I complicati anni ’50 della CGIL

1. Come arriva la CGIL agli anni ‘50

La rinascita del sindacalismo libero in Italia affonda le sue radici negli ultimi e convulsi anni del regime fascista, quando il malcontento popolare, alimentato dalle disastrose conseguenze della guerra, dal crollo del potere d’acquisto (con salari reali diminuiti tra il 30 e il 50% in tre anni) e dalle rigide politiche degli ammassi, divenne sempre più palpabile. Questo disagio esplose nel marzo del 1943 con imponenti scioperi nelle fabbriche del Nord, iniziati alla Fiat Mirafiori di Torino e diffusisi rapidamente in Lombardia e Liguria. Sebbene le rivendicazioni fossero di natura economica, come la richiesta della tredicesima mensilità, questi scioperi, organizzati da cellule clandestine comuniste, rappresentarono il primo, coraggioso atto di opposizione politica al regime dopo anni di silenzio forzato, un segnale inequivocabile della sua dissoluzione interna che contribuì non poco alle successive dimissioni di Mussolini. Dopo il 25 luglio 1943 il governo Badoglio, in un clima confuso e ambiguo, avviò lo smantellamento delle strutture fasciste. Il giurista Leopoldo Piccardi, ministro delle Corporazioni, affidò a Bruno Buozzi, storico leader socialista appena liberato dal confino, il compito di commissariare il settore dei lavoratori dell’industria. Buozzi pose come condizione la liberazione di tutti gli antifascisti e l’inclusione di esponenti comunisti, dando vita a una struttura paritetica che includeva, tra gli altri, il comunista Giovanni Roveda e il democristiano Gioacchino Quarello come suoi vice e il comunista Giuseppe Di Vittorio per i braccianti. Questo commissariamento tecnico, pur nella distanza dei partiti clandestini dal governo, portò a un fondamentale accordo con l’industriale Giuseppe Mazzini, rappresentante dei datori di lavoro, che sancì lo scioglimento dei sindacati fascisti e il riconoscimento del ruolo delle commissioni interne per vigilare sull’applicazione dei contratti collettivi. L’8 settembre e l’occupazione tedesca troncarono bruscamente questo embrione di dialogo sociale, portando alla costituzione della Repubblica Sociale Italiana al Nord e alla fuga del governo a Brindisi. Nonostante l’occupazione nazista e la Repubblica di Salò le fabbriche del Nord, sotto controllo tedesco, divennero nuovamente teatro di lotta. Tra febbraio e marzo del 1944 scioperi ben organizzati e collegati al CLN paralizzarono il triangolo industriale, con settantamila scioperanti nella sola Torino. Fu lo sciopero più vasto nell’Europa occupata dai nazisti, represso con arresti e deportazioni ma fu anche la prova della ritrovata capacità di mobilitazione del movimento operaio. Parallelamente a Roma, mentre la città era ancora occupata, Buozzi, Di Vittorio e il democristiano Achille Grandi si incontrarono per gettare le basi di un’organizzazione sindacale unitaria. Il Patto di Roma, firmato il 3 giugno 1944 (e siglato per i socialisti da Canevari dopo la cattura e fucilazione di Buozzi da parte dei tedeschi il 9 giugno), diede vita alla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL). Il patto stabiliva un’organizzazione unitaria, indipendente dai partiti ma solidale con l’azione democratica, basata sulla democrazia interna e sulla proporzionale. Al suo interno si scontrarono subito due visioni: quella socialista e cattolica favorevole a un sindacato obbligatorio e riconosciuto giuridicamente e quella comunista di Di Vittorio che preferì una formula più fluida per non compromettere l’unità. La questione del riconoscimento giuridico fu così accantonata, un compromesso che si rivelerà duraturo. Con la liberazione di Roma e l’insediamento del governo Bonomi si procedette allo scioglimento formale delle confederazioni fasciste, sancendo definitivamente la fine del sindacato di diritto pubblico e il ritorno a un’associazione privata. Tuttavia l’unità era già fragile. Il mondo cattolico, preoccupato di non essere egemonizzato dalle componenti di sinistra, diede vita alle Acli (Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani) come organismo di formazione presindacale, una “riserva” per preservare la propria identità. Nel Mezzogiorno, liberato dagli Alleati ma non attraversato dalla stessa esperienza resistenziale, esplose la questione contadina con occupazioni spontanee di terre (come la Repubblica di Caulonia in Calabria) e aspre vertenze per la ripartizione dei prodotti e il controllo dei collocamenti. Tentativi di creare sindacati autonomi, come la CGL napoletana di Enrico Russo e Dino Gentili, furono ben presto riassorbiti dall’autorità della CGIL romana che poteva vantare sia l’unità d’azione con il CLN sia la partecipazione cattolica. Il governo di unità nazionale, sotto la spinta della svolta di Salerno di Togliatti, affrontò l’emergenza agraria con i decreti del ministro comunista Fausto Gullo che imposero migliori ripartizioni dei prodotti e concedettero terre incolte. Questi provvedimenti, sebbene accolti con entusiasmo dalle masse contadine, incontrarono la feroce resistenza degli agrari che li attaccarono in tribunale ottenendo dalla Cassazione dichiarazioni di incostituzionalità, in quanto modifiche contrattuali non approvate per legge. Le forze di sinistra, non riuscendo a trasformare queste misure d’emergenza in una riforma strutturale a causa dell’opposizione dei liberali e della DC, videro il loro spazio di manovra ridursi fino all’estromissione dal governo nel maggio 1947. Da quel momento, con una maggioranza di centro-destra, la proprietà terriera riaffermò pienamente i suoi diritti, supportata da una magistratura restia ad applicare i principi costituzionali in assenza di leggi specifiche. Nello stesso periodo, al Nord, i Consigli di Gestione nati spontaneamente nelle fabbriche liberate suscitarono le preoccupazioni degli industriali. Sebbene il ministro socialista Rodolfo Morandi