Come Collettivo Le Gauche abbiamo sostenuto i referendum della CGIL sin dalla raccolta firme dello scorso anno tramite tutti i nostri canali social. All’avvicinarsi del voto referendario, visto il sabotaggio mediatico in corso contro i cinque quesiti e la difficoltà nel raggiungere il quorum, abbiamo deciso di scrivere una dettagliata analisi dei quesiti referendari motivando i nostri 5 Si e invitando tutti i nostri lettori a recarsi a votare l’8 e il 9 giugno.
1. Primo quesito
Il primo quesito referendario chiede l’abrogazione completa del decreto legislativo 23/2015, parte fondamentale del Jobs Act che ha istituito il contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti. Attualmente questa normativa prevede che i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, in caso di licenziamento riconosciuto come illegittimo, abbiano diritto solo a un’indennità economica anziché al reintegro sul posto di lavoro, a differenza di quanto avviene per i dipendenti assunti prima di quella data che invece mantengono tale possibilità. La proposta referendaria mira a eliminare questa disparità di trattamento, uniformando le tutele per tutti i lavoratori secondo quanto previsto dalla precedente legge Fornero. L’intervento risulta necessario perché, nonostante alcuni aggiustamenti apportati dalla Corte Costituzionale, permangono differenze significative tra le due discipline. In particolare, nei casi di licenziamenti economici effettuati senza il rispetto dei corretti criteri di selezione o nei licenziamenti disciplinari ritenuti illegittimi (ma non discriminatori), i lavoratori assunti con il nuovo regime possono ottenere unicamente un risarcimento in denaro mentre con la normativa precedente avrebbero avuto diritto al ripristino del rapporto di lavoro. L’approvazione del referendum comporterebbe il ripristino del diritto al reintegro per tutti i lavoratori in caso di licenziamento illegittimo, indipendentemente dalla data di assunzione. Verrebbero inoltre rafforzate le tutele nei licenziamenti collettivi e aumentate le indennità minime nei casi in cui non sia previsto il reintegro. L’abrogazione eliminerebbe quindi l’attuale sistema differenziato, garantendo a tutti i lavoratori le stesse tutele previste dalla legge Fornero, con significative conseguenze sia per i diritti dei lavoratori che per le modalità di gestione del personale da parte delle aziende.
2. Secondo quesito
Il secondo quesito riguarda l’abrogazione delle norme che stabiliscono un tetto massimo all’indennizzo in caso di licenziamento illegittimo per i lavoratori delle piccole imprese, eliminando le disposizioni che limitano il risarcimento a un massimo di sei mensilità. Nello specifico, si propone di abrogare parte dell’articolo 8 della legge n. 604 del 1966, come modificato dalla legge n. 108 del 1990, in particolare le parole che fissano un importo “compreso tra un minimo e un massimo di 6 mensilità”, nonché quelle che prevedono un aumento fino a 10 o 14 mensilità per i lavoratori con anzianità superiore rispettivamente ai 10 o ai 20 anni ma solo per le aziende con più di 15 dipendenti. L’obiettivo è rimuovere questi limiti, consentendo al giudice di determinare liberamente l’ammontare del risarcimento in base al danno effettivamente subito dal lavoratore, senza vincoli predeterminati. Attualmente, nelle imprese con meno di 16 dipendenti, il risarcimento per licenziamento illegittimo non può superare le sei mensilità, indipendentemente dalla gravità del danno subito dal lavoratore. Con l’abrogazione di queste norme il giudice potrà valutare caso per caso, tenendo conto sia delle conseguenze economiche e personali del licenziamento sul lavoratore, sia delle condizioni del datore di lavoro. La modifica eliminerebbe una disparità di trattamento tra i lavoratori delle piccole e delle grandi aziende, dove invece il risarcimento è già commisurato al danno effettivo. Inoltre, l’assenza di un tetto massimo allineerebbe l’Italia alle normative europee che prevedono un risarcimento pieno e proporzionato al pregiudizio subito. L’abrogazione di queste disposizioni garantirebbe una tutela più equa, evitando che i lavoratori delle piccole imprese ricevano indennizzi inadeguati anche in casi di licenziamento particolarmente ingiustificato e dannoso.
3. Terzo quesito
Il terzo quesito referendario propone l’abrogazione parziale dell’articolo 19 del Decreto Legislativo 81/2015, uno dei decreti attuativi del Jobs Act, nonché di un articolo del Decreto Lavoro approvato nel 2023 dal Governo Meloni, con l’obiettivo di limitare l’utilizzo dei contratti a termine. La modifica riguarda specifiche disposizioni che attualmente consentono la stipula di contratti temporanei senza necessità di giustificazione per periodi inferiori a dodici mesi, nonché la possibilità di estendere tali contratti oltre tale termine in presenza di determinate condizioni, come esigenze tecniche, organizzative o produttive individuate dalle parti collettive. In particolare, si chiede di eliminare le parole che permettono una durata superiore ai dodici mesi senza giustificazione, le clausole che consentono il rinnovo automatico entro certi limiti e le disposizioni che regolano l’utilizzo libero dei contratti a termine nei primi dodici mesi. Se il referendum venisse approvato si tornerebbe a un sistema in cui l’uso del lavoro a termine sarebbe vincolato a causali specifiche e temporanee, stabilite esclusivamente dalla contrattazione collettiva nazionale stipulata dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. Questo cambiamento avrebbe l’effetto di contrastare il cosiddetto “lavoro precario”, reintroducendo l’obbligo per i datori di lavoro di fornire una giustificazione anche per le assunzioni a termine di durata inferiore a un anno. Le motivazioni alla base di questa proposta sono principalmente tre: evitare l’abuso dei contratti temporanei senza una reale necessità, proteggere i lavoratori dall’instabilità occupazionale e riaffermare il principio secondo cui il contratto di lavoro standard debba essere a tempo indeterminato, riducendo così il ricorso eccessivo a forme di lavoro flessibili e precarie.
4. Quarto quesito
Il quarto quesito propone l’abrogazione di una specifica parte dell’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, che attua le disposizioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, così come modificato da successivi interventi normativi tra cui il decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, il decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (convertito nella legge 9 agosto 2013, n. 98), e il decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146 (convertito nella legge 17 dicembre 2021, n. 215). La parte da abrogare è quella che esclude la responsabilità solidale dell’impresa committente per i danni derivanti da rischi specifici propri delle attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici in caso di infortunio o malattia professionale dei lavoratori. L’obiettivo dei promotori è eliminare questa limitazione che attualmente restringe la responsabilità del committente ai soli rischi generici, escludendo quelli specifici legati all’attività dell’appaltatore. In questo modo si intende garantire che, in caso di incidenti sul lavoro dovuti a carenze di sicurezza, i lavoratori e le loro famiglie possano ottenere un risarcimento diretto anche dalla grande azienda committente, indipendentemente dalla natura del rischio. La modifica è ritenuta cruciale per evitare che i lavoratori rimangano senza tutela in situazioni di gravi infortuni, per incentivare i committenti a esercitare un controllo più rigoroso sulle condizioni di sicurezza negli appalti e nei subappalti e per semplificare le procedure legali necessarie a ottenere un equo risarcimento.
