire l’incontro effettivo, in cui i corpi si confrontano nell’immediato del tempo e nell’unità dello spazio. Già Platone diffidava del libro, poiché per lui, la presenza del corpo del Maestro, in filosofia, faceva parte integrante della trasmissione veritiera dei saperi, e lei solo accompagnava il processo-soggetto d’una verità. Ci sono delle comodità nella trasmissione che si rivelano senza alcun dubbio utili nei moderni mezzi di comunicazione, non sono per tornare a scrivere con le piuma d’oca o a spostarsi a cavallo. Ma una cosa è la trasmissione, altra cosa la decisione. Prendiamo i pettegolezzi, gli insulti e le palesi menzogne ​​che circolano in modo dominante nei cosiddetti “social” network. Se tutti i ciarlieri d’estrema destra che dominano queste reti fossero fisicamente riuniti in un anfiteatro, che possiede una sua disciplina degli interventi, e se dovessero alzarsi per parlare uno alla volta, basterebbe un pugno di veri comunisti, forse, perdonami questo orgoglio, di me solo, per mostrare la sinistra vacuità di questi complottisti, e ridurli in polvere. L’incontro “fisico” è l’unico vero luogo delle verità politiche.

8. Lei definisce l’evento come un ‘taglio nell’esistente’, l’emergenza di un’origine, qualcosa d’assolutamente non predeterminabile come un’alterazione locale di una molteplicità data, e ‘non solamente come una frattura e un inizio radicale’. In che misura pensa che la recente epidemia di Covid-19 possa essere qualificata come un evento irriducibilmente singolare nella recente storia occidentale? Se l’evento è anche fonte d’una verità, qual è la verità che la pandemia ci pone dinanzi agli occhi? Che fare di questa verità?

La pandemia attuale non è un evento, non più di quanto lo sia un temporale, un’alta marea, un’eruzione vulcanica o una migrazione di pipistrelli. Un fenomeno naturale, fa parte di una scienza consolidata, la virologia. Se le persone fossero veramente e pienamente consapevoli di cos’è un virus e di quali sono le caratteristiche del virus Sars-2, non accadrebbe nulla di simile a ciò che invece vediamo, ovvero un vortice di varie sciocchezze, che si confrontano con un’esitazione dei governi tra salvaguardare un capitalismo redditizio o tutelare le popolazioni che dovrebbero guidare. Solo la vaccinazione, unica risposta strettamente scientifica alle epidemie virali, e questo dalla scoperta, nel XVIII secolo, di un vaccino contro il vaiolo (malattia che uccise milioni di persone), placherà l’attuale vortice. Infatti, questa pandemia si sarebbe potuta facilmente arginare, se avessimo approfondito la conoscenza scientifica dei virus della linea Sars, e preparato il vaccino adeguato: tra il 2002 e il 2004 si è verificata un’epidemia il cui responsabile virale era Sars-1. Ma siccome questa si limitò a poche regioni asiatiche e uccise solo tra le 700 e le 800 persone, nessuno si preoccupò del futuro di questo ceppo virale. Le verità che l’attuale pandemia dovrebbe obbligarci a vedere dovranno essere queste: la scienza globale deve essere pronta in ogni momento a difendere tutti gli esseri umani, senza eccezioni, da attacchi virali di cui si sono già rilevati i primi segni di presenza e attività. E dobbiamo insegnare ovunque, a tutti, fin dall’infanzia, e in dettaglio, cos’è un virus, la sua origine, il suo modo di esistere, il pericolo che rappresenta e i mezzi per proteggerlo

9. Lei, in La Logica dei Mondi, spiega come la traccia dell’Evento sia interna al suo sito, oggettiva e incorporata, e come ciò eviti il problema della nominalità dell’Evento che ha fondato il soggetto, poiché designarlo esigerebbe un soggetto anteriore al soggetto uniformemente costituito, che sia capace di dirlo e nominarlo, il che sarebbe miracoloso se non paradossale. A tal proposito Giorgio Agamben ha recentemente sollevato una polemica sulla pandemia come invenzione di un evento: cosa ne pensa? Si può inventare l’evento? Come si relaziona l’evento alla sua narrazione?

