Il seguente testo è stato pubblicato dalla casa editrice Pgreco come introduzione al primo volume di Le lotte di classe in URSS 1917-1923.
- Introduzione
Charles Bettelheim si avvicina al movimento comunista militando nella Jeunesses communiste per poi aderire nel 1933 al Partito Comunista Francese (PCF). Nel 1936 fece un viaggio in Unione Sovietica e in seguito riuscì ad ottenere un permesso di soggiorno per alcuni mesi. Durante questo periodo di permanenza nel paese emerse un forte disincanto per l’esperienza sovietica, a causa del clima di terrore causato dalle purghe staliniste, e ruppe con il PCF. Nonostante ciò, rimase comunista e non mancò di dare contributi nel campo della teoria per il rinnovamento del marxismo. Nel 1937 iniziò la sua carriera universitaria, studiando giurisprudenza e specializzandosi in economia, in particolare lo studio della pianificazione economica e dei problemi delle economie socialiste. Nel 1939 pubblica la prima edizione francese del libro La pianificazione sovietica che verrà pubblicato dopo la guerra anche in Italia.
Studiare i problemi della pianificazione economica lo porterà, dal 1950 in poi, a prendere parte ai molti dibattiti internazionali di quel periodo su questo tema, specialmente quelli legati ai processi di decolonizzazione e allo sviluppo dei paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Queste competenze gli permisero, tra gli anni ‘50 e ‘70, di diventare un consulente per molti paesi asiatici e africani come l’India, l’Egitto o l’Algeria.
Negli anni ‘60 partecipa anche ad un fondamentale dibattito economico1 a Cuba con Che Guevara e Fidel Castro. L’economia cubana si trovava nella morsa dell’embargo americano che ostacolava l’importazione di materie prime. A ciò si aggiungeva la dipendenza dalla vendita dello zucchero. Gli economisti socialisti si scontrarono sull’opportunità o meno per Cuba di imitare il modello di sviluppo sovietico, apparentemente ben collaudato. Questo modello era incarnato nel cosiddetto Sistema di Calcolo Economico. Secondo i suoi sostenitori, le imprese cubane dovevano essere giuridicamente indipendenti, ma dipendenti dalle banche per il credito, scambiare i propri prodotti utilizzando il mercato ed essere valutate in base alla loro redditività, promuovendo l’efficienza e la produttività attraverso gli incentivi materiali. Che Guevara sosteneva, invece, il modello del Sistema Budgetario di finanziamento in cui le imprese avevano meno autonomia ed erano controllate tramite le decisioni del piano economico centrale. Le imprese, quindi, si dovevano trasformare in unità più piccole di un’entità più grande, il settore economico pianificato centralmente. I prodotti di queste imprese dovevano essere considerate merci unicamente nel momento dello scambio sul mercato. La redditività non doveva essere il criterio con cui determinare il successo di un’impresa e i lavoratori non dovevano essere motivati tramite incentivi materiali. Bisognava fare affidamento sulla loro coscienza politica e morale. Infine, in questo sistema la banca centrale avrebbe avuto lo scopo di stabilire un rigoroso controllo sulle imprese, allocando centralmente i fondi necessari. Charles Bettelheim all’epoca difese l’ortodossia sovietica in contrapposizione al soggettivismo rivoluzionario di Che Guevara. Per l’economista francese era necessario difendere l’autonomia delle imprese a causa del basso livello di sviluppo delle forze produttive che imponeva un’economia ancora basata sulla legge del valore.
Nel 1965 questo dibattito, uno dei più importanti sulla transizione socialista dagli anni ‘20, finì apparentemente con la vittoria di Che Guevara. Nel 1968 Cuba nazionalizzò le ultime imprese private non agricole, eliminando il mercato come mezzo di scambio. Il governo cubano puntò sulla produzione agricola e di zucchero per la propria crescita economica mentre le massicce nazionalizzazioni sconvolsero l’economia e gli incentivi politici e morali non furono in grado di arrestare il crollo della produttività del lavoro e la cattiva gestione delle imprese. Nel 1970 il governo cubano tentò di raccogliere 10 milioni di tonnellate di zucchero, il doppio del raccolto del 1968, allocando ancora più risorse verso questo settore. Fu un fallimento che portò, poco dopo, all’adozione del modello di sviluppo economico sovietico.
Negli anni ‘60, grazie all’incontro con il pensiero di Louis Althusser e alla crisi sino-sovietica, modificò radicalmente il suo approccio ai problemi della transizione al socialismo. Bettelheim iniziò a sviluppare una critica della politica economica dell’URSS e si interessò alle politiche economiche della Cina maoista.
Nel periodo compreso tra il 1962 e il 1967, i testi raccolti nel libro La transizione all’economia socialista rompono esplicitamente con l’economicismo sovietico.
Questi cambiamenti nelle sue ricerche lo portarono ad interagire con le organizzazioni politiche maoiste mentre parallelamente si affermava a livello internazionale come un grande intellettuale marxista. In questo periodo iniziò ad organizzare dei seminari sul socialismo all’École Pratique des Hautes Études.
Tuttavia, è con il libro Calcolo economico e forme di proprietà del 1972 che vengono gettate le basi teoriche su cui verrà costruita la ricerca che confluirà nei tomi di Le lotte di classe in URSS. Il libro analizza la transizione socialista in URSS e le sue contraddizioni.
Per l’economista francese dobbiamo abbandonare l’idea secondo cui la trasformazione dei rapporti di produzione è subordinata allo sviluppo delle forze produttive. Quando analizziamo una società di transizione, ieri come oggi, occorre analizzare la trasformazione dei rapporti di produzione.
Come sostiene Maria Turchetto nel saggio Il dibattito sul “socialismo reale”. Alla ricerca di categorie per pensare omologie e differenze tra società dell’Est e capitalismo occidentale2, per analizzare le società di transizione dobbiamo riprendere in mano la critica dell’economia politica di Marx. Con il termine critica però, non stiamo indicando una semplice confutazione o la generica accusa di mistificazione. La realtà è dotata di spessore, perciò abbiamo un livello superficiale, empiricamente evidente, delle relazioni sociali che fungono da schermo a rapporti e determinazioni profonde. Quello che il marxismo sovietico ha fatto è criticare il capitalismo non come modo di produzione ma come modo di distribuzione. I comunisti sovietici volevano ottenere un’equilibrata distribuzione del lavoro sociale e dei valori d’uso prodotti tra diversi settori, branche della produzione e unità produttive separate. La soluzione è stata la “pianificazione socialista” per poter ottenere l’equilibrio nella distribuzione che l’anarchia del mercato capitalista non può garantire quando lo sviluppo delle forze produttive accresce l’interdipendenza dei settori economici. Viene meno ogni idea di critica perché scompare ogni ricerca dei rapporti profondi occultati da nessi sociali superficiali. Il capitalismo viene definito come modo di distribuzione basato sullo scambio mercantile e ciò impedisce di vedere il rapporto di subordinazione reale del lavoro al capitale nella produzione. Questo rapporto non viene scalfito minimamente dalla pianificazione e dalla proprietà statale dei mezzi di produzione.