5. Le nostre motivazioni
Uno dei bersagli maggiori dei referendum della CGIL è ciò che resta in piedi del Jobs Act, cosa che ha provocato una spaccatura nel PD con i protagonisti della stagione renziana ancora rimasti al suo interno nettamente schierati contro la posizione della segretaria del partito Elly Schlein a sostegno di tutti i quesiti referendari. Conviene rivedere brevemente il dibattito che ha animato l’approvazione di una delle riforme simbolo del governo Renzi e per farlo ci serviremo del libro di Eloisa Betti Precarious Workers: History of Debates, Political Mobilization, and Labor Reforms in Italy. La riforma ha rappresentato una svolta radicale nel mercato del lavoro italiano, modificando in particolare le tutele contro i licenziamenti illegittimi e ampliando la flessibilità nelle assunzioni. Uno degli aspetti più controversi è stata la riforma dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori che in precedenza garantiva il reintegro obbligatorio per i dipendenti ingiustamente licenziati. Con il Jobs Act questa protezione è stata abolita per i nuovi assunti, sostituita da un sistema di tutele crescenti che prevede indennizzi economici progressivi ma elimina la possibilità di riottenere il posto di lavoro, anche in caso di licenziamento discriminatorio o senza valido motivo. La logica delle tutele crescenti è problematica perché la mancanza di protezioni immediate per i neoassunti contraddice il principio stesso di progressività delle tutele. Inoltre va contestata l’equazione tra libertà d’impresa e deregolamentazione dei licenziamenti perché ciò favorisce un modello in cui il potere del datore di lavoro prevale sui diritti fondamentali dei lavoratori. L’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori mantenne la sua formulazione originaria per tutti gli anni 2000 e 2010 ma fu al centro di un acceso dibattito sindacale e diede luogo a importanti riforme del lavoro. Già negli anni ‘70, secondo diversi giuristi, l’articolo 18 aveva permesso di raggiungere una vera stabilità del posto di lavoro, sebbene solo nelle aziende con più di 15 dipendenti. Nel 2002 una grande mobilitazione politica portò a un tentativo di superare questa limitazione attraverso un referendum che mirava a estendere l’articolo 18 anche alle imprese più piccole. Esso venne sostenuto dal Partito della Rifondazione Comunista, i Verdi, il Partito dei Comunisti Italiani, la sinistra dei Democratici di Sinistra e la CGIL. Tuttavia la proposta non ebbe seguito perché il referendum non raggiunse il quorum del 50% richiesto dalla legge italiana: votò solo il 25,7% degli elettori, anche se la stragrande maggioranza di questi (oltre 10 milioni) si espresse a favore. Dopo la crisi del 2007-2008 il dibattito sull’articolo 18 riprese vigore. Come osservato da Umberto Romagnoli, si assistette a una irresistibile ascesa della licenza di licenziare, riportando in auge dinamiche proprie delle relazioni industriali dell’Ottocento. La crisi economica indebolì la stabilità occupazionale e ridusse le tutele contro i licenziamenti, nonostante queste fossero garantite dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 2000. Luigi Mariucci sottolineò come il diritto del lavoro seguisse un andamento ciclico, con fasi di rafforzamento e indebolimento delle tutele, in particolare quelle contro i licenziamenti. Questo processo contribuì a ridurre il potere contrattuale dei lavoratori e l’efficacia delle garanzie previste dalla legge. La prima modifica sostanziale all’articolo 18 arrivò con la legge Fornero del 2012, quella che la CGIL vorrebbe ripristinare. In precedenza un lavoratore ingiustamente licenziato aveva diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento delle retribuzioni perdute. Dopo la riforma la reintegrazione fu limitata ai casi di licenziamento discriminatorio (per motivi come matrimonio, gravidanza o violazione delle norme sulla maternità/paternità) o ai licenziamenti disciplinari illegittimi. Negli altri casi il lavoratore poteva ottenere solo un indennizzo economico, stabilito dal giudice in una misura compresa tra 12 e 24 mensilità. Nonostante questi cambiamenti la legge Fornero mantenne un certo grado di deterrenza contro i licenziamenti abusivi, a differenza della successiva riforma del governo Renzi. Il Jobs Act ebbe come obiettivo esplicito il “superamento dell’articolo 18”, modificando i contratti a tempo indeterminato per i nuovi assunti e introducendo il già citato sistema di tutele crescenti. Dopo 45 anni il diritto alla reintegrazione scomparve quasi completamente, sostituito da un mero risarcimento economico, calcolato in base all’anzianità (due mensilità per ogni anno di lavoro, fino a un massimo di 24). La reintegrazione rimase possibile solo in casi eccezionali, come licenziamenti discriminatori, comunicati oralmente o legati alla disabilità del lavoratore. Nei licenziamenti disciplinari il reintegro era previsto solo se il giudice accertava l’infondatezza delle accuse. Nel 2016 la CGIL promosse una proposta di referendum abrogativo per cancellare le riforme e ripristinare integralmente l’articolo 18, estendendolo anche alle aziende con più di 5 dipendenti. Tuttavia la Corte Costituzionale dichiarò inammissibile il referendum perché, introducendo nuove disposizioni, andava oltre i limiti del potere abrogativo previsto dalla Costituzione. Il dibattito sull’articolo 18, definito da alcuni un “totem” e da altri un “tabù”, rimase centrale nel discorso pubblico e politico. Elsa Fornero negò che modificarlo fosse un tabù mentre Matteo Renzi lo bollò come un “simbolo del passato”. La stampa diede voce a posizioni contrastanti, tra sindacati, imprenditori e partiti. Nonostante le numerose sentenze sui licenziamenti dopo le riforme, molti lavoratori rinunciarono a fare causa per gli alti costi legali, l’incertezza degli esiti e i termini più brevi per ricorrere. La “favola dell’articolo 18”, come la definì Gad Lerner, rimase comunque un tema caldo, tanto che nel 2016 fu presentata in Parlamento una proposta di legge per una “Carta universale dei diritti del lavoro” che ne prevedeva il ripristino. Sul piano della flessibilità il Jobs Act ha introdotto ulteriori margini di precarietà, consentendo alle aziende di utilizzare contratti a termine senza necessità di giustificazione, se non il limite temporale massimo di 36 mesi. Nonostante la promessa di ridurre la “jungla dei contratti precari”, la riforma non ha introdotto misure vincolanti per contrastare l’abuso dei rapporti atipici, lasciando in sospeso l’obiettivo di una vera stabilizzazione del lavoro. Sul fronte della protezione sociale la riforma ha esteso gli ammortizzatori sociali a categorie precedentemente escluse, come i collaboratori coordinati e continuativi (Co.Co.Co.) ma ha mantenuto un sistema diseguale in cui l’accesso alle indennità di disoccupazione dipende ancora dalla tipologia contrattuale precedente, escludendo di fatto molti lavoratori intermittenti, donne con carriere interrotte e disoccupati di lungo periodo. Giuristi come Luigi Mariucci hanno definito il Jobs Act una “rivoluzione tolemaica” per il suo carattere regressivo, in quanto inverte la tradizione del diritto del lavoro italiano, storicamente volto a riequilibrare il rapporto di forza tra datore di lavoro e dipendente. Altri studiosi, come Romagnoli e Rusciano, hanno sottolineato come la riforma segni una rottura con il sistema di protezione costruito a partire dagli anni ’70, aprendo a un modello più favorevole alle esigenze delle imprese. Il cosiddetto mondo “riformista”, ovvero destra PD e liberali, continua a difendere questa riforma sostenendo che abbia contribuito ad aumentare l’occupazione. A tal proposito recentemente la Fondazione Di Vittorio ha presentato uno studio dal titolo Precarietà e bassi salari. Rapporto sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act. La logica alla base del Jobs Act sosteneva che la rigidità del mercato del lavoro italiano fosse un ostacolo alla produttività e alla competitività, portando a un aumento della precarietà. Questa visione, emersa già dagli anni ’80, era stata promossa da economisti influenti nel dibattito pubblico. L’idea centrale era che la difficoltà di licenziare scoraggiasse le assunzioni a tempo indeterminato, contribuendo alla stagnazione economica e alla bassa produttività. A dieci anni dalla riforma è possibile valutarne gli effetti. Il rapporto evidenzia come il Jobs Act abbia indebolito le tutele e peggiorato le condizioni lavorative. La precarietà è diventata strutturale, con quasi il 30% degli occupati con contratti a termine o part-time, soprattutto giovani, donne e laureati. L’aumento dell’occupazione non si è tradotto in una crescita proporzionale delle ore lavorate a causa dell’espansione del part-time. La domanda di lavoro si è concentrata in settori a bassa qualificazione, con salari modesti e scarsa produttività. I salari reali hanno registrato un calo senza precedenti, aggravando il divario con le principali economie europee. Parallelamente è cresciuta l’emigrazione giovanile, con 550.000 giovani tra i 18 e i 34 anni che hanno lasciato l’Italia tra il 2011 e il 2023, di cui il 43% laureati, segnale di un mercato del lavoro incapace di valorizzare le competenze.