tentò di inquadrarli giuridicamente come organismi di partecipazione senza però sostituirsi alla direzione, il progetto naufragò per la ferma opposizione della Confindustria e per la mancanza di un sostegno politico coerente, anche da parte della stessa FIOM. Il riflusso moderato e l’estromissione delle sinistre dal governo segnarono la fine di questa esperienza, concentrando l’azione sindacale su obiettivi più tradizionali di tutela. La Costituente affrontò il tema sindacale dibattendo intensamente sull’articolo 39. Il testo finale, frutto di un compromesso, sancì la libertà dell’organizzazione sindacale, demandando a una legge successiva la disciplina della registrazione (che avrebbe conferito personalità giuridica) e il delicato meccanismo per la stipula di contratti collettivi con efficacia erga omnes. Questa legge non fu mai fatta, lasciando i sindacati in una posizione di forza fattuale ma di debolezza giuridica. L’articolo 40 costituzionalizzò il diritto di sciopero ma senza regolamentarlo, respingendo limitazioni proposte come il divieto per i servizi pubblici o per gli scioperi politici. Sul piano economico la politica restrittiva del ministro del Bilancio Luigi Einaudi, basata sulla stretta creditizia, riuscì a domare l’inflazione galoppante ma al prezzo di frenare la ripresa e provocare licenziamenti, creando le basi per la stabilizzazione monetaria che favorì il voto democristiano del 18 aprile 1948. In questo clima l’attività della CGIL si concentrò sulla difesa del salario attraverso la contrattazione nazionale centralizzata, unico strumento per proteggere le fasce più deboli. Accordi come quello sull’indennità di contingenza (la scala mobile) divennero il perno della tutela del potere d’acquisto. La Confindustria, ricostituita sotto la guida del parsimonioso e pragmatico Angelo Costa, strinse un tacito ma solido asse con la DC, difendendo la libertà d’impresa, i bassi salari (funzionali all’autofinanziamento) e la libertà di licenziamento. Questo patto, che garantì stabilità produttiva e una ripresa trainata dagli investimenti, indebolì ulteriormente la posizione sindacale, trovando un governo disposto a usare la forza pubblica per reprimere le agitazioni, come avvenne nei tragici fatti di Melissa, Modena e Torre Maggiore. I contrasti all’interno della CGIL divennero insanabili. La maggioranza comunista e socialista si oppose al Piano Marshall, visto come uno strumento dell’imperialismo americano, mentre la componente cristiana, guidata da Giulio Pastore, ne sostenne l’accettazione. La goccia che fece traboccare il vaso fu la gestione dello sciopero generale proclamato dopo l’attentato a Togliatti nel luglio 1948. La maggioranza lo volle a oltranza mentre i democristiani ne chiesero la cessazione, denunciando azioni insurrezionali. Di Vittorio tentò una mediazione ma l’esecutivo della CGIL dichiarò decaduti i membri democristiani, i quali, a loro volta, si sentirono liberi di uscire e fondare nell’ottobre 1948 la Libera CGIL (poi CISL). Socialdemocratici e repubblicani, inizialmente esitanti, uscirono a loro volta dopo gli scontri di Molinella nel 1949, dando vita alla FIL che confluirà poi nella UIL. Le scissioni furono favorite da aiuti finanziari americani, canalizzati attraverso il sindacato AFL-CIO, determinati a rompere l’unità sindacale di ispirazione comunista. Nacquero così tre confederazioni divise ideologicamente: la CGIL, di sinistra e maggioritaria, la CISL, di ispirazione cristiana e riformista e la UIL, laica e socialdemocratica. Questo pluralismo conflittuale, emblema della Guerra Fredda in Italia, caratterizzò per tutti gli anni ‘50 un movimento sindacale debole, diviso e spesso incapace di contrastare efficacemente un modello di sviluppo basato su bassi salari e sul controllo padronale assoluto dell’organizzazione del lavoro.

2. Gli anni ‘50 

La fine degli anni ‘40 in Italia fu plasmata da eventi cruciali che gettarono le basi per il successivo sviluppo economico: l’inizio della Guerra Fredda, l’esclusione delle sinistre dal governo, la profonda divisione del movimento sindacale culminata nelle scissioni che diedero vita alla CISL e alla UIL e la schiacciante vittoria della Democrazia Cristiana nelle elezioni del 1948, combattute all’insegna della “scelta di civiltà” tra blocco occidentale e comunista. Sostenuto dall’impegno americano per la ricostruzione europea tramite il Piano Marshall, il governo italiano implementò un modello di sviluppo economico di stampo liberista, forse il più rigido d’Europa. La sua prima fase fu una politica deflazionistica così severa da provocare proteste persino nella stessa classe imprenditoriale, con un crollo degli investimenti e un picco di disoccupazione che rifletteva sia le fragilità strutturali del paese sia il rigore creditizio e del pareggio di bilancio voluto dal governo. I capisaldi di questo modello erano il primato del mercato, l’austerità di bilancio, un’aperta integrazione nell’economia internazionale e la compressione dei costi di produzione per competere efficacemente. Elemento portante di questa strategia era il mantenimento di bassissimi costi del lavoro, un’intensificazione dei ritmi produttivi e una notevole libertà di licenziamento. Queste politiche furono rese possibili dalla condizione di estrema debolezza e divisione in cui versava il movimento sindacale, a sua volta frutto dell’emarginazione politica delle sinistre e del clima repressivo antisindacale favorito dalle autorità, come dimostrano le circolari ministeriali che vietavano comizi e riunioni all’interno delle fabbriche. Il ruolo del governo fu quello di facilitatore e guardiano politico di uno sviluppo trainato dal settore privato, astenendosi deliberatamente da politiche che potessero stimolare la domanda interna e creare così un’alternativa alle pressioni competitive internazionali. I segnali del successo di questo modello emersero all’inizio