Il ritorno del riot

1. Le premesse teoriche

Nel libro di Joshua Clover Riot. Sciopero. Riot. Una nuova epoca di rivolte viene elaborata una teoria del riot come fenomeno inscindibile dalla crisi strutturale del capitalismo, rifiutando l’interpretazione superficiale che lo riduce a semplice esplosione di rabbia irrazionale. Partendo dall’apparente paradosso per cui sia la crisi che la rivolta nascono da un’esperienza di carenza ma si manifestano come fenomeni di surplus, surplus di partecipanti, di emozioni, di violenza, di caos, l’analisi mostra come il momento cruciale del riot si verifichi quando la massa dei manifestanti supera numericamente la capacità di controllo della polizia. Questo istante di rottura rivela la natura contingente dell’ordine sociale, normalmente percepito come dato immutabile, mostrandolo invece come un equilibrio precario mantenuto attraverso un costante dispiegamento di forza. La connessione tra riot e crisi capitalistica viene approfondita attraverso una ricostruzione storica che prende le mosse dalle osservazioni di Charles Tilly sul mutamento dei repertori dell’azione collettiva. Nel XIX secolo si era assistito al passaggio epocale dal riot allo sciopero come forma dominante di protesta nelle società industrializzate tuttavia, a partire dagli anni ‘60 del Novecento, si è verificato un contro-movimento dovuto all’ingresso delle economie avanzate in una fase di crisi strutturale che ha fatto riemergere il riot come tattica centrale mentre le lotte sindacali si riducevano a difese disperate del posto di lavoro. Questo ribaltamento si manifesta nella sequenza di eventi che da Watts nel 1965 e Detroit nel 1967 arriva fino alle più recenti esplosioni a Ferguson 2014 e oltre, passando per momenti cruciali come le rivolte di Los Angeles del 1992 e le insurrezioni globali di Piazza Tahrir e Gezi Park. La teoria proposta insiste sull’importanza di comprendere il riot a partire dalle sue condizioni materiali piuttosto che cercare di incasellarlo in schemi ideologici precostituiti. Qui emerge una fondamentale divergenza con la tradizione marxista classica, che ha spesso considerato il riot come un fenomeno pre-politico o addirittura apolitico, privilegiando invece le forme organizzate di lotta incentrate sul partito e sulla conquista dello Stato. Al contrario, alcune correnti anarchiche e post-marxiste hanno colto nel riot un potenziale rivoluzionario, vedendolo come possibile punto di rottura del sistema. Clover critica entrambe queste posizioni, proponendo invece un’analisi che, pur radicata nel materialismo storico, sia capace di cogliere la specificità del riot contemporaneo senza ridurlo a mera manifestazione di disagio o a semplice ripetizione di modelli passati. Particolare attenzione viene dedicata alla necessità di sviluppare una teoria materialista della rivolta che tenga conto delle trasformazioni del capitalismo globale. Opere come The Rebirth of History di Alain Badiou offrono spunti interessanti ma spesso trascurano l’analisi concreta delle dinamiche capitalistiche, preferendo un approccio più filosofico che politico-economico. La proposta alternativa qui avanzata si basa invece sulla teoria del valore di Marx e sull’analisi delle crisi sistemiche, esaminando come i mutamenti nell’organizzazione urbana, nei cicli economici e nell’ordine mondiale capitalista influenzino le forme contemporanee della rivolta.  

Clover si concentra particolarmente sulle società industrializzate e in via di deindustrializzazione, dove la logica del riot appare più chiaramente leggibile come risposta a specifiche condizioni materiali. Le intuizioni sviluppate hanno una portata più generale, essendo legate a trasformazioni del capitalismo che tendono a manifestarsi globalmente.

Il libro traccia un percorso storico che si snoda tra riot, scioperi e un successivo ritorno ai riot, seguendo una progressione approssimativamente cronologica ma senza ridursi a una semplice cronaca. Al contrario, Clover sfrutta questa traiettoria per sviluppare una serie di riflessioni teoriche sul rapporto tra riot ed economia politica, costruendo un modello interpretativo capace di dare coerenza ai fenomeni sociali del presente. Man mano che la narrazione si avvicina all’epoca contemporanea, l’analisi si fa più minuziosa, anche se l’opera nel suo complesso rimane necessariamente una semplificazione, come tutti i modelli euristici, ma che almeno ha il pregio di essere concisa. Uno snodo cruciale è rappresentato dal Riot Act del 1714, emanato da re Giorgio I in risposta ai disordini scoppiati durante la sua incoronazione. Questo decreto segna una svolta semantica: la parola “riot” perde il suo significato originario di dissolutezza, stravaganza o baldoria sfrenata, come attestato anche nell’uso che ne fa Chaucer nel Racconto del Cuoco, dove il termine è associato al sovvertimento dell’ordine sociale, per assumere l’accezione moderna di violenta perturbazione dell’ordine pubblico. La legge stessa, prescrivendo la formula da leggere per dichiarare illegale un’assemblea, sottolinea il carattere performativo e comunicativo della rivolta, ponendo fin da subito la questione del suo statuto espressivo. Il passaggio dal riot agli scioperi non è lineare né immediato. L’affermarsi dello sciopero come fenomeno sociale matura tra il 1790 e il 1842, data del primo grande sciopero inglese, ma come ogni cambiamento epocale all’inizio è difficile da riconoscere. Emerge gradualmente da forme di lotta più antiche, attraversando una fase di ambiguità in cui convivono elementi tradizionali e nuovi. Allo stesso modo, il ritorno al riot nell’epoca contemporanea non è un semplice revival bensì un fenomeno profondamente trasformato. Con il declino del movimento operaio in Occidente, il riot riacquista centralità, sia in termini relativi che assoluti, e per un certo periodo le due forme di protesta, sciopero e riot, coesistono, creando una tensione che in alcuni momenti, come nel 1968, assume i contorni di una situazione rivoluzionaria. La vera svolta, però, arriva nel 1973, con il crollo dei profitti industriali che dà inizio a quella che potrebbe essere definita la Lunga Crisi, un’epoca di riorganizzazione delle classi sociali e della divisione internazionale del lavoro che erode progressivamente le basi dell’organizzazione operaia militante. Negli anni ‘80 la transizione è ormai compiuta e se inizialmente questo processo sembra coincidere con la fine delle utopie rivoluzionarie e il declino dei comunismi storici, oggi quella lettura è rimessa in discussione proprio alla luce della rinascita del riot. La sequenza riot-sciopero-riot rischia di essere fuorviante perché potrebbe suggerire un semplice movimento pendolare o un regresso a modalità arcaiche di protesta. In realtà, la nuova era dei riot è radicalmente diversa dalla precedente. Se un tempo i riot scoppiavano per ragioni materiali immediate, come le carestie, le proteste contro l’aumento del prezzo del pane o le sommosse contro le enclosures, oggi spesso nascono in reazione alla violenza di Stato, in particolare alle uccisioni di giovani neri da parte della polizia e all’impunità sistemica che le accompagna. Il paradigma di questa nuova fase è la rivolta di Los Angeles del 1992, scatenata dall’assoluzione degli agenti che avevano picchiato Rodney King, e che si propagò in altre città per giorni. A differenza dei riot del passato, quelli contemporanei si inseriscono in una logica di razzializzazione e prendono di mira direttamente l’apparato statale, piuttosto che l’ordine economico. Il libro si articola quindi in tre sezioni, ciascuna legata a un’epoca e a uno spazio specifico: il mercato e soprattutto il porto per la prima era dei riot, la fabbrica per l’età degli scioperi e la piazza e la strada per la nuova fase dei riot. L’obiettivo è mostrare gli elementi di continuità e le profonde differenze tra le fasi di predominanza dei riot. La difficoltà principale nel definire il riot deriva dalla sua profonda associazione con la violenza; per molti, questa associazione è così carica emotivamente in un senso o nell’altro da rendere difficile dissolverla e, di conseguenza, notare altri aspetti. Senza dubbio molti riot implicano violenza, forse la maggior parte, se si include il danneggiamento della proprietà in questa categoria, insieme a minacce esplicite o sottintese. Non è del tutto chiaro se tale inclusione sia naturale o ragionevole. Considerare il danneggiamento della proprietà come violenza non è una verità oggettiva ma l’adozione di un insieme specifico di idee sulla proprietà, di origine relativamente recente, che implicano identificazioni particolari tra esseri umani e ricchezza astratta, come quelle che portano, ad esempio, a considerare le corporations come persone giuridiche. Questa insistenza sulla violenza del riot oscura efficacemente la violenza quotidiana, sistematica e ambientale che caratterizza la vita di gran parte del mondo. L’idea di una socialità generalmente pacifica che solo eccezionalmente sfocia in violenza è un’immagine accessibile solo ad alcuni. Per altri, la maggioranza, la violenza sociale è la norma. La retorica del riot violento diventa così uno strumento di esclusione, mirato non tanto contro la “violenza” in sé, quanto contro specifici gruppi sociali. Inoltre, per oltre due secoli, anche gli scioperi hanno spesso coinvolto violenza: scontri accesi tra lavoratori da una parte e poliziotti, crumiri e mercenari dall’altra, che nei momenti più intensi assomigliavano a battaglie militari. Se si estende la categoria della violenza come sopra, essa diventa ubiqua anche nello sciopero che diventa una forma di controviolenza difensiva. Per distinguere tra riot e sciopero Clover si serve di E. P. Thompson e in particolare del suo saggio The moral economy of the English crowd in the eighteenth century

Criticando le riduzioni e la forza depoliticizzante insita nel termine “rivolta del pane”, Thompson offre una visione più sistematica dell’economia politica del riot. Sottolinea che il termine “riot” è uno strumento di analisi troppo rozzo per descrivere azioni popolari così varie. La forma caratteristica dell’azione diretta non sono le risse fuori dai fornai londinesi ma le “insurrezioni popolari” in cui minatori, tessitori e altri lavoratori imponevano una disciplina collettiva, seguendo un modello di comportamento radicato nella tradizione. L’azione centrale era la fissazione del prezzo del pane. Thompson coglie così una profonda trasformazione storica: mentre nel Settecento i conflitti di classe si esprimevano soprattutto nella lotta contro l’aumento dei prezzi, nell’Ottocento si spostarono sulla questione dei salari. Questo passaggio segna la fine di una tradizione e l’inizio di una nuova. I disordini per il cibo si sovrappongono al luddismo e le richieste dei lavoratori agricoli includono sia la fissazione dei prezzi che un salario minimo. Prezzi e salari diventano così le due misure fondamentali: il primo relativo al mercato, il secondo alla fabbrica e al lavoro agricolo, in un’epoca in cui i beni comuni e l’agricoltura di sussistenza scompaiono tra sangue e fuoco. R. H. Tawney fa un’osservazione simile, notando che nell’economia medievale il consumo era l’arbitro principale dello sforzo economico mentre nell’Ottocento lo divennero i profitti ma i salari stessi sono un tipo particolare di prezzo. Riassumendo, il riot fissa i prezzi delle merci mentre lo sciopero fissa il prezzo della forza lavoro. Questo è il primo livello di analisi necessario per comprendere la storia del riot, quello pratico. La pratica politica nella sua dimensione più ampia è quella della riproduzione, della famiglia, dell’individuo, della comunità locale. Tra Sette e Ottocento il centro di gravità di questa riproduzione si sposta da una lotta all’altra. Consumatori e lavoratori non sono classi opposte o successive ma due ruoli momentanei all’interno dell’attività collettiva necessaria a riprodurre una sola classe: il proletariato moderno, costretto a muoversi nel rapporto salario-merce. Se un momento prevale sull’altro, ciò dipende dal grado di sviluppo tecnico e sociale di quel rapporto e dalla posizione del proletario. Nel riot, coloro che fissano i prezzi al mercato possono essere lavoratori ma non è questo il fatto immediato che li ha portati lì. Da qui, possiamo raffinare le definizioni: lo sciopero è una forma di azione collettiva che 1) lotta per fissare il prezzo della forza lavoro (o le condizioni di lavoro, che sono equivalenti); 2) vede i lavoratori agire nel loro ruolo di lavoratori; 3) interrompe la produzione capitalistica attraverso l’abbandono degli strumenti di lavoro o l’occupazione della fabbrica. Il riot, invece, è una forma di azione collettiva che 1) lotta per fissare il prezzo delle merci (o la loro disponibilità); 2) coinvolge partecipanti uniti solo dalla loro condizione di espropriati; 3) interrompe la circolazione commerciale. Questo quadro è semplice ma potente e si adatta bene al periodo studiato dagli studiosi fino al Novecento. Tuttavia pone problemi per il presente. Le lotte caratteristiche dell’epoca contemporanea, a partire dagli anni ‘60, non possono essere comprese appieno nel quadro della fissazione dei prezzi ma neppure senza di esso. È qui che diventa necessario un secondo livello di analisi, quello della periodizzazione, che tiene conto dello sviluppo tecnico e sociale del capitale nelle sue ambigue oscillazioni. Per questo motivo Clover sviluppa un’analisi storica e teorica che lega le trasformazioni delle forme di lotta sociale alle grandi fasi del capitalismo globale, seguendo la proposta di Giovanni Arrighi nei suoi studi sui lunghi secoli e i cicli di accumulazione. La prima transizione, quella che porta dal riot allo sciopero, si colloca all’alba del lungo Ottocento britannico, coincidendo con la Rivoluzione Industriale e l’affermazione del rapporto salariale come asse portante dello sfruttamento capitalista. La seconda transizione, dallo sciopero a una nuova forma di riot (riot’), corrisponde invece al tramonto dell’egemonia statunitense nel lungo Novecento, un’epoca segnata dalla finanziarizzazione, dal post-fordismo e da quella costellazione di concetti che cercano di definire la crisi sistemica del capitalismo contemporaneo. Arrighi individua una struttura ricorrente in questi cicli storici: ogni egemonia capitalistica attraversa una prima fase di espansione finanziaria guidata dal capitale mercantile, seguita da un’espansione materiale trainata dall’industria e infine da un ritorno alla finanza quando l’accumulazione produttiva raggiunge i suoi limiti. Quest’ultima fase non offre una vera ripresa ma solo strategie di sopravvivenza, fino a quando il capitale finanziario della potenza egemone in declino non trova una nuova economia emergente in cui riversarsi, finanziando così la propria successione. Il nuovo centro del capitalismo mondiale riavvia l’accumulazione su scala più ampia ma proprio questa espansione lo avvicina più rapidamente al suo prossimo limite, accelerando il ritmo dei cicli successivi. Questa periodizzazione solleva una questione cruciale: quando inizia veramente il capitalismo? Autori come Robert Brenner ed Ellen Meiksins Wood distinguono tra il semplice commercio su larga scala e il capitalismo vero e proprio che si afferma solo con lo sviluppo sistematico delle forze produttive e la trasformazione dei rapporti sociali attraverso il lavoro salariato. Clover concorda con questa distinzione, infatti i mercati esistono da millenni ma diventano capitalistici solo quando vengono plasmati dalla logica del plusvalore e dalla disciplina del salario. È questa trasformazione che definisce la prima transizione, dal riot allo sciopero. Tuttavia anche le potenze protocapitaliste, come Genova o l’Olanda, hanno seguito una traiettoria simile a quella delle successive egemonie industriali, suggerendo una continuità formale tra le diverse epoche. Gran Bretagna e Stati Uniti riproducono questa struttura riempiendola di un contenuto nuovo e più radicale. In ogni ciclo il capitale alterna fasi dominate dalla produzione, dove il valore si genera attraverso la merce (M-C), a fasi dominate dalla circolazione, dove il valore si realizza monetariamente (C-M). Queste due logiche non sono mai separate: il capitale deve continuare a muoversi tra produzione e circolazione per sopravvivere. La periodizzazione proposta riflette dunque l’oscillazione tra queste due polarità, mappando le pratiche di lotta sulle fasi economiche. Riot-sciopero-riot’ corrisponde a circolazione-produzione-circolazione’. Alla fine dell’Ottocento, mentre la Gran Bretagna, ancora egemone, entrava in una fase finanziaria, gli Stati Uniti attraversavano una “Lunga Depressione” ma al tempo stesso sperimentavano una ripresa produttiva grazie alla seconda Rivoluzione Industriale, compensando così il declino britannico. Oggi, invece, la fase di circolazione’ non sembra trovare un contrappeso nella produzione. La Cina, pur essendo diventata il principale centro manifatturiero globale, sta già riducendo l’occupazione industriale e nessun’altra regione appare in grado di riavviare un ciclo espansivo. Questa situazione potrebbe segnare una rottura nella storia del sistema-mondo. Se in passato il capitale trovava sempre nuovi spazi per espandersi, oggi sembra aver esaurito questa possibilità. Dopo un lungo dominio del capitale produttivo (dal 1784 al 1973), l’attuale fase finanziaria non mostra segni di un ritorno alla produzione su scala sufficiente a rilanciare l’accumulazione. Gli Stati Uniti, invece di finanziare un nuovo egemone, sono diventati il cuore di un sistema indebitato e in stallo. In questa prospettiva i cicli britannico e statunitense possono essere visti come un unico metaciclo che segue la sequenza circolazione-produzione-circolazione’. Pur con tutte le approssimazioni necessarie a schematizzare un sistema caotico come il capitalismo globale, questa lettura permette di tracciare un arco di accumulazione che, almeno in Occidente, sale con la Rivoluzione Industriale e discende nella finanziarizzazione, senza prospettive di inversione. La sequenza riot-sciopero-riot’ diventa così non solo una storia del capitalismo ma anche una diagnosi del presente, rivelando le contraddizioni di un sistema che forse ha raggiunto il suo limite storico. Il ritorno del riot come testimonianza dello stato del capitalismo stesso richiede più di una semplice coincidenza tra le due sequenze; deve esserci un legame teorico. Questo costituisce il terzo e ultimo livello dell’orizzonte analitico, quello della storia stessa, intesa come l’intreccio dialettico tra le lotte vissute e le compulsioni del movimento autonomo del capitale, concepito come un movimento reale dell’esistenza sociale. Ciò che, all’interno del movimento oggettivo del capitale, collega il riot alla circolazione, lo sciopero alla produzione, e ci sposta dall’uno all’altro, è già stato preliminarmente delineato: le fasi dominate dalla produzione materiale generano lotte all’interno della produzione, sul prezzo della forza lavoro, mentre quelle guidate dalla circolazione vedono conflitti nel mercato, sul prezzo delle merci. Questa, però, è una spiegazione sincronica, priva di una dinamica che spinga da una fase all’altra e non affronta ancora le peculiarità del riot’ e della circolazione’, questioni che richiedono una rapida incursione nella teoria marxiana della crisi. Per Marx il valore ha un’esistenza qualitativa come relazione sociale e una quantitativa come valore di scambio. Il valore di scambio incarnato in una merce permette la creazione di plusvalore, l’essenza invisibile del capitale, valorizzato nella produzione e realizzato come profitto nella circolazione. Marx sottolinea con forza che la circolazione non può mai essere essa stessa la fonte di nuovo valore per il capitale nel suo insieme. L’idea contraria viene confutata con disprezzo nel Capitale, dove si afferma che, sia che vengano scambiati equivalenti o non-equivalenti, nessun plusvalore emerge dalla circolazione. Queste categorie sono continuamente problematiche, specialmente per i limiti della nozione stessa di “circolazione”. Lo straordinario sviluppo dei trasporti, una delle caratteristiche della nostra epoca, potrebbe inizialmente sembrare rientrare in questa logica ma alcuni sostengono che il cambiamento di posizione di una merce ne aumenti il valore. In senso stretto, i costi di circolazione puri potrebbero limitarsi ad attività che riguardano solo lo scambio stesso, come vendite e contabilità. Inoltre, la finanziarizzazione e la globalizzazione (intesa come l’estensione verso i limiti planetari delle reti logistiche, coordinate dai progressi tecnologici) possono essere viste come strategie temporali e spaziali per internalizzare nuovi input di valore. Tuttavia ciò conferma solo che l’attuale fase del ciclo di accumulazione è definita dal collasso della produzione di valore al centro del sistema-mondo, spostando il baricentro del capitale verso la circolazione, trainata dalla triade di toyotizzazione, tecnologia informatica e finanza. I dati empirici sono illuminanti: come osserva Brenner, dal 1973 a oggi, le economie avanzate hanno registrato un deterioramento costante della performance macroeconomica, con una crescita globale del PIL scesa dal 4% al 3% o meno. Anche nei periodi migliori, la cosiddetta Lunga Crisi è stata peggiore della fase precedente. Se anche si ammettesse che i trasporti possano contribuire alla valorizzazione, resta il fatto che l’espansione delle reti logistiche e l’accelerazione del tempo di rotazione coincidono con il declino della produzione industriale nelle nazioni capitaliste avanzate. Questo parallelismo riflette esattamente ciò che la teoria del valore prevede in una fase dominata dalla circolazione: meno produzione di valore, meno profitti sistemici. Il trasporto marittimo e la finanza non hanno arrestato la stagnazione della redditività globale, dando vita a quello che potrebbe essere definito un cybermercantilismo, un sistema in cui il profitto individuale si ottiene riducendo i costi di circolazione o redistribuendo valore già esistente, senza generare nuova accumulazione.  

