— Emanuele
La corona-crisi si sta scatenando con tutta la sua forza nell’ex-superpotenza americana. Negli Stati Uniti, infatti, le file-per-il-pane sono sempre più lunghe alle banche del cibo, il tasso di disoccupazione è ormai del 25% (ovvero un lavoratore su quattro è attualmente senza lavoro), ed è mal-tamponato dai sussidi federali, che per quanto spesso siano superiori al salario normale, si rivelano inutili per la popolazione vessata dalle assicurazioni, dai mutui, dalle banche, cui di fatto va la maggior parte dei 1.200$ concessi dal governo esclusivamente in due volte tantum come indennità di disoccupazione, e ancora attesi da molti americani. La distribuzione delle risorse in tempo di crisi pandemica e socioeconomica è stata estremamente impari da parte del governo Trump: analizzando l’entità della manovra economica per la pandemia, c’è stato un taglio delle tasse di 6.000 miliardi, di cui il 98% dell’ammonto è scorciato dalle tasse all’1% più ricco; 7.300 miliardi di supporti finanziari alle borse e ai titoli americani; 1.200 miliardi per i salvataggi delle multinazionali – nel complesso, è evidente come, su un totale di 14.850 miliardi disposti dal governo federale per affrontare la crisi, il 95% sia andato direttamente all’1% più ricco della popolazione sotto forma di aiuti anti-fallimento dei maggiori gruppi finanziari ed economici del paese americano.
Da questa gestione indubbiamente lacchè degli interessi delle multinazionali e dei grandi gruppi finanziari-industriali, si evince la natura plutocratica ed oligarchica dell’amministrazione statale statunitense, che segue gli interessi non della maggioranza della popolazione, bensì di una ristretta e ricchissima minoranza. Non solo sul trono della presidenza del paese vi siede un miliardario, ma l’intera macchina politica del paese è incastrata e immobilizzata dallo strapotere dei grandi capitali, che influiscono o addirittura predeterminano quello che si è autodefinito come «processo democratico», corrompendo la già fragile struttura puramente formale della democrazia americana imbastita alla fine del XVIII secolo in una vera e propria gestione plutocratica del potere.
In primo luogo, l’esempio più lampante è la forma stessa delle elezioni statunitensi, che coinvolgono esclusivamente le due fazioni d’interesse maggiori (che erano un unico partito fino al 1828), e hanno espresso ogni presidente fin dal 1801 (Democratici-Repubblicani, che si scindono in Democratici e Whigs, i quali diventano i Repubblicani nel 1854). Esse si strutturano sull’antica forma del sistema elettorale maggioritario secco (first past the post), con circoscrizioni coincidenti con gli stati, che nominano un numero di delegati proporzionale alla popolazione dell’ultimo censimento. Questo sistema, impiegato sostanzialmente per ogni carica politica del paese, sia a livello nazionale che a livello statale, rende impossibile la reale comparsa di un’alternativa al falso bipolarismo che regge lo Stato da 219 anni, sclerotizzando la vita politica attorno a due poli di interesse oligarchico.
In seconda istanza, il partito Democratico e il partito Repubblicano sono entrambi responsabili della situazione attuale negli Stati Uniti, ed entrambi sono fortemente influenzati dal potere economico che regge lo Stato. Ad esempio ci sono le ultime primarie democratiche – attualmente sospese a causa della pandemia – in cui il ruolo dei candidati, fra cui due miliardari e quasi tutti milionari, si è rivelato non tanto quello di promuovere la propria legittimità nella candidatura alla presidenza, quanto quello di ostacolare le istanze promosse e impersonate dal progressista Bernie Sanders. A questo fine si motivano gli assurdi ritiri dalle primarie poco prima di tornate importanti (i cosiddetti SuperTuesday e MiniTuesday), volti a favorire il candidato anti-Sanders più papabile, che si è rivelato essere il piano originale del DNC: Joe Biden, le cui orrende figuracce mediatiche, sintomo di una sempre più evidente demenza senile, non hanno fatto desistere il Comitato Nazionale Democratico nel promuovere a tutti i costi la sua vittoria. Con ciò, sorgono curiose le rimonte elettorali, addirittura di decine di punti rispetto alla media dei sondaggi, con cui Biden ha potuto rafforzare ed egemonizzare la sua corsa nelle primarie dopo che Klobuchar, Buttigieg, Warren, Yang, Steyer e Bloomberg si sono ritirati conferendogli più o meno subito il proprio sostegno. Secondo il protocollo interno dell’ONU, si considerano brogliate quelle elezioni, primarie, locali, o nazionali, che vedono la vittoria di un candidato con uno scarto di oltre il 5% rispetto ai sondaggi. Nel caso di Biden, si è arrivati al +29% in Minnesota, +21% in Alabama, +16,8% in Massachusetts, +15,7% in Virginia, +12,9% in Arkansas, +11,7% in Tennessee, e al +11,4% in Maine e Vermont. Un aumento elettorale prodigioso, e solo parzialmente spiegabile coi ritiri degli altri candidati “centristi” immediatamente prima delle votazioni.