degli anni ‘50, con l’impulso fornito anche dalla guerra di Corea. La produzione industriale e la produttività iniziarono a crescere in modo significativo ma questi incrementi non furono accompagnati da guadagni salariali commensurati. La disoccupazione rimase alta e solo nella seconda parte del decennio l’occupazione cominciò a salire vertiginosamente, alimentata da un’imponente migrazione interna verso i centri industriali del Nord. I tratti distintivi del modello, cioè pesante dipendenza dalla domanda internazionale, mercato interno debole, competitività affidata a tecnologia medio-bassa, bassi salari e sfruttamento intenso del lavoro, rimasero immutati, facilitati proprio dalla persistente debolezza del movimento dei lavoratori. La CGIL fu estremamente lenta nel riconoscere la natura e il successo della trasformazione economica in atto. Fino alla metà del decennio la sua analisi rimase ancorata all’idea di una crisi economica cronica e irreversibile senza un radicale cambiamento politico. La Confederazione, guidata da Giuseppe Di Vittorio, persisteva in una strategia centralizzata e egualitaria, dando priorità assoluta all’aumento dell’occupazione attraverso grandi lotte generali e rivendicazioni uniformi per tutti i lavoratori, trascurando le profonde differenze di redditività e produttività che si stavano creando tra settori, aziende e regioni. Questa posizione, oltre che da presupposti ideologici, era dettata da esigenze pratiche: in una situazione di esclusione sia politica che contrattuale l’enfasi sulla crisi sistemica e sulle mobilitazioni politiche (come le lotte contro la legge elettorale “truffa” del 1953) fungeva da meccanismo per tenere alto il morale degli iscritti. Inoltre essa rimaneva funzionale alla strategia del PCI che vedeva nel sindacato una “cinghia di trasmissione” per le sue battaglie politiche e di piazza. Proprio per rispondere alla sconfitta politica la CGIL aveva elaborato già nel 1950 il Piano del Lavoro, un documento innovativo e riformista di impostazione keynesiana che proponeva la nazionalizzazione del settore elettrico, la creazione di un ente per le bonifiche, lo sviluppo del Mezzogiorno e un vasto programma di edilizia popolare per assorbire la disoccupazione. Sebbene completamente ignorato dal governo centrista, il Piano rappresentò un primo fondamentale tentativo di offrire una prospettiva economica alternativa e organica, superando una visione puramente classista e indicando una linea che, seppur con strumenti diversi, sarebbe stata in parte ripresa anni dopo. Parallelamente la CISL stava elaborando una filosofia sindacale profondamente alternativa, influenzata dalla scuola sindacale americana di Florentine e dalle teorie delle human relations. La sua proposta innovativa e rivoluzionaria era la contrattazione aziendale che spostava il baricentro dell’azione sindacale dalla politica nazionale alla fabbrica. L’obiettivo era legare i salari e le condizioni alla produttività e alla redditività della singola azienda, favorendo i lavoratori delle imprese più efficienti e, al contempo, stimolando l’intero sistema a raggiungere livelli di efficienza più elevati, in una visione pluralista della società che rifiutava la concezione classista della CGIL. La sconfitta elettorale alle commissioni interne della Fiat nel 1955, dove la FIOM-CGIL perse la maggioranza assoluta a favore della FIM-CISL, fu un trauma che rivelò un preoccupante distacco dalla realtà delle fabbriche e dai mutamenti in atto nella mentalità operaia. Il calo degli iscritti, la repressione degli attivisti e l’emarginazione dalla contrattazione spinsero la Confederazione a un’ampia autocritica. Al IV Congresso del 1956 la CGIL iniziò a rivedere profondamente la sua strategia, accettando il principio della contrattazione integrativa aziendale e ponendo la fabbrica al centro della sua azione per ricostruire il proprio radicamento. Questo processo fu accompagnato da una crescente autonomia dal PCI, simbolicamente sancita dalla condanna dell’invasione sovietica dell’Ungheria in un documento stilato dal socialista Fernando Santi e differenziato da quello del Partito Comunista. Anche la CISL, d’altro canto, sebbene le sue rivendicazioni salariali rimanessero nella pratica al di sotto degli incrementi di produttività a causa dei suoi legami con la DC e il mondo imprenditoriale, iniziò un percorso di distanziamento dalla politica governativa. Sul piano macroeconomico il governo centrista tentò di dare una pianificazione indirizzatrice alla crescita con lo Schema Vanoni del 1955, un programma decennale che prevedeva investimenti pubblici nelle infrastrutture e nei servizi per raggiungere la piena occupazione. Sebbene la CGIL ne rilevasse le contraddizioni con le politiche liberiste effettivamente perseguite, tanto lo Schema Vanoni quanto il Piano del Lavoro indicavano una convergenza di intenti riformisti e interventisti che preannunciava gli sviluppi degli anni ‘60. Intanto il miracolo economico decollava, trainato da un’intesa pubblico-privato (con l’IRI, l’ENI, istituito da Enrico Mattei nel 1953, e grandi gruppi privati come la Fiat che nel 1955 lanciò la Seicento) e da un’imponente migrazione interna. I frutti di questa crescita erano distribuiti in modo drammaticamente disuguale. Tra il 1948 e il 1955, mentre la produzione industriale cresceva del 95% e i profitti netti dell’86%, i salari reali aumentavano solo del 6%, erosi da un’inflazione del 20%. La tensione tra il nuovo corso riformista della segreteria DC di Amintore Fanfani, che cercava una maggiore autonomia dalla Confindustria, e il mondo imprenditoriale esplose con la nascita di Confintesa, un’alleanza tra Confindustria, Confagricoltura e Confcommercio per opporsi all’invadenza statale nell’economia e sostenere elettoralmente il Partito Liberale di Giovanni Malagodi. Il tentativo non riuscì a modificare gli equilibri politici. 