Di fronte a rendimenti decrescenti nei settori produttivi tradizionali, il capitale cerca profitto al di fuori della fabbrica, nel settore FIRE (Finanza, Assicurazioni, Immobiliare) e nelle reti logistiche globali ma non trova una soluzione duratura alla crisi che lo ha spinto verso questi ambiti economici. Il risultato è un vortice sempre più frenetico di bolle speculative e crolli. In un moto di disperazione dialettica, ciò che spinge il capitale nella sfera a somma zero della circolazione fa lo stesso con una porzione crescente dell’umanità. La crisi e la disoccupazione, temi centrali del Capitale, sono espressioni della contraddizione fondamentale del capitale: nel perseguire il profitto, esso distrugge la sua stessa fonte, scontrandosi con limiti oggettivi nell’inarrestabile spinta all’accumulazione e alla produttività. I Grundrisse offrono una formulazione concisa quando sostengono che il capitale è una contraddizione in movimento capace di ridurre il tempo di lavoro necessario mentre lo eleva a unica misura della ricchezza, creando così un’eccedenza sempre più ampia di popolazione superflua. Questa popolazione eccedente non è necessariamente esclusa dai rapporti capitalistici ma è costretta a forme precarie di lavoro, spesso informali o illegali. Non sorprende che questa popolazione sia razzializzata visto che la capacità di profitto del capitale ha sempre richiesto la produzione di differenze sociali e, in mercati del lavoro stagnanti, i differenziali salariali assumono un carattere qualitativo. Dagli anni ’80 i tassi di disoccupazione tra i neri americani sono stati sistematicamente doppi rispetto alla media, alimentando l’espansione del complesso carcerario-industriale come strumento di gestione di questo surplus umano. La razzializzazione è intrecciata alla produzione di popolazioni eccedenti, ciascuna rafforza l’altra attraverso logiche di esclusione. Questo si riflette anche nel riot contemporaneo, una ribellione del surplus che è insieme segnata dalla razza e che la segna a sua volta. A differenza dello sciopero, che esiste in un quadro legale (pur con frequenti violazioni), l’illegalità del riot’ è anche l’illegalità del corpo razzializzato, rivelando il lavoro ideologico compiuto dall’insistenza sulla sua presunta illegittimità. La sopravvivenza stessa della popolazione, la sua possibilità di riprodursi socialmente e materialmente, viene sempre più determinata non dalla partecipazione diretta alla produzione ma dall’accesso alla sfera della circolazione delle merci. Questo non corrisponde all’immagine convenzionale della “società dei consumi”, intesa come trionfo del materialismo e adorazione feticistica della merce ma piuttosto a una condizione in cui masse di esclusi, privi di accesso stabile al salario, devono comunque confrontarsi con l’imperativo del consumo. Questo spostamento tendenziale, in cui sia il capitale che i marginalizzati dipendono sempre più dalla circolazione, crea le condizioni per l’esistenza del riot’, una forma di rivolta che riflette questa riorganizzazione sociale, divenendo al contempo il nome di un’epoca storica e la modalità di azione collettiva che la caratterizza. L’analisi di Clover, pur tecnicamente fondata su categorie dell’economia politica classica e della sua critica, serve a rivelare la continuità storica tra diverse forme di rivolta, spesso fraintese come fenomeni distinti (le “rivolte del pane” e le “rivolte razziali”). In realtà, queste condividono una radice comune: la crisi sposta il baricentro del capitale nella circolazione e lo stesso riot va compreso come una lotta della circolazione che assume due forme principali, la fissazione collettiva del prezzo (come nelle rivolte di sussistenza tradizionali) e la ribellione del surplus (il saccheggio contemporaneo). Il proletariato odierno, ridefinito per includere le popolazioni eccedentarie, si muove in un mondo radicalmente diverso da quello del passato. Se nel Settecento lo Stato era una presenza lontana e l’economia era prevalentemente locale, con beni prodotti e consumati nelle immediate vicinanze, oggi la geografia sociale si è invertita. Lo Stato è onnipresente, con apparati di polizia sempre più militarizzati mentre l’economia si è dispersa in reti globali di produzione e distribuzione, dove persino i beni di prima necessità viaggiano attraverso continenti. In questo contesto il riot non può che scontrarsi direttamente con lo Stato perché è lì che si concentra il potere immediatamente visibile, anche se la vera posta in gioco è il controllo sulla circolazione. La dimensione spettacolare dello scontro con la polizia non deve però oscurare il fatto che il riot ha anche un aspetto economico diretto che si manifesta nella distruzione e nel saccheggio, due atti che, pur apparentemente caotici, rappresentano una negazione consapevole della logica di mercato. Mentre il saccheggio viene spesso dipinto come una deviazione irrazionale dalle rivendicazioni “legittime”, in realtà esso incarna una verità storica. Esso è l’equivalente moderno della fissazione del prezzo a zero, un disperato tentativo di risolvere il problema della riproduzione materiale in un sistema che nega l’accesso ai mezzi di sussistenza. Il riot emerge così come negazione della trappola in cui si trova il lavoro organizzato nella tarda modernità. Se storicamente la forza operaia derivava dalla capacità di appropriarsi di una quota del surplus in espansione, oggi il movimento operaio è ridotto a una difesa disperata dei posti di lavoro, costretto a sostenere il dominio del capitale pur di garantirsi la sopravvivenza. Il riot, con il suo rifiuto dell’ordine costituito, rappresenta la rottura di questa dinamica auto-alienante. Queste lotte colpiscono inevitabilmente il capitale nel suo punto più debole, la circolazione, senza che ciò implichi una coscienza strategica da parte dei rivoltosi. Le occupazioni delle autostrade negli Stati Uniti nel 2014, ad esempio, dimostrano come l’interruzione dei flussi logistici sia divenuta un terreno centrale del conflitto, rivelando al contempo la parentela storica tra rivolte apparentemente diverse, dai tumulti preindustriali contro l’esportazione di grano, ai blocchi portuali di Oakland, fino alle occupazioni territoriali come quelle del movimento No-TAV. Il riot, allora, non è che una forma particolare di una categoria più ampia, le lotte della circolazione che includono anche il blocco, l’occupazione e, all’orizzonte, la comune. 

2. Capire il riot

La definizione di riot non riguarda semplicemente la possibilità di tracciare distinzioni storiche utili poiché essa implica anche la decifrazione del suo significato politico e del suo potenziale, rappresentando al contempo una sfida per la ricerca. Sebbene i riot siano spesso associati alla violenza, diretta, indiretta o minacciata, sorgono problemi quando i due concetti vengono indebitamente collegati. Ad esempio, se si analizzano documenti pubblici utilizzando come termini di ricerca parole legate alla violenza, questa scelta influenzerà profondamente i risultati. Allo stesso modo, presupporre che la violenza sia un indicatore automatico di riot rende difficile una concettualizzazione utile dell’attività in questione.  

Un esempio emblematico di questa confusione si trova nell’opera Rioting in America di Gilje, dove si afferma che, già all’inizio dell’Ottocento, i lavoratori ricorrevano a forme di coercizione per rafforzare l’unità sindacale e legittimare le loro rivendicazioni. Gilje descrive queste azioni come riot, arrivando a sostenere che gran parte della storia del lavoro americana è “scritta nel sangue” attraverso sommosse, dalle lotte locali pre-1865 agli scontri su scala nazionale, come lo sciopero ferroviario del 1877 o le battaglie di Homestead del 1892 e Ludlow del 1914. In questa narrazione il riot appare come un’appendice violenta dello sciopero o addirittura come una sua sottocategoria. Anche se questa associazione è molto arbitraria, coglie comunque una verità storica: la violenza è intrinsecamente legata alle lotte del lavoro, riflettendo la coercizione originaria che ha plasmato i rapporti di produzione capitalistici. Marx, del resto, aveva già sottolineato come l’accumulazione originaria si basasse su un atto di forza, l’espropriazione dei mezzi di sussistenza, che, sebbene sublimato nella forma impersonale del rapporto salariale, continua a riemergere. Gilje non sviluppa un’analisi autonoma della violenza, limitandosi a identificarla come segno distintivo del riot, arrivando a definirla come “un gruppo di dodici o più persone che cercando di affermare la propria volontà in modo immediato, con l’uso della forza e fuori dai limiti normali della legge”. Questa definizione, oltre a essere vaga, presuppone l’illegittimità a priori del riot nonostante lo stesso Gilje riconosca che esso abbia storicamente servito a rivendicare diritti.  

La conseguenza di tale approccio è una riduzione dello sciopero a mera astensione dal lavoro, sempre pacifica e legale, ignorando sia i periodi in cui ogni forma di organizzazione operaia era illegale, sia le dinamiche conflittuali dei picchetti. Contemporaneamente il riot viene dilatato fino a perdere ogni specificità storica, diventando un’essenza transtorica della violenza collettiva. Una definizione più equilibrata è proposta da Halle e Rafter che descrivono il riot come un’azione pubblica e illegale contro gruppi o proprietà, tale da segnalare una perdita di controllo da parte delle autorità. In contrasto con l’impostazione di Gilje, lo storico William Sewell, pur enfatizzando il ruolo della violenza, colloca i riot all’interno di un repertorio di azioni collettive in evoluzione, permettendo una periodizzazione storica. Come nota Tilly, infatti, il repertorio della contestazione si modifica sia per effetto di trasformazioni sociali, sia per l’adattamento a nuovi interessi. Gilje oscura questa dialettica, riducendo il riot a una manifestazione amorfa di violenza mentre un’analisi più rigorosa dovrebbe riconoscere sia la sua specificità storica sia la sua funzione sistemica all’interno dei conflitti di classe. L’equivocazione tra riot e violenza ha storicamente funzionato come un dispositivo politico per ridurre la sommossa a un fenomeno meramente reattivo, espungendola dalla sfera della politica propriamente intesa, la cui legittimità si fonda su un modello di autocoscienza che al riot sembrerebbe mancare. Thompson ha demolito questa visione, da lui definita “concezione spasmodica”, che dipinge le classi popolari prima della Rivoluzione Francese come agenti storici solo in momenti di crisi, mossi da impulsi economici piuttosto che da una consapevolezza politica. Questa stessa logica riemerge in approcci contemporanei positivisti, come quello del New England Complex Systems Institute, che, in uno studio del 2011, riduce il riot a una conseguenza inevitabile una volta superata una certa soglia nei prezzi alimentari, stabilendo un nesso deterministico tra carestia e disordine. Sebbene analisi più raffinate colleghino l’impennata dei prezzi a dinamiche più ampie, come le politiche del FMI o gli squilibri commerciali, il riot rimane comunque concepito come una risposta automatica a condizioni materiali insostenibili, una reazione meccanica piuttosto che un atto politico. Thompson aveva già denunciato questa semplificazione che cancella le complessità delle motivazioni individuali e collettive, riducendo la storia popolare a una sequenza di spasmi privi di agency. All’estremo opposto si situa Alain Badiou che rifiuta questa lettura economicista per interpretare il riot come un evento carico di significato storico-politico, un segnale di una possibile rinascita della Storia in periodi di latenza rivoluzionaria. Gran parte della sinistra intellettuale, di fronte alle rivolte di Tottenham del 2011, le ha liquidate come espressioni confuse e apolitiche, riproponendo così, sotto nuove spoglie, lo stereotipo dello spontaneismo già criticato da Thompson, Badiou vi scorge invece la traccia di un mutamento epocale, l’emergere di un nuovo possibile soggetto storico. Per lui il riot non ha bisogno di una direzione politica preesistente per essere significativo: è già, di per sé, un fatto periodizzante, un momento in cui l’Idea rivoluzionaria, pur ancora informe, comincia a prendere corpo. Per Clover la sua analisi, sebbene più feconda di quella economicista, pecca di astrazione. La sua periodizzazione della storia francese in fasi alterne di attività e quiescenza rivoluzionaria appare arbitraria e difficilmente applicabile ad altri contesti mentre il riot stesso finisce per essere trattato come un evento quasi metafisico, sganciato da concrete determinazioni storiche e sociali.  