Questi problemi si inseriscono in un contesto più ampio di stagnazione trentennale dell’economia italiana, caratterizzata da bassi investimenti, scarsa innovazione e un sistema produttivo sempre più orientato verso servizi a basso valore aggiunto. La flessibilizzazione del lavoro, invece di rafforzare la competitività, ha alimentato un circolo vizioso tra precarietà, bassi salari e bassa crescita. Alcune politiche hanno mostrato effetti positivi, seppur temporanei, come gli incentivi ai contratti a tempo indeterminato nel 2014 e il Decreto Dignità del 2019 che limitava i contratti a termine. Il Reddito di Cittadinanza, introdotto nel 2020, ha attenuato la povertà ma è stato abolito dal governo Meloni nel 2022. Con il Decreto “Primo maggio” del 2023 il governo ha favorito nuovamente la precarietà, estendendo i contratti a termine. Durante la pandemia politiche di sostegno alla domanda e tutela del lavoro hanno evitato un crollo occupazionale mentre gli investimenti del PNRR hanno favorito una ripresa. Essendo questa espansione piena di fragilità, il rapporto sottolinea la necessità di un cambiamento nelle politiche del lavoro, a partire dai referendum del 2025, insieme a interventi macroeconomici, industriali e sociali per restituire dignità al lavoro e promuovere uno sviluppo sostenibile. L’economia italiana ha vissuto un periodo di stagnazione prolungata a partire dal 2000, con un PIL pro capite che oggi si attesta a meno di 31.000 euro annui a prezzi costanti del 2015, appena superiore ai livelli di inizio secolo. Questo dato risulta particolarmente significativo se confrontato con l’andamento delle principali economie europee. Nel 2000 il divario con la Germania era minimo, con valori tedeschi solo leggermente superiori, oggi il PIL pro capite tedesco supera quello italiano di un terzo, evidenziando un ampliamento progressivo del gap tra le due economie. La stagnazione economica si riflette in una sostanziale assenza di crescita della produttività. Il PIL per ora lavorata, espresso in numeri indice con base al 2005, mostra come l’Italia abbia registrato una lunga fase di ristagno mentre altri paesi europei hanno mantenuto una crescita modesta ma costante. A vent’anni di distanza, la produttività tedesca risulta superiore del 20% rispetto a quella italiana. L’analisi settoriale evidenzia come la manifattura rappresenti un punto di forza del sistema produttivo italiano, con ritardi più marcati concentrati nei settori dell’informatica e comunicazione e del commercio e ristorazione, dove il divario con Germania e Francia è particolarmente accentuato. Uno dei fattori chiave alla base di questa stagnazione è il calo degli investimenti. Nel periodo 2010-2019, prima della pandemia, gli investimenti fissi lordi in Italia sono diminuiti dell’8% in termini reali quando nello stesso arco temporale Francia e Germania hanno registrato incrementi rispettivamente del 16% e del 20%. La ripresa post-pandemica ha visto una crescita degli investimenti totali ma questa è stata sostenuta principalmente da investimenti pubblici e immobiliari, con una dinamica più contenuta negli investimenti legati all’espansione delle capacità produttive. Questo trend ha contribuito a mantenere bassi i tassi di crescita economica, della produttività e dell’occupazione, limitando la capacità del sistema di innovarsi e competere a livello internazionale. L’evoluzione del mercato del lavoro italiano presenta caratteristiche peculiari. Tra il 1995 e il 2008 si è registrato un aumento di tre milioni di occupati dipendenti mentre nel periodo successivo (2008-2024) la crescita è stata molto più modesta, con soli 1,3 milioni di nuovi dipendenti. Questo andamento contrasta con quello della Germania che nello stesso periodo ha visto un incremento di cinque milioni di occupati, ampliando ulteriormente il divario tra i due paesi. Un altro aspetto rilevante è la dinamica delle ore lavorate che dopo la crisi del 2007-2008 hanno subito un calo più marcato rispetto al numero di occupati, con un gap che si è mantenuto fino al 2019. Durante la pandemia le ore lavorate hanno registrato un ulteriore crollo, per poi riprendersi solo nel 2022, superando finalmente i livelli pre-crisi. Negli ultimi due anni la crescita delle ore lavorate si è avvicinata a quella dell’occupazione anche se la struttura del mercato del lavoro italiano continua a essere caratterizzata da un aumento progressivo del lavoro atipico. Nel 2024 su un totale di 18,8 milioni di occupati dipendenti, 13,5 milioni sono lavoratori “standard” (a tempo indeterminato e full-time) mentre 2,5 milioni sono a tempo indeterminato part-time e 2,8 milioni hanno contratti temporanei (di cui 2 milioni full-time e 800.000 part-time). L’evoluzione nel ventennio 2004-2024 mostra come l’occupazione “standard” sia cresciuta solo del 7,2%, contro incrementi del 60% per i part-time stabili e del 95% per i part-time temporanei. La quota di lavoratori non standard sul totale è passata dal 22% al 28%, con un picco negativo nel 2019, quando i lavoratori standard rappresentavano solo il 67,9% del totale. Un aspetto particolarmente critico riguarda la natura involontaria del lavoro temporaneo: secondo i dati Eurostat, il 70% dei lavoratori a termine avrebbe preferito un contratto stabile. Per molti, soprattutto i giovani, il lavoro temporaneo rappresenta l’unica via di accesso al mercato del lavoro, senza però costituire un trampolino verso l’occupazione stabile, bensì una condizione di precarietà destinata a protrarsi nel tempo. Questa situazione, combinata con la stagnazione economica e produttiva, delinea un quadro complesso per il sistema produttivo italiano, con sfide significative per il futuro in termini di crescita, competitività e qualità dell’occupazione. La precarizzazione del mercato del lavoro italiano ha accentuato le disuguaglianze tra Nord e Sud, con il Mezzogiorno che nel 2024 registra una quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato del 20%, contro il 12% del Nord. Questo divario si è ampliato soprattutto dopo l’introduzione del Jobs Act, con una crescita più marcata nel Sud. Negli ultimi anni la riduzione dei contratti temporanei è stata più significativa al Nord, dove la domanda di lavoro è più elevata e l’emigrazione giovanile all’estero ha contribuito a ridurre la pressione sul mercato del lavoro. Le differenze geografiche nell’incidenza del part time sono invece meno rilevanti. Le disparità di genere nell’occupazione sono evidenti. Storicamente le donne hanno avuto una percentuale più alta di contratti a tempo determinato rispetto agli uomini, con un picco del 14% nel 2004 contro meno del 10% per gli uomini. Dopo il Jobs Act si è verificata una convergenza ma nella ripresa post-pandemia i divari sono tornati a crescere, con un ulteriore aumento per le donne. Il part time coinvolge soprattutto le donne, passando da 1,65 milioni nel 2004 a 2,8 milioni nel 2019, per poi scendere a 2,7 milioni nel 2024 mentre per gli uomini è raddoppiato da 350 mila a oltre 800 mila nello stesso periodo. Anche i giovani sono pesantemente colpiti dalla precarietà. La quota di contratti a tempo determinato per i 15-34enni è salita dal 19% nel 2004 al 30% nel 2024, toccando il 37% nel 2018 dopo il Jobs Act. Per le fasce 35-49 anni e 50-64 anni, invece, i livelli sono molto più bassi (12% e 7,4% nel 2024). La crescita del lavoro stabile riguarda soprattutto gli ultracinquantenni mentre le prospettive per i giovani rimangono sfavorevoli. L’istruzione non protegge dalla precarietà. I laureati con contratti a termine sono più che raddoppiati dal 2004 al 2024 (fatto 100 il numero di laureati con lavoro a termine nel 2004, nel 2024 si è raggiunto il valore di 227), con un’impennata post-Jobs Act mentre per diplomati e chi ha solo la licenza media la crescita è stata contenuta. Anche il part time tra i laureati è aumentato notevolmente. L’emigrazione giovanile è in crescita. Nel 2024 191 mila persone hanno lasciato l’Italia, di cui 156 mila italiani (+36,5% rispetto al 2023), con un saldo negativo di 103 mila unità. Tra il 2011 e