C’è inoltre un altro aspetto fondamentale che costituisce un fattore discriminante all’interno della politica statunitense, quello dei super-finanziatori. Di fatto, i miliardari Tom Steyer e Michael Bloomberg, candidati per i Democratici, hanno potuto approfittare di una deroga da parte del DNC per poter partecipare al dibattito del 19 febbraio, visto il loro tentativo di comprarsi la candidatura presidenziale con una massiccia campagna mediatica. Il 31 gennaio, infatti, il DNC ha fatto sapere di aver cancellato il vincolo di 10.000 finanziatori di base (che garantiscono l’effettivo sostegno popolare) per poter partecipare al dibattito prima del caucus dell’Iowa e delle primarie del New Hampshire, facendo bastare semplicemente l’aver superato il 10% in quattro sondaggo nazionali, o aver superato il 12% in due sondaggi statali per il Nevada o la Carolina del Sud, o aver garantito – in sondaggi locali – almeno un delegato nelle primarie dell’Iowa, New Hampshire. Se Steyer non è riuscito a superare i sondaggi, Bloomberg, autofinanziando la propria campagna per l’inusitata cifra di mezzo miliardo di dollari, si è trovato la strada spianata nella sua corsa per l’acquisto vero e proprio della candidatura, con buona pace del sostegno popolare reale.
Da ciò si scorge l’entità e l’importanza dei super-finanziatori, ovvero miliardari rappresentanti i grandi gruppi economici che si promuovono all’interno delle due fazioni politiche americane all’interno di una cornice apparentemente bipolarista, l’apporto milionario di questi gruppi di pressione, per incentivare la candidatura politica di uno o dell’altro candidato, costringono di fatto la scelta del popolo in una spietata preselezione a favore degli interessi affaristici maggiori: ecco che la potenza a «guida del mondo libero» si ritrova strutturalmente invischiata in un sistema dove le potenti oligarchie possono permettersi di scegliere i candidati che saranno poi proposti alla massa popolare, attraverso un sistema di elezione indiretta (per poter mantenere comunque l’ultima parola su chi debba guidare il paese in cui depositano grandi interessi e da cui estraggono grandi profitti).
A questa logica, invisa a molti americani per quanto sia considerata propagandisticamente come una perfetta macchina “democratica”, si inserisce il ruolo fondamentale dei media di massa nel pilotare o distorcere la realtà a seconda degli interessi del gruppo proprietario. Dunque si vede il Washington Post attaccare apertamente Sanders e le sue proposte politiche, per invece interpretare sempre positivamente le parole senza senso, o che rivelano un senso estremamente gretto e conservatore, di Biden, creandogli attorno un alone di decency ed eligibility. O si trovano la CNN e la MSNBC modificare artificiosamente le grafiche, i sondaggi a volte in maniera quasi ridicola – fare di tutto, perché, come ha saggiamente dichiarato Joe Biden, «gli americani non vogliono una rivoluzione».
Invece sembra sempre più che le politiche socialdemocratiche di Sanders non fossero la rivoluzione, ma l’ultima possibilità di compromesso tra la classe lavoratrice e i grandi gruppi oligarchici che detengono di fatto il potere, attraverso le leve finora esposte in questo lungo preambolo.