3. La sconfitta della CGIL del 1955 e l’autocritica di Di Vittorio

Il focus della nostra analisi è la sconfitta della CGIL alle elezioni delle commissioni interne della Fiat nel 1955. Porteremo avanti le nostre riflessioni grazie al libro Fiat 1955. Giuseppe Di Vittorio e la sconfitta della CGIL alle elezioni delle Commissioni Interne che raccoglie interventi sulla più importante battuta d’arresto della CGIL nei difficili anni ‘50. Stefano Musso ci ricorda che un mese dopo la pesante sconfitta elettorale della FIOM alle elezioni delle commissioni interne della Fiat del marzo 1955, dove i consensi crollarono dal 61% al 34% con la conseguente perdita della maggioranza assoluta e relativa a vantaggio della CISL, Giuseppe Di Vittorio tenne al direttivo confederale della CGIL un discorso di autocritica che rimane un documento di straordinaria attualità e lucidità analitica. Di Vittorio affrontò le cause della sconfitta partendo da un’analisi articolata dell’offensiva padronale, descrivendo una repressione che si manifestava innanzitutto nell’annullamento dei diritti costituzionali in fabbrica e nella soppressione dei diritti di cittadinanza per i lavoratori una volta varcati i cancelli, una situazione che avrebbe poi germinato l’idea fondativa dello Statuto dei Lavoratori, ovvero la necessità di portare la Costituzione dentro i luoghi di lavoro. Questa repressione, secondo la sua analisi, aveva radici profonde e iniziava già nella fase del reclutamento, attraverso la sistematica negazione del principio di eguaglianza delle opportunità di accesso al lavoro. Su questo punto Di Vittorio introdusse un primo cruciale elemento di autocritica ammettendo che lui e la dirigenza confederale avevano commesso un grave errore di valutazione. Avevano considerato la questione del collocamento e della chiamata numerica, regolata dalla legge 264 del 1949 che attribuiva il monopolio agli uffici statali, una prerogativa esclusiva del mondo bracciantile, trascurandone invece l’impatto determinante anche per le assunzioni nell’industria. In pratica gli industriali aggiravano facilmente la chiamata numerica a favore di quella nominativa, selezionando la manodopera attraverso canali informali fatti di favoritismi, conoscenze personali, reti parrocchiali e informative delle forze dell’ordine. Questo meccanismo perverso creava una fitta rete di obbligazioni e dipendenze per il lavoratore assunto tramite raccomandazione, il quale si sentiva in dovere di mostrare ossequio alla gerarchia aziendale per non mettere in cattiva luce il proprio benefattore, interiorizzando così un comportamento remissivo e anticonflittuale. Oltre a questa repressione indiretta ma pervasiva Di Vittorio descrisse la repressione in senso stretto, fatta di licenziamenti politici, reparti confino e, nel caso specifico della Fiat, di un sofisticato sistema di schedature e del premio di collaborazione, un vero e proprio premio antisciopero erogato ininterrottamente per un decennio, dal 1952 al 1962, a chi non partecipava alle agitazioni. La grandezza della sua analisi sta nel non aver fermato la riflessione a questa constatazione. Di Vittorio sostenne infatti che un attacco del genere da parte padronale fosse “naturale”, nel senso di fisiologico e prevedibile nell’ottica della difesa dei propri interessi e che quindi la vera questione fosse comprendere come il movimento operaio potesse e dovesse reagire in modo autonomo e efficace. Spostò così il baricentro della sua analisi dal “bastone” alla “carota”, ovvero ai servizi sociali aziendali che, in un’epoca di welfare pubblico ancora gravemente deficitario, rappresentavano un formidabile strumento di attrazione e acquiescenza. Per molti lavoratori essere assunti in un colosso come la Fiat equivaleva a raggiungere un’oasi di sicurezza, con un salario stabile e servizi assistenziali, primo fra tutti la mutua che lo Stato non era ancora in grado di garantire. Il secondo fondamentale punto di autocritica fu proprio qui: la CGIL non era riuscita a spiegare con sufficiente chiarezza che quei servizi non erano una benevola elargizione paternalistica bensì un diritto che scaturiva direttamente dagli alti profitti generati dal lavoro operaio. Di Vittorio lanciò così una linea strategica pionieristica, affermando che il sindacato doveva smettere di contrattare solo salari, cottimi e orari, per iniziare a contrattare anche i servizi, trasformandoli da strumento di consenso padronale a terreno di rivendicazione sindacale. Questa intuizione avrebbe aperto la strada, negli anni successivi, alle grandi vertenze per l’estensione e la generalizzazione del welfare pubblico. Il cuore dell’autocritica di Di Vittorio consistette però nell’ammettere una carenza ancor più profonda, ovvero la mancanza da parte del sindacato della capacità di analizzare e comprendere i radicali cambiamenti in atto nel mondo del lavoro. Schematismi ideologici e culturali, ereditati da una certa impostazione della Terza Internazionale, avevano impedito alla CGIL di decifrare la nuova realtà fatta dell’introduzione dei sistemi tayloristici e fordisti, della produzione di massa e delle politiche delle human relations abilmente cavalcate dalla CISL. La CGIL restava ancorata a una visione malthusiana del capitalismo, visto come incapace di un autentico sviluppo delle forze produttive, interpretando ogni aumento di produzione come il mero frutto di un supersfruttamento (attraverso il taglio dei tempi e il ricorso sistematico agli straordinari). Questa lente deformante impediva di vedere che il taglio dei tempi, contro cui si batteva con veemenza, era spesso il risultato di un reale progresso tecnologico finanziato anche dai fondi del Piano Marshall, come nel caso della riorganizzazione della Fiat per la produzione delle nuove utilitarie. Di Vittorio respinse l’idea che la sconfitta fosse dovuta al logoramento provocato dalle battaglie politiche generali (come gli scioperi contro la NATO o la “legge truffa”) ma individuò un logoramento di tipo diverso. La CGIL chiedeva a una nuova classe operaia, fatta di giovani e immigrati dalle campagne (prima dal Piemonte, poi