L’industrializzazione sovietica imitò il modello capitalistico e col suo progredire la struttura perse il suo carattere provvisorio e l’URSS si dedicò con impegno a un’organizzazione del lavoro che differisce soltanto nei dettagli da quella dei paesi capitalistici.
Infatti un diverso meccanismo di distribuzione del lavoro sociale non modifica, da solo, né le forme di erogazione del lavoro in cui il dominio capitalistico si incarna, né la stratificazione di ruoli sociali che deriva dalla divisione capitalistica del lavoro. Questo ovviamente, si riflette anche nei criteri con cui viene costruito il piano. Per Charles Bettelheim la pianificazione economica, infatti, può benissimo dispiegarsi utilizzando categorie mercantili spacciate per socialiste che finiscono per riorganizzare i meccanismi di mercato. Le unità economiche assumono il comportamento di una qualsiasi impresa che partecipa ai meccanismi di produzione sociale e di circolazione utilizzando categorie mercantili. Tra di loro, quindi, intrattengono dei rapporti di mercato. Il piano economico non riesce ad intaccare l’indipendenza dei processi di lavoro che avvengono al loro interno. L’esistenza dell’impresa porta con sé anche la moneta e i prezzi per gestire ricavi, spese, contributi al fondo sociale di accumulazione e il proprio bilancio. Dal momento in cui esistono uno Stato operaio e la proprietà statale dei mezzi di produzione, i rapporti di mercato finiscono per essere dominati dai rapporti economici pianificati. Una situazione tipica della transizione al socialismo. Nel caso in cui i rapporti mercantili vengano progressivamente eliminati, non grazie ad un preciso piano economico ma al dominio effettivo da parte dei lavoratori, si consolida la transizione al socialismo. Questo processo, però, è reversibile e dipende unicamente dalla lotta di classe. Le società di transizione sono caratterizzate anche dalla separazione dei lavoratori dai loro mezzi di produzione. Questo prodotto della sussunzione reale del lavoro nel capitale espropria del proprio sapere i lavoratori e gli impedisce di gestire i mezzi di produzione. Si tratta di un problema legato alla ricomposizione tra lavoro manuale e intellettuale che si può unicamente risolvere trasformando i rapporti di produzione. In questa situazione, ci ricorda Gianfranco La Grassa3, non può esistere un calcolo economico-sociale figlio di decisioni coscienti dei lavoratori e basato sul lavoro socialmente necessario alla produzione delle merci. Il calcolo economico effettuato, infatti, è ancora monetario. La moneta finisce per esprimere l’esistenza della forma valore capitalistica in queste società.
L’ultima fase della biografia intellettuale di Charles Bettelheim che affrontiamo insieme coincide con la scrittura del primo tomo di Le lotte di classe in URSS nel 1976. L’obiettivo dell’economista francese era dimostrare la possibilità di un’analisi scientifica dei problemi della transizione al socialismo della società sovietica e della capacità di sviluppo del marxismo spiegando da un punto di vista materialista il quadro storico e le ragioni delle difficoltà incontrate dal primo esperimento socialista nella storia dell’umanità, senza aggrapparsi alle tesi all’epoca dominanti.
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2. Il contesto storico
Charles Bettelheim affronta nel primo volume di Le lotte di classe in URSS il modo in cui il partito bolscevico ha guidato, in quanto avanguardia del proletariato, la Rivoluzione d’Ottobre e le sfide della transizione socialista nel periodo compreso tra il 1917 e il 1923, quando Lenin era ancora in vita.
Per affrontare questi argomenti è necessario inquadrare la situazione della Russia nel 1917.
“La Russia […] è al tempo stesso un paese imperialista e un paese fortemente dipendente dall’imperialismo mondiale (principalmente dagli imperialismi francese e inglese), il quale ha investito miliardi di franchi sia in prestiti allo Stato zarista, sia nell’estrazione del petrolio e del carbone e nelle industrie siderurgiche e meccaniche. La dipendenza dal capitale inglese e francese è una delle cause della debolezza dell’imperialismo russo ed è al contempo una conseguenza della forma specifica assunta dallo sviluppo dell’imperialismo in Russia, il cui capitalismo industriale ha basi molto ristrette. L’imperialismo russo ha quindi un duplice carattere, è l’espressione della stretta combinazione di due forme d’imperialismo: imperialismo capitalistico e imperialismo “precapitalistico”. Al primo corrispondono un alto grado di concentrazione capitalistica nell’industria e l’esistenza di un capitale bancario intimamente legato al capitale industriale, tale così da costituire un capitale finanziario che spinge all’espansione imperialistica e si allea con l’imperialismo anglo-francese. Al secondo corrisponde l’espansionismo essenzialmente “militare” della Russia. Le basi economiche di questo espansionismo richiederebbero un’analisi a parte. Qui è sufficiente sottolineare che esso affonda le sue radici nelle contraddizioni interne della società russa, le quali spingono lo Stato zarista a una serie d’interventi che aprono la via al capitalismo russo. Una volta che questo si è formato, le contraddizioni della vecchia società russa e quelle del capitalismo nascente spingono lo Stato zarista a proseguire l’espansione militare e ad appoggiare lo sviluppo dell’industria capitalistica russa con svariati mezzi, in particolare con l’aiuto della cosiddetta legge di “emancipazione” dei servi (promulgata nel 1861), la quale permette di realizzare un’accumulazione di Stato a spese delle masse contadine”4.