«Coloro i quali rendono impossibili le rivoluzioni pacifiche, renderanno inevitabili le rivoluzioni violente»
John F. Kennedy
I fatti di Minneapolis, che sono dilagati e dilagano a macchia d’olio in quasi tutti gli States, eccetto, finora, il Kansas, non si spiegano semplicemente con la questione razziale. Non è l’oppressa minoranza nera il soggetto della Grande Rivolta Americana, e sostenerlo significa non comprendere il pesante senso di frustrazione e di assenza di futuro che pervade la classe lavoratrice americana; tuttavia, sicuramente una parte consistente e grave di malessere è della minoranza nera, mai totalmente integrata, mai totalmente libera nonostante siano trascorsi gli otto anni del guerrafondaio premio Nobel per la pace, presidente Barack Obama, senza nessuna soluzione radicale all’assenza di futuro della maggioranza della popolazione. Il governo Obama si è rivelato essere uno dei più grandi colpi al mito razziale americano, secondo cui i conflitti e le grandi questioni irrisolte degli Stati Uniti stiano non tanto nell’implicita lotta di classe, quanto invece nelle divisioni etniche: non è bastato eleggere un presidente nero per cambiare di una virgola la realtà, e quindi non è l’essere nero, o bianco, o asiatico, o nativo americano, o latino a determinare le azioni politiche e l’aderenza alla causa della sofferenza della minoranza nera (e della classe operaia americana).
La Grande Rivolta ha anche messo definitivamente in crisi il modello apparentemente bipolarista della politica americana, dal momento che non solo i repubblicani hanno reclamato a gran voce l’intervento dell’esercito, della Guardia Nazionale, dei droni e della Polizia Militare, ma in egual misura anche i democraticissimi stati come la California, Washington, o lo stesso Minnesota la cui città maggiore, Minneapolis, è retta da un sindaco democratico, o addirittura il Michigan, dove qualche settimana fa il Senato locale è stato occupato dai terroristi paramilitari anti-lockdown, senza che la polizia muovesse un dito – sollevando invece il sospetto che fosse connivente con loro, e che facessero comodo politicamente allo status quo, dal momento che intimorivano la popolazione.
Alla base, la questione scatenata con l’omicidio per soffocamento dell’inerme George Floyd è la violenza e lo strapotere delle forze militari e di polizia negli Stati Uniti, che hanno risposto esattamente con una rinnovata ferocia e violenza contro i loro colleghi di classe, i lavoratori, i disoccupati, gli indebitatissimi studenti, o gli anziani senza speranza di pensione. Su questo, si è innestato un annoso dibattito sulla legittimità dell’uso della violenza tra i manifestanti. È però da evidenziare un punto di partenza: se la rivolta non fosse stata violenta, non avrebbe ricevuto alcuna attenzione, e quindi non avrebbe riscosso nessun interesse da parte di coloro che ritengono più importante la salvaguardia dei beni e delle merci che la salvaguardia della vita delle persone. E così infatti è stato per molti anni, con l’ondata di manifestazioni contro l’ultimo omicidio commesso dalla polizia, che se prima coinvolgevano la città e i dintorni, via via la loro forza, col degradare delle condizioni di vita e l’aumentare del furore contro un sistema marcio e polarizzato, si allargavano allo stato, alla regione, e ora all’intera nazione.
«Non dobbiamo dipingere il socialismo come se i socialisti ce lo porteranno su un vassoio d’argento. Non accadrà mai. Non un singolo problema della lotta di classe è stato mai risolto nella storia senza la violenza. Quando la violenza è esercitata dai lavoratori, dalla massa degli sfruttati contro gli sfruttatori, proprio per questo ci siamo!»
Vladimir I. Lenin, Discorsi del 1917-1919
Tutta la polemica contro l’uso a priori della violenza, con tanto di super-esempi riverniciati di liberalismo quali Gandhi, il comunista Mandela e quel Martin L. King che reclamava la liberazione della classe lavoratrice e la necessità umana del socialismo, non considera minimamente né l’evoluzione storica delle manifestazioni negli ultimi anni, né soprattutto la violenza quotidiana cui ora il popolo si rivolta: il ricatto della sopravvivenza in cambio del salario; della violenza da parte delle forze di polizia (p. es. il 40% dei poliziotti commette violenza domestica e spesso non viene punito se non col licenziamento e l’avvio a una florida carriera nelle milizie private); da parte delle frange terroristiche accudite e rinnegate dall’establishment americano (le sparatorie scolastiche si sono arrestate per la prima volta dopo decenni, in concomitanza con la quarantena); il debito studentesco che ha raggiunto quota 1.640 miliardi, con una media di 35.397$ di debito per studente per pagarsi gli studi, sintomo di un’economia basata sulla spremitura dei salari fino all’ultimo dollaro, e anche oltre, in quote sempre maggiori di debito privato; e così via.
Un altro aspetto riguardo la questione dell’uso della violenza: il non-uso della violenza significa che solo lo Stato è legittimato ad utilizzarla per difendere gli interessi dell’estrema minoranza di cui è strumento di potere? Questo si nota soprattutto sull’inaudita risposta di violenza che lo Stato americano riversa sui propri sottoposti, col coprifuoco notturno istituito in gran parte del paese, totalizzando in sette giorni oltre 5.600 arresti indiscriminati, schierando la polizia militare e la Guardia Nazionale contro le manifestazioni – al contrario della Repubblica Popolare Cinese, dove gli arresti in oltre un anno di proteste ad Hong Kong sono 9.000 (una volta e mezzo in più in un lasso di tempo 63 volte maggiore), e dove non ha mai schierato l’esercito contro il suo popolo – contro la reazione così violenta da parte delle strutture di potere politico ed economico nel reprimere il proprio popolo, che altro non si può usare se non la violenza?
«È necessario usare la violenza un’ultima volta, per fare in modo che non sia mai più usata violenza»
Vladimir I. Lenin, Che fare?
Donald Trump, lungi dall’essere legittimo vista la grande e crudele violenza che si diffonde per suo ordine contro il proprio popolo, cerca di distrarre l’opinione pubblica col lancio del Falcon-9 da Cape Canaveral, enfaticamente 100% Made in USA, mentre si intestardisce in tafferugli contro Twitter per i propri messaggi di violenza, e dichiara infine gli antifascisti come organizzazione terroristica. Però questi sono lungi dall’essere organizzati centralisticamente, dal momento che non c’è un’organizzazione effettiva e unica che risponda al nome di “Antifa”, quanto è invece un riferimento culturale di lotta al fascismo e specialmente al nazismo, piuttosto radicato e sfumato nei gruppi supremazisti sulla linea del KKK e del NSA. È il capolavoro e il sogno della peggior destra americana, ora però rintanata in casa, impotente e spaurita dopo che la retorica autocostruita di una sinistra e di una popolazione effimera e debole, nella difesa della propria dignità e della propria affermazione, è stata spazzata via dal furore della rivolta.
Ma il Furore del popolo, o meglio, gli acini d’ira (The Grapes of Wrath), per citare il capolavoro di Steinbeck, è ormai scatenato, e soltanto i mezzi della più violenta e orrenda repressione possono respingere, ancora una volta, la marea furibonda che aumenta di forza. La repressione può solo allontanare il momento di implosione del capitalismo, via via che si avvicina al suo asintoto esasperando le sue interne contraddizioni, riprendendo la concezione di Wallerstein sulla teoria dei sistemi-mondo. Potrebbe proseguire all’infinito, ma l’umanità non ha infinita pazienza, specialmente quando la sua organizzazione spontanea dà alla luce nuove forme di società ed economia, dietro la linea del fronte che pone d’assedio il Campidoglio e fa rintanare Trump nel bunker della Casa Bianca: a Minneapolis, e via via in altre città in rivolta, i “saccheggi” che hanno fatto raccapricciare i paladini della proprietà, gli scudieri della merce, si sono mutati in scambi di mutuo soccorso, dove si dà secondo il proprio bisogno e si prende secondo le proprie capacità.
«La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune. […] Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli: e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno»
Atti degli Apostoli, 4, 32-35