Tra questi due poli, l’economicismo riduzionista da un lato, l’idealismo politico dall’altro, si apre dunque una difficile via di mezzo. Thompson, con la sua attenzione alle pratiche concrete, offre una possibile soluzione: il riot non è né pura disperazione né mera espressione di un sentimento politico astratto bensì una forma di lotta radicata nel controllo del mercato, dove la folla, attraverso azioni come il blocco, la requisizione o la minaccia, impone una regolazione dei prezzi in nome di un diritto consuetudinario alla sussistenza. Anche se in molti hanno attaccato la sua enfasi sull’economia morale per l’eccessivo peso attribuito alle consuetudini, l’analisi di Thompson dimostra che il riot è stato storicamente un momento cruciale di conflitto di classe, tanto quanto lo sciopero nell’era industriale. Clover, tuttavia, afferma che lo stesso concetto di lotta di classe rischia oggi di apparire insufficiente, soprattutto in contesti dove l’identità di classe non sempre determina la mobilitazione politica. Proprio qui emerge un elemento cruciale. Thompson osserva che spesso le donne, escluse dal patriarcato dal lavoro salariato e più direttamente coinvolte nella gestione della sopravvivenza quotidiana, erano le prime a scatenare le sommosse poiché più sensibili alle frodi e alle speculazioni sul prezzo del pane. Questo dato non solo sposta l’attenzione dalla produzione alla riproduzione sociale ma suggerisce anche che il riot non può essere compreso solo attraverso le categorie tradizionali della politica operaia. Se il mercato è stato storicamente un’arena di conflitto, lo è stato in modo particolare per chi, come le donne, ne subiva le ingiustizie in modo più immediato e brutale. Ne consegue che il riot è una pratica di resistenza radicata nelle condizioni materiali della riproduzione della vita, una forma di lotta che, pur nella sua apparente immediatezza, contiene già in sé una profonda carica politica.

La riproduzione sociale si presenta come un processo intrinsecamente duplice, visto attraverso due prospettive contrapposte ma inseparabili. Da un lato, per chi è spossessato del capitale, essa consiste nella vendita della propria forza lavoro e nell’acquisto dei mezzi necessari a riprodurla, un ciclo continuo di sopravvivenza che lega il salario alla sussistenza. Dall’altro lato, per il capitale stesso, la riproduzione si manifesta come valorizzazione delle merci nella produzione e realizzazione del loro valore nello scambio, un movimento che alimenta l’accumulazione. Queste due facce, pur descrivendo le stesse attività, rivelano una contraddizione fondamentale, una tensione che trova la sua espressione più chiara nel concetto del doppio mulinello, un dilemma in cui le dinamiche della riproduzione si scontrano con i limiti imposti dal sistema. Nella tradizione marxista questo dilemma è stato spesso raccontato come una questione legata al lavoro: da una parte la forza lavoro che si rinnova e si vende per il salario, dall’altra, il lavoro riproduttivo, spesso invisibile, non retribuito e storicamente associato alle donne, che sostiene questo ciclo. Ciò che Thompson suggerisce è che la riproduzione non avviene soltanto nello spazio privato della casa, nella cucina o nella stanza dei bambini, ma anche nel mercato, dove le merci diventano strumenti essenziali per la sopravvivenza. Quando il mercato diventa il principale luogo in cui si gioca la riproduzione, è lì che le lotte si radicalizzano. Questa dinamica non coinvolge tutti allo stesso modo. Chi è marginalizzato, chi viene espulso per primo dal lavoro salariato, chi è confinato ai margini del sistema, si trova a lottare per la riproduzione in modi che vanno oltre il salario, in spazi dove la sopravvivenza è costantemente negoziata, contestata, a volte strappata con la forza. È in questa frammentazione che emerge la distinzione tra le epoche del riot e del riot’, due momenti in cui la ribellione prende forme diverse a seconda delle condizioni materiali. Il doppio mulinello può essere interpretato anche attraverso la distinzione tra sciopero e riot. Lo sciopero, come forma di lotta collettiva, cerca di fissare il prezzo della forza lavoro, si organizza attorno a un’identità operaia e agisce nel campo della produzione. Il riot, invece, combatte per determinare i prezzi nel mercato, si raduna attorno a una condivisa condizione di espropriazione e si scatena nello spazio del consumo. Entrambe sono tattiche che emergono quando la riproduzione è minacciata ma operano su terreni diversi: lo sciopero nella produzione, il riot nella circolazione. Le loro forze sono anche le loro debolezze perché entrambi devono fare i conti con un terreno di scontro che non hanno scelto, un sistema che li precede e li condiziona. Il riot, in particolare, è una lotta della circolazione proprio perché, in assenza di alternative, sia il capitale che i suoi esclusi sono costretti a cercare la riproduzione lì, nel mercato, dove i beni vengono saccheggiati, i prezzi contestati e l’ordine sfidato. Se questa analisi può sembrare astratta rispetto alla realtà caotica e violenta del riot, un’esperienza carica di furia, disperazione ma anche di un certo piacere collettivo, è perché deve rispondere a chi sminuisce queste ribellioni, come se fossero mere esplosioni di irrazionalità. Invece il riot è profondamente politico, è una risposta organizzata, anche se non sempre cosciente, alle minacce contro la riproduzione sociale. Ciò non significa che la contraddizione possa risolversi nella circolazione più di quanto non possa farlo nella produzione. Al contrario, è proprio la coesistenza di queste due sfere, unite ma in tensione, a dare forma alle lotte per la riproduzione. Se durante la rivoluzione industriale i surplus economici hanno permesso allo Stato di sviluppare apparati repressivi ma anche di comprare la pace sociale attraverso concessioni, oggi, con l’erosione di quei surplus e l’aumento di chi viene espulso dal sistema, lo Stato abbandona il compromesso keynesiano e ricorre sempre più alla forza bruta. Le comunità marginalizzate non ricevono più un salario sociale ma subiscono l’occupazione poliziesca. Ed è qui che polizia e riot diventano due facce della stessa medaglia, due forze che si definiscono l’una contro l’altra. Durante i disordini del 2011 a Hackney, tra incendi, saccheggi e una folla in rivolta, alcuni osservatori colsero qualcosa di più di un semplice caos. Essi videro una lotta coerente per ottenere rispetto, per imporre un’esistenza dove prima c’era solo abiezione. Il riot si configura così come una relazione necessaria con lo Stato e il capitale, condotta da chi è stato escluso dalla produttività. Questa relazione è anche un vicolo cieco perché il riot dipende dal suo antagonista: la polizia è al tempo stesso il suo bersaglio e il suo limite. È questa la dialettica del riot, un dilemma tra necessità e impossibilità, tra la ribellione che deve accadere e i confini che non può superare. Il mercato, la polizia, la circolazione non sono spazi di liberazione ma campi di battaglia dove la riproduzione viene disputata con furia perché non c’è altro luogo in cui lottare. Clover prosegue analizzando l’evoluzione storica delle rivolte alimentari collocandole nel contesto dello sviluppo dei mercati e delle trasformazioni sociali. Anche se possiamo individuare episodi isolati già nel XIV secolo, come a Bristol e King’s Lynn nel 1347, è solo a partire dal XVI secolo che queste proteste assumono una forma più definita, seppur inizialmente marginali rispetto alle grandi ribellioni contadine o dinastiche. Il Settecento rappresenta l’apice delle rivolte alimentari, con studiosi come Thompson e Bohstedt che identificano il periodo tra il 1740 e il 1820 come l’età d’oro di tali sommosse. Al centro di questi riot vi è il conflitto tra le logiche di mercato e quelle della cosiddetta economia morale, un concetto elaborato da Thompson per descrivere la resistenza popolare contro la mercificazione del cibo e l’abbandono degli obblighi sociali tradizionali. Alcuni storici criticano questa interpretazione, sostenendo che i rivoltosi fossero più interessati a requisire il cibo immediatamente disponibile che a regolare i mercati in senso astratto. Questa contrapposizione, però, è in parte ideologica: requisire il cibo e regolare i prezzi sono due facce della stessa medaglia, entrambe risposte pragmatiche alla scarsità e alla dipendenza dai mercati. Marx e Sohn-Rethel contribuiscono a chiarire come lo scambio commerciale, una volta generalizzato, diventi una seconda natura sociale, rendendo il prezzo un terreno di scontro inevitabile. Tilly osserva che, in realtà, le azioni delle folle, impedire l’esportazione di grano o imporre prezzi più bassi, erano spesso le stesse adottate dalle autorità in tempi di carestia. Ciò dimostra che le rivolte alimentari non erano semplicemente espressioni di irrazionalità collettiva ma risposte concrete alle contraddizioni del mercato. Le rivolte scoppiate nei porti inglesi di Bristol e King’s Lynn nel 1347 rappresentano un momento cruciale in cui la protesta popolare si intreccia con le dinamiche nascenti del mercato globale. Le folle, agendo come se avessero autorità regale, presero il controllo delle navi cariche di grano, lo scaricarono contro la volontà dei proprietari e lo misero in vendita a un prezzo deciso da loro stesse. A King’s Lynn i rivoltosi andarono oltre. Essi sequestrarono altri carichi di cereali destinati al mercato, condannarono arbitrariamente i mercanti alla gogna e arrivarono persino a imprigionare il sindaco, emettendo proclami come se fossero un’autorità costituita. Questa teatrale appropriazione del potere dimostra come il controllo sui prezzi e la distribuzione del cibo possa sfociare in una forma di sovranità alternativa, anche se temporanea ma ciò che più colpisce è la destinazione delle navi prese di mira: Bristol riforniva la Guascogna, King’s Lynn riforniva Bordeaux, entrambe zone cruciali per la Guerra dei Cent’anni. Questi episodi non sono isolati perché si inseriscono in un contesto più ampio di instabilità economica e geopolitica. Poco prima l’Inghilterra aveva dichiarato bancarotta sui prestiti ottenuti da Firenze per finanziare l’invasione della Francia mentre il sistema bancario mediterraneo era scosso dal crollo delle grandi case finanziarie dei Bardi e dei Peruzzi. In questo scenario le rivolte del 1347 potrebbero sembrare marginali, eppure sono parte integrante di un sistema mondiale in formazione, dove commercio, guerra e finanza si influenzano a vicenda. Il porto è il luogo in cui il locale e il globale si incontrano in modo tangibile. Se da un lato è un mercato ingrandito, con il suo trambusto quotidiano, dall’altro è il punto in cui si condensano le astrazioni del commercio internazionale, le rotte, le leggi marittime, i contratti. Fuori dal porto, per chi non ha viaggiato, è difficile conciliare la realtà del mercato cittadino con la vastità del commercio oceanico, una distanza che separa il registro contabile dal romanzo d’avventura. Franco Moretti osserva che l’avventura, nei romanzi, funziona come un meccanismo di espansione geografica e narrativa, riflettendo l’espansione aggressiva del capitalismo attraverso gli oceani. E in effetti il successo di Robinson Crusoe sta proprio nel fondere avventura e calcolo economico, mostrando come la modernità unisca queste due dimensioni. Marx, del resto, aveva già colto questa dialettica: il commercio privato genera il mercato mondiale e l’indipendenza individuale si trasforma in dipendenza dal sistema globale. È questa la tensione che lega la bancarella del mercante alle rotte transoceaniche, la rivolta di King’s Lynn alla guerra di Calais, in un unico sistema di relazioni. Anche se i rivoltosi del 1347 non avevano una coscienza chiara del mercato globale, le loro azioni erano comunque determinate da quelle stesse forze. Come nota Thompson, le rivolte per il cibo non erano affatto caotiche perché richiedevano organizzazione, pianificazione e a volte duravano giorni, con donne che controllavano i mercati mentre gruppi di uomini bloccavano strade e porti. Spesso l’azione era annunciata da manifesti scritti a mano o dal gesto simbolico di un pane nero issato come bandiera. Se si osserva l’evoluzione delle rivolte nel Settecento, emerge chiaramente che l’intervento fisico contro il trasporto delle merci non è un’eccezione ma la norma. Nel 1740 la maggior parte delle sommosse aveva come obiettivo fermare l’esportazione di cibo, concentrandosi lungo fiumi e porti. Nel 1756-57 aumentano gli attacchi ai commercianti però il bersaglio principale resta il trasporto. Nel 1795, anno cruciale per Thompson, le rivolte si diffondono in tutta l’Inghilterra, combinando fissazione dei prezzi e sabotaggio delle esportazioni. Lo stesso schema si ripete nelle colonie americane, dove tra il 1709 e il 1713 i rivoltosi danneggiarono navi cariche di grano dirette verso i Caraibi. Tutto ciò dimostra che il riot contro le esportazioni non è un episodio marginale perché esso è il nucleo stesso del conflitto sociale in un’epoca di crescente integrazione economica. Fin dalle origini, la protesta popolare è stata una lotta per il controllo della circolazione delle merci, strettamente legata alla mercificazione dell’agricoltura e alla distruzione delle economie locali autosufficienti. A partire dal Cinquecento, con l’espansione coloniale e la tratta degli schiavi, questa dinamica si intensifica, in quella che alcuni storici chiamano la prima globalizzazione. L’era mercantilista, che va dalle scoperte geografiche alla Rivoluzione Industriale, coincide perfettamente con la prima grande ondata di riot non per caso ma perché il riot stesso nasce e si sviluppa come risposta alla trasformazione del mondo in un sistema economico integrato. Nel primo fiorire del riot sono già presenti i semi del suo declino. L’Inghilterra è al centro della prima parte di questo studio non perché sia la culla originaria del riot ma perché rappresenta il luogo della prima transizione, quella dal riot allo sciopero. La logica del riot emerge con maggiore chiarezza proprio nel contrasto con questa evoluzione. Lo sviluppo del mercato coincide con una crescente pressione demografica in Europa a partire dalla fine del Quattrocento, accompagnata da un aumento dei prezzi dei cereali. In questo contesto, secondo la convincente analisi di Brenner sull’ascesa del capitalismo in Inghilterra, si assiste alla concentrazione delle proprietà terriere da parte dei landlord che le affittano a grandi affittuari capitalisti, i quali a loro volta le coltivano ricorrendo al lavoro salariato e a miglioramenti agricoli. In Francia, invece, questo processo è frenato dalla tendenza dello Stato a proteggere la piccola proprietà contadina. Ne derivano due percorsi di sviluppo distinti, chiaramente delineati da Ellen Meiksins Wood: la spinta verso una crescita autosostenuta e la necessità costante di migliorare la produttività del lavoro presupponevano trasformazioni nei rapporti di proprietà che rendevano tali miglioramenti indispensabili per la stessa sopravvivenza degli attori economici principali, landlord e contadini. Le differenze tra Inghilterra e Francia, ad esempio, non dipendevano inizialmente dalle rispettive capacità tecnologiche bensì dalla natura dei rapporti tra classi agrarie. In un caso si imponeva l’aumento della produttività del lavoro, nell’altro no, e anzi, in certi modi, si ostacolava lo sviluppo delle forze produttive. La spinta sistematica a rivoluzionare i mezzi di produzione era più una conseguenza che una causa. La piccola produzione contadina poteva essere intensificata, e spesso lo era, ma generalmente attraverso un maggiore impiego di lavoro. Questa non era certo una via d’uscita dalla trappola malthusiana, e, come nota Brenner, dipendeva da un aumento della produzione cerealicola altrove. Lo sviluppo economico inglese si basava su un rapporto quasi unico tra agricoltura e industria, reso possibile da una rivoluzione agricola fondata sull’emergere di rapporti di classe capitalistici nelle campagne che permise all’Inghilterra di diventare la prima nazione industrializzata. Questi diversi percorsi determinarono anche lotte differenti. In Inghilterra le rivolte contadine erano dirette contro i landlord, in un estremo e vano tentativo di difendere la proprietà contadina in disgregazione dall’avanzata capitalistica. In Francia, invece, il bersaglio era solitamente la fiscalità oppressiva dello Stato assolutista. Brenner si riferisce qui a sollevazioni come la ribellione di Kett nel 1549, la più grande rivolta contro le enclosures del periodo. Queste somigliano alle sommosse per il cibo per la questione della sussistenza però il legame è labile. Si potrebbe precisare che la rivolta contadina è una sorta di antenato di ciò che riconosceremo poi come riot, una resistenza feudale alla ristrutturazione che perde gradualmente forza man mano che il suo mondo scompare in modo disomogeneo. Il riot sopravvive dopo che il suo predecessore è caduto nell’oblio ma per un certo periodo coesiste con esso.  Ciò è comprensibile, poiché il mercato, il mondo dello scambio e del consumo, ha una lunga storia. È questo fatto che ha portato Fernand Braudel a sostenere che l’economia ha tre strati: alla base c’è la vita quotidiana, sopra di essa il mercato e ancora più in alto la zona dell’anti-mercato, dove agiscono i grandi predatori e vige la legge della giungla. Questa visione trascura il fatto che il capitalismo non è semplicemente uno strato aggiuntivo, quanto una relazione sociale che trasforma il contenuto del mercato preesistente, pur conservandone inizialmente la forma (e facendo lo stesso, sempre più, con la vita quotidiana). Ora sarà il luogo in cui il valore si realizza, dietro il paravento del comprare a poco e vendere a caro prezzo. Il capitalismo è l’internalizzazione del commercio, non il suo opposto, un capitalismo dapprima mercantile, circolatorio. E il periodo in cui questo processo di internalizzazione è in pieno fermento, dopo l’inizio della rivoluzione agricola ma prima che la rivoluzione industriale prenda piede, sarà l’età d’oro del riot.