Bettelheim riesce ad individuare una delle caratteristiche principali del percorso di sviluppo della Russia, ovvero, la sua natura strettamente periferica. Tuttavia, mentre nel XVI secolo in Russia gli occidentali cercavano materie prime da importare per lo sviluppo della propria economia, alla fine del XIX nell’impero russo ricercavano un superprofitto coloniale, garantito dalle commesse statali. La Russia divenne una meta ambita per gli investitori occidentali grazie ai suoi alti tassi di profitto e alle commesse governative. Il conte Witte, all’epoca il principale responsabile della politica economica dell’Impero russo, varò una riforma monetaria che trasformò il rublo in una delle divise più importanti d’Europa, diventando, in Occidente, più costosa dell’oro. L’obiettivo era attrarre capitali stranieri mantenendo la bilancia dei pagamenti attiva grazie alle esportazioni di grano.
Mentre la moneta si rafforzava, permettendo agli investitori stranieri di sostenere il costo del protezionismo russo importando a basso costo macchinari e utensili mentre il governo russo otteneva sempre più prestiti sui mercati finanziari, aumentava anche la spesa pubblica per la costruzione di infrastrutture, come le ferrovie che seguivano sempre gli interessi del capitale straniero in Russia, e di macchine utensili. Approfittarono di questa situazione favorevole gli investitori francesi, con le loro risorse finanziarie, e belgi, giocando il ruolo di junior partner dei francesi, ma portando con sé la tecnologia di uno dei paesi più industrializzati d’Europa.
“I giganteschi prestiti presi dal governo russo sui mercati finanziari di Parigi e di altri Paesi avevano a che fare con i profitti degli imprenditori occidentali, quindi il debito pubblico cresceva, perché bisognava pagare enormi commesse governative, attirando capitali stranieri. Allo stesso tempo, era necessario mantenere un “rublo forte” senza tagliare i contratti governativi, e di conseguenza il governo doveva aumentare la pressione finanziaria, costringendo la popolazione a pagare per lo sviluppo. I contadini sovvenzionavano l’industria che veniva costruita con il pagamento di tasse all’erario. Poiché il denaro non era sufficiente, furono necessari nuovi prestiti. E così inevitabilmente la Russia doveva pagare due volte: i dividendi agli investitori stranieri e i debiti statali con cui erano stati finanziati questi profitti”5.
Queste riforme preparano la rivoluzione del 1905 mentre quelle di Stolypin quella del 1917. Stolypin promosse una riforma di compromesso tra capitale industriale e commerciale, provando a creare un contadino ricco che fosse il motore dello sviluppo capitalistico delle campagne. I contadini avevano il diritto di lasciare la propria comunità per insediarsi in terreni liberi. Questa riforma venne realizzata in una campagna che non aveva subito, nei cinquant’anni dall’abolizione della servitù della gleba, quella trasformazione capitalista attesa. Anzi, la distruzione delle comunità contadine ha portato alla borghesizzazione e proletarizzazione di parte della popolazione rurale, con il secondo processo che procede in maniera più veloce del primo, come in tutti i paesi arretrati. Questo portò all’aumento dei cittadini inattivi che non potevano essere assorbiti dal capitale urbano e rurale e frenò l’aumento dei salari a causa della nuova offerta di lavoro prodotta.
“All’inizio del 1915, quando per la guerra ci fu una battuta d’arresto della riforma, il 30% dei contadini che avevano lasciato la comunità aveva venduto le proprie terre. In altre parole, invece di diventare contadini di tipo occidentale, diventarono operai, proletari rurali, Lumpenproletariat”6.
Quindi, il terreno per la rivoluzione fu ampiamente preparato dal fallimento della modernizzazione capitalista russa.
Tra il febbraio e l’ottobre del 1917 le parole d’ordine dei bolscevichi contro la guerra imperialista, inizialmente minoritarie nei soviet, ad eccezione di quelli dei grandi centri industriali, penetrano con maggiore forza nel proletariato, al fronte e in città, mettendo in discussione quel dualismo di potere tra governo provvisorio e soviet che aveva caratterizzato la prima fase della rivoluziona russa. Gli operai avevano capito, grazie alla persistenza dell’azione di propaganda dei militanti bolscevichi, che socialisti rivoluzionari (SR) e menscevichi volevano portarli in un vicolo cieco e l’unica soluzione era un governo sovietico diretto dai bolscevichi disposto a portare la Russia fuori dalla guerra. La presenza dei bolscevichi era però molto debole nelle campagne e nei soviet che erano emersi nei villaggi contadini. Qui ancora dominavano indirizzi ideologici estranei al marxismo rivoluzionario.
“Tra il febbraio e l’ottobre 1917, di fatto, l’azione delle masse contadine non riveste quasi la forma sovietica. Dal punto di vista ideologico, le masse contadine restano sotto l’influenza dei S.R. e non pongono il problema del potere. La loro azione è fondamentalmente rivolta alla rivoluzione agraria, concepita in termini di espropriazione e di distribuzione dei grandi latifondi dei proprietari fondiari, dello Stato e del clero. L’azione delle masse contadine del 1917 si pone così in continuità con le azioni contadine del passato: insurrezioni locali ed espropriazioni dirette delle terre”7.
Non ponendosi il problema del potere, in continuità con le insurrezioni contadine del passato, il movimento si sarebbe condannato alla repressione da parte di uno Stato che difendeva gli interessi delle classi possidenti. Tuttavia, senza l’appoggio del movimento contadino, il proletariato urbano non avrebbe avuto la forza per abbattere lo Stato e fondarne uno nuovo al servizio del proletariato urbano e rurale.
Quando i contadini, entrando in contrasto con i SR e il governo provvisorio, iniziano ad occupare le terre, i bolscevichi li appoggiano immediatamente. Capiscono che si è prodotta una rottura nella collaborazione di classe tra borghesia e masse contadine.
“Il fatto che nelle città siano maturate le condizioni per la rivoluzione proletaria e nelle campagne si sia entrati in una nuova fase della rivoluzione democratica conferma le analisi di Lenin, il quale aveva dimostrato che la Russia era l’anello più debole della catena imperialistica e che una rivoluzione proletaria poteva riportarvi la vittoria grazie alla combinazione esplosiva dello sfruttamento delle masse da parte dei proprietari fondiari, dei capitalisti russi e del capitale straniero, e di una oppressione statale al servizio nello stesso tempo delle tendenze espansionistiche dell’imperialismo russo e delle esigenze dell’accumulazione primitiva. Questa combinazione specifica di sfruttamento e di oppressione era la fonte della miseria di vasti strati popolari e dello scontento profondo di una parte dell’intellighenzia. La guerra imperialistica ha acuito all’estremo limite le contraddizioni legate alla situazione della Russia, mentre l’esperienza del governo provvisorio ha provato l’incapacità della borghesia e della piccola borghesia di trarre la Russia fuori della situazione senza uscita in cui si trova. Lo sviluppo sempre più aperto della rivolta delle masse, degli operai, dei soldati e dei contadini, induce il partito bolscevico, e in primo luogo Lenin — giacché numerosi dirigenti bolscevichi sono esitanti — a dare il via all’Insurrezione d’Ottobre”8.