il 2023, sono emigrati 550 mila giovani, con un saldo negativo di 377 mila, e la quota di laureati è salita al 43% nel 2023. La struttura produttiva e il lavoro in Italia presentano caratteristiche distintive rispetto agli altri maggiori paesi europei, con una predominanza di piccole imprese che rappresentano il 61% dell’occupazione, contro il 41% della Germania. Le grandi imprese, che hanno una produttività più elevata, maggiori investimenti e operano in settori tecnologicamente avanzati, occupano solo il 32% dei lavoratori dipendenti nel 2022, evidenziando una sostanziale immobilità nella struttura occupazionale nonostante le trasformazioni produttive. Questo divario rispetto alle economie europee più dinamiche si riflette in un ritardo strutturale dell’economia italiana. L’industria manifatturiera ha subito un lungo declino, passando dal 30% degli occupati negli anni ‘80 al 15% nel 2023, con circa 4 milioni di lavoratori. I settori ad alta tecnologia, come chimica, farmaceutica, elettronica e macchinari, rappresentano solo il 10% dell’occupazione totale nell’industria e nei servizi privati. Al contrario, i servizi a bassa qualificazione, come commercio, ristorazione, trasporti e servizi di supporto, sono cresciuti rapidamente, raggiungendo oltre 6 milioni di occupati, con un aumento di più di un milione in dieci anni. Questi settori sono caratterizzati da un’elevata incidenza di contratti a termine e part-time (55% degli occupati) mentre i servizi ad alta qualificazione, come telecomunicazioni, finanza e consulenza, impiegano meno di 2 milioni di persone e registrano una crescita lenta. Questi cambiamenti hanno conseguenze significative per lavoratori e sistema economico: si riducono i posti di lavoro ad alta produttività, con salari più elevati e maggiori tutele mentre aumenta l’occupazione in settori a bassa qualificazione, con bassa produttività, salari inferiori e minori opportunità professionali. Ciò colloca l’Italia su una traiettoria di crescita lenta, a basso valore aggiunto, con scarsi investimenti in ricerca e tecnologia. La qualità dell’occupazione si è deteriorata, con un aumento del lavoro temporaneo e part-time, soprattutto nei servizi poco qualificati. Anche la composizione professionale mostra una polarizzazione tra professioni intellettuali e scientifiche (con salari più alti e contratti stabili) e quelle a bassa qualificazione (come addetti al commercio e lavoratori non qualificati), che sono cresciute significativamente nell’ultimo decennio. Nelle categorie intermedie e basse i contratti a tempo indeterminato diminuiscono e aumentano quelli a termine. Questa polarizzazione riflette l’espansione dei servizi a bassa qualificazione e aggrava la precarietà per molti lavoratori, riducendo ulteriormente la produttività complessiva del sistema economico. L’analisi della dinamica dei contratti di lavoro evidenzia una netta divergenza tra tipologie contrattuali dopo il Jobs Act. I contratti a tempo determinato e parasubordinati (come apprendistato, stagionali e intermittenti) sono aumentati notevolmente, raggiungendo rispettivamente 3,7 milioni e 3,1 milioni di attivazioni nel 2024. Al contrario, i nuovi contratti a tempo indeterminato si sono mantenuti stabili intorno a 1,2 milioni l’anno, con un picco nel 2015 grazie agli incentivi fiscali. Le trasformazioni da contratti a termine a indeterminato sono aumentate, raggiungendo 870 mila unità nel 2024, ma ciò non compensa la frammentazione del mercato del lavoro, dove molti contratti hanno durata inferiore all’anno.
I giovani sotto i 29 anni sono i più esposti a contratti precari e gli indeterminati si concentrano nella fascia 30-50 anni. Interventi normativi, come il Decreto Dignità, hanno favorito un aumento delle assunzioni stabili, dimostrando che politiche mirate possono ridurre la precarietà. Tuttavia la crescita recente degli indeterminati è legata soprattutto alle trasformazioni di contratti preesistenti e a misure temporanee, come gli incentivi del PNRR, piuttosto che a un aumento strutturale delle nuove assunzioni. Tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti del 9% mentre in Germania e Francia sono aumentati rispettivamente del 14% e del 5%, rendendo l’Italia il paese con la maggiore caduta dei salari reali nell’area OCSE. Questo declino è il risultato di una combinazione di fattori strutturali, legati al mercato del lavoro e macroeconomici. Dal lato produttivo, la riduzione degli investimenti fissi lordi in Italia (-8% tra il 2010 e il 2019, contro un aumento del 16% in Francia e del 20% in Germania) ha limitato la creazione di nuove attività economiche avanzate, mantenendo il sistema produttivo ancorato a servizi a bassa qualificazione e a imprese di piccole dimensioni con scarse innovazioni tecnologiche e organizzative. La produttività del lavoro è così rimasta stagnante e contemporaneamente le produzioni manifatturiere si sono concentrate su segmenti a basso valore aggiunto, deprimendo ulteriormente i salari. Sul mercato del lavoro la proliferazione di contratti a tempo determinato e part time, insieme alla frammentazione dei rapporti di lavoro, ha indebolito il potere contrattuale dei sindacati, aggravando la polarizzazione salariale e riducendo la capacità di adeguare i salari all’inflazione. Inoltre, tre decenni di politiche di austerità e una serie di crisi (2008, 2011, 2020, 2022) hanno spinto l’Italia verso un modello di svalutazione interna basato su bassi costi del lavoro e flessibilità che ha ulteriormente compresso i salari, il cui potere d’acquisto è diminuito del 15% a causa dell’inflazione. Il Jobs Act avrebbe dovuto innescare un circolo virtuoso tra flessibilità, occupazione, investimenti e salari ma ha invece alimentato un circolo vizioso caratterizzato da bassa innovazione, precarietà, scarsa produttività e salari stagnanti. Questo modello ha portato a un aumento del lavoro povero, con il 10% dei dipendenti stabili e il 28% dei lavoratori a tempo determinato (25-59 anni) in condizioni di povertà tra il 2009 e il 2019. Già nel 2015 il rapporto Workers Act di Sbilanciamoci! aveva evidenziato i rischi di queste politiche, proponendo alternative come politiche macroeconomiche espansive, la riduzione della precarietà, l’introduzione del salario minimo e la riduzione dell’orario di lavoro, misure che rimangono rilevanti per invertire il declino economico italiano. L’abrogazione delle norme che hanno liberalizzato l’utilizzo del lavoro a termine permetterebbe di ridimensionare i contratti precari. L’esperienza degli ultimi anni dimostra che normative che rendono meno conveniente il lavoro a tempo determinato possono effettivamente ridurre l’utilizzo di contratti con minori tutele, mostrando che un lavoro meno precario è realizzabile. Parallelamente, l’abrogazione delle norme che limitano il reintegro al lavoro in caso di licenziamenti senza giusta causa diminuirebbe l’esposizione dei lavoratori al rischio di perdita del posto, promuovendo percorsi lavorativi più continui e incentivando le imprese a investire maggiormente nella formazione e qualificazione del personale, dimostrando che un lavoro più stabile è possibile. Inoltre, l’abrogazione delle norme che facilitano i licenziamenti illegittimi nelle piccole imprese, restituendo al giudice del lavoro la facoltà di determinare l’indennizzo, garantirebbe un trattamento più equo tra i lavoratori. Per quanto riguarda la sicurezza sul lavoro, essa rappresenta un aspetto fondamentale della qualità dell’occupazione, con particolare attenzione alla salute e alla sicurezza dei lavoratori. I dati Inail per l’industria e i servizi mostrano che il numero totale di infortuni sul lavoro è progressivamente diminuito fino al 2015, anno in cui, in coincidenza con l’introduzione del Jobs Act, si è registrata una battuta d’arresto, mantenendo un livello costante di infortuni. Successivamente, dopo la fine della pandemia, si è osservato un aumento, arrivando nel 2023 a 470 mila infortuni. Gli infortuni mortali, invece, hanno avuto un andamento oscillante, raggiungendo nel 2023 i 1012 casi. Nel 