È impossibile stabilire con precisione il momento esatto in cui lo sciopero si sostituisce al riot nel repertorio delle lotte sociali. Ogni tentativo di determinare una transizione netta sarebbe eccessivamente sicuro della chiarezza e della puntualità con cui le forme di conflitto si evolvono, divergono e si riorganizzano. Ancora più errato sarebbe suggerire che una scompaia per essere rimpiazzata dall’altra. Le tattiche, una volta adottate, rimangono sempre disponibili, più vicine o più lontane. Inoltre, nel cercare questa transizione ci scontriamo con una difficoltà già evidenziata, ovvero, il passaggio dal riot allo sciopero è intrinseco a un cambiamento più profondo e complesso nella struttura del capitalismo nascente. Lo sciopero emerge dal riot, da un modello centrato sul profitto realizzato nel mercato a uno incentrato sull’estrazione del plusvalore. In altre parole, lo sciopero emerge nel nuovo mondo della produzione capitalistica, come deve essere, partendo dallo spazio della circolazione. Sbuca dal mare ancora coperto di schiuma, se non del tutto formato. I marinai britannici, americani e francesi furono tra i lavoratori più militanti del Settecento, rivaleggiando con i calzolai (artigiani spesso alla guida dei disordini politici dal Seicento fino alla Comune di Parigi). La parola inglese strike sembra risalire al 1768, quando i marinai si unirono ad artigiani e operai cittadini, tessitori, cappellai, segantini, molatori di vetro e scaricatori di carbone, nella lotta per salari migliori, ammainando le vele e paralizzando il commercio cittadino. L’origine del termine francese per sciopero, grève, è ancora più significativa, un’etimologia dall’ampio respiro che inizia sulle rive di un fiume e termina all’Hôtel de Ville secoli dopo, a ottanta passi di distanza. È una parola antica. Originariamente indicava una distesa di sabbia e ghiaia vicino all’acqua, un approdo, e quindi un luogo dove le barche scaricavano merci. La grève più utilizzabile sulla Senna divenne così il porto principale di Parigi. Era sulla riva destra, una volta che la città si espanse al di là delle isole fluviali. Lo spazio aperto accanto all’approdo fungeva da mercato centrale nel Medioevo, prima che i venditori si spostassero a Les Halles. Lavoratori non specializzati si radunavano lì in cerca di lavoro, caricando e scaricando legna, grano, barili di vino e balle di fieno: la Place de Grève. Il nome durò più di 500 anni. Nel 1802, la piazza divenne Place de l’Hôtel de Ville, ribattezzata per il suo edificio principale, sede del sindaco, del colpo di stato termidoriano e, brevemente, della Comune. Fotografie d’epoca mostrano che i comunardi vi eressero barricate in parte con grandi botti di vino. Tornando al porto, Clover afferma che era il luogo che fornisce la principale coordinata per l’età d’oro del riot. È inevitabile, perché praticamente e logicamente necessario, che porto e mercato facciano da levatrici allo sciopero. Ed è altrettanto inevitabile che torneremo al porto più avanti, quando le cose oscilleranno di nuovo dallo sciopero al riot. È un bacino di lavoro inutilizzato nel grande meccanismo del mercato, un luogo di miseria e possibilità. L’ascesa del capitalismo affina non poche espressioni. Chateaubriand, ultrarealista e instancabile coniatore di termini, usa grèviste nel 1821. Per il momento non significa ancora “scioperante” ma piuttosto uno che si oppone ai realisti. Il suo fiuto politico è acuto come sempre. Mentre i corpi si radunano nella Place, i disoccupati che saranno la prima armata delle Journées de Juin, “être en grève” comincia a significare “cercare lavoro”. Nel 1848, dopo un crollo economico in tutta Europa, “mettre un patron en grève” significa “rifiutarsi di lavorare per il padrone”. Il senso moderno e lo sciopero moderno sono arrivati. La transizione è completa. La Francia vi giunge un po’ più tardi dell’Inghilterra o degli Stati Uniti per ragioni già discusse. Gli anni 1848-1851 sono la grande svolta, nonostante la loro natura farsesca. L’industrializzazione trasformerà ora la società francese a un livello profondo. Prima di questo passaggio, regna la confusione, come altrove. Nel 1830, troviamo un riot di operai tessili a Roubaix, essi chiedevano un aumento di salario. Il procuratore di Douai riferisce che questi lavoratori hanno rotto le vetrine dei negozi principali, dove si sono presentati in massa per chiedere accordi scritti sull’aumento. Roubaix era un centro tessile sin dal tardo Medioevo, con una solida organizzazione operaia. Shorter e Tilly registrano questo fatto correttamente (sebbene ambiguamente) come un preludio allo sciopero in Francia, osservando che a volte gli operai di un laboratorio abbandonavano il lavoro per un po’ e a volte cercavano di ottenere interruzioni del lavoro in altri laboratori dello stesso settore, ma più spesso il nucleo della loro azione era una dimostrazione di forza accompagnata dalla presentazione di richieste collettive sulle condizioni di lavoro in un certo gruppo di laboratori. La legge del tempo vietava quasi ogni forma di azione collettiva dei lavoratori. Il procuratore chiaramente non ha un linguaggio per descrivere questo. I contenuti stessi del nuovo assetto sociale in cui è immerso gli sono ancora sconosciuti: l’ingresso sulla scena delle classi lavoratrici. È bloccato sulla forma. Dopotutto, è una folla inferocita, anche se si tratta di lavoratori che si mobilitano in quanto tali nel loro luogo di lavoro, chiedendo salari migliori. La conseguenza di questo formalismo è evidente. Ritiene il riot in questione privo di connotazione politica. Potremmo sospettare che intenda dire che gli eventi non sono direttamente legati alla Rivoluzione di luglio, avvenuta due settimane prima. Passando alle rivolte popolari nell’Inghilterra tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, Clover si concentra in particolare sui moti di Swing e sul movimento luddista, due episodi emblematici della resistenza operaia e contadina di fronte alla trasformazione capitalistica delle campagne e delle fabbriche. I magistrati del Berkshire, in un proclama indirizzato alle “classi lavoratrici”, cercano di sedare le proteste legate alla figura mitica del Capitano Swing, promettendo aumenti salariali in cambio della fine delle distruzioni di macchinari. Questo tentativo di mediazione riflette la gravità delle rivolte scoppiate nell’autunno del 1830 che si protrassero fino all’anno successivo e che avevano come bersaglio principale le trebbiatrici, simbolo di un’agricoltura sempre più meccanizzata che minacciava il lavoro manuale. Allo stesso modo, i luddisti, tra il 1811 e il 1813, avevano preso di mira telai meccanici e altre macchine industriali, opponendosi a un sistema che erodeva i salari e le condizioni di lavoro tradizionali. Entrambi i movimenti nascevano da un contesto di radicale trasformazione economica e sociale. L’avanzata del capitalismo agrario e industriale, con l’introduzione di macchinari che aumentavano la produttività ma riducevano la necessità di manodopera, generava disoccupazione e una crescente pressione al ribasso sui salari. La proletarizzazione delle masse rurali, private dell’accesso alla terra dalle enclosures e costrette a dipendere esclusivamente dal salario o dall’assistenza pubblica, creava un terreno fertile per il malcontento. Le proteste assumevano forme diverse: non solo la distruzione di macchine ma anche incendi, lettere minatorie, assemblee per rivendicare salari più alti e attacchi contro proprietari terrieri, parroci e funzionari locali. Nonostante questa varietà di azioni, l’obiettivo era chiaro e coerente, ovvero garantire un salario minimo dignitoso e contrastare la disoccupazione. Sebbene le autorità e gli osservatori contemporanei tendessero a bollare queste proteste come semplici “sommosse”, Clover sottolinea come in realtà fossero espressione di una lotta più strutturata, anticipatrice delle future forme di sciopero e organizzazione sindacale. I luddisti, ad esempio, non si opponevano alla tecnologia in sé ma solo a quei macchinari che riducevano i salari o eliminavano posti di lavoro, dimostrando una consapevolezza strategica delle dinamiche economiche in atto. Allo stesso modo, i rivoltosi di Swing non erano semplicemente nostalgici di un passato rurale ma lottavano per condizioni di vita migliori in un sistema che li stava marginalizzando. Questa fase storica rappresenta dunque un momento di transizione, in cui le forme tradizionali di protesta, come le sommosse per il prezzo del pane, si mescolavano a nuove strategie di resistenza, più vicine alle lotte operaie che sarebbero emerse nel corso dell’Ottocento. Come osserva Thompson, era un periodo in cui una tradizione di lotta stava finendo mentre un’altra non si era ancora pienamente definita. La transizione dal mercato, dove le lotte si concentravano sul prezzo dei beni di sussistenza, al luogo di lavoro, dove il conflitto si spostava sul salario e sul controllo del processo produttivo, spiega il passaggio dal riot allo sciopero come forma dominante di protesta.  