3. Le sfide del processo rivoluzionario
L’instaurazione della dittatura del proletariato non comporta la scomparsa delle classi. Esse rimangono, ma modificate a seguito della trasformazione dei rapporti di produzioni capitalistici. Questa situazione è tipica delle società di transizione, dove il futuro modo di produzione comunista, appena nato, si scontra con un capitalismo “vinto ma non distrutto”.
Continuare a parlare di modo di produzione capitalista implica che borghesia e proletariato esistano ancora in quanto classi e continuino a confrontarsi e scontrarsi ma dentro condizioni sociali mutate dalla vittoria della rivoluzione che ha tolto il potere politico alla borghesia.
“Concretamente, ciò significa anche che i capitalisti e i proprietari fondiari hanno essenzialmente perduto la capacità di “disporre liberamente dei mezzi di produzione”9.
Tuttavia, permangono molti elementi del modo di produzione capitalistico, come la divisione del lavoro, ovvero la divisione tra compiti di direzione e compiti di esecuzione.
Porsi questo interrogativo ci porta inevitabilmente alla critica dell’identificazione della nazionalizzazione dei mezzi di produzione con la trasformazione dei rapporti di produzione.
“La nazionalizzazione dei mezzi di produzione da parte di uno Stato proletario ha come primo e più importante risultato di creare condizioni politico-giuridiche favorevoli alla trasformazione socialista dei rapporti di produzione e, pertanto, alla socializzazione dei mezzi di produzione, ma essa non si identifica con tale trasformazione”10.
Il diritto, in quanto momento necessario della costituzione e riproduzione della società capitalista, non è in grado di modificare le relazioni sociali. Quindi, nazionalizzare una fabbrica o dichiarare la scomparsa della proprietà privata rischia di essere un muro di fumo che nasconde il persistere della lotta di classe.
Con la vittoria della rivoluzione, il proletariato ha solamente acquisito la possibilità di rivoluzionare il processo reale di produzione per generare nuovi rapporti di produzione, nuove forze produttive e una nuova divisione sociale del lavoro. I vecchi rapporti di produzione capitalistici rimangono in piedi nell’attesa che questo compito venga portato a termine. Solo se questo compito è in corso di attuazione si può parlare di transizione socialista.
Questo ci porta a ridefinire il socialismo, esso “non è l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici; è […] la loro trasformazione, la loro distruzione – ricostruzione in rapporti transitori che possono essere considerati come una combinazione di elementi capitalistici e di elementi socialisti o comunisti. La marcia verso il socialismo è il dominio crescente dei secondi elementi sui primi, l’estinzione degli elementi capitalistici e il consolidamento degli elementi socialisti sempre più dominanti”11.
La marcia coincide con un lungo periodo storico contraddistinto dalla lotta di classe guidata da una linea politica giusta che si ponga come obiettivo la trasformazione socialista dei rapporti di produzione. Il partito, dotato di una teoria rivoluzionaria, deve essere capace di esercitare il proprio ruolo dirigente per poter elaborare una tale linea politica con la consapevolezza che non saranno né lo Stato né il partito ad ottenere la trasformazione socialista dei rapporti di produzione ma le vecchie classi sfruttate. I germogli di questa trasformazione furono i primi “sabati comunisti”, cioè lavoro volontario di massa con l’obiettivo di portare a termine rapidamente alcuni compiti produttivi come la riparazione o costruzione di strade. In La grande iniziativa, Lenin li esalta come una novità rivoluzionaria frutto delle iniziative delle masse. Uno dei molti casi di sperimentazione dal basso che bisogna portare avanti con costanza nel tempo per giungere alla strada migliore per abbattere il capitalismo. Queste iniziative vengono meno quando si fa strada lo sviluppo del centralismo amministrativo che, sommato alla guerra civile e al carattere molto limitato di questa trasformazione dei rapporti sociali, deperiscono diventando lavoro gratuito obbligatorio.
Le trasformazioni avvenute tra l’ottobre del 1917 e l’inizio del 1923 hanno strappato le posizioni dominanti alla borghesia e ai proprietari fondiari ma durante questo arco di tempo si assiste alla sostituzione della borghesia privata con una borghesia di Stato che si sviluppa a partire dal debole grado di trasformazione del processo sociale di produzione e riproduzione.
Subito dopo la presa del potere, i bolscevichi adottano misure che non hanno come obiettivo immediato la costruzione del socialismo ma la creazione di un capitalismo di Stato orientato al socialismo che permetta al nuovo potere di consolidarsi.
Vengono promulgati decreti importanti sul controllo operaio, sulla costituzione del Consiglio superiore dell’economia nazionale oppure sulla nazionalizzazione delle banche e il monopolio del commercio estero. Si verificano numerose espropriazioni di imprese commerciali e industriali che tolgono alla borghesia quella base materiale e sociale che la rendeva una frazione della borghesia imperialistica, con tutti i suoi legami con il capitale bancario e finanziario internazionale. Tuttavia, sostiene Bettelheim criticando i “comunisti di sinistra”, le espropriazioni non sono il cuore delle politiche perseguite dai bolscevichi che sono consapevoli dell’impossibilità di ottenere una socializzazione effettiva delle imprese senza le adeguate condizioni politiche e ideologiche. L’economista francese cita Lenin sulla differenza tra esproprio e socializzazione:
“….la socializzazione si distingue dalla semplice confisca proprio perché la confisca si può attuare con la sola “decisione”, senza sapere giustamente calcolare e giustamente distribuire, mentre socializzare senza saperlo fare non si può”12.
La socializzazione prevede la capacità degli operai e del loro partito di coordinare la produzione su scala sociale. Non hanno ancora le adeguate competenze per un simile compito e l’esproprio diventa semplicemente uno strumento della lotta di classe che il nuovo potere sovietico utilizza per indebolire la borghesia e reprimere i suoi atti di sabotaggio.