L’evidenza dell’evento si dà nella verità che lo dispiega nella situazione. Non si tratta di narrazione o d’invenzione, ma di conseguenza disciplinata, creatrice d’una verità generica universale. Le storie leggendarie e/o fallaci, che abbondano in questo momento, hanno infatti creato la sensazione di un evento, ma a torto, e su questo punto mi unisco al lato “inventato” di cui parla Agamben: questa pandemia non è, di per sé, un evento, non più di quanto lo siano le altre varianti annuali dell’influenza. Ciò che la rende fallacemente un “evento”, l’ho appena detto, sono l’ignoranza, relativa alla scienza, e l’esitazione, rispetto alle responsabilità degli Stati.

10. Lei usa i risultati della teoria matematica (in particolare della teoria degli insiemi, dalla quale trae i suoi assiomi, e in cui restituisce alla teoria e al paradosso di Cantor e al paradosso di Russell il loro valore ontologico attestando la pura molteplicità dell’essere) per inaugurare un percorso matematico verso l’ontologia. Come identificato da Alessandro di Caro nel suo Esthétique de l’Événement. Essai sur Alain Badiou, l’uso della teoria matematica per approssimare l’essere ha molto in comune con l’utilizzo che ha fatto Heidegger della poesia, presentandosi così, poesia e matematica, come “due scritti che mantengono l’accesso all’essere, puro, non presentabile”. Ci puoi spiegare come l’uso della matematica nella meccanica di trasmissione del puro non possa permetterne la perdita?

Il ricorso alla matematica nasce da una tesi propriamente filosofica, vicina alle antiche tesi materialiste, come quelle di Epicuro, e cioè che l’essere di qualsiasi cosa è in definitiva una molteplicità. Questa molteplicità non deve essere “qualitativa” (come lo sono gli atomi di Epicuro), per la ragione che gli elementi dell’essere come molteplicità sono essi stessi molteplicità. La teoria matematica degli insiemi è un’immediata formalizzazione di questo punto: un insieme non è altro che una molteplicità di insiemi, il cui limite inferiore è il vuoto (l’insieme degli insiemi zero. L’uso, nella circostanza, della matematica è univoco e identico in ogni linguaggio, il che è completamente contrario al dire poetico. Infatti la mia decisione ontologica (l’essere è molteplicità senza Uno) è formalizzata, così com’è, in matematica. Non c’è alcun problema lì.

11. Tra la Logica dei mondi e l’Essere e l’Evento, tra “l’ontologia è matematica” e “la fenomenologia è logica”, tra una sistematizzazione ontologica della pura molteplicità e una sistematizzazione dell’apparenza e della particolarità, c’è un nesso necessario che molti dei suoi interpreti italiani riscontrano anche nel suo “primo testo filosofico”, ossia Teoria del soggetto, ricostruendo una certa continuità fondamentale tra i due campi di studio.

Sì, possiamo, dobbiamo, riconoscere un legame necessario tra l’ontologia del multiplo puro e la teoria dell’apparizione di questo multiplo in un mondo. È questo, infatti, il vecchio problema del rapporto tra essere ed esistenza, o tra univocità ed equivocità, o tra quantitativo e qualitativo. Il legame, per me, è tra la matematica degli oggetti (essere) e la logica delle relazioni (apparire). O ancora: essere ontologicamente invariante e variazione dell’essere a seconda del mondo in cui appare. Ciò che è particolarmente interessante è che tutto ciò può essere trascritto come la differenza tra due matematiche: quella che ha come fondamento gli insiemi e quella che ha come fondamento le relazioni. Teoria degli insiemi da un lato, teoria delle categorie dall’altro. La mia filosofia articola le due, secondo l’antica differenza tra essere e apparire, senza sacrificare nessuno dei due termini.

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