3. Arriva lo sciopero

Lo sciopero emerge progressivamente come la tattica dominante di azione collettiva, assumendo un ruolo centrale nel conflitto e offrendo una prospettiva privilegiata per ripensare il riot secondo Clover. Le due forme di lotta si illuminano a vicenda, rivelando i mutamenti profondi del capitale e le sue continue metamorfosi ma non si tratta solo di una contrapposizione oggettiva poiché entrano in gioco anche le concezioni politiche e le ideologie che le definiscono, spesso separandole in modo netto. Viene proposta una definizione ampia di sciopero, visto come una lotta sul prezzo della forza lavoro e sull’occupazione stessa, condotta dai lavoratori in quanto tali all’interno della sfera produttiva. Questa definizione, però, è volutamente generica e contrasta con le interpretazioni più ristrette emerse nel corso dell’Ottocento che riducono lo sciopero a un’azione auto-riconosciuta, disciplinata e legale, basata sul rifiuto organizzato del lavoro. Tutto ciò che esce da questi canoni viene spesso escluso dalla categoria o addirittura dimenticato, come nel caso delle rivolte dei tessitori di Lione nel 1831 e 1834 che univano rivendicazioni salariali a barricate e guerriglia urbana. Marx individua nel 1830 una cesura fondamentale in Francia, con il passaggio da uno Stato dominato dai proprietari terrieri a uno controllato dai capitalisti. Hobsbawm estende questa data a un più generale punto di svolta nella coscienza di classe nei paesi industrializzati, un cambiamento che prende forma tra il 1815 e il 1848. Però lo sciopero nella sua forma più codificata arriva in ritardo visto che prima di allora le lotte operaie si confondono spesso con altre forme di protesta, dal luddismo alle sommosse per il pane. Storici come Shorter e Tilly riconoscono che lo sciopero è solo una delle tante espressioni del conflitto, accanto a sabotaggi, dimostrazioni e altre azioni collettive ma finiscono per tracciare una linea troppo netta tra sciopero e riot, presentandoli come fenomeni distinti e contrapposti. Questa rigida separazione, però, nasconde la loro comune genealogia. Lo sciopero non nasce dal nulla ma affonda le radici nelle lotte che agitavano la sfera della circolazione, come i tumulti per il pane o le rivolte contro i rincari. Invece di essere visti come due momenti di un unico movimento, sciopero e riot vengono spesso contrapposti, una visione che finirà per complicare la comprensione del ritorno del riot nelle epoche successive. Clover suggerisce che non ci sia stata una vera e propria transizione ma piuttosto una sovrapposizione e una continuità sotterranea che sfida le narrazioni tradizionali della storia del conflitto sociale. L’opposizione tra riot e sciopero si consolida nel corso dell’Ottocento come un progetto dichiarato, destinato a persistere ben oltre quell’epoca, e raggiunge la sua piena definizione intorno alla metà del secolo. Questo contrasto emerge con chiarezza se si confrontano eventi emblematici come i disordini del Bull Ring del 1839 e lo sciopero dei vetrai di Flint del 1858-59, due forme di protesta radicalmente diverse nella loro natura e nelle loro implicazioni politiche. I moti di Birmingham scoppiarono in seguito a una serie di assemblee politiche tenutesi nel distretto del mercato del Bull Ring, dove l’intervento delle autorità, con la lettura del Riot Act e l’arrivo della polizia da Londra, scatenò una violenta repressione che richiamò immediatamente alla memoria il massacro di Peterloo. La folla, provocata, reagì con un caotico vandalismo: vetri infranti a colpi di mattoni e zollette di zucchero rubate da un negozio prima che venisse dato alle fiamme, inferriate strappate e usate come arieti contro le finestre. La devastazione fu tale che il Duca di Wellington paragonò Birmingham a una città saccheggiata in guerra. Questi episodi non rimasero isolati ma furono seguiti da altre rivolte in diverse città, confermando una certa continuità di forme di protesta violenta e disorganizzata. Parallelamente all’affermarsi dell’architettura in vetro, simbolo di trasparenza e modernità, la distruzione delle vetrine divenne nell’Ottocento un gesto emblematico di quella che Ian Haywood definisce riot spettacolare, un atto di sfida visibile e immediatamente riconoscibile. Isobel Armstrong, in un confronto illuminante, oppone questi moti caotici allo sciopero disciplinato e organizzato dei vetrai di Flint che tra il 1858 e il 1859 paralizzò le fabbriche in diverse città. A differenza dei riot, questo sciopero, ampiamente discusso sia all’interno del sindacato che nell’opinione pubblica, si caratterizzò per la sua natura ordinata e strategica, rifiutando esplicitamente il vandalismo e l’immediatezza distruttiva delle rivolte precedenti. Come sottolinea Armstrong, la pratica della frantumazione del vetro non aveva alcun potere sui vetrai e sul loro sciopero disciplinato. Lo sciopero si definisce in opposizione al riot, diventando l’espressione di una nuova forma di lotta operaia, razionale e legittimata, che cerca di imporsi sia contro la repressione statale sia agli occhi delle altre organizzazioni sindacali. La distinzione tra i due fenomeni non è arbitraria ma riflette cambiamenti profondi nell’economia politica e nelle forme di conflitto sociale. La rivolta del Bull Ring, pur non essendo una classica jacquerie per il cibo, un fenomeno ormai in declino, ne conserva molti tratti: l’esplosione di violenza in uno spazio mercantile, il saccheggio di beni alimentari, lo scontro fisico con le forze dell’ordine. Al contrario, lo sciopero dei vetrai incarna perfettamente il modello della protesta operaia moderna: organizzata, mirata, fondata sulla contrattazione collettiva. È in questo momento storico che l’opposizione tra le due forme di protesta si cristallizza, diventando un elemento centrale dell’ideologia dell’azione collettiva. Questa contrapposizione, tuttavia, si basa sull’assunto che la forma esteriore della protesta, il suo aspetto immediatamente visibile, riveli in modo trasparente il suo contenuto sociale e politico. Walter Benjamin osserva che, a differenza delle forme artistiche, nelle tecnologie produttive il progresso è proporzionale alla trasparenza del loro significato sociale ed è per questo che l’architettura in vetro diventa un simbolo dell’epoca industriale. Allo stesso modo, lo sciopero si presenta come un’azione razionale, ordinata, “trasparente” nelle sue rivendicazioni mentre il riot appare come il suo opposto: caotica, opaca, priva di un obiettivo chiaro. Se lo sciopero è la finestra intatta, la sommossa è il vetro infranto, i cui frammenti riflettono una luce accecante ma dispersa. Questa rigidità categoriale rischia di oscurare la complessità storica. Non si tratta di negare la differenza tra riot e sciopero, che è reale e fondata su trasformazioni materiali, quanto di evitare che la loro opposizione diventi così netta da cancellare i processi di transizione che legano le une all’altro. Se pensiamo alle due forme come separate da una cesura netta, perdiamo di vista la dialettica che le connette: lo sciopero non nasce dal nulla perché emerge storicamente dal riot, rielaborandone alcuni elementi in un contesto mutato. Fredric Jameson ricorda che il capitalismo non è un fenomeno omogeneo, né una semplice successione di fasi distinte. La coesistenza di diversi modi di produzione apre a una storia dialettica, in cui le trasformazioni sono sempre parziali e contraddittorie. Datare la fine dell’era del riot prima dell’inizio di quella degli scioperi significa rischiare di fraintendere le dinamiche reali del capitale, il cui sviluppo non è lineare ma procede attraverso crisi e riorganizzazioni. Armstrong cerca di superare questa rigidità individuando nella sommossa quelli che chiama i “tre principi-cardine della grammatica della distruzione delle vetrine”, ovvero l’azione collettiva, il corpo come proprietà e il rifiuto dell’astrazione, mostrando come questi riemergano, in forma diversa, nello sciopero organizzato. La sua analisi è preziosa perché rifiuta l’interpretazione “patrizia” della distruzione delle vetrine come mero atto di vandalismo privo di significato, riconoscendo invece una logica interna alla protesta popolare. Anche la sua lettura conserva per Clover un certo formalismo, concentrandosi sui principi dichiarati dei partecipanti più che sulle condizioni materiali che plasmano sia i riot che gli scioperi. Il vero contenuto sociale dello sciopero, infatti, non si riduce alle rivendicazioni salariali o alle condizioni di lavoro, per quanto cruciali. Esso è inseparabile dalla produttività capitalistica stessa. Lo sciopero diventa efficace soprattutto in periodi di espansione economica, quando l’interruzione del lavoro colpisce un capitale bisognoso di continuità produttiva per realizzare profitti. Come nota John Rule, nei primi scioperi inglesi i datori di lavoro potevano teoricamente resistere più a lungo degli operai ma in un mercato in crescita era spesso più razionale cedere alle richieste piuttosto che rinunciare ai guadagni derivanti dall’aumento della produzione. Possiamo allora affermare che lo sciopero non è semplicemente una reazione alla miseria industriale ma un prodotto delle stesse dinamiche che plasmano il capitalismo industriale: la concentrazione della manodopera, l’interdipendenza tra salari e accumulazione, la necessità di negoziare il prezzo della forza lavoro in un sistema che la riduce a merce. Il riot, d’altra parte, non è solo caos senza significato. Esso è l’espressione di un conflitto che precede e in qualche modo prepara lo sciopero, portando in sé, in forma ancora informe, le stesse tensioni che lo sciopero organizzerà in modo più strutturato. Rompere le finestre non è un gesto vuoto ma un atto di appropriazione simbolica dello spazio urbano, un rifiuto delle astrazioni del mercato che si traduce in un’azione fisica, immediata. Se lo sciopero è il prodotto di un’epoca in cui il lavoro si confronta con il capitale sul terreno della produzione, il riot appartiene a una fase in cui il conflitto esplode ancora nei luoghi dello scambio e del consumo. La categoria delle lotte produttive, di cui lo sciopero è l’archetipo, rappresenta la forma di azione collettiva propria della fase produttiva del capitale. Lo sciopero nasce prima di questa fase, mettendosi alla prova nel mondo, ma riesce a realizzarsi pienamente solo con il periodo di accumulazione del capitale. Questa fase non emerge in modo puntuale o autonomo quando il capitale commerciale o centrato sulla circolazione si esaurisce, piuttosto si sviluppa a partire da esso e rimane intrecciata con esso. Produzione e circolazione stanno in una relazione dialettica classica: opposte ma mutualmente costitutive, con la loro contraddizione (tra valore e prezzo) che le mantiene in un movimento congiunto. L’origine dello sciopero risiede nella trasformazione che sposta corpi e capitale nella sfera della produzione. Lo sciopero emerge dalla circolazione e diventa la tattica predominante quando questa soglia viene superata, quando un cambiamento quantitativo nella struttura economica diventa qualitativo. Per quanto riguarda la purificazione e l’autonomizzazione dello sciopero nel XIX secolo, per Clover risulta unilaterale poiché considera solo l’opposizione tra produzione e circolazione, senza la loro unità. In altre parole, nella dialettica tra continuità e rottura, contrapporre lo sciopero al riot è necessario ma insufficiente, inclinando troppo verso la rottura, la discontinuità e l’opposizione formale. È importante riconoscere i momenti in cui quella continuità, nascosta dal velo del cambiamento storico, riemerge. Prendendo come esempio il 1839, si può osservare l’eterogeneità del periodo. Le riunioni politiche che ispirano la violenza sono radici cartiste, portatrici delle idee più avanzate del movimento operaio britannico. Il loro giornale, The North Star, pubblica versi di Shelley e poesie di operai, proprio nel periodo in cui scoppiano i moti del Bull Ring. Il movimento operaio organizzato è già in fase avanzata, con tentativi di unione generale dei lavoratori sin dal 1818, intensificatisi tra il 1829 e il 1834. Non è semplice definire la politica dei disordini del Bull Ring ma ancor più complesso è interpretare gli eventi del 1842, descritti come un punto di combustione sociale spontanea durante lo sciopero generale cartista (le cosiddette “plug riots”). Questo episodio, partito dai minatori dello Staffordshire, si diffonde a fabbriche e miniere in tutta la Gran Bretagna, coinvolgendo oltre un milione di lavoratori. Pur presentando le caratteristiche di uno sciopero (rifiuto del lavoro, richieste su salari e orari), Hobsbawm insiste nel definirlo una rivolta della fame spontanea, cercando di preservare l’idea di uno sciopero puro come qualcosa di distinto. Questa ambivalenza riflette però la realtà: le sovrapposizioni tra sciopero e riot sono l’esito inevitabile del privilegiare la forma rispetto al contenuto. Sono anche segni della coesistenza di tensioni nella spirale diacronica del capitale, rendendo pensabili altri momenti di metamorfosi all’interno del capitale e delle sue forme di azione collettiva. Questa prospettiva è particolarmente suggestiva per riflettere su trasformazioni analoghe nel presente. L’ideologia dell’azione collettiva, con la sua opposizione statica tra sommossa e sciopero, è stata storicamente associata a un’opposizione concettuale più ampia, quella tra anarchismo e socialismo. Sebbene oggi possa sembrare che specifiche tattiche e repertori d’azione derivino naturalmente da determinate posizioni politiche e analitiche, in realtà questa contrapposizione ideologica ha contribuito a plasmare la divisione politica stessa, consolidando ulteriormente l’antitesi tra le diverse forme di azione. Nella contemporaneità, lo sciopero, insieme alle azioni sindacali organizzate e alle grandi strutture organizzative, è visto come una tattica politico-economica legata al campo complesso del socialismo e del comunismo, in connessione con il pensiero materialista storico. Il riot e le tattiche “insurrezionali” al di fuori dell’organizzazione tradizionale del lavoro, invece, sono intese come un rifiuto di un programma politico considerato deterministico, autoritario e implicitamente statalista. Una delle domande fondamentali poste da Clover è se questa serie di opposizioni, seppur storicamente fondate, abbia ancora senso oggi. La scissione della Prima Internazionale non necessita di essere ripercorsa in dettaglio ma è importante ricordare come, inizialmente, anarchici da un lato e socialisti e comunisti dall’altro fossero molto più vicini di quanto appaia oggi. La loro polarizzazione, parallela a quella tra riot e sciopero, è il risultato di un processo storico. All’epoca della Prima Internazionale entrambe le correnti condividevano la retorica dell’emancipazione del lavoro come progetto fondamentale, la centralità del proletariato e la presupposizione della lotta di classe come base della rivoluzione. Le discussioni dell’epoca, come quella tra anarchismo collettivista e comunismo anarchico negli anni ’70 dell’Ottocento, mostrano come le posizioni si siano irrigidite nel tempo. Mentre il primo voleva abolire ogni forma di scambio mercantile e salariale, il secondo prevedeva un’economia di scambio all’interno di una rete di collettività autogestite dai lavoratori. La questione del salario divenne un punto di frattura decisivo, con l’anarchismo collettivista che manteneva un sistema salariale basato sul contributo lavorativo individuale. Questa contrapposizione tra posizioni politiche si è consolidata nel tempo e l’associazione di specifiche tattiche a determinate visioni politiche non è un fatto naturale ma parte di questo processo. Un esempio emblematico è quello del dibattito sullo sciopero generale, con le sue distinzioni tra scioperi “proletari” e “politici”, o tra sciopero “generale” e “di massa”. Ciò che interessa a Clover non è tanto analizzare queste distinzioni, quanto piuttosto un momento specifico del dibattito che offre spunti per riflettere sul rapporto tra tattiche e posizioni politiche. La vittoria della posizione socialista all’interno dell’Internazionale riguardo ai modelli di lotta politica era già stata sancita prima della scissione del 1872. La Risoluzione n. 9 del 1871 affermava che la costituzione della classe operaia in partito politico era indispensabile per garantire il trionfo della rivoluzione sociale e l’abolizione delle classi. L’impegno verso un processo parlamentare implicava una certa forma di organizzazione e il rispetto di standard legalistici. Anche se la strategia parlamentare avrebbe avuto alterne fortune, la logica organizzativa del partito sarebbe rimasta costante. Lo sciopero, in quanto espressione di questa base organizzativa e come confronto con il capitale piuttosto che con lo Stato, aderiva inevitabilmente a questo orizzonte politico, pur con obiettivi spesso più locali. Al contrario, il disordine percepito delle modalità di lotta anarchiche divenne oggetto di antipatia. La parola chiave che codifica questa avversione è “spontaneità”, un termine ambiguo dal punto di vista politico. Da un lato, può indicare un’azione “naturale”, una risposta momentanea a uno stimolo; dall’altro, in un’accezione kantiana, assume il significato di atto libero e volontario, non determinato da cause esterne. Questa duplicità semantica permette al termine di essere usato sia per descrivere un moto autonomo e incontrollato (come nel caso del riot) sia per indicare un’azione voluta ma priva di un’organizzazione strutturata. Con la rivoluzione sovietica il termine acquisisce una complessità ancora maggiore. Lenin lo utilizza per criticare le masse disorganizzate, associando la spontaneità (stikhiinost in russo) al caos naturale, contrapposto all’organizzazione del lavoro umano. Alexander Bogdanov rafforza questa idea, descrivendo il mondo come un campo di battaglia in cui l’attività umana lotta contro la resistenza spontanea della natura. È proprio questa sovrapposizione tra spontaneità come caos naturale e come antagonismo al lavoro che permette al termine di assumere una connotazione fortemente negativa. Da una prospettiva leninista, lo “spontaneismo” diventa mancanza di organizzazione e opposizione al lavoro e, implicitamente, al proletariato. In questo modo un disaccordo sulle strategie organizzative può essere trasformato in una forma di irrazionalità, contraria non solo al lavoro ma all’umano stesso. In una fase precedente di questo dibattito Marx si era espresso contro l’approccio impaziente e rivoluzionario. Durante le sconfitte francesi del 1870 aveva esortato i lavoratori a non farsi trascinare dai ricordi nazionali del 1792 ma a concentrarsi sulla costruzione del futuro, sfruttando le opportunità della libertà repubblicana per rafforzare la loro organizzazione di classe. Come è noto, in seguito avrebbe cambiato posizione offrendo un giudizio completamente diverso sulla Comune di Parigi. Nel 1873 Engels valuta con scherno la proposta bakuninista dello sciopero generale in Spagna, sull’orlo della guerra civile, riprendendo i dubbi iniziali di Marx. Per Engels lo sciopero generale è un’illusione anarchica, un tentativo di innescare la rivoluzione sociale attraverso un’astensione totale dal lavoro che costringerebbe la classe dominante alla resa o alla repressione violenta, offrendo ai lavoratori il pretesto per ribellarsi. Engels la giudica come un’idea irrealizzabile perché i governi non permetterebbero mai ai lavoratori di accumulare risorse sufficienti per sostenere uno sciopero prolungato mentre eventi politici ed oppressione della classe dominante spingerebbero i lavoratori verso la liberazione prima che possano organizzarsi in modo così perfetto. Se avessero davvero tale organizzazione e fondi, non avrebbero bisogno dello sciopero generale per raggiungere i loro obiettivi. Rosa Luxemburg vede in questa critica il senso comune della socialdemocrazia che contrappone lo sciopero generale anarchico, inteso come strumento rivoluzionario immediato, alla lotta politica quotidiana del proletariato. Per Luxemburg la difesa anarchica dello sciopero generale si riduce a un dilemma: se il proletariato non è sufficientemente organizzato, non può realizzarlo; se lo è, non ne ha bisogno. Georges Sorel offre una difesa radicalmente diversa dello sciopero generale, opponendosi a Engels pur condividendone la tendenza a universalizzare la propria posizione. Per Sorel il potere dello sciopero generale non sta nella sua capacità di piegare immediatamente il capitale ma nel fornire al proletariato una visione totale della lotta di classe. Distingue tra uno sciopero generale “politico”, organizzato da sindacati centralizzati per trasferire il potere a un nuovo governo, e uno “proletario” che è invece la precondizione per una guerra di classe emancipatoria. Sorel rifiuta il modello “politico” perché riproduce la dominazione statale mentre lo sciopero proletario unifica le esperienze frammentarie dei lavoratori in un’intuizione rivoluzionaria totale, superando le divisioni interne alla classe operaia. Contrariamente agli scioperi parziali, che attenuano lo slancio rivoluzionario con piccole conquiste, lo sciopero generale rivela chiaramente la divisione della società in due campi antagonisti. L’azione spontanea, per Sorel, è legata a una conoscenza immediata, di stampo bergsoniano, che permette al lavoratore di percepire la rivoluzione come un evento catastrofico e indescrivibile, al di là delle strutture organizzative reificate. Anche se Sorel era un socialista eretico e sindacalista, la sua opposizione all’organizzazione statale e di partito diventa una posizione tipicamente anarchica sullo sciopero generale, contrapposta alla visione gradualista e produttivista di Engels che presuppone un accumulo di risorse e un aumento della ricchezza sociale come base per la lotta rivoluzionaria. La ricostruzione della questione della sciopero di massa da parte di Rosa Luxemburg nel suo testo Lo sciopero generale rappresenta uno dei più grandi pamphlet politici mai scritti, tanto per il metodo utilizzato quanto per le conclusioni a cui giunge. Tuttavia il testo non è privo di ambiguità. In alcuni passaggi Luxemburg sembra distinguere tra lo sciopero generale e lo sciopero di massa come fenomeni rispettivamente dell’Ottocento e del Novecento mentre altrove li tratta come se fossero la stessa cosa, associandoli all’anarchismo. Ammette che la critica di Engels a questo tipo di azione, inizialmente apparsa semplice e inconfutabile, abbia per un quarto di secolo servito efficacemente il movimento operaio contro il “fantasma anarchista”, favorendo la diffusione dell’idea di lotta politica tra i lavoratori. La sua retorica è abile ma può risultare fuorviante poiché sembra suggerire che qualsiasi confutazione della posizione di Engels debba necessariamente schierarsi dalla parte dell’”anarchismo”. Questa interpretazione ha portato a una lettura distorta del pensiero di Luxemburg, spesso associato a una spontaneità soreliana. Alcuni commentatori la descrivono come dotata di una fede fanatica ma utopica, quasi anarchica, nelle masse mentre Georges Sorel, riferendosi a una nuova corrente marxista e sindacalista rivoluzionaria (probabilmente ispirata a Luxemburg e Anton Pannekoek), afferma che essa abbracciò lo sciopero generale non per ragioni dottrinali ma per coerenza con la propria teoria. Per Luxemburg non è la coscienza dottrinale a essere cambiata, bensì le condizioni materiali. Se è comprensibile che Engels ragionasse in un certo modo nel 1873, è invece criticabile chi, di fronte alle nuove dinamiche storiche, rimane ancorato a quelle posizioni. Pannekoek sosterrà poco dopo un argomento simile, opponendosi alla polemica di Kautsky contro lo sciopero di massa che questi temeva potesse danneggiare il Partito Socialdemocratico e i sindacati. Pannekoek osserva che le diverse forme di azione non sono opposte tra loro e fanno parte di un continuum che si modifica in base allo sviluppo delle forze economiche. Luxemburg scrive il suo pamphlet sull’onda di una serie di scioperi di massa che si espandono in Belgio, Svezia, Paesi Bassi, Russia e Italia, culminando nell’ondata insurrezionale della Rivoluzione russa del 1905. Per lei lo sciopero di massa non è un errore strategico bensì un fenomeno storico inevitabile, determinato dalle condizioni sociali. Non è possibile decidere arbitrariamente se sia utile o dannoso: solo un’analisi obiettiva delle sue cause materiali può farne comprendere la natura. Nella Russia del 1905 lo sciopero di massa emerge da una molteplicità di rivendicazioni: dalla lotta per la giornata lavorativa di otto ore al rifiuto del cottimo, dalle proteste contro i caporali brutali alla richiesta di salari migliori. In questo contesto nessuna coordinazione politica dall’alto sarebbe stata possibile, eppure la diffusione spontanea dello sciopero tra il proletariato diventa realtà. Ciò che unisce queste lotte è la transizione dalla Russia zarista semi-feudale a un’economia capitalistica industrializzata. Sebbene operai urbani e contadini si trovino in situazioni diverse, entrambi sono coinvolti in questa trasformazione e il passaggio tra lotte politiche ed economiche diventa fluido, sfidando la separazione tipica dello Stato capitalistico. Per Luxemburg questa dinamica apre una prospettiva rivoluzionaria. Attraverso le lotte economiche della primavera e dell’estate del 1905, il proletariato urbano, guidato dall’agitazione socialdemocratica, assimila le lezioni degli eventi di gennaio e comprende i compiti futuri della rivoluzione. La spontaneità, in determinate condizioni di transizione, può dunque evolversi in coordinazione. Lo sciopero di massa è la forma che assume questa sequenza rivoluzionaria ma ciò non significa una vittoria dell’anarchismo. Al contrario, Luxemburg afferma con durezza che il successo rivoluzionario dello sciopero di massa non solo non riabilita l’anarchismo ma ne segna la liquidazione storica. A causa delle trasformazioni politico-economiche, lo sciopero di massa è diventato parte dell’arsenale della lotta comunista. Si potrebbe leggere il pamphlet come un atto di affermazione del socialismo marxista contro le illusioni anarchiche e in alcuni passaggi Luxemburg sembra cadere in toni trionfalistici. Si potrebbe anche interpretarlo come una guida strategica sull’importanza dello sciopero di massa ma forse la lezione più rilevante oggi è la sua chiarezza dialettica. Quando mutano le condizioni materiali e la struttura politico-economica, anche il significato politico e le possibilità pratiche di una tattica di azione collettiva possono cambiare. Non ha senso mantenere un’associazione rigida tra lo sciopero di massa e il comunismo, così come è errato associare automaticamente l’azione spontanea all’anarchismo. Chi rimane ancorato a queste identificazioni, per quanto intelligente o coerente, rischia di fossilizzarsi in una visione superata, come Kautsky o Bömelburg, incapaci di andare oltre ciò che desiderano invece di comprendere ciò che è storicamente inevitabile. È necessaria una revisione radicale delle vecchie posizioni del marxismo, basata sulla trasformazione della realtà sociale. Non si tratta di definire cosa faccia un comunista o un anarchico ma di adottare il punto di vista di ciò che è storicamente inevitabile. Solo da questa prospettiva il problema può essere compreso e discusso. Nel 1963, la rivista socialista Monthly Review dedicò un intero doppio numero a un operaio automobilistico di Detroit, una descrizione accurata che sottolineava la natura comune del percorso di James Boggs, inseparabile dalla sua vita straordinaria. Boggs, nel 1937, seguendo il flusso della prima Grande Migrazione degli afroamericani dal Sud rurale al Nord industriale e al Midwest, si era trasferito dall’Alabama a Detroit, dove avrebbe vissuto per il resto della sua vita. Sposò Grace Lee, terza figura di spicco e teorica della Johnson-Forrest Tendency insieme a C.L.R. James e Raya Dunayevskaya. Questa corrente, nata all’interno del Workers’ Party e del Socialist Workers’ Party, due gruppi trotskisti, manteneva una prospettiva operaista e aveva prestato particolare attenzione agli scioperi spontanei dei minatori e degli operai automobilistici. Nonostante queste affiliazioni e impegni, la breve prefazione di Boggs al suo libro The American Revolution: Pages From a Negro Worker’s Notebook sorprende. In essa Boggs afferma di essere un operaio ma di conoscere più del semplice lavoro in fabbrica. Sottolinea la differenza tra ciò che potrebbe sembrare logico in una società di persone razionali e ciò che invece accade nella realtà, tra persone con vere differenze. Critica l’approccio di chi, pur istruito e logico, sottovaluta il rischio di un tumulto sociale fidandosi del controllo delle autorità, mentre lui, sentendo la gente parlare di una possibile rivolta, saprebbe riconoscere il pericolo concreto. Boggs conclude che riforme e rivoluzioni nascono da azioni “illogiche” poiché le persone troppo razionali raramente le promuovono e che i diritti non sono concessi ma conquistati.  