2010 si erano registrati valori particolarmente elevati, seguiti da una diminuzione anche grazie all’introduzione del D.Lgs. 81/08 e alla sua effettiva applicazione. Durante la pandemia di Covid-19 nel 2020 si è verificato un picco con oltre 1500 infortuni mortali. Analizzando le imprese in cui avvengono gli infortuni mortali, emerge che due terzi di questi incidenti si verificano in imprese con meno di 50 addetti. Nel 2023, su 1012 infortuni mortali, 363 sono avvenuti in imprese con meno di 10 addetti e 281 in quelle tra 10 e 49 addetti. Per quanto riguarda la tipologia contrattuale, l’incidenza degli infortuni è rilevante per tutte le forme di lavoro dipendente, compreso il lavoro interinale e l’apprendistato. I lavoratori a tempo determinato risultano più esposti al rischio rispetto ai dipendenti standard, come dimostrato da studi sia in Italia che in altri paesi. Le cause di questa maggiore esposizione includono la difficoltà nell’acquisire una cultura della sicurezza a causa della discontinuità contrattuale, la maggiore propensione ad accettare condizioni di lavoro svantaggiose per mantenere l’occupazione e la difficoltà dei sistemi di prevenzione territoriali nell’intervenire in contesti caratterizzati da precarietà e frammentazione dei percorsi lavorativi. Un altro aspetto critico riguarda le imprese in cui gli infortuni sono più frequenti, spesso operanti nella catena degli appalti e subappalti e impegnate in attività a basso valore aggiunto con elevati rischi lavorativi e ambientali. In queste imprese il personale svolge mansioni meno qualificate, con un maggiore impegno fisico e un rischio più elevato per la salute. Queste realtà sono spesso sottoposte a pressioni che portano a un maggiore utilizzo di contratti precari e con minori tutele, rendendo più difficile l’implementazione di adeguate misure di prevenzione e modelli organizzativi per la sicurezza sul lavoro. Per affrontare questi problemi sono necessari sistemi di prevenzione più integrati, in grado di contrastare la frammentazione del ciclo produttivo e l’esternalizzazione dei rischi, agendo a livello di gruppo, sito e filiera. È fondamentale rafforzare le responsabilità delle imprese appaltatrici nel controllo dei processi produttivi e nella prevenzione degli infortuni. I processi che hanno portato alla precarizzazione del lavoro in Italia, specialmente dopo l’introduzione del Jobs Act, e al deterioramento del sistema produttivo sono alla base dell’incapacità delle imprese di ridurre gli infortuni a partire dal 2015. L’elevato numero di morti sul lavoro, con circa mille casi all’anno, rappresenta il segnale più drammatico del degrado della qualità dell’occupazione nel paese. L’abrogazione delle norme che limitano la responsabilità dell’impresa appaltante in caso di infortunio negli appalti potrebbe affrontare una delle cause principali dell’alta frequenza di infortuni in Italia. Come evidenziato dal rapporto, negli ultimi anni gli infortuni, compresi quelli mortali, non sono diminuiti e molti di essi avvengono in piccole imprese che operano in condizioni di appalto e subappalto. Norme più rigorose che responsabilizzino le grandi imprese che esternalizzano attività rischiose potrebbero favorire una maggiore prevenzione e una riduzione degli infortuni, dimostrando che un lavoro in sicurezza è possibile.
6. La questione della cittadinanza
Il quesito referendario sulla cittadinanza, il quinto, mira a modificare radicalmente i criteri per l’acquisizione della cittadinanza italiana da parte di cittadini stranieri extracomunitari maggiorenni, riducendo da dieci a cinque anni il periodo minimo di residenza legale e continuativa nel territorio italiano necessario per presentare la domanda, una riforma che andrebbe a incidere sull’articolo 9 della legge 91 del 1992, la quale attualmente regola la materia basandosi sul principio dello jus sanguinis, per cui la cittadinanza viene trasmessa automaticamente solo a chi nasce da almeno un genitore italiano, mentre gli stranieri nati in Italia possono richiederla unicamente dopo aver dimostrato diciotto anni di residenza ininterrotta nel Paese e aver formalizzato la volontà di ottenerla entro un anno dal compimento della maggiore età. La proposta referendaria prevede inoltre che, una volta ottenuta la cittadinanza da parte del genitore, questa si estenda automaticamente ai figli minorenni conviventi, un meccanismo che rappresenterebbe una svolta significativa nell’attuale sistema, spesso accusato di essere eccessivamente rigido e di ostacolare l’integrazione di persone che, pur vivendo stabilmente in Italia da anni, lavorando, contribuendo al sistema fiscale e partecipando attivamente alla vita sociale ed economica del Paese rimangono escluse dai diritti politici e civili connessi alla cittadinanza. L’iniziativa si inserisce in un dibattito più ampio sull’allineamento dell’Italia agli standard europei in materia di immigrazione e inclusione poiché molti Paesi dell’Unione Europea prevedono già tempi più brevi per l’accesso alla cittadinanza, riconoscendola come strumento fondamentale per garantire pari opportunità e coesione sociale. Questo quesito è stato inizialmente proposto da +Europa assieme ad altre forze politiche, come il Partito della Rifondazione Comunista, e organizzazioni della società civile. Un simile dato non va ignorato perché +Europa, assieme alla galassia centrista che sostiene questo quesito, sono contemporaneamente forze ostili al movimento operaio e mobilitano elettori certamente non favorevoli a tutti e quattro i quesiti proposti dalla CGIL. Non a caso, recentemente, il segretario di +Europa Magi ha dichiarato che, pur partecipando alla votazione per il raggiungimento del quorum, voterà Si unicamente ai quesiti sulla cittadinanza e la responsabilità negli appalti. A noi il compito di collegare la dimensione del lavoro e della cittadinanza. Recentemente Lea Ypi ha pubblicato il libro Confini di classe. Diseguaglianze, migrazione e cittadinanza nello stato capitalista che può servire egregiamente questo scopo. Il testo inizia presentando le Undici tesi sulla cittadinanza nello Stato capitalista che sviluppano una critica radicale alla trasformazione della cittadinanza da strumento di emancipazione collettiva a meccanismo di esclusione e dominio di classe. Ypi smantella l’illusione liberale e socialdemocratica che considera la cittadinanza come un diritto individuale, acquisibile per nascita o attraverso meriti economici e culturali, dimostrando invece come essa sia ormai ridotta a una merce scambiata sul mercato globale. Questo processo riflette la natura stessa dello Stato capitalista che ha abbandonato qualsiasi funzione redistributiva o di mediazione democratica dei conflitti sociali, trasformandosi in un apparato al servizio delle élite finanziarie e politiche. La mercificazione della cittadinanza si manifesta in modo particolarmente evidente nei programmi che permettono ai ricchi di acquistare passaporti attraverso investimenti o proprietà immobiliari, creando una gerarchia giuridica tra chi può permettersi l’accesso immediato ai diritti e chi invece viene relegato in una condizione di precarietà permanente. Parallelamente, i test linguistici e di integrazione civica, presentati come strumenti neutri di coesione sociale, operano in realtà come filtri di classe ed etnici, escludendo chi non possiede le risorse economiche o culturali per superarli. Questi meccanismi riecheggiano storicamente i requisiti di proprietà che in passato limitavano il diritto di voto, dimostrando come la cittadinanza, anziché essere uno strumento di uguaglianza, riproduca e consolidi le divisioni sociali. Lo Stato, invece di contrastare le disuguaglianze generate dal mercato, le legittima attraverso politiche migratorie e di cittadinanza che trasformano i diritti in privilegi. Questo non solo esclude i migranti poveri ma indebolisce l’intera classe lavoratrice, frammentandola lungo linee nazionali, etniche e giuridiche. La cittadinanza diventa così un dispositivo di controllo che permette al capitale di disciplinare la