sempre più dal Sud), poco politicizzati e alla disperata ricerca di un immediato miglioramento retributivo, di mostrare una solidarietà di classe che si traducesse nel rifiuto degli straordinari e dei premi di produzione in nome della lotta alla disoccupazione e dell’unità del proletariato. Questa richiesta di sacrificio, però, non era sostenuta da una capacità contrattuale in fabbrica di ottenere aumenti in paga base, capacità strangolata dal centralismo contrattuale che aveva di fatto azzerato l’autonomia delle commissioni interne. I lavoratori si trovavano così stretti in una morsa. La proposta della CGIL chiedeva rinunce senza offrire alternative concrete immediate mentre la proposta della CISL e del padronato offriva aumenti monetari tangibili legati alla produttività. L’autocritica di Di Vittorio rappresentò quindi il primo, fondamentale passo verso un cambiamento epocale della linea della CGIL. Non fu solo l’anticipazione dello Statuto dei Lavoratori e della contrattazione del welfare ma anche l’avvio di un ripensamento che avrebbe portato, dopo la sua scomparsa, al superamento del centralismo contrattuale e all’introduzione del decentramento e della contrattazione articolata con il contratto dei metalmeccanici del 1963. La sua lezione sull’ascolto di tutti i lavoratori, sulla necessità di analizzare il reale e di adattare strutture e strategie senza schemi preconcetti rimane una riflessione profondamente attuale sui compiti del sindacato di fronte a un mondo del lavoro in perenne, rapida trasformazione. L’intervento di Adolfo Pepe prende le mosse dalla riflessione sull’autocritica di Giuseppe Di Vittorio riguardo alla crisi del 1955, proponendola non come una lezione ma come un potente elemento di ragionamento per interpretare anche l’attualità, specialmente se discussa in una città simbolo come Torino. La ricostruzione di Pepe è volutamente problematica e si sviluppa attorno alla figura centrale di Di Vittorio e alla sua capacità di ridisegnare strategicamente la CGIL dopo la scissione del 1948. Se nel primo periodo, dal 1944 al 1947, la CGIL unitaria era stata un pilastro della ricostruzione e un fattore di legittimazione verso gli alleati in un contesto di collaborazione con i governi del CLN, dopo la rottura Di Vittorio forgia un sindacato completamente nuovo, costretto a operare in regime di pluralismo e a competere con la CISL, la UIL e un governo centrista ostile. La genialità di Di Vittorio si manifesta attraverso scelte precise e coraggiose. La prima è il Piano del Lavoro, una proposta di politica economica di stampo keynesiano straordinaria non tanto nel merito quanto nel destinatario: veniva infatti presentata non a un governo amico ma al governo De Gasperi e Scelba che perseguiva una linea di aperta ostilità verso il sindacato, arrivando a togliergli il collocamento e a reprimere fisicamente le proteste. Pepe contesta con forza la vulgata storica che dipinge il Piano del Lavoro come arcaico e le politiche degasperiane come l’alba della modernità italiana. Al contrario, argomenta che la risposta del centrismo fu di corto respiro e in netto contrasto con le stesse spinte modernizzatrici americane. Gli USA, attraverso il Piano Marshall, miravano a frantumare quello che Gramsci aveva definito il feudalesimo industriale europeo. In Germania questa operazione diede vita all’economia sociale di mercato mentre in Italia la classe dirigente politica e imprenditoriale dimostrò una profonda inadeguatezza, utilizzando i fondi per il pareggio di bilancio e innestando le innovazioni tecnologiche su un sistema industriale arcaico, autoritario e paternalista, terrorizzato da qualsiasi cambiamento nei rapporti di potere in fabbrica. Il Piano del Lavoro, al contrario, prefigurava uno sviluppo equilibrato e presupponeva quelle riforme (agraria, amministrativa, fiscale) che gli stessi americani reclamavano invano come prerequisito per la modernizzazione e che in Italia sarebbero arrivate solo molto dopo e in modo confuso. Di Vittorio, a partire dal 1950, intuisce con lucidità le conseguenze di questo sviluppo distorto: lo svuotamento dei principi costituzionali che avviene prima di tutto dentro le fabbriche. La sua risposta è lo Statuto dei diritti del lavoro del 1952 che propone una formula di modernizzazione autentica, fondata sull’integrazione tra sviluppo economico, piena occupazione, regole e diritti. Pepe si chiede quindi quale percorso avrebbe potuto prendere l’Italia se avesse avuto una classe dirigente capace di abbracciare quella visione. La CGIL di Di Vittorio non è un’entità astratta. Nel 1951, con il convegno sul supersfruttamento, rinnova la sua analisi, sforzandosi di comprendere la realtà concreta di un capitalismo industriale “selvaggio” che importava tecnologia obsoleta applicandola con logiche feudali e che aveva già compiuto ristrutturazioni pagate con licenziamenti e sangue. Di Vittorio dimostrò una notevole autonomia di pensiero, arrivando a sostenere le leggi per la riforma agraria e per il Mezzogiorno al punto da entrare in tensione con il suo stesso partito, in un quadro politico, quello del centrismo, che era bloccato e lasciava alle sinistre parlamentari margini di influenza pressoché nulli. Pepe arriva al cuore del problema: perché nel 1955, proprio da Torino, parte una strategia che cerca un “18 aprile sindacale”, interrompendo bruscamente questa evoluzione dialogante e propositiva della CGIL? La risposta va cercata nella specificità di Torino, città simbolo del PCI, di Gramsci, di Togliatti e del “patto dei produttori”. Eppure, nonostante questa vocazione costitutiva al compromesso, la storia della città dimostra una sistematica “bruciatura” di questa possibilità da parte delle sue classi dirigenti, da Giolitti in poi. Le grandi crisi nazionali del ’62, del ’69 e dell’80, con tutte le loro conseguenze, affondano le radici in questa dinamica torinese. Pepe allarga quindi lo sguardo alle diverse anime del capitalismo italiano di allora, rappresentate da Valletta (Fiat, modello fordista dominante), Olivetti (comunitarismo fecondo di idee ma dall’esito non coerente) e Mattei (ENI, scelta