Il passaggio è curioso non solo per la sua apparente irrazionalità strumentale ma anche perché l’improvviso riferimento alla rivolta sembra premonitore. Il 1963 precede di quattro anni la Grande Ribellione di Detroit, all’epoca la più grande rivolta della storia degli Stati Uniti, e di un anno le sommosse di Harlem e di altre città che avrebbero inaugurato un’era in cui il “riot razziale” divenne un elemento centrale del panorama politico nazionale.  

Il ragionamento di Boggs riprende implicitamente un dibattito storico, associando l’organizzazione sindacale a una “logica” ordinata, simile alla razionalità della catena di montaggio, mentre la rivolta è legata al disordine e alle voci popolari. Inoltre, il testo riecheggia il superamento della politica prescrittiva di Rosa Luxemburg, opponendo ciò che è “desiderabile” politicamente a ciò che è “storicamente inevitabile”. Gli anni ‘60 generarono una situazione unica, in cui riot e sciopero coesistevano, specialmente a Detroit. Questo scenario aveva due aspetti principali: la razzializzazione della rivolta e la vicinanza tra le due forme di azione collettiva che si influenzavano a vicenda. Questa dinamica rivelò come il riot non fosse solo un’espressione di malcontento ma una chiave per interpretare l’epoca.  

Le associazioni più significative tra riot e sciopero emergono in risposta a condizioni politico-economiche specifiche che orientano il capitale nel suo insieme e cambiano nel tempo, modificando il significato e la forza di queste azioni. Tali condizioni non determinano tutto ma pongono limiti e possibilità. Il campo del conflitto sociale è in tensione tra la capacità degli esseri umani di “fare la propria storia” e le circostanze ereditate dal passato. Proprio per questo, in una data congiuntura, coesistono diverse forme di azione collettiva, anche se una tende a predominare. In periodi di trasformazione sistemica, le tattiche principali cambiano, e negli anni ‘60 e ‘70 negli Stati Uniti si assistette a un fenomeno simile a quello della Gran Bretagna dell’Ottocento, anche se in direzione opposta: invece di avanzare verso la fabbrica, il vento del cambiamento tornò verso il porto, il mercato, la piazza pubblica. Nonostante le differenze, si percepisce un’eco della distruzione delle macchine ottocentesca, con cambiamenti sociali che si riflettono in tattiche di lotta in trasformazione. Con lo sciopero come tattica consolidata, il ritorno del riot appare inizialmente come un tentativo eroico di unire le due forme d’azione in un processo rivoluzionario, dove lotta operaia e riot sembrano fronti di un unico antagonismo. Sono un operaio ma so più del semplice lavoro in fabbrica dice Boggs, quasi parlando a nome del decennio. Questa incessante lotta e inventiva, concentrata soprattutto tra la popolazione nera, colpita per prima dalla deindustrializzazione, fu possibile solo in una finestra temporale ristretta. Fu un tentativo disperato, forse inconsapevole, che alla fine non riuscì a realizzarsi pienamente. Clover prosegue analizzando l’evoluzione dello sciopero come tattica predominante nel mondo industrializzato occidentale durante gli anni ‘60, evidenziando come questo fenomeno sia strettamente legato all’espansione economica piuttosto che alle crisi. Studi quantitativi dimostrano che la frequenza degli scioperi segue l’andamento del ciclo economico, con un aumento durante periodi di bassa disoccupazione e alti tassi di profitto. Questo legame è spiegato dalla difficoltà nel sostituire manodopera, dalla riluttanza del capitale a interrompere attività redditizie e dalla capacità dello Stato di mantenere la pace sociale attraverso politiche salariali. Gli anni ‘60 rappresentano un periodo particolare: nonostante i tassi di profitto rimangano elevati e la crescita del PIL mondiale superi il 5%, iniziano a emergere segnali di debolezza macroeconomica. L’espansione rallenta e i profitti accumulati faticano a trovare sbocchi produttivi, anticipando la crisi del 1973 che segnerà il declino del ciclo di accumulazione guidato dagli Stati Uniti. Nonostante ciò, gli scioperi persistono, con un picco negli Stati Uniti e nel Regno Unito, mentre si assiste a una crescente visibilità dei riot, soprattutto nelle comunità razzializzate. Il riot’ emerge in un contesto storico diverso rispetto ai riot del passato, caratterizzato da tensioni razziali e declino economico. Negli Stati Uniti si sviluppano come risposta alla violenza statale e all’impunità delle forze dell’ordine, contrapponendosi anche alla presunta “bianchezza” del movimento sindacale organizzato. La razzializzazione dei riot è un tratto distintivo ma Clover mette in guardia rispetto ad una lettura semplicistica che identifichi il riot esclusivamente con la comunità nera, sottolineando come questa associazione sia frutto di una costruzione storica e retorica. Storicamente, il termine riot razzializzato è stato utilizzato per descrivere sia le violenze dei bianchi contro le minoranze, come durante la Red Summer del 1919, sia le rivolte delle comunità nere contro l’oppressione sistemica. Nella seconda metà del Novecento l’immagine del riot si è progressivamente associata a una violenza spontanea e apolitica delle comunità nere, riflettendo stereotipi razzisti che le dipingono come irrazionali e primitive. Questo slittamento semantico ha contribuito a oscurare le radici politiche e strutturali delle proteste, riducendole a mere esplosioni di rabbia incontrollata. Nel 1968, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria si trovò in una situazione di stallo riguardo a un invito alla propria conferenza internazionale: invitare un membro delle Black Panthers o un rappresentante del movimento operaio radicale di Detroit? La loro fortuna fu scoprire che John Watson era una figura centrale sia nel Dodge Revolutionary Union Movement (DRUM) che nelle Black Panthers, un compromesso che però durò poco. La sua doppia militanza rappresentò una momentanea convergenza tra forze rivoluzionarie a Detroit e in California, destinata a collassare presto. Questo episodio è al centro di una sequenza politica volatile, caratterizzata da una rapida successione di formazioni rivoluzionarie. Il contesto storico include l’ascesa dell’industrializzazione statunitense a Detroit e la fondazione della Nation of Islam guidata da Elijah Muhammad, un ex operaio automobilistico disoccupato. Tra il 1920 e il 1970 la popolazione nera di Detroit passò dal 4% al 45%, riflettendo l’integrazione della manodopera nera nel proletariato industriale, un fattore chiave nel successo del movimento per i diritti civili e nel declino delle leggi Jim Crow. Negli anni ’60 emersero gruppi come UHURU, affiliato al Revolutionary Action Movement (RAM), e nel 1966 fu fondata la ramificazione di Detroit delle Black Panthers. Nell’estate del 1967, il grande riot di Detroit vide scontri violenti, inclusi cecchini che respinsero la polizia. Nell’autunno del 1967 il giornale militante Inner City Voice, diretto da Watson, divenne un punto di incontro per varie lotte rivoluzionarie. L’anno seguente nacque il DRUM, seguito dal Revolutionary Union Movements (RUM) e nel 1969 si unirono nella League of Revolutionary Black Workers (LRBW). Le tensioni ideologiche tra le Panthers e la LRBW divennero pubbliche e nel 1970 il ramo di Detroit delle Panthers fu chiuso, forse su ordine della potente sezione di Chicago. La LRBW entrò in una fase di divisione interna, divisa tra chi sosteneva la lotta culturale, l’impegno parlamentare, la formazione di consigli operai e la creazione di un partito avanguardista nero. Nel 1972, i resti della LRBW si fusero con la Communist League, ponendo fine alla sua autonomia. Molto è stato scritto su questa parabola però meno attenzione è stata dedicata alla sua caratteristica più rilevante: la fusione precaria tra movimento operaio militante e Black Power. Le condizioni che resero possibile questa sequenza includono l’ingresso marginalizzato della manodopera nera nel settore industriale. Da un lato la rivoluzione nera aveva raggiunto un punto cruciale nel sistema economico americano, la produzione di massa. Dall’altro, i sindacati tradizionali, con il loro sistema di anzianità, favorivano i lavoratori bianchi, lasciando i neri in posizioni svantaggiate. In questo contesto emerse lo sciopero militante nero, una forma di protesta operaia che traeva forza non solo dalle condizioni di lavoro ma anche dalle rivolte urbane, come quelle di Detroit. Le sommosse, sebbene criticate da teorici come Huey P. Newton per la loro inefficacia, rappresentavano una risposta alla disoccupazione e all’esclusione dal mercato del lavoro. Newton proponeva invece un partito avanguardista, ispirato all’organizzazione del proletariato e dei contadini. Il rapporto ufficiale della Kerner Commission descrisse la ribellione del 1967 come un atto di nichilismo gioioso, ignorando le radici economiche e sociali del malcontento. Detroit, in declino demografico ed economico dagli anni ’50, divenne il terreno di scontro tra due tendenze opposte: l’aumento della manodopera nera industriale e la crescita di una popolazione nera eccedente, esclusa dal lavoro. Questa contraddizione alimentò sia le rivolte che gli scioperi, creando le condizioni per la sequenza rivoluzionaria degli anni ’60. Già nel 1970 la LRBW criticava le Panthers per aver cercato di organizzare gli elementi lumpen della comunità nera, sostenendo invece che la vera forza rivoluzionaria risiedesse nei lavoratori neri, capaci di paralizzare la produzione. Questo dibattito rifletteva una divergenza più profonda sul soggetto rivoluzionario, in un contesto in cui l’automazione e la deindustrializzazione stavano rendendo sempre più precaria la condizione operaia.  

Detroit fu un laboratorio delle dinamiche globali della deindustrializzazione e del declino dell’accumulazione capitalistica. Se negli anni ’70 l’organizzazione operaia sembrava prevalere, nel lungo periodo fu sopraffatta. Entro il 2005 gli afroamericani avrebbero rappresentato oltre l’80% della popolazione di Detroit, con un tasso di disoccupazione altissimo. La previsione di Boggs sulla creazione di una popolazione eccedente si rivelò corretta. Nonostante tutto, l’importanza di questo periodo risiede nel tentativo di unire non solo obiettivi politici diversi ma anche procedure differenti, di far convergere riot e sciopero non solo come tattiche ma come modalità complementari di lotta. 