forza lavoro, negando diritti politici a interi settori sociali mentre si garantisce mobilità e protezione solo a chi è utile al sistema economico. Storicamente le lotte per l’allargamento della cittadinanza, ai lavoratori, alle donne, alle popolazioni coloniali, erano parte di un progetto di democratizzazione radicale che mirava a contrastare il potere delle classi dominanti. Oggi, invece, la cittadinanza è stata svuotata di questo potenziale trasformativo e riproposta come strumento di oppressione, in cui l’inclusione è concessa solo a chi si adatta alle logiche del mercato e del controllo statale. La socialdemocrazia, che un tempo vedeva nella cittadinanza universale un mezzo per limitare il capitalismo, ha abbandonato questa prospettiva, accettando passivamente la trasformazione della democrazia in oligarchia. Per invertire questa deriva Ypi sostiene che non basta riformare le politiche migratorie o rendere più accessibili i test di cittadinanza: è necessario un radicale superamento del capitalismo stesso, unico modo per ripristinare un’idea di cittadinanza come partecipazione collettiva e non come merce di scambio. Finché lo Stato rimarrà subordinato agli interessi del capitale ogni tentativo di democratizzare la cittadinanza sarà vano perché le esclusioni che produce non sono incidentali ma strutturali. Il vero conflitto, quindi, non è tra cittadini e migranti ma tra chi trae profitto da questo sistema e chi ne subisce le conseguenze. La battaglia per una cittadinanza veramente universale è dunque inseparabile dalla lotta per un’alternativa anticapitalista. Ypi approfondisce anche la relazione tra classe sociale, migrazione e integrazione, mostrando come i dibattiti politici e accademici sull’immigrazione abbiano spesso trascurato le disuguaglianze economiche strutturali a favore di una retorica basata sull’identità o su generiche preoccupazioni distributive. Partendo da esempi concreti, come la campagna per la Brexit nel Regno Unito, dove l’immigrazione è stata strumentalizzata come causa primaria del malcontento popolare, o le dichiarazioni di Donald Trump che demonizzano i migranti paragonandoli ad “animali”, si evidenzia come il discorso pubblico sia stato plasmato da una semplificazione tossica che ignora le complesse dinamiche socioeconomiche alla base delle migrazioni. La tesi centrale è che i confini nazionali non sono ugualmente chiusi o aperti per tutti: essi si aprono facilmente per i ricchi, i bianchi e i professionisti altamente qualificati mentre si innalzano barriere insormontabili per i poveri, i non bianchi e i lavoratori non specializzati. Questa disparità si riflette anche nei processi di integrazione, infatti chi possiede capitale economico e culturale accede a percorsi privilegiati, come i visti per investitori o i programmi di immigrazione selettiva basati su competenze (adottati in Canada, Australia e recentemente in Germania), mentre i migranti più vulnerabili vengono relegati in condizioni di precarietà e marginalizzazione. Allo stesso modo le politiche di accoglienza differenziate, come il super premium service britannico che accelerava le pratiche burocratiche per chi poteva pagare migliaia di sterline, mostrano come lo stesso sistema migratorio riproduca gerarchie di classe, favorendo chi già detiene risorse. La narrativa dominante, sostenuta da partiti di destra e media mainstream, trasforma l’immigrazione in uno scontro tra “noi” (i cittadini nativi) e “loro” (gli stranieri), oscurando il fatto che i veri conflitti distributivi non sono tra popolazione locale e migranti in generale ma tra classi sociali. I lavoratori poveri, sia autoctoni che immigrati, competono per le stesse risorse scarse, alloggi sociali, posti di lavoro precari, accesso a servizi pubblici sottofinanziati, mentre élite economiche e datori di lavoro traggono vantaggio dalla loro vulnerabilità sfruttando manodopera a basso costo e alimentando divisioni per evitare solidarietà trasversali. L’ostilità verso l’immigrazione non nasce da un’autentica competizione tra gruppi bensì da un sistema che scarica sui più deboli le conseguenze di politiche economiche ingiuste, come l’austerità, la deregolamentazione del lavoro e il taglio al welfare.
Un’analisi più accurata dovrebbe quindi spostare l’attenzione dalla “minaccia migratoria” alle strutture di potere che generano disuguaglianza. Ad esempio, invece di chiedersi se gli immigrati “rubino il lavoro” o “sovraccarichino i servizi”, sarebbe più produttivo esaminare come i datori di lavoro utilizzino la migrazione per comprimere i salari o come la speculazione immobiliare crei carenze abitative artificiali. Allo stesso modo, le preoccupazioni sul welfare state, spesso citate per giustificare politiche restrittive, vanno ricontestualizzate: non è l’immigrazione in sé a minacciare i servizi pubblici ma decenni di privatizzazioni, tagli alle tasse per i ricchi e smantellamento dello stato sociale. La soluzione, quindi, non sta nel limitare ulteriormente la mobilità o nel selezionare migranti “desiderabili” ma nel costruire alleanze tra lavoratori nativi e immigrati, rafforzando sindacati e movimenti transnazionali che lottano per diritti comuni. Invece di accettare la falsa dicotomia tra “proteggere i confini” e “aprire le frontiere” una prospettiva di classe permette di sfidare le vere cause dello sfruttamento e della precarietà, riconoscendo che i diritti dei lavoratori non dovrebbero dipendere dalla loro nazionalità. Questo approccio richiede un rinnovato impegno politico, in cui le forze progressiste smascherino le manipolazioni della destra populista e offrano alternative concrete, come la lotta alla evasione fiscale delle multinazionali, la difesa dei servizi pubblici universali e la regolarizzazione dei migranti irregolari per contrastare il lavoro nero. La seconda questione sollevata in relazione all’impatto dell’immigrazione sulle società ospitanti riguarda i conflitti culturali, con particolare attenzione ai costi dell’integrazione e al timore che la diversità culturale possa minare la fiducia e la solidarietà necessarie al funzionamento del welfare state. Diversi autori propongono una soluzione equa attraverso uno pseudocontratto tra nativi e immigrati che richieda a entrambe le parti di adottare misure per facilitare una reciproca accettazione, al fine di sviluppare una cultura politica condivisa. Una di queste misure consiste nel vincolare la naturalizzazione al superamento di test linguistici, civici o di competenze di base, progettati per verificare la comprensione e l’accettazione delle norme sociali e linguistiche della società ospitante. David Miller, tra i principali sostenitori di queste politiche, sostiene che un cittadino deve identificarsi con il sistema politico del paese ospitante anche familiarizzando con i suoi riferimenti culturali, come festività, simboli artistici, letterari e storici. Miller afferma che ciò vale anche se l’obiettivo finale degli immigrati fosse modificare la cultura locale o mescolarla con elementi del proprio retaggio. Ad esempio, un’immigrata musulmana in Italia potrebbe aspettarsi che le figlie possano indossare il velo a scuola ma non dovrebbe opporsi alla presenza del crocifisso come simbolo del patrimonio cattolico italiano. Questa argomentazione solleva due questioni più ampie, evidenziando come il dibattito sull’immigrazione abbia trascurato la dimensione di classe. Innanzitutto, le aspettative di adattamento culturale presuppongono un’immagine unilaterale della comunità politica nazionale, giustificando acriticamente lo status quo. In realtà, in tutte le società democratiche, l’identità politica è oggetto di continui conflitti e non può ridursi a una mera celebrazione del passato. La reificazione di un’identità politica fissa rischia di promuovere una visione escludente che soffoca l’attivismo democratico. Nel caso del crocifisso, ad esempio, le critiche più forti in Italia non provengono da rappresentanti di altre religioni bensì da cittadini laici che lo interpretano come un retaggio fascista e una violazione della