In questo contesto si inserisce l’istituzione del controllo operaio che ha, in tutte le fabbriche, lo scopo di vigilare l’impiego dei mezzi di produzione. La sua origine sono i vari comitati di fabbrica nati e sostenuti dal partito già nel febbraio del 1917 a cui ora bisogna dare un’organizzazione meno anarchica.
I comitati di fabbrica stavano instillando nella classe operaia l’idea che ogni fabbrica andava intesa come una singola unità produttiva autonoma dalle altre, con la capacità di scegliere cosa produrre, a chi vendere e a quale prezzo, senza alcun coordinamento con un piano generale avente un comune fine politico.
Senza questo piano generale, il coordinamento tra le fabbriche poteva avvenire a posteriori attraverso il mercato oppure attraverso i rapporti di forza tra le varie branche dell’industria o le diverse fabbriche. Oppure non riesce a realizzarsi, producendo una paralisi della produzione industriale come nell’inverno del 1917-1918 e di cui il controllo operaio rappresenta una possibile soluzione.
Tuttavia ciò era visto dagli operai come una “confisca del potere” ottenuto dalla borghesia espropriata, lasciando così ampio spazio ai nemici della dittatura del proletariato, come i menscevichi che incitavano i sindacati a difendere l’autonomia dei comitati di fabbrica.
Questo problema affrontato dai bolscevichi ci permette di guardare con occhio critico a tutte quelle proposte che si basano sull’autogestione e il recupero delle fabbriche. Una linea politica che rimane ancorata ad una fase difensiva al massimo permette ad un gruppo di lavoratori di assumere la proprietà giuridica dei mezzi di produzione della propria fabbrica, ma divide la classe operaia in tante unità quante sono le fabbriche autogestite, collegate attraverso il mercato. Il rischio, come nel 1917, è di rinchiudere l’orizzonte dell’operaio alla sua singola azienda.
I decreti che istituiscono il controllo operaio puntano a creare un controllo centralizzato dei consigli di fabbrica, rendendoli responsabili davanti allo Stato dell’andamento della produzione e togliendo però l’influenza diretta della base che è compensata dal posto riservato ai sindacati nell’organizzazione del controllo operaio.
Nel 1918 Lenin ribadisce che l’idea di controllo operaio che ha in mente è diversa da quella dei comitati di fabbrica. In I compiti immediati del potere sovietico sostiene che il controllo operaio non è una molteplicità di controlli separati ma il controllo dello Stato sovietico.
Tuttavia il controllo operaio non sarà capace di risolvere i problemi di approvvigionamento della città e delle campagne e di coordinare la produzione industriale. Così i bolscevichi decidono di duplicare il controllo operaio creando altre forme di direzione della produzione e coordinamento che finiscono per disfare i comitati di fabbrica.
Bettelheim sostiene che questo esito derivi dall’assenza di veri organizzatori operai capaci di prendere in mano i problemi e la debolezza del partito, costretto ad integrare nell’esercito e negli apparati statali un numero crescente di operai militanti bolscevichi.
La borghesia, abbiamo già detto, non è totalmente scomparsa. Resiste nelle campagne con i contadini ricchi e i kulaki. Nelle città, invece, troviamo l’intellighenzia borghese che, dopo gli iniziali atti di “sciopero amministrativo”, cioè il rifiuto di lavorare per il nuovo regime, è costretta ad adattarsi alle condizioni create dal nuovo potere sovietico e riesce in parte a rientrare dentro gli apparati amministrativi dello Stato, portando la sua influenza ideologica e attuando atti di sabotaggio nei compiti di routine per rallentare l’azione della burocrazia statale. Resistono anche i suoi affari, soprattutto con i traffici illegali possibili durante la fase del comunismo di guerra. Invece la maggior parte della piccola borghesia in Russia è composta da contadini medi. I piccoli commercianti e gli artigiani si trovano ad essere declassati, trovandosi costretti a cercare lavoro nelle nuove imprese o cooperative oppure si inseriscono nelle attività economiche illegali che proliferano durante il comunismo di guerra. Per quanto riguarda gli “specialisti borghesi”, cioè tecnici e ingegneri, la loro neutralità venne ottenuta con vantaggi materiali.
Gli apparati statali, dov’è penetrata la vecchia borghesia, permettono la riproduzione di pratiche borghesi e di rapporti di distribuzione borghesi che sono il “rovescio” dei rapporti di produzione capitalistici, i quali continuano ad essere riprodotti anche se sono stati trasformati dalla dittatura del proletariato.
Questa è la base oggettiva su cui inizia a svilupparsi quella che l’autore chiama borghesia di Stato. Siccome la lotta di classe e le contraddizioni che erano emerse mettono in secondo piano la trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici, la contraddizione principale, per usare un lessico maoista, diventa “quella che opponeva il potere sovietico ai proprietari fondiari, ai capitalisti russi e all’imperialismo mondiale che aveva assunto la forma di una lotta armata”13.
Lo sviluppo di una borghesia di Stato comporta la nascita di rapporti di distribuzione ad essa favorevoli e questo significa l’appropriazione di una parte del plusvalore prodotto dalle imprese da parte di tecnici, dirigenti d’impresa e ingegneri che compongono questa nuova classe sociale. Lenin è consapevole di questi problemi. Considera le differenziazioni salariali e i “premi in natura” come scelte dettate dall’esigenza di mettere a lavoro questi specialisti per far funzionare le fabbriche, cioè “un compromesso imposto dalla lotta di classe”.
La borghesia di Stato non è confinata nelle imprese ma si trova anche nelle campagne. I dirigenti dei sovchoz, le fattorie di Stato, si assicurano i loro privilegi. Al VII Congresso dei Soviet del dicembre 1919, molti di loro sono accusati di vivere nelle lussuose ville dei vecchi proprietari fondiari estromessi che spesso non sono altro che i nuovi dirigenti dei sovchoz.