4. Il ritorno del riot

La crisi, lungi dall’essere un semplice evento momentaneo, rappresenta un punto di svolta in cui il capitale, di fronte ai suoi limiti interni, sposta il proprio baricentro verso la sfera della circolazione, generando una riorganizzazione violenta della società. In questo contesto i riot emergono come lotte che si sviluppano proprio all’interno di questa nuova configurazione, assumendo forme specifiche come la lotta per la determinazione dei prezzi o la ribellione del surplus, e mirando, in ultima istanza, a sovvertire l’ordine che li ha generati. La riflessione di Clover si concentra sulla natura della crisi contemporanea, definita come Lunga crisi per distinguerla dalle semplici fasi di declino ciclico del passato. Mentre in epoche precedenti il capitale riusciva a superare le proprie contraddizioni attraverso spostamenti geografici e l’espansione verso nuove aree di produzione, negli ultimi decenni questo meccanismo sembra essersi inceppato. I tentativi di egemonia da parte di economie emergenti si sono rivelati fragili e le stesse economie in via di sviluppo appaiono troppo integrate nel sistema produttivo globale per fungere da motore di una nuova ondata di accumulazione. Il risultato è un’epoca caratterizzata da una persistente instabilità, in cui la crisi non è un incidente di percorso ma una condizione strutturale. Il 1973-74 viene individuato come un momento cruciale, una cesura storica che segna l’inizio di questa fase. Lo shock petrolifero, la fine della guerra in Vietnam e il crollo del sistema di Bretton Woods rappresentano solo gli aspetti più visibili di una trasformazione più profonda che coinvolge le fondamenta stesse dell’economia globale. Fernand Braudel si interroga se si tratti di una crisi congiunturale o dell’inizio di un nuovo ciclo secolare e la risposta implicita è che siamo di fronte a un cambiamento epocale, in cui il capitalismo entra in una fase di finanziarizzazione. Questo passaggio non va interpretato come una sorta di “colpo di stato” del capitale finanziario ai danni di quello industriale ma piuttosto come una riconfigurazione necessaria. Di fronte al declino della redditività industriale, i flussi di capitale si spostano verso la finanza e il commercio, generando nuove forme di accumulazione. Innovazioni come il modello Black-Scholes o la nascita del mercato dei derivati diventano strumenti sviluppati per rispondere alle esigenze di un capitale in cerca di nuove opportunità di profitto. La crisi è una fase intrinseca allo sviluppo capitalistico mentre i riot ne sono l’eco, una risposta violenta e disperata a un sistema che, pur cercando di riorganizzarsi, continua a generare instabilità e disuguaglianza. La teoria della crisi proposta da Clover affronta il motivo per cui l’espansione industriale deve necessariamente concludersi, lasciando spazio alle lungaggini speculative della finanza in una grande ridirezione dei flussi di capitale, segnata da una massiccia svalutazione del valore. Arrighi e Brenner, probabilmente i due storici economici più lucidi nel descrivere il passaggio culminato nel 1973, offrono spiegazioni divergenti su questo declino dell’accumulazione, basate sulle loro diverse concezioni di cosa sia il capitalismo; entrambi, inoltre, si discostano in alcuni dettagli dalla teoria astratta della crisi di Marx. Il modello di Arrighi è sottoteorizzato, in linea con il suo approccio più descrittivo delle economie-mondo. Egli suggerisce una causalità eclettica, fondata su una teoria smithiana della crisi basata sulla competizione di mercato che erode progressivamente i margini di profitto. Le lotte operaie (intese alla maniera di Karl Polanyi) esercitano un’ulteriore pressione sui profitti, così come i costi delle responsabilità egemoniche di potenza globale. Questi fattori spingono gli investimenti lontano dal complesso Stato-industria, ormai in difficoltà, verso i mercati finanziari internazionali. La teorizzazione più sistematica di Brenner si basa invece su un modello di sovrapproduzione, in cui la capacità industriale statunitense, inizialmente indiscutibile dopo la Seconda Guerra Mondiale, finisce per scontrarsi con la concorrenza di produttori internazionali più efficienti, in particolare Germania e Giappone. Con alti livelli di investimento già immobilizzati in capitale fisso, il cui valore può essere recuperato solo attraverso ulteriore produzione di merci, le imprese statunitensi non riescono a ridurre la produzione e rimangono intrappolate in una competizione fratricida per quote di mercato. Imprese che dovrebbero essere eliminate da un settore attraverso una distruzione creativa, necessaria per aprire canali a nuove forme di crescita, continuano invece a sopravvivere, spesso sostenute dallo Stato che dipende dalla loro ricchezza e dalla gestione del lavoro per mantenere la stabilità. Ciò porta a quello che è sostanzialmente un processo di sovrainvestimento, che genera sovracapacità e sovrapproduzione manifatturiera su scala internazionale, innescando una turbolenza sistemica che non si è ancora placata. Entrambe queste analisi rimangono a livello del prezzo, il livello quantitativo che descrive la manifestazione effettiva della crisi. Per l’analisi del valore di Marx, invece, i movimenti dei profitti sono fenomeni superficiali corrispondenti a uno spostamento sottostante nell’equilibrio tra capitale costante e variabile: mezzi di produzione rispetto a lavoro salariato, o lavoro morto rispetto a lavoro vivo. Nonostante forze contrastanti, questa composizione organica del capitale tende ad aumentare nel tempo poiché la competizione impone una produttività crescente, sostituendo iterativamente il lavoro con macchine e processi lavorativi più efficienti (ciò che il XX secolo ha conosciuto come fordismo e taylorismo). Questo crescente dominio del lavoro morto sul lavoro vivo è un’espressione, nell’intero contesto sociale, della legge del valore, poiché l’aumento della produttività riduce il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre le merci. Le conseguenze economiche si manifestano in modo disuguale. Inizialmente gli aumenti di produttività generano alti profitti che attirano ulteriori investimenti e più forza lavoro nella produzione, portando a un’ulteriore espansione. Col tempo l’aumento del rapporto tra lavoro morto e lavoro vivo mina la capacità di produrre valore poiché solo il lavoro vivo nel processo produttivo è fonte di plusvalore. La stessa dinamica che inizialmente alimenta l’accumulazione, l’aumento della produttività nel rapporto tra salario e merce, finisce per indebolirla finché capacità produttiva e forza lavoro non riescono più a incontrarsi, lasciando fabbriche vuote e popolazioni disoccupate accumularsi l’una accanto all’altra. Questo processo ampliato è ciò che Clover definisce produzione della non-produzione. La crisi e il declino non derivano da shock esterni ma dai limiti interni del capitale. Questo percorso viene chiamato l’arco dell’accumulazione che traccia le contraddizioni del capitale lungo l’asse del tempo storico. Definirlo un arco significa senza dubbio appianare un percorso irregolare. Inoltre, questa traiettoria non esprime un semplice fatto quantitativo sui tassi di crescita. Le due fasi dell’arco, pur essendo ancora configurazioni del capitalismo ed espressioni della dinamica del valore, sono qualitativamente diverse nella loro organizzazione sociale, in una dialettica di continuità e rottura. Nel lungo XX secolo l’arco dell’accumulazione ha visto prima un trasferimento senza precedenti della popolazione dall’agricoltura all’industria e poi, in una grande inversione, la deindustrializzazione ha spostato la popolazione fuori dall’industria e dal processo produttivo in generale, verso il lavoro nei servizi o la sottoccupazione e la disoccupazione. Si tratta di riorganizzazioni sociali su scala globale. Nonostante le loro diverse analisi delle cause, sia Brenner che Arrighi riescono a evidenziare la forte relazione tra la spiegazione logica dell’accumulazione autolesionista e il resoconto storico dei cicli capitalistici, in particolare del ciclo attuale su cui si concentrano. Il dibattito sulla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto ha una corrispondenza sufficiente con le ascese e le cadute che Arrighi ha descritto in modo così esaustivo e fornisce ulteriori informazioni per capire meglio il capitalismo. L’analisi di Arrighi inizia con la formula marxiana della riproduzione allargata del capitale, MCM’ (denaro-capitale-denaro’): l’itinerario obbligato del denaro dal punto di vista del capitalista che si trasforma in produzione di merci solo se queste possono essere vendute a un prezzo più alto perché il capitalista rimane tale solo se riesce a realizzare questo passaggio. La novità di Arrighi consiste nel trasporre questo processo logico nella storia empirica dei suoi lunghi secoli. Egli identifica l’alternanza di epoche di espansione materiale (fasi MC dell’accumulazione di capitale) con fasi di rinascita ed espansione finanziaria (fasi CM’). Nelle fasi di espansione materiale il capitale monetario “mette in moto” una massa crescente di merci (inclusa la forza lavoro mercificata e le risorse naturali); nelle fasi di espansione finanziaria, una massa crescente di capitale monetario “si libera” dalla sua forma merce e l’accumulazione procede attraverso operazioni finanziarie (come nella formula abbreviata di Marx, MM’). Insieme le due fasi costituiscono un ciclo sistemico completo di accumulazione (MCM’). Nell’epoca del capitalismo moderno la fase di espansione materiale coincide con la crescita industriale. In questa fase l’azione principale è l’acquisto di forza lavoro e mezzi di produzione per la creazione di merci, cioè la valorizzazione all’interno del processo produttivo. Nel periodo di espansione finanziaria l’azione principale è la vendita di queste merci per realizzare il valore che contengono, ovvero, il capitale si riposiziona sul mercato, sullo scambio e sul consumo. Questa è l’essenza di un’era della circolazione dal punto di vista del capitale: quando la capacità produttiva di generare alti profitti declina, il capitale sposta i suoi investimenti verso la realizzazione immediata sia del valore esistente sia di quello che si presume sarà generato in futuro. La crisi esplode nel momento in cui i profitti e le aspettative di profitto cessano di fluire dalla manifattura. In quel momento i creditori cercano di riscuotere i loro crediti prima che i debitori diventino insolventi; le imprese debitrici, a loro volta, sono costrette a smettere di reinvestire nella produzione mentre cercano disperatamente di vendere le loro merci sul mercato per far fronte agli obblighi. In alternativa potremmo descrivere la situazione come già accennato: il denaro disponibile per il reinvestimento smette di circolare quando i profitti industriali scendono sotto una certa soglia e si accumula nelle banche, in attesa di opportunità di investimento sufficientemente allettanti. Questo momento di immobilizzazione è il momento della crisi; quando il capitale ricomincia a muoversi, cerca sia il commercio sia diritti su valore futuro, ciò che Marx chiama capitale fittizio. Il capitalismo moderno ha visto due archi, centrati rispettivamente sul Regno Unito e sugli Stati Uniti, con quest’ultimo in ascesa mentre il primo declinava. Ognuno ha le sue peculiarità ma possono essere sintetizzati in un unico arco più lungo. Dal primo decollo fino al recente declino, c’è sempre stato un motore di accumulazione globale in funzione. Dal 1830 circa al 1973 c’è stato un nucleo di capitale produttivo nell’Occidente con la sua espansione sistemica progressiva. È in base a ciò che Clover definisce il periodo dal XVIII secolo a oggi un metaciclo, un grande arco di accumulazione nel sistema-mondo capitalista che segue il percorso circolazione-produzione-circolazione primaria. Il periodo della circolazione primaria, la riorganizzazione sociale della Lunga Crisi, condiziona il declino dello sciopero e la nuova era dei riot in due modi distinti ma inevitabilmente collegati: la spazializzazione dell’economia e la ricomposizione del rapporto capitale/classe. Prendiamoli uno alla volta, per poi ricongiungerli alla fine. I disordini sociali, originariamente, sono lotte legate al prezzo delle merci, ovvero conflitti che riguardano la riproduzione al di fuori del salario ma comunque vincolati al mercato. Si tratta di lotte per il controllo dello spazio e del movimento attraverso di esso, con una somiglianza tra la rivolta paradigmatica delle esportazioni a King’s Lynn nel 1347 e il massiccio blocco al porto di Oakland nel 2011. Il controllo dello spazio assume molte forme, spesso includendo tentativi di allontanare la polizia dai distretti commerciali che essa protegge. La barricata, grande strumento dei disordini, nasce dalla chiusura dei quartieri per impedire incursioni; l’ascesa delle barricate coincide con la prima era dei riot che si affievolisce dopo la Primavera dei Popoli del 1848. I nuovi boulevard del XIX secolo, secondo molte interpretazioni, sono progettati proprio per porre fine sia alle barricate che alle rivolte, anche se sarà la crescita industriale a farlo in modo più efficace. La spazialità pratica dei disordini corrisponde a una distinzione teorica. La logica astratta della produzione è temporale mentre quella della circolazione è spaziale. La produzione è organizzata dal valore, dalla valorizzazione delle merci, e questo valore è regolato dal tempo di lavoro socialmente necessario. È attraverso questo tempo che entrambe le parti si riproducono. Nella produzione, sia il capitale che i suoi antagonisti lottano per il controllo di questo tempo, la sua durata, il suo prezzo. Lo sciopero è una lotta temporale. Una volta che il valore temporale del lavoro vivo si cristallizza nella merce, esso si oggettivizza, si spazializza. La circolazione è organizzata dal prezzo, dalla realizzazione del plusvalore come profitto quando le merci si scambiano. Questa è una formulazione concettualmente complessa, come emerge dall’esposizione di Marx: il denaro è lavoro oggettivato, sia nella forma monetaria che in quella di una merce specifica. Non esiste un modo di essere oggettivo del lavoro che si oppone al capitale ma tutti appaiono come possibili modalità di esistenza che il capitale può assumere attraverso un semplice cambiamento di forma, passando dalla forma monetaria a quella merce. L’unica antitesi al lavoro oggettivato è il lavoro non oggettivato, il lavoro soggettivo, presente nel tempo, vivo, in opposizione al lavoro passato nel tempo ma esistente nello spazio. Questo lavoro vivo può esistere solo come capacità, possibilità, abilità, come forza-lavoro del soggetto vivente. Marx arriva così all’antitesi tra lavoro non oggettivato e lavoro oggettivato. Da un lato, la forza-lavoro che non si è ancora trasferita in una merce nel processo produttivo; dall’altro, il valore oggettivato nelle merci che entrano nello spazio della circolazione, diventando oggetti spaziali. L’aumento del rapporto tra capitale costante e variabile, tra lavoro morto e lavoro vivo, è il processo stesso di spazializzazione e quindi la trasformazione delle lotte temporali in lotte spaziali. Questa distinzione esiste anche a livello pratico, riguardo alla circolazione nel senso concreto: trasporti, comunicazioni, finanza. Marx parla di annichilimento dello spazio mediante il tempo, spesso interpretato come l’irrilevanza crescente delle relazioni spaziali per il capitale. In realtà, è vero il contrario: Marx sostiene che lo spazio si presenta come il problema fondamentale per lo scambio e più il capitale si basa sullo scambio, più lo spazio diventa un ostacolo da superare. Il capitale tende a superare ogni barriera spaziale, rendendo necessaria la creazione di condizioni fisiche per lo scambio, mezzi di comunicazione e trasporto, per annichilire lo spazio mediante il tempo. Solo quando il prodotto può essere realizzato in mercati lontani in grandi quantità, con costi di trasporto ridotti e solo quando i mezzi di comunicazione e trasporto stessi diventano sfere di realizzazione per il lavoro, allora la produzione di mezzi di comunicazione economici diventa una condizione per la produzione capitalistica. Le discussioni su questo passaggio spesso vertono sul fatto se la circolazione sia internalizzata alla produzione o se rimanga una condizione esterna. Tuttavia, per gli scopi di Clover, la rilevanza è la stessa, soprattutto perché non sostiene che le lotte nella circolazione abbiano un rapporto privilegiato con la produzione di valore. Nella trasformazione successiva alla crisi, il capitale, incapace di generare plusvalore o crescita sufficiente attraverso la produzione manifatturiera tradizionale, è costretto a competere nello spazio della circolazione per ottenere profitti, riducendo i costi e accelerando il tempo di rotazione delle merci. Le lotte in questo spazio diventano così centrali per la sopravvivenza di ogni singolo capitale, anche se non generano accumulazione nello stesso modo della produzione industriale. Questo è il destino inevitabile del capitale dopo il 1973, rendendo il nostro presente un’epoca dominata dallo spazio logistico. Jasper Bernes osserva che questa riorganizzazione sistemica riflette la subordinazione della produzione alle condizioni della circolazione, con l’ascesa a egemonia degli aspetti del processo produttivo legati alla circolazione. Ciò avrà implicazioni per le lotte contemporanee. La logistica è l’arte della guerra del capitale, una serie di tecniche per la competizione intercapitalistica e interstatale, e richiederà un’arte controrivoluzionaria che si adatti a questo terreno trasformato, riconoscendo che lo spazio logistico è strutturato dalle esigenze del capitale, una macchina che il proletariato non può semplicemente prendere e usare per i propri scopi. L’enorme espansione del trasporto marittimo globale e della containerizzazione, finanziata dal capitale speculativo e probabilmente il progetto più fondamentale dell’epoca, segna questo cambiamento epocale. È anticipata dalla standardizzazione dei container intermodali (perfettamente adattati per risolvere i problemi logistici della guerra del Vietnam) attraverso una serie di accordi tra il 1968 e il 1970, seguita dalla deregolamentazione dei trasporti nel decennio successivo. Nel 1973 viene fondato il Center for Transportation & Logistics al MIT, diventato leader mondiale nella formazione e ricerca sulla gestione della supply chain. La produzione Just-In-Time, generalizzata negli anni ‘70, rappresenta l’aspetto metodologico dello stesso cambiamento: sviluppata nell’industria automobilistica giapponese, è l’alternativa al paradigma fordista statunitense, trovando efficienza non nell’organizzazione della produzione ma nella circolazione, nell’inventario, nello scambio, un insieme di pratiche che costituiscono una sorta di taylorismo della catena di approvvigionamento. La corrispondenza tra questi sviluppi e la crisi industriale è quasi totale. Un esempio emblematico è Federal Express che consegna il suo primo pacco nell’aprile 1973; quarant’anni dopo, FedEx avrà la quarta flotta aerea più grande al mondo e sarà la più grande compagnia aerea per trasporto merci. Tutto ciò rappresenta una ristrutturazione economica che implica una profonda riorganizzazione sociale, trasformando radicalmente le forme di composizione del capitale e della classe e con esse anche gli orizzonti politici e le modalità di lotta. Alcuni osservatori hanno notato l’importanza crescente dell’industria logistica e della circolazione nella struttura economica ma la portata di questa trasformazione come ristrutturazione sociale complessiva non gli è chiara. Si limitano a proporre, senza reale rottura, strategie che ripropongono l’organizzazione industriale classica, incapaci di comprendere che lo svuotamento del settore industriale e il trasferimento della forza-lavoro verso la circolazione cambiano radicalmente il terreno di conflitto. Il tradizionale sciopero industriale presupponeva una certa forma di rapporto con il mezzo di produzione, un senso di appartenenza morale derivato da culture artigiane che oggi manca nel settore della circolazione. Nonostante la possibilità concreta di organizzare conflitti in questo nuovo ambito, come dimostra ad esempio lo sciopero UPS del 1997 o i blocchi dei depositi petroliferi in Francia nel 2010, la struttura materiale su cui si basava l’organizzazione di classe è mutata. La relazione del lavoro con l’accumulazione si è trasformata e pensare di poter semplicemente trasporre le forme storiche di lotta senza adeguarle a questa mutazione corrisponde a un fallimento teorico. La nostalgia per una strategia industriale si basa su una falsa analogia storica: si assume che fasi discendenti del ciclo economico possano essere affrontate con gli stessi strumenti delle fasi ascendenti, senza cogliere la differenza sostanziale tra crescita e declino, tra mercati del lavoro in espansione e in contrazione. Le condizioni storiche che avevano reso possibile la politica socialista basata sull’organizzazione del lavoro industriale non esistono più. La crisi che travolge i sindacati alla fine degli anni ‘70 e l’esaurimento delle possibilità di ottenere avanzamenti materiali tramite l’organizzazione sindacale sono segnali di una rottura irreversibile. Il caso di Detroit nel 1973, quando il sindacato si mobilitò per mantenere aperto un impianto, segna l’inizio di una nuova epoca: la lotta operaia non è più contro il capitale per il potenziamento del lavoro, ma in difesa stessa della riproduzione del capitale, della sopravvivenza della relazione salariale. Così si instaura quella che Clover chiama “trappola dell’affermazione”, in cui il lavoro, per continuare a esistere, è costretto a sostenere la propria condizione di sfruttamento. In questo quadro il lavoro smette di rappresentare l’antitesi del capitale, segnando il tramonto del programma rivoluzionario socialista basato sulla centralità della classe operaia. Théorie Communiste chiama questa forma storica di lotta “programmatismo”, un modello che, come spiega anche Moishe Postone, ha frainteso il capitalismo riducendolo alla proprietà dei mezzi di produzione e trasformando la lotta rivoluzionaria in una questione di distribuzione della ricchezza piuttosto che di abolizione della forma sociale capitalista stessa. Questo programmatismo nasceva in condizioni storiche di ascesa dell’industria e di crescente potere operaio ma con il declino della centralità operaia perde ogni efficacia, senza che la sua crisi possa essere attribuita semplicemente a tradimenti politici o strategie sbagliate. Essa è il risultato del cambiamento interno del capitale e del suo rapporto con il lavoro. Oggi la lotta per il salario non può che svolgersi nei limiti posti dalla necessità di mantenere in vita la capacità del capitale di auto-riprodursi, legittimando così l’esistenza del sistema stesso. Il riot allora emerge come forma di conflitto distinta. Non cerca di preservare nulla, non ha un programma, non formula richieste, si manifesta come distruzione, negazione, come rifiuto puro e semplice senza progetto costruttivo. La domanda politica tradizionale che esige un programma o delle rivendicazioni si rivela anacronistica rispetto a queste nuove esplosioni di antagonismo. Ciò non significa che il riot sia privo di determinazioni storiche, al contrario, esso è il risultato necessario della crisi della produzione, dello spostamento della vulnerabilità del capitale verso la circolazione e della marginalizzazione crescente di larghe fasce di popolazione. Con la scomparsa della capacità del capitale di garantire salari stabili e della possibilità di unificare la lotta sulla base della condizione di lavoratori salariati, il mercato diventa il nuovo spazio di scontro, e chiunque, lavoratore o no, può intervenire bloccando strade, mercati, porti. La trasformazione del terreno di conflitto dal centro produttivo al centro distributivo ha generato nuove configurazioni di soggettività sociale e nuove forme di azione collettiva, in cui la divisione tra lavoratori e non-lavoratori sfuma nella comune condizione di esclusione e precarietà. Se il riot rappresenta il presente della lotta, resta però aperta una domanda fondamentale: il proletariato, come soggetto della negazione e motore della dialettica storica, esiste ancora in queste nuove forme, oppure il suo tramonto segna la necessità di ripensare radicalmente la stessa idea di trasformazione sociale? La diffusione di riot è oggetto di numerose ipotesi, spesso finanziate dai governi, ma risulta difficile offrire spiegazioni universali poiché ogni evento dipende da contingenze locali specifiche e ogni modello meccanicistico genera eccezioni tanto rapidamente quanto conferme. La metafora predominante è quella del contagio, con individui e media come vettori. Già nel 1793 William Godwin descriveva come, durante assemblee popolari, la simpatia per certe opinioni si propagasse, portando anche alla barbarie della folla. Due secoli dopo, The Coming Insurrection respinge l’idea del contagio in favore della risonanza, suggerendo che le rivoluzioni si diffondano per affinità e amplificazione reciproca più che per trasmissione lineare. Nel romanzo del 1969 The Spook Who Sat by the Door di Sam Greenlee la diffusione della rivolta razziale negli Stati Uniti viene immaginata come una guerra di guerriglia orchestrata da militanti organizzati, riflesso di un’epoca ancora segnata dall’idea della necessità di un partito d’avanguardia. Nonostante sia un’opera di finzione il racconto di Greenlee anticipa dinamiche osservabili nelle rivolte francesi del 2005, inglesi del 2011 e statunitensi del 2014 e 2015, in cui il riot si espande alla ricerca di popolazioni in eccedenza, senza negare la coscienza o l’azione collettiva dei ribelli ma osservando i fatti dalla prospettiva del movimento stesso. Da questo punto di vista si può iniziare a sintetizzare l’intreccio tra crisi, popolazione in eccedenza e razza, elementi costanti delle rivolte contemporanee dell’Occidente. La crisi non è intrinsecamente negativa o positiva ma segnala un cambiamento sistemico il cui esito dipende dallo scontro sociale; la lotta è il tentativo di elaborare, per prove ed errori, un nuovo assetto per le capacità produttive inattive. Il riot emerge come una forma di confronto diretto con queste capacità inutilizzate, che derivano dalla produzione crescente di non-produzione, caratteristica della fase discendente dell’accumulazione capitalistica. Tra i surplus prodotti, il più significativo è quello della popolazione relativamente eccedente, quella stessa che è protagonista del riot. Marx aveva già delineato nella prima sezione del Capitale il processo attraverso cui l’accumulazione capitalistica produce sia il capitale sia un surplus di popolazione, fenomeno destinato a intensificarsi con il progresso tecnologico e la sostituzione del lavoro vivo con quello morto. La popolazione eccedente si articola in più strati. Abbiamo l’esercito industriale di riserva che resta interno alla logica del mercato del lavoro, oscillando tra occupazione e disoccupazione e la popolazione eccedente cronicamente stagnante e quindi esclusa dal lavoro formale e costretta a sopravvivere tramite economie informali e spesso semi-legali. Questi settori, pur mantenendo una connessione derivata con l’economia formale, percepiscono redditi inferiori ai livelli di sussistenza. L’informalizzazione diventa così una modalità di organizzazione economica ad alto rendimento per il capitale e bassissimo rendimento per il lavoro. Nel contesto della lunga crisi l’espansione della popolazione eccedente si è accompagnata a un aumento massiccio dell’indebitamento, come osservava Deleuze, che parla dell’uomo contemporaneo non più come uomo chiuso ma come uomo indebitato. Tuttavia Deleuze stesso precisa che tre quarti dell’umanità restano troppo poveri perfino per il debito, evidenziando che esclusione e indebitamento sono due facce della stessa realtà, quella del surplus globale. La crescita del settore dell’indebitamento di massa è un altro volto dell’informalizzazione: microcrediti, prestiti studenteschi e anticipi salariali sono strumenti per tentare di reintegrare i surplus nella circolazione del profitto, pur rimanendo altamente instabili. Questo riflette una tendenza strutturale alla superfluità reale perché mentre la popolazione mondiale aumenta, la capacità del capitale di assorbire lavoro si restringe, liberando sempre più individui dal lavoro e dalla stessa possibilità di vivere. Ricerche condotte dopo il ciclo di rivolte del 2011 hanno individuato nella protesta delle popolazioni stagnanti in eccedenza un nuovo tipo di conflitto, distinto dalle lotte operaie tradizionali e dalle reazioni piccolo-borghesi analizzate da Marx e Polanyi. Già negli anni ‘60 e ‘70, mentre si pensava che l’economia informale fosse un trampolino verso il lavoro formale urbano, il trend effettivo è stato opposto, confermando che il reintegro delle eccedenze nel ciclo produttivo non è all’orizzonte. Negli Stati Uniti, la crescente eccedenza di popolazione si è manifestata nella perdita massiccia di posti di lavoro nel settore manifatturiero e in una disoccupazione cronica soprattutto tra i giovani e i lavoratori neri. Dal 1947 al 1973 il tasso medio di disoccupazione era del 4,8% ma dopo il 1973 è salito al 6,5% e ancor più escludendo il breve intervallo positivo tra il 1995 e il 2001. Il tempo necessario a recuperare i livelli occupazionali pre-recessione si è allungato in ogni decennio, rendendo evidente che le crisi del mercato del lavoro non sono più cicliche ma strutturali. Per Clover occorre ripensare la classe oltre il modello sociologico tradizionale di “classe operaia”, legata a forme stabili di occupazione. Marx parlando della moltiplicazione del proletariato come esito dell’accumulazione capitalistica non intendeva solo gli operai industriali ma tutti coloro che, privi di risorse, sono costretti a vendere la propria forza lavoro o sono resi superflui. Secondo Gilles Dauvé il proletariato non si identifica con i poveri o con i lavoratori manuali ma con coloro che, privi di riserve, rappresentano la negazione radicale dell’ordine sociale esistente. Questa concezione dinamica del proletariato si intreccia con il fenomeno della razzializzazione. Stuart Hall aveva definito la razza come la modalità attraverso cui la classe viene vissuta, una formula ancora più pregnante oggi, considerando che la popolazione eccedente nei centri deindustrializzati è in larga parte composta da soggetti razzializzati. Tale composizione è il risultato di processi storici, come la migrazione dei neri americani fuori dall’agricoltura e la successiva contrazione della domanda nei settori che li avevano assorbiti, che hanno portato a un divario occupazionale razziale persistente a partire dagli anni ‘30. Durante ogni crisi questo divario si amplia e oggi il tasso di disoccupazione giovanile nera nelle grandi città è paragonabile a quello delle aree più colpite dalla crisi europea. La risposta dello Stato all’espansione della popolazione eccedente è stata la costruzione di un regime carcerario di gestione della crisi. Come osserva Gilmore, le prigioni sono soluzioni geografiche parziali a crisi politico-economiche, con le popolazioni incarcerate costituite in larga parte da poveri non bianchi. L’espansione carceraria si salda alla ristrutturazione economica e alla disoccupazione cronica, rivelando la funzione repressiva della gestione statale dei surplus. Il riot appare come il doppio della carcerazione: laddove la prigione rappresenta la strategia statale per contenere il surplus, la rivolta si configura come una controproposta di ingovernabilità, un’esplosione di soggettività e resistenza che si sottrae al controllo e sfida direttamente l’ordine istituito. Il rapporto tra riot e razzializzazione si configura come un nodo centrale nella discussione su chi possa rappresentare il soggetto rivoluzionario della Lunga Crisi. La rilevanza delle popolazioni eccedenti emerge non tanto nei primi paesi industrializzati, quanto nel mondo in via di decolonizzazione, come descritto da Frantz Fanon ne I dannati della terra. Fanon osserva che la formazione di un lumpenproletariato è un processo autonomo e inarrestabile, determinato dallo spostamento demografico e dall’espropriazione che spinge masse di persone verso le città, dove non trovano accesso all’economia formale e dove, anzi, diventano il motore urbano dell’insurrezione, rappresentando una delle forze più radicalmente rivoluzionarie tra i colonizzati. Questa condizione condivisa di superfluità, fondata sulla violenza razzializzata e statale, fornisce il quadro attraverso cui i movimenti del Black Power negli Stati Uniti trovano un riconoscimento reciproco con le lotte anticoloniali internazionali. Maturando come agenti politici, i soggetti espropriati e colonizzati negli Stati Uniti vengono narrati in relazione ai conflitti globali. Organizzazioni come il Revolutionary Action Movement e i Black Panthers studiano con attenzione Fanon, riconoscendo nel lumpenproletariato degli esclusi il terreno su cui si gioca la colonizzazione come fenomeno globale, al di là della tradizionale classe operaia. Huey Newton, nello sviluppare la sua teoria della lotta, oscilla tra la visione della popolazione nera ghettizzata come parte più sfruttata della classe operaia tradizionale e quella, fanoniana, che li vede come lumpenproletari esclusi, soggetti a una colonizzazione interna gestita dalla polizia come esercito occupante. Questa analisi si interseca con il crollo della cornice dei diritti civili e con l’affermazione dello stato carcerario come modalità di gestione delle popolazioni eccedenti. Il capitale, pur sostenendo e alimentando il colonialismo e la proliferazione dell’eccedenza, non disciplina direttamente queste popolazioni né riesce a garantirsi una pace sociale stabile. Le classi globali pericolose si uniscono non come produttori ma come bersagli della violenza statale, dando origine a una ribellione dell’eccedenza che eccede la logica del riconoscimento e della negoziazione, nel segno di una decolonizzazione che, come sostiene Fanon, implica un disordine totale e radicale. La ricomposizione globale della classe trova quindi nel riconoscimento della coscienza ribelle delle periferie e nella presenza intransigente delle popolazioni eccedenti il suo doppio fondamento. Fanon descrive il loro ingresso nella scena politica come inevitabile e sempre più intransigente in una dinamica che si manifesta sempre più anche nei centri deindustrializzati, dove l’eccedenza razzializzata avanza. L’analisi del riot razziale evidenzia l’ambiguità intrinseca della categoria “razza” che non esiste autonomamente ma è prodotta attraverso processi di razzializzazione, definiti come la produzione e lo sfruttamento di vulnerabilità differenziate tra gruppi, portando a morti premature. Clover concorda con l’idea che la razza non sia una causa delle rivolte ma piuttosto che le rivolte siano parte del processo continuo di razzializzazione. In altre parole, non è la razza a generare le rivolte ma le rivolte a contribuire alla costruzione della razza.  