separazione tra Chiesa e Stato. Ciò dimostra che la costruzione di lealtà comuni non riguarda solo il conflitto tra immigrati e nativi perché si estende anche al rapporto tra i nativi stessi e non è puramente culturale ma ideologico e di classe. Richiedere agli immigrati di identificarsi con simboli come il crocifisso significa allinearsi alla parte conservatrice del dibattito politico, marginalizzando interpretazioni alternative dello Stato come terreno di conflitti sociali e ideologici. La seconda questione è ancora più problematica: riconoscere agli immigrati il diritto di mantenere alcuni aspetti della loro cultura (come il velo) chiedendo però di contestare certe tradizioni nazionali riduce le loro obiezioni a mere questioni culturali, indebolendone la portata politica. Ciò rafforza l’identificazione culturale a scapito del dibattito democratico, rimuovendo dalla sfera pubblica le vere questioni di contestazione politica. Quando il conflitto viene ridotto a uno scontro identitario, le altre fonti di disaccordo (come le disuguaglianze di classe) vengono ignorate, rendendo difficile diagnosticare e risolvere tali tensioni. Inoltre questo approccio favorisce le élite politiche che definiscono le norme pubbliche escludendo chi ha meno istruzione, reddito e competenze, interpretando il loro disagio come un problema di integrazione culturale anziché sociale. Si potrebbe obiettare che l’esempio del crocifisso sia mal scelto e che i test di competenza civica per gli immigrati siano necessari per garantire la coesione sociale. Tuttavia resta da chiedersi quali nativi detengano il controllo su tali criteri e come vengano stabiliti. Se i requisiti sono minimi è difficile capire cosa misurino effettivamente; se sono troppo rigorosi il progetto appare elitario, volto a nascondere le disuguaglianze di classe e a marginalizzare le voci dissenzienti. Inoltre non è chiaro perché si presupponga che tutti i nativi posseggano le conoscenze necessarie per esercitare un giudizio politico mentre agli immigrati venga richiesto di dimostrarle. Livelli di istruzione, competenze sociali e background culturale influenzano la capacità di partecipare al dibattito pubblico, indipendentemente dall’essere nativi o immigrati. Un immigrato altamente istruito potrebbe superare facilmente un test che un nativo poco istruito fallirebbe, il che solleva dubbi sull’equità di tali requisiti. Infine, i test di competenza civica per gli immigrati residenti a lungo termine ricordano un’epoca in cui criteri simili erano usati per negare il diritto di voto a determinate categorie, come la classe lavoratrice o chi parlava solo dialetto. Storicamente l’accesso alla cittadinanza è stato una questione di classe e mentre le democrazie hanno lottato per estendere i diritti politici, oggi la minaccia proviene dalla reificazione della cultura nazionale e dall’applicazione di restrizioni antiquate agli immigrati. Interpretare l’integrazione solo in termini identitari, trascurando la classe, minaccia l’ideale di cittadinanza democratica, trasformandola da strumento di emancipazione a mezzo di dominio elitario. Se questa analisi è corretta diventa essenziale inquadrare il dibattito migratorio riconoscendo il ruolo centrale della classe. Una conseguenza logica sarebbe l’abolizione dei requisiti culturali per i residenti a lungo termine, eliminando test obbligatori e altri ostacoli alla piena cittadinanza. Senza un rinnovato impegno per una cittadinanza incondizionata, gli ideali democratici dell’integrazione verranno sacrificati. L’imposizione di un’identità culturale nazionale e la narrazione che contrappone immigrati e nativi poveri è un progetto delle élite che oscura le questioni di giustizia sociale. Affrontare queste disuguaglianze è cruciale per risolvere la crisi della democrazia liberale. Se non si discutono i confini di classe e non si promuovono politiche per ridurre le disuguaglianze generate dal capitalismo, l’ascesa delle ultradestre sarà inevitabile. La sinistra si trova oggi ad affrontare un dilemma profondo e multidimensionale riguardo alla questione migratoria, un dilemma che non può essere ridotto a semplicistiche accuse di razzismo o xenofobia e che affonda le sue radici in tensioni sia pragmatiche che di principio, con implicazioni significative per il futuro del progetto progressista. Questo dilemma si manifesta su due livelli distinti ma interconnessi: da un lato, la sfida elettorale e strategica posta dall’ascesa dei partiti di estrema destra che hanno saputo capitalizzare il malcontento della classe lavoratrice, tradizionale bacino di consenso della sinistra, attraverso una retorica anti-immigrazione sempre più aggressiva; dall’altro, la questione teorica e politica del rapporto tra immigrazione e welfare state, con il presunto trade-off tra apertura alle migrazioni e mantenimento di un robusto sistema di protezione sociale. Sul piano pragmatico la sinistra è stretta nella morsa di un paradosso elettorale. Per riconquistare il consenso di quelle fasce popolari che si sono spostate a destra potrebbe essere tentata di adottare posizioni più restrittive in materia di immigrazione, allineandosi almeno in parte alla retorica dominante, però questo rischierebbe di minare la sua stessa identità politica, fondata su valori di uguaglianza, inclusione e solidarietà universale. Il rischio è quello di una progressiva erosione del progetto progressista, schiacciato tra la necessità di competere elettoralmente e la fedeltà ai propri principi. Questo dilemma è reso ancora più acuto dal fatto che, in molti contesti nazionali, l’elettorato percepisce l’immigrazione come una minaccia concreta alla sicurezza e alla stabilità del welfare state, alimentando sentimenti di risentimento e chiusura che la destra populista sfrutta abilmente. Sul piano di principio il nodo cruciale riguarda l’impatto dell’immigrazione sulla coesione sociale e sulla tenuta del modello di solidarietà su cui si fondano gli Stati sociali europei. L’argomentazione, anche da alcuni settori della sinistra, è che i flussi migratori su larga scala generino tensioni sia distributive che culturali. Sul fronte distributivo l’arrivo di un elevato numero di migranti aumenterebbe la pressione sui servizi pubblici, dalla sanità alla scuola, dagli alloggi ai sussidi di disoccupazione, creando competizione per risorse già scarse e mettendo a rischio l’accesso ai benefici sociali per i cittadini più vulnerabili. Sul fronte culturale si sostiene che la crescente diversità etnica e religiosa minerebbe il senso di appartenenza comune, erodendo quella fiducia reciproca e quella identificazione collettiva che sono alla base della solidarietà democratica. In altre parole, se i membri di una comunità politica non si riconoscono più come parte di uno stesso progetto collettivo, la disponibilità a sostenere politiche redistributive si indebolirebbe, portando a un progressivo smantellamento del welfare state. Questa visione allarmista non trova un solido riscontro nei dati empirici. Numerosi studi dimostrano che, nel medio-lungo periodo, l’immigrazione ha un impatto economico positivo: contribuisce alla crescita, compensa il declino demografico legato all’invecchiamento della popolazione e colma carenze strutturali in settori cruciali come l’agricoltura, l’edilizia e l’assistenza agli anziani. Inoltre, contrariamente al luogo comune, non esiste una correlazione diretta tra aumento dei flussi migratori e riduzione della spesa sociale. Paesi con politiche migratorie relativamente aperte, come la Svezia o il Canada, mantengono sistemi di welfare tra i più avanzati al mondo. Ciò nonostante la percezione pubblica continua a vedere nell’immigrazione una minaccia e questa narrativa, alimentata da partiti e media, finisce per influenzare le politiche concrete, creando un circolo vizioso di restrizioni e tensioni sociali. Di fronte a questo dilemma la sinistra ha provato a elaborare risposte alternative, basate principalmente su due modelli di solidarietà: quello multiculturale e quello sovranazionale. Il modello multiculturale, incarnato