Charles Bettelheim precisa però che si tratta di una borghesia ancora embrionale che trova una forte opposizione negli operai. Tra gli specialisti, ad esempio, troviamo anche lavoratori di comprovata fede bolscevica che si sforzano di sviluppare pratiche proletarie “aiutando al massimo i lavoratori a liberarsi dai rapporti borghesi e a dare libero corso alla loro iniziativa”. Inoltre, spesso gli operai si rifiutano di obbedire in fabbrica agli specialisti borghesi, perquisiscono le loro case e confiscano le loro provviste. Rappresentano un ostacolo all’affermarsi di pratiche borghesi di cui questa nuova borghesia si fa promotrice. Tuttavia “si tratta di una forma elementare di lotta di classe che, da sola, non è in grado di modificare i rapporti di produzione né di impedire realmente a chi occupa posti di direzione negli apparati economici di sviluppare pratiche borghesi e di formare una borghesia di Stato”14.
Alla fine del comunismo di guerra troviamo un proletariato decimato dagli sforzi della guerra civile o assorbito dagli apparati dello Stato, dei sindacati o del partito. Questo ha prodotto un ricambio al suo interno con l’ingresso tra le sue fila di numerosi uomini e donne di estrazione borghese o piccolo borghese alla ricerca delle razioni concesse ai lavoratori manuali e per far dimenticare la loro originale estrazione di classe. Questo cambiamento produce un disastroso calo della produttività e della produzione industriale, assenteismo e una diffusa disorganizzazione dell’industria a cui il partito risponde con un nuovo codice del lavoro, introdotto nell’ottobre del 1918, che consente ai sindacati, in accordo con i dirigenti dell’impresa, di fissare i salari dei lavoratori. I salari sono differenziati in base alla fatica che comporta il lavoro e secondo la propria qualifica e il proprio grado di responsabilità. Inoltre, il cottimo e i premi di produzione sono accettati come forma “normale” del salario.
Il cottimo, molto diffuso all’epoca nell’industria russa, era pensato per favorire gli operai più anziani. Lo scopo di tutte queste scelte dei bolscevichi era riassestare la produzione e la produttività del lavoro nelle industrie e ciò apre un dibattito aspro dentro il partito. La sinistra vede dietro queste scelte la restaurazione della “gestione capitalistica delle imprese”. Accuse analoghe vengono lanciate dai menscevichi. Lenin si difende affermando che questi provvedimenti sono dettati dalle condizioni oggettive del momento. Rientrano nel “capitalismo di Stato” sotto la dittatura del proletariato, cioè l’unica forma di produzione sviluppabile in quel momento in Russia. Sarà questa posizione a prevalere.
La questione della disciplina del lavoro viene ricondotta da Charles Bettelheim dentro la lotta di classe con i suoi aspetti soggettivi e oggettivi. L’economista francese non mette in discussione l’esistenza della disciplina sul lavoro perché una“produzione altamente socializzata esige uno stretto coordinamento dei processi di lavoro elementare e il compimento di tali processi secondo rigorose norme qualitative”. Tuttavia la disciplina ha sempre una carattere di classe. Essa può essere “imposta dall’alto a lavoratori che cercano di sfuggire allo sfruttamento o a norme fissate amministrativamente riducendo il loro sforzo produttivo; in questo caso si tratta di una disciplina borghese”, oppure può essere accettata senza costrizioni dai lavoratori che nella produzione si associano e coordinano. Questa disciplina ha un carattere proletario.
“La prima forma di disciplina è dispotica e assicura la riproduzione di rapporti sociali capitalistici, del capitale e del lavoro; la seconda è parte della cooperazione socialista, il che non significa che una funzione di coordinamento non debba essere svolta da un lavoratore determinato, che assolve allora il ruolo di un direttore d’orchestra”, ma questi “non ha affatto bisogno di essere proprietario degli strumenti” ed è solo l’esecutore della volontà collettiva dei lavoratori. Gli aspetti soggettivi sono ricondotti alla lotta per liberarsi dai vecchi rapporti ideologici legati allo sfruttamento capitalistico. Questo elemento è essenziale per l’economista francese perché “finché il proletariato non si è liberato dalla ideologia borghese, sviluppa pratiche che sono in contraddizione con i suoi interessi di classe, pratiche che tendono a consolidare gli elementi capitalistici dei rapporti di produzione anziché farli scomparire”15.
Per quanto riguarda le campagne, dopo il 1917 la trasformazione dei rapporti di classe è stata determinata dal carattere democratico assunto dalla rivoluzione come risultato dell’alleanza tra operai e contadini. Il potere sovietico ha abolito, con il “decreto sulla terra”, ogni proprietà privata del suolo, incoraggiando i contadini a prendere da sé la terra e ad organizzare il suo utilizzo. Con questa scelta i bolscevichi si pongono in netta discontinuità rispetto ai precedenti governi e portano dalla loro parte le masse contadine indecise. Si tratta però di un progetto politico preso in prestito dal Congresso panrusso dell’agosto 1917 dominato dai socialisti rivoluzionari. All’epoca i bolscevichi denunciarono il carattere democratico-borghese di questa posizione politica, temendo lo sviluppo di tante piccole aziende agricole nelle campagne russe. Dopo la rivoluzione, Lenin difende questa scelta perché corrisponde alle aspirazioni più profonde dei contadini russi in quel momento e i bolscevichi lasciano la possibilità di scegliere come organizzare lo sfruttamento della terra, anche se preferirebbero veder sorgere delle forme collettive di sfruttamento del suolo.
Per questo motivo permane la produzione agricola prodotta da appezzamenti di terra coltivati a titolo individuale. Nel 1919 viene fatto un bilancio della rivoluzione nelle campagne: “il 96,8 per cento delle terre coltivate sarebbe nelle mani dei contadini che le lavorano individualmente (…), lo 0,5 sarebbe coltivato da cooperative agricole e il 2,7 per cento da fattorie statali. La rivoluzione agraria ha dunque avuto il carattere di una trasformazione democratica e non di una trasformazione socialista”16.
Il potere dei contadini ricchi non è stato pienamente intaccato e si fa sentire nella redistribuzione delle terre. Inoltre, diminuisce la proporzione dei contadini poveri e si attenuano le sperequazioni sociali. Proprio sui contadini poveri i bolscevichi fanno affidamento per combattere i contadini ricchi, dal giugno del 1918, con la formazione di organi del potere distinti dai Soviet contadini e composti solamente dai contadini poveri, cioè che non impiegavano manodopera salariata e non possedevano giacenze di grano. Questa scelta politica nasce dalla necessità di garantire l’approvvigionamento di cibo alle città all’inizio della guerra civile. I bolscevichi avevano smesso di pensare ai contadini come una massa indistinta e cercavano di saldare l’alleanza tra proletariato urbano e contadini poveri, con quest’ultimi aventi un ruolo dirigente specifico nei villaggi. La lotta di classe in seno alle masse contadine aveva raggiunto un tale livello da far prospettare l’abbandono della coltivazione individuale della terra e quindi la trasformazione socialista dei rapporti di produzione nelle campagne. Si potevano, in definitiva, superare i limiti borghesi che fino a quel momento avevano ostacolato la rivoluzione nelle campagne. Per fare ciò occorreva, come sempre, il protagonismo delle masse contadine che dovevano sfidare i rapporti politici esistenti nei loro villaggi, sradicare la proprietà privata della terra a favore di comuni agricole, aziende collettive e fattorie di Stato e soprattutto trasformare i rapporti ideologici che bloccavano il passaggio a queste forme collettive di sfruttamento della terra.
Tuttavia, le aspettative dei bolscevichi furono deluse. La maggior parte dei contadini non era pronta per un simile balzo in avanti e i comitati dei contadini poveri non si diffusero in maniera omogenea su tutto il territorio nazionale e spesso erano formati dagli elementi meno combattivi affiancati da elementi declassati pronti a sfruttare un’occasione propizia per appropriarsi dei prodotti sequestrati ai contadini ricchi.
Alla fine del 1918 i bolscevichi cambiarono politica nei confronti dei contadini. Nelle ore più dure della guerra civile avevano bisogno di consolidare l’alleanza tra operai e contadini e di conseguenza rivolsero le attenzioni verso i contadini medi aumentati di numero grazie alla rivoluzione.
Il contadino medio ora veniva trattato come un alleato nelle campagne per la costruzione del socialismo. Si tratta di una rettifica importante rispetto alla precedente impostazione politica dei bolscevichi che miravano alla loro neutralizzazione. Il partito aveva superato “una tendenza “di destra-sinistra”. Si tratta precisamente della tendenza a considerare ogni trasformazione nei rapporti di lavoro che determini forme collettive di produzione come una trasformazione orientata verso il socialismo, anche se imposta dall’alto, mediante la costrizione, dal momento che agente di essa è lo Stato fondato sulla dittatura del proletariato”17.
La conseguenza di questo ragionamento è la rinuncia ad imporre con la forza ai contadini la creazione di comuni agricole o fattorie di Stato. Il contadino medio deve essere persuaso per spingerlo a trasformare da solo i rapporti economici. Inoltre, non appartiene alle classi sfruttatrici perché non trae profitto dal lavoro altrui, non deve subire requisizioni arbitrarie e deve essere tassato moderatamente. Queste indicazioni verranno solo parzialmente rispettate dagli apparati amministrativi tra il 1919 e il 1920 a causa della crisi di approvvigionamento nelle città, la scarsa presenza del partito nelle campagne e l’oggettivo sviluppo della lotta di classe nel paese.
In ogni caso questo ragionamento dei bolscevichi non significa, nelle intenzioni di Lenin, “libertà per lui di sfruttare il proletariato” ma solamente la volontà di non imporre dall’alto la transizione socialista. Il contadino medio che utilizza la sua eccedenza di grano come una merce da vendere al mercato nero sta affamando, durante la guerra civile, i lavoratori e di conseguenza viene considerato a tutti gli effetti uno speculatore da combattere. Sono scelte che il potere sovietico paga con il logoramento dell’alleanza tra operai e contadini alla fine del 1919 e il conseguente calo della produzione a cui risponde con la coercizione, ovvero impone ai contadini dei piani di semina di difficile realizzazione. Questo porta all’aumento delle requisizioni che colpiscono sempre più contadini. Le azioni dei bolscevichi trovano una loro motivazione nella necessità di garantire il cibo agli operai nelle fabbriche e ai soldati al fronte durante la guerra civile e con gli eserciti delle principali potenze imperialiste nel paese. Il malcontento dei contadini è talmente importante da sfociare in delle vere e proprie insurrezioni in alcune province. Tutto ciò porterà alla rettifica delle politiche dei bolscevichi nelle campagne che prenderà la forma della NEP.
4. Lo Stato e i bolscevichi
Le lotte contro la burocrazia promosse da Lenin sono legate alla presenza di elementi borghesi ereditati dallo zarismo negli apparati statali, i quali tendono a riprodurre pratiche che si scontrano con quelle rivoluzionarie. Il giudizio di Lenin su questi problemi tenderà ad essere molto pessimista alla fine della sua vita. Arriverà a parlare di conservazione dell’apparato statale zarista sotto un manto di vernice rossa come prodotto del processo di autonomizzazione dello Stato dal proletariato.
Bettelheim descrive questo processo con la lente della lotta di classe. La borghesia privata scomparirà con la fine della NEP, rendendo lo Stato il luogo dove si concentreranno in Russia le forze della borghesia. L’autonomizzazione degli apparati statali dal proletariato finisce per rafforzare queste forze mentre indebolisce quelle del proletariato. Le conseguenze sono l’indebolimento del controllo di quest’ultimo sul proprio Stato e il suo ruolo dirigente.
La base oggettiva di tutto ciò risiede nella “tappa in cui si trova la Rivoluzione russa negli anni 1917-1923. Infatti, proprio dalle caratteristiche di questa tappa dipendono le trasformazioni intervenute nelle pratiche e nei rapporti sociali, dunque nelle forme che allora assume lo scontro tra borghesia e proletariato. Ebbene, ciò che caratterizza la fase in cui si trova la Rivoluzione russa è il fatto che il suo compito principale è ancora di natura democratica: il proletariato al potere deve anzitutto aiutare le masse contadine nella lotta contro le guardie bianche, ossia contro i proprietari fondiari, e consolidare in tal modo l’alleanza operai-contadini diretta dal proletariato. Questo è il compito fondamentale sia durante il “comunismo di guerra” sia all’inizio della NEP”18.
La lezione che Bettelheim ricava da questa esperienza è il legame tra trasformazione socialista dei rapporti sociali, con conseguente trionfo delle pratiche rivoluzionarie su quelle borghesi, e difesa della dittatura del proletariato nella fase di transizione.
5. Bettelheim contro l’economicismo: una fondamentale eredità
Nei suoi lavori Charles Bettelheim critica le modalità di costruzione del socialismo, come sostiene Gianfranco La Grassa, in sinergia con Leggere il Capitale che invece ricostruisce il concetto di modo di produzione, ovvero l’intreccio tra rapporti di produzione e forze produttive.
L’approccio dell’economista francese nega che i rapporti di produzioni, centrali nella sua analisi, possano essere trasformati dallo sviluppo delle forze produttive arrivate ad una certa soglia nella loro espansione.
I rapporti di produzione innervano le forze produttive, lo sviluppo di queste ultime non è meramente quantitativo bensì caratterizzato da una determinata loro strutturazione, che è quella impressa dalla particolare forma storica assunta dai rapporti di produzione. Non esiste un limite quantitativo più o meno ben definito allo sviluppo delle forze produttive, poiché esso sempre riproduce la forma storica dei rapporti che struttura queste ultime e determina direzioni e qualità dello sviluppo in questione19.
La posizione ricoperta dal lavoratore nella produzione, nella distribuzione e negli scambi dipende dai rapporti di produzione che riproducono un’intera società. Bisogna anche tenere in considerazione i rapporti di produzione sociali, cioè la divisione tecnica e sociale del lavoro, che finiscono per influenzare il modo in cui il lavoratore si rappresenta. Di conseguenza entra in gioco una componente ideologica che viene sottovalutata da un’impostazione economicista del marxismo.
Lavori come quello che state per leggere propongono una lettura non – economicista di Marx che finisce per mettere in discussione l’intera teoria della transizione da un modo di produzione ad un altro. Questo ci viene ricordato in maniera esplicita da Maria Turchetto nella sua contrapposizione tra queste due impostazioni del problema della transizione.
Una visione economicista del problema ha un’idea della storia come sviluppo lineare e continuo delle forze produttive, in cui, come se fossero qualcosa di esterno, entrano in scena le diverse forme dei rapporti sociali che si adeguano a questo sviluppo. Di conseguenza, la successione dei diversi modi di produzione diventa l’adeguamento, violento o graduale, dei rapporti sociali allo sviluppo delle forze produttive. Nella visione non – economicista, invece, la storia è una successione di modi di produzione in cui diversi rapporti sociali vanno a determinare una diversa configurazione del processo produttivo. Non c’è alcuna esteriorità dei rapporti di produzione rispetto alla forze produttive. I rapporti di produzione, infatti, sono stabili tra coloro che sono impegnati nella produzione rispetto al rapporto che hanno con i mezzi di produzione, con tutte le conseguenze politiche che derivano da ciò, in particolare sulla struttura stessa delle forze produttive che non è neutrale.
In questa impostazione “la scansione storica (…) non è né sviluppo lineare e progressivo (“progresso” evoluzionistico, di livello in livello, delle forze produttive), né succedersi di semplici “forme sociali” (forme di rapporti sociali “esteriori” rispetto all’aspetto “naturale” della produzione, in quanto processo di appropriazione della natura). Nel senso che la considerazione delle diverse “forme” dei rapporti sociali di produzione che si succedono implica immediatamente anche quella di diversi contenuti, “qualità”, rapporti reciproci degli elementi dell’appropriazione della natura (delle forze produttive); contenuti, qualità, rapporti che sono determinati dalla forma dei rapporti sociali di produzione e rappresentano parte integrante della “realtà” di questi ultimi. E chiaro che, in questa impostazione, sono i rapporti sociali di produzione a decidere del tipo di sviluppo delle forze produttive, e del passaggio da una forma all’altra della produzione sociale”20.
Questo passaggio è quantomai importante per contestare le tesi ancora oggi in voga sul socialismo con caratteristiche cinesi pronto a passare ad un altro modo di produzione quando lo sviluppo delle forze produttive lo permetterà. Contro simili menzogne è quantomai importante tornare agli insegnamenti di Charles Bettelheim.
- Per approfondire questo dibattito si veda il libro di L. Vasapollo, E. Echevarría H., Alfredo Jam M, “Che” Guevara economista. Attualità del dibattito sulla transizione tra Cuba e URSS, Jaca Book, Milano 2007 ↩︎
- Il saggio è contenuto nel volume AA.VV., Per una critica del “socialismo reale”, Franco Angeli Editore, Milano 1981. ↩︎
- Si veda l’introduzione a C. Bettelheim, Calcolo economico e forme di proprietà, Mimesis, Milano 2005. ↩︎
- C. Bettelheim, Le Lotte di classe in URSS 1917/1923, ETAS Libri, Milano 1975, pp. 57 – 58. ↩︎
- B. Kagarlitsky, L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin, Castelvecchi, Roma 2023, p. 378. ↩︎
- Ivi, p. 400. ↩︎
- C. Bettelheim, Le Lotte di classe in URSS 1917/1923, ETAS Libri, Milano 1975, p. 64. ↩︎
- Ivi, pp. 66-67. ↩︎
- Ivi, p. 106. ↩︎
- Ivi, p. 107. ↩︎
- Ivi, p. 108. ↩︎
- V. I. Lenin, Opere complete XXVII febbraio–luglio 1918, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 303. ↩︎
- C. Bettelheim, Le Lotte di classe in URSS 1917/1923, ETAS Libri, Milano 1975, p. 128. ↩︎
- Ivi, p. 132. ↩︎
- Ivi, pp. 138-139. ↩︎
- Ivi, p. 168. ↩︎
- Ivi, p.173 ↩︎
- Ivi, p. 250. ↩︎
- C. Bettelheim, Calcolo economico e forme di proprietà, Mimesis, Milano 2005, pp. 11-12. ↩︎
- G. La Grassa, M. Turchetto, Dal capitalismo alla società di transizione, Franco Angeli Editore, Milano 1978, p. 138. ↩︎
L’articolo è molto ripetitivo. Non si capisce, infine, quale sia la ricetta concreta di Bettelheim in proposito
Il primo punto non ci sembra sia corretto ma in ogni caso ripetiamo i concetti per fissarli meglio nella mente di chi legge. Il secondo punto è un tema difficile. La soluzione non può venire né dagli intellettuali né dal partito ma dalla lotta di classe e dalle iniziative dei lavoratori guidati da una corretta linea rivoluzionaria. Il lavoro di Bettelheim è eccezionale per spazzare via le letture economiciste di Marx tipiche dello stalinismo. Tenga presenta che il saggio è anche la prima parte di un ragionamento più ampio. Nel concreto della situazione storica, Bettelheim avrebbe proseguito la NEP intesa come alleanza tra proletariato urbano e rurale e come l’unica forma che potesse prendere in quel contesto la dittatura del proletariato.