Questa riflessione riporta alla celebre affermazione di Hall secondo cui la razza è la modalità in cui la classe viene vissuta e Clover sottolinea come la resistenza e la ribellione si esprimano inizialmente attraverso la razza, per poi aprirsi ad altre modalità, come la classe. Tuttavia la razzializzazione non è semplicemente un’apparenza che nasconde una verità di classe ma un processo continuo e intrecciato, in cui l’antinerismo storico ha creato gerarchie che espongono le popolazioni nere a un’eccessiva vulnerabilità e violenza statale. Il concetto di surplus diventa centrale per comprendere le trasformazioni sociali in corso. Le popolazioni eccedenti, spesso razzializzate, sono quelle che il capitale non riesce ad assorbire, generando una diaspora globale verso il mondo sovrasviluppato. Il riot diventa la modalità attraverso cui il surplus viene vissuto, diventando sia il soggetto della politica che l’oggetto della violenza statale. Il riot non è un semplice evento sporadico ma una condizione permanente all’interno della riorganizzazione sociale della Lunga Crisi, dove il surplus è trattato come una rivolta in potenza, in atto o in esaurimento. La relazione tra rivolta e polizia è dialettica: la polizia non è solo una forza esterna che reprime la folla ma un elemento integrale della rivolta stessa, necessario perché la folla possa definirsi come soggetto antagonista. Questo richiama la dialettica hegeliana del riconoscimento, ripresa da Fanon nel contesto coloniale, dove la lotta deve andare oltre il riconoscimento per diventare una sostituzione totale dell’ordine esistente. La situazione delle nazioni deindustrializzate non è assimilabile alla lotta anticoloniale, sebbene non sia completamente estranea. Le popolazioni eccedenti, escluse strutturalmente, si riuniscono nelle strade e nelle piazze mentre la riproduzione proletaria si sposta sempre più al di là del salario e del mercato. Il riot diventa una guerra civile latente che deve assolutizzarsi per cercare una riproduzione sociale alternativa, come la comune. Quindi per Clover queste lotte sono l’espressione concreta di una riorganizzazione materiale della società sotto la pressione di trasformazioni economiche profonde. Clover le esamina attraverso tre dimensioni spaziali che ne rivelano la logica interna: la piazza come luogo della rivolta politicizzata, la strada come spazio dell’insurrezione immediata, e la comune come forma di vita oltre le categorie capitaliste.

Nella piazza, erede moderna dell’agorà greca come spazio ibrido di mercato e assemblea, si manifesta con particolare chiarezza la contraddizione fondamentale delle lotte contemporanee. Movimenti come Occupy Wall Street o gli Indignados, pur radicandosi nelle masse di individui resi superflui dai processi produttivi, finiscono per rimanere prigionieri della separazione tra sfera politica ed economica che caratterizza il capitalismo maturo. Occupy Oakland, con la sua pratica di scioperi generali, blocchi portuali e scontri diretti con la polizia, rappresenta forse l’espressione più avanzata di questa contraddizione, dove l’alleanza instabile tra diversi strati sociali rivela al tempo stesso la potenza e i limiti della rivolta contemporanea. La strada, al contrario, diventa il teatro di un’insurrezione immediata che scardina le logiche della rappresentazione politica. Le rivolte scatenate dall’uccisione di Michael Brown a Ferguson mostrano una dinamica nuova. Non più episodi localizzati ma un vero e proprio contagio della rivolta che si diffonde attraverso il blocco sistematico delle vie di circolazione. In queste insurrezioni si consuma una frattura sempre più profonda tra chi cerca ancora una mediazione istituzionale e chi invece rifiuta radicalmente qualsiasi forma di compromesso con un sistema percepito come irriformabile. Mentre in passato la prima tendenza prevaleva grazie alla possibilità di concessioni parziali, oggi la crisi permanente del capitale rende questa via impraticabile, allargando così lo spazio per forme di lotta assolutizzanti che rifiutano qualsiasi dialogo con le istituzioni esistenti. È in questo contesto che la comune emerge come forma di vita radicalmente altra, che supera sia la logica del salario che quella del mercato. Diversamente dalle esperienze storiche della Comune di Parigi o di quella del Morelos, nate entrambe in contesti di crisi estrema, la comune contemporanea non può più fondarsi sull’illusione di una riconquista dello Stato o di una riforma del sistema produttivo. Essa piuttosto si configura come necessaria risposta al collasso delle forme tradizionali di riproduzione sociale, un tentativo di autorganizzazione della vita al di fuori e contro le logiche del capitale. La comune rappresenta una pratica di sopravvivenza collettiva in un mondo dove il circuito produzione-consumo ha cessato di funzionare per ampie fasce della popolazione. Tra il riot come sintomo immediato della crisi e la comune come progetto di riorganizzazione radicale della vita sociale, si dispiega così lo spettro delle possibilità rivoluzionarie contemporanee. Se da un lato le rivolte nelle strade rivelano la profondità della frattura sociale, dall’altro le esperienze embrionali di comune indicano la direzione di una possibile fuoriuscita dal capitalismo. In un’epoca dove la crisi appare permanente e irrisolvibile all’interno delle logiche esistenti, queste forme di lotta rappresentano i segnali di una trasformazione sociale più profonda, dove la scelta ultima si gioca tra la costruzione di nuove forme di vita comune e la catastrofe sociale.

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