tecnocratica e antiamericana, ambigua ma che diede risultati). La figura di Gronchi, eletto presidente della Repubblica proprio nel 1955, è strategica in questo quadro. La conclusione di Pepe è amara. La lezione storica che emerge dal nodo del 1955 è che in Italia i “patti con i produttori” vanno presi con le molle. La sinistra ne ha proposti a iosa nel corso del Novecento, da quello di Giolitti in poi, ma nessuno è stato mai veramente concluso e rispettato in modo coerente dalle classi dirigenti del paese. Al contrario, è stata la sinistra, con la sua lealtà e coerenza nel perseguire questo modello, a pagare il prezzo più alto, finendo per assorbire e gestire le contraddizioni che ne derivavano con sforzi straordinari che, alla lunga, hanno contribuito in modo decisivo all’esaurimento della sua stessa dimensione politico-partitica. La riflessione sul 1955, quindi, non è una semplice chiacchiera storica ma un interrogativo cruciale sulla natura delle classi dirigenti italiane e sulle ragioni di una frattura mai sanata. Gianni Alasia delinea un ritratto di Giuseppe Di Vittorio partendo dalla sua caratteristica umana più distintiva, ovvero la capacità di parlare e, soprattutto, di ascoltare la gente semplice. Questo tratto era lo stile naturale di un leader che a Roma si faceva trovare sempre disponibile in sede, in Corso d’Italia 25, dove una coda di persone attendeva di parlargli per ricevere consigli, ascolto e aiuto pratico nel districarsi tra le pratiche burocratiche. Questo approccio diretto e personale fu la stessa cifra che utilizzò in un comizio a Torino, tenuto in un Teatro Alfieri ancora segnato dai bombardamenti, in un momento di grande difficoltà per la CGIL, chiamata a unire le diverse anime del patto di Roma e ad affrontare la minaccia di una divisione del paese tra Nord e Sud, un processo in cui si sospettava il finanziamento della CIA. In quell’occasione Di Vittorio seppe parlare ai lavoratori torinesi partendo dalla sua esperienza di bracciante in Puglia, rievocando il primo sciopero e l’ironica proclamazione di “Santa Lega” da parte degli operai seduti a terra in protesta, una metafora potente del bisogno di unità e autorganizzazione. La riflessione si sposta poi sulla cruciale sconfitta sindacale alla Fiat nel 1955. L’intervento descrive con onestà la reazione immediata che fu quella di attribuire la sconfitta alla feroce e concreta persecuzione padronale: i licenziamenti di rappresaglia, i reparti confino, l’umiliazione dei delegati dequalificati e le pressioni sulle famiglie, dove le mogli, spaventate, esortavano i mariti a non impegnarsi nel sindacato per paura delle ritorsioni. Emerse quasi subito la necessità di un’approfondita autocritica, contrapponendo la reazione semplicistica di alcuni alla profonda riflessione avviata da Giuseppe Di Vittorio. Al VI Congresso della CGIL nel 1956 Di Vittorio individuò pubblicamente e con grande lucidità gli errori del sindacato, cioè la sottovalutazione della pressione padronale e i gravissimi errori di impostazione, ovvero il non aver studiato a fondo i nuovi processi produttivi e i complessi sistemi di incentivazione, e soprattutto l’aver seguito schemi generali e centralizzati invece di elaborare rivendicazioni concrete, nate e sentite direttamente nei reparti dalle maestranze. Questa sconfitta, sebbene dolorosa, divenne il motore di un profondo rinnovamento. La FIOM avviò un’impressionante attività di ricerca distribuendo migliaia di questionari per ascoltare direttamente l’opinione degli operai, un gesto che sanciva il passaggio da un “sindacato per i lavoratori” a un “sindacato dei lavoratori”, come ebbe a notare persino una sezione della CISL. Questo nuovo corso si concretizzò nel Piano del Lavoro, giustamente chiamato Piano Di Vittorio, che rappresentò una svolta epocale. Si passa da un sindacato concentrato solo sulla contrattazione salariale a un soggetto che interviene attivamente nella politica economica e nelle scelte produttive del paese. Questo si tradusse in conferenze di produzione a tutti i livelli, con la partecipazione di migliaia di tecnici, e nella creazione di strutture territoriali intercategoriali, come quelle promosse da militanti come Pinot Piovano, il cui obiettivo era portare il sindacato a contrattare con gli enti locali sui problemi concreti della comunità, come il trasporto pendolare, avvicinandolo alle esigenze reali della gente. La prospettiva si amplia poi con il contributo di Fernando Bianchi che offre una visione più critica e interna alle dinamiche Fiat. Bianchi contesta l’idea che Di Vittorio avesse una chiara visione del clima oppressivo che già dal 1953 regnava nello stabilimento torinese, dove ogni sciopero era bollato come politico. Ricostruisce le tappe dello scontro: le richieste della FIOM basate su 10 punti nel 1950, riproposte invano nel 1953, gli scioperi di agosto con adesione totale ma poi la decisione della CISL di demandare tutto al livello nazionale e un articolo di Roveda che limitava il ruolo delle Commissioni Interne. In questo quadro la decisione di Di Vittorio di convocare i sindacalisti torinesi per chiedere di subordinare la lotta alla Fiat alla battaglia nazionale per la contingenza viene vista da Bianchi come un errore tattico che precedette la sconfitta del 1955. Bianchi delinea quindi un ritratto spietato della Fiat, descritta come una forza che ha sempre pesato enormemente sulla vita del paese, in positivo per il lavoro offerto ma in negativo per la sua posizione reazionaria, fascista e antioperaia, simboleggiata dalle 350.000 schedature di lavoratori realizzate con sostegno governativo. Accusa la dirigenza, da Valletta in poi, di essere stata miope e distruttrice più che costruttrice, avendo sistematicamente chiuso reparti fiorenti come Aeritalia, SPA o Grandi Motori nonostante le proposte alternative avanzate dagli stessi lavoratori durante le conferenze di produzione, preferendo eliminare la concorrenza e imporre una politica dei trasporti su gomma dannosa per il paese. Conclude descrivendo il clima ossessivo in fabbrica, con i sorveglianti in divisa, la paura costante del licenziamento e l’isolamento dei lavoratori, un incubo che terminò solo con la ripresa delle lotte nel 1962. La lezione finale è che gli errori del passato furono pagati a caro prezzo e che solo il protagonismo diretto dei lavoratori, la loro unità e la capacità di lottare insieme permisero di risalire la china, un’indicazione che viene proposta come ancora valida per affrontare le crisi del presente. Gianni Rinaldini si concentra sul coraggio mostrato da Di Vittorio nel promuovere una formidabile autocritica, riconoscendo che, sebbene le cause della sconfitta alle elezioni delle Commissioni Interne alla Fiat fossero per il 99% riconducibili alla feroce repressione padronale, il restante 1% degli errori del sindacato non poteva essere ignorato. Questa capacità di introspezione critica, osserva amaramente Rinaldini, è un tratto che si è successivamente perso nella storia della CGIL, la quale, di fronte ad altre sconfitte, non ha più mostrato la stessa forza nel mettersi in discussione, col serio rischio di fraintendere le situazioni e intraprendere strade sbagliate. Questa autocritica fu il presupposto per una lettura più lucida della controparte: solo riconoscendo i propri errori, infatti, si potevano analizzare senza alibi le strategie degli imprenditori. Negli anni precedenti il ’55 il padronato aveva condotto una battaglia senza esclusione di colpi per annientare la rappresentanza del lavoro nelle fabbriche e nella società, attraverso licenziamenti politici di massa camuffati da inabilità al lavoro, l’istituzione dei reparti confino e un’opera sistematica di isolamento e indebolimento di ogni forma di contrattazione. La CGIL di quegli anni, definita straccione ma non per questo meno determinata, aveva scelto di porre la centralità del lavoro e il suo conflitto col capitale al centro della propria iniziativa, assegnando alla contrattazione il compito di regolare tale conflitto attraverso il riconoscimento del ruolo del lavoro nella produzione. Una linea peraltro moderata ma comunque inaccettabile per un padronato che mirava a ridurre il lavoro a mera merce. Rinaldini vede in questa dinamica una straordinaria attualità, chiedendosi se oggi il capitalismo italiano non stia perseguendo lo stesso obiettivo di marginalizzare la rappresentanza collettiva. La grandezza di Di Vittorio, prosegue Rinaldini, sta nell’aver evitato due facili banalizzazioni. Non propose un semplice ritorno in fabbrica né un’aziendalizzazione subalterna. Coerentemente con tutta la sua precedente elaborazione, indicò invece la strada di una contrattazione collettiva articolata su più livelli. Il suo progetto non metteva in alternativa il livello nazionale con quello aziendale ma assegnava all’azione sindacale dentro l’impresa, sulle condizioni materiali dei lavoratori, un ruolo centrale per riconquistare consenso e rappresentanza. Da lì sarebbe poi ripartita la ricostruzione di una linea contrattuale in grado di unificare il mondo del lavoro attraverso regole solidali (che portò anche alla nascita delle federazioni di categoria), senza però mai dimenticare che la solidarietà e l’uguaglianza dei diritti avevano bisogno di “gambe”, ovvero della capacità di dare risposte concrete là dove il lavoro veniva svolto. Era un delicato equilibrio da costruire, un “generale” che cancellasse le specificità delle condizioni di lavoro sarebbe stato inefficace, così come un aziendalismo che cadesse nella trappola della collaborazione subalterna (come la linea CISL di allora) o del corporativismo. Di Vittorio chiese quindi alla CGIL di saper parlare a tutti i lavoratori in fabbrica, non solo ai propri militanti. Questa visione era radicata in una concezione più ampia del ruolo del lavoro nella società che Di Vittorio aveva espresso sia nel suo contributo alla stesura della Costituzione sia proponendo già nel 1952 uno Statuto dei Diritti dei Lavoratori, immaginando un binario dove far correre insieme diritti inderogabili e contrattazione. Rinaldini trova qui un altro spunto di straordinaria attualità. Oggi che molti diritti universali sono conquistati ma i servizi pubblici sono carenti, le imprese potrebbero riproporre uno scambio pericoloso (più unilateralità su orari e ritmi in cambio di asili o spacci aziendali). La risposta del sindacato deve essere un rinnovato intervento sull’organizzazione del lavoro in azienda e, contemporaneamente, l’estensione della contrattazione sociale sul territorio, per dare risposte ai bisogni che travalicano i cancelli della fabbrica, proprio come insegnò Di Vittorio, per il quale dai diritti del lavoro dovevano scaturire diritti di cittadinanza. Rinaldini conclude tratteggiando la complessa figura di Di Vittorio, segnata da un coraggio politico che lo spinse a valorizzare giovani dirigenti come Luciano Romagnoli, eletto a 24 anni segretario della potente Federbraccianti, e a promuovere il Piano del Lavoro come visione alternativa di sviluppo per alimentare le lotte operaie e per la terra (come nell’epica occupazione delle Officine Reggiane). La sua formazione da sindacalista rivoluzionario (aderì all’USI e non alla CGdL) e la successiva scelta di aderire al PCI solo nel 1924 spiega la sua tensione libertaria e la sua indipendenza che lo portarono a battaglie coraggiose per l’autonomia dei sindacati anche nei paesi socialisti alla guida della FSM, scontrandosi con le crisi di Polonia e Ungheria. La sconfitta del ’55 fu per lui l’occasione per superare le resistenze interne e la rigidità della centralizzazione contrattuale del dopoguerra, avviando quel percorso che, sette anni dopo, riportò gli operai Fiat a scioperare per il contratto nazionale e gettò le basi per le lotte del ’68-’69. Un percorso reso possibile anche da scelte coraggiose di altri, come quella della CISL che, in seguito, denunciò la discriminazione contro la FIOM alla Fiat. La grandezza di Di Vittorio, conclude Rinaldini, sta in questo coraggio di ripensarsi, di dissentire da Togliatti e di condannare l’invasione dell’Ungheria, gesti non semplici in quel contesto storico ma fondamentali per costruire un sindacato di classe radicato nei luoghi di lavoro.

4. Riflessioni di Panzieri 

Per concludere questa riflessione analizziamo come Raniero Panzieri, uno dei padri dell’operaismo, ha letto la traumatica sconfitta della CGIL alla Fiat nel 1955. Essa costituisce il fondamento di una radicale rielaborazione teorica e politica del marxismo italiano portata avanti con il gruppo dei Quaderni Rossi. La sconfitta per Panzieri è il sintomo eclatante di un ritardo catastrofico del movimento operaio organizzato nel comprendere la natura profonda della trasformazione capitalistica in atto nel paese. Di Vittorio fu costretto a un’autocritica pubblica ammettendo che il sindacato non aveva adeguatamente esaminato i mutamenti intervenuti nei vari aspetti della vita produttiva e nell’organizzazione tecnica della struttura salariale, conducendo una lotta troppo schematica e incentrata su campagne politiche astratte mentre ignorava del tutto la mutata realtà delle condizioni di lavoro. Per Panzieri, isolato a Torino ma vicino a frange più avvertite della CGIL locale come quella di Vittorio Foa, questa ammissione apriva uno spiraglio. Individuò proprio nella FIOM torinese, segnata dalle terribili sconfitte subite, un’istituzione relativamente aperta a nuovi temi e quindi potenziale veicolo per una rigenerazione dell’intero movimento operaio. La risposta alla sconfitta non poteva essere un semplice aggiustamento tattico, come l’adozione della contrattazione articolata, ma doveva essere un ripensamento radicale che partisse dal demolire un duplice equivoco teorico: la visione stagnazionista di un capitalismo italiano arretrato e incapace di sviluppo e l’apologia acritica del miracolo economico come progresso tecnico neutrale e oggettivo. Panzieri, in un cruciale incontro redazionale dell’agosto 1961, affermò che i due termini capitalismo e sviluppo sono la stessa cosa, intendendo con ciò che lo sviluppo non era un generico progresso ma la forma storica specifica assunta dalla riproduzione allargata del rapporto capitalistico e delle sue immanenti contraddizioni di classe. Questa intuizione fu potentemente rafforzata dal saggio di Mario Tronti, La fabbrica e la società, pubblicato sul secondo numero della rivista Quaderni Rossi. Tronti, attingendo all’analisi di Marx sul macchinismo in Inghilterra, dimostrò come la pressione della classe operaia avesse costretto il capitale a modificare la propria composizione interna, intensificando lo sfruttamento attraverso l’innovazione tecnologica. Lo sviluppo capitalistico era dunque un processo dialettico innescato e plasmato dalla lotta di classe. Inoltre Tronti teorizzò il concetto di fabbrica sociale. Il capitale, avendo colonizzato ogni territorio esterno alla produzione, ora avviava un processo di colonizzazione interna per cui l’intera società diventava un’articolazione della produzione, funzionale alla fabbrica e da essa dominata. Lo Stato, invece, tendeva a fondersi con la figura del capitalista collettivo, smascherando ogni illusione sull’autonomia del politico. L’unico punto di vista per decifrare questa nuova realtà era, per Tronti, quello dell’operaio in fabbrica. È su questo terreno che fiorisce l’analisi concreta della nuova composizione di classe. Il lavoro pionieristico di Romano Alquati alla Fiat e alla Olivetti, condotto attraverso l’inchiesta operaia, rivelò l’emergere di quelle che chiamò nuove forze. Alla Fiat la gestione aveva operato una rivoluzione silenziosa. A partire dal 1949, con la parcellizzazione del lavoro, e poi dopo il 1953 con l’introduzione di macchine che richiedevano poca o nessuna formazione, era riuscita a cambiare radicalmente la composizione della forza lavoro. Il vecchio nocciolo operaio professionale fu dequalificato o marginalizzato mentre sulle linee di montaggio fu introdotta una massa di giovani inesperti. Il mito del salario Fiat, delle carriere e delle nuove professionalità fu smontato pezzo per pezzo. Alquati dimostrò che i nuovi assunti rimanevano bloccati nei livelli più bassi, le prospettive di carriera erano un’illusione e che il sistema delle qualifiche aveva una funzione fondamentalmente politica, non tecnica: accettare le gerarchie come fatto naturale per combattere il bisogno di autogestione che il progresso tecnico stesso suscitava. L’alienazione di questi operai si traduceva in un profondo cinismo e nella percezione dell'”assurdità” dell’organizzazione del lavoro. La delusione per le promesse non mantenute del consumismo e della carriera poteva diventare, come notò Alquati, il terreno per una resistenza collettiva che individuava un nesso politico tra lo sfruttamento in fabbrica e la determinazione della vita sociale fuori. Questo potenziale antagonismo raramente si traduceva in adesione al sindacato tradizionale o ai partiti di sinistra, visti come entità burocratiche, distanti e organicamente legate alla mentalità della “vecchia” forza operaia. Si creava così un circolo vizioso per cui i giovani operai rifiutavano le piattaforme sindacali perché astratte mentre i sindacalisti più avveduti si sentivano smarriti di fronte a un abisso generazionale e valoriale che li separava da questa nuova classe. La risposta politica che ne scaturì fu quindi duplice e, in nuce, già contraddittoria. Panzieri sosteneva la necessità di una paziente inchiesta e di un lavoro di formazione di quadri per sviluppare una linea politica di classe in grado di tradurre il rifiuto operaio in un progetto alternativo di gestione socialista. L’ala più radicale del gruppo cominciava a vedere nell’autonomia del comportamento operaio, dallo sciopero a scacchiera al sabotaggio, il germe di una nuova forma di organizzazione direttamente antagonista che doveva rompere ogni mediazione con le strutture sindacali, ormai giudicate irriformabili e funzionali al capitale. La rottura definitiva avvenne con i violenti scontri di Piazza Statuto nel luglio 1962, quando operai in rivolta, per lo più militanti di base della UIL furiosi per un accordo separato, assaltarono la sede del sindacato. Molti dirigenti del movimento operaio, incluso Vittorio Foa, bollò l’evento come una manifestazione di patologia estremista. Per i futuri operaisti, invece, Piazza Statuto fu una sorta di “congresso fondativo”, la prova che la nuova classe operaia stava cercando forme di lotta oltre e contro le istituzioni tradizionali. Per Panzieri fu un trauma che segnò il fallimento del suo progetto di rinnovare il sindacato dall’interno e lo portò a una drammatica rottura con Tronti, accusato di elaborare una filosofia della storia della classe operaia hegeliana e avventurista. La morte di Panzieri nel 1964 chiuse definitivamente un’epoca ma il solco da lui tracciato, l’analisi della composizione di classe, la critica della tecnologia come rapporto sociale, il metodo dell’inchiesta, diventerà il patrimonio da cui nascerà l’operaismo italiano.

Bibliografia

AA.VV., Fiat 1955. Giuseppe Di Vittorio e la sconfitta della Cgil alle elezioni delle Commissioni Interne, Ediesse, Roma 2009

P. Lange, G. Ross. M. Vannicelli, Unions, Change and Crisis: French and Italian Union Strategy and the Political Economy, 1945-1980, George Allen & Unwin, Londra 1982

C. Vallauri, Storia dei sindacati nella società italiana, Futura Editrice, Roma 2022

S. Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo, Edizioni Alegre, Roma 2008

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