da esperienze come quella canadese o britannica, propone una visione inclusiva della cittadinanza, in cui le differenze culturali, linguistiche e religiose non vengono assimilate forzatamente ma riconosciute e valorizzate all’interno di un quadro comune di diritti e doveri. L’obiettivo è costruire una solidarietà che si fondi sulla capacità di integrare le diversità in un progetto politico condiviso. Il modello sovranazionale, invece, punta a superare i limiti dello Stato nazione attraverso istituzioni transnazionali, come l’Unione Europea, che estendono i principi di giustizia sociale e cooperazione oltre i confini nazionali, creando forme di cittadinanza multilivello e meccanismi di redistribuzione su scala regionale o globale. Entrambi questi modelli, però, presentano limiti significativi. Pur criticando alcune rigidità dello Stato nazione, non mettono realmente in discussione il quadro di fondo della governance liberaldemocratica, rimanendo ancorati a un’idea astratta di cooperazione tra cittadini formalmente uguali. In realtà, come dimostrano le lotte storiche per i diritti sociali, la solidarietà non nasce spontaneamente dalla condivisione di istituzioni o valori. Essa ha bisogno dell’azione collettiva di gruppi subalterni, lavoratori, donne, minoranze etniche, che lottano per trasformare rapporti di potere profondamente diseguali. Sia il multiculturalismo che il sovranazionalismo tendono a trascurare il ruolo centrale dei conflitti di classe e delle asimmetrie economiche nella formazione della solidarietà, concentrandosi invece su questioni identitarie o istituzionali. Una prospettiva più radicale e storicamente fondata suggerisce che la vera solidarietà emerge dalla capacità di mobilitazione collettiva contro forme condivise di oppressione e sfruttamento. È questa la lezione dei movimenti operai, delle battaglie sindacali, delle lotte anticoloniali: la solidarietà si costruisce dal basso, attraverso pratiche di resistenza e mutualismo, non attraverso l’adesione passiva a istituzioni che spesso riflettono e riproducono disuguaglianze strutturali. Per la sinistra, quindi, la sfida è ripensare la solidarietà stessa in termini di classe, riconoscendo che le divisioni fondamentali nelle società contemporanee sono tra chi detiene il potere economico e chi ne è escluso. Solo recuperando questa visione conflittuale e trasformativa la sinistra potrà affrontare in modo efficace il dilemma dell’immigrazione, proponendo un’alternativa credibile tanto alla chiusura reazionaria quanto all’astratto universalismo liberale. La solidarietà di classe si presenta come un modello alternativo radicalmente diverso rispetto alle concezioni multiculturali e sovranazionali di giustizia sociale e organizzazione politica. Mentre questi ultimi approcci interpretano la comunità politica come un sistema di cooperazione basato su istituzioni giuridiche e politiche che regolano la distribuzione delle responsabilità sociali, il modello classista rivela come la stessa nozione di comunità politica sia invece un terreno di conflitto permanente tra gruppi sociali caratterizzati da rapporti di potere profondamente asimmetrici. Queste asimmetrie sono strutturalmente legate alla posizione che i diversi gruppi occupano all’interno delle complesse architetture economiche, giuridiche e politiche del capitalismo globale contemporaneo. Le classi sociali non vanno intese come mere categorie economiche predeterminate, né come aggregati casuali di individui accomunati da simili condizioni materiali. Esse rappresentano piuttosto il risultato dinamico di processi storici di strutturazione sociale, plasmati dall’evoluzione delle condizioni materiali di sviluppo, dalla concentrazione asimmetrica di proprietà e potere sociale, e dall’intreccio di fattori economici, politici, giuridici e ideologici che regolano i rapporti di forza nell’ambito di un mercato globale sempre più interdipendente ma dominato da logiche di accumulazione e concentrazione del capitale. La sinistra storica ha lungamente dibattuto sulla precisa definizione delle classi sociali, sul peso relativo dei fattori economici nella formazione degli interessi di classe e sulla complessa relazione tra identità e coscienza di classe. Queste fondamentali questioni teoriche sono state spesso marginalizzate nel contemporaneo dibattito sull’impatto delle migrazioni e sulle politiche del welfare state. L’analisi dominante tende a presupporre acriticamente la priorità della lealtà verso lo Stato-nazione, interpretando le migrazioni principalmente come problema di integrazione comunitaria piuttosto che come manifestazione di più ampie dinamiche di sfruttamento e disuguaglianza globale. Questo approccio trascura come le stesse condizioni che rendono la migrazione un “problema” siano strettamente connesse alle profonde asimmetrie del sistema internazionale, dove differenze sostanziali tra Stati, nel livello di sviluppo, nel rapporto con il capitale transnazionale, nell’accesso a diritti e risorse, derivano direttamente da rapporti di forza storici e contemporanei legati all’espansione globale del capitalismo. Una prospettiva classista sulla migrazione rivela come questa non costituisca un fenomeno problematico in sé ma lo diventi nel contesto di un sistema globale di produzione e distribuzione delle risorse profondamente squilibrato, modellato dalla mobilità del capitale e dalle strutture giuridico-politiche che ne permettono la riproduzione. Le asimmetrie di potere e ricchezza generate dalla globalizzazione capitalistica producono sistematicamente conflitti sociali che attraversano tanto i cosiddetti Stati “sviluppati” quanto quelli “in via di sviluppo”, sebbene con dinamiche differenziate. I lavoratori poveri, sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, subiscono gli effetti convergenti di processi come la deindustrializzazione, la digitalizzazione e le crisi di produttività, pur con diverse intensità e modalità. Parallelamente le élite economiche di entrambi i contesti traggono vantaggio da un sistema che consente loro di sfruttare queste divisioni, pur all’interno di quadri giuridico-politici nazionali differenziati.
La capacità dei movimenti operai di organizzarsi a livello sia nazionale che transnazionale rappresenta un fattore cruciale nel ridisegnare gli equilibri di potere sia all’interno degli Stati che nelle relazioni internazionali. I modelli multiculturali e sovranazionali di solidarietà tendono a riprodurre una logica che contrappone lavoratori immigrati e nativi sulla base della loro appartenenza a diverse comunità politiche, attribuendo priorità ai secondi in nome di una presunta lealtà nazionale condivisa. Al contrario, una prospettiva classista rifiuta qualsiasi gerarchia a priori tra lavoratori basata sull’appartenenza statale, riconoscendo come i veri assi del conflitto siano globali e come le stesse tensioni migratorie derivino da asimmetrie di potere che favoriscono la circolazione del capitale a scapito dei lavoratori.
Esempi concreti di lotte transnazionali, dalle campagne internazionali per i diritti dei lavoratori di Amazon al movimento “Fridays for Future” con il suo slogan “Uproot the System”, dimostrano la possibilità di costruire risposte collettive a sfide globali, offrendo al contempo modelli alternativi per reinterpretare la questione migratoria non come problema di integrazione culturale ma come manifestazione di ingiustizie strutturali del sistema capitalista. Molti movimenti progressisti nelle democrazie liberali mostrano una persistente incapacità di includere pienamente i lavoratori migranti nelle loro lotte, riflettendo vincoli strutturali profondi. L’organizzazione prevalentemente nazionale dei sindacati, le barriere legali alla partecipazione politica dei migranti (specialmente quelli irregolari o con permessi temporanei) e la stessa logica competitiva dei sistemi elettorali spingono i partiti di sinistra a privilegiare le rivendicazioni dei lavoratori nazionali, riproducendo così divisioni che indeboliscono la solidarietà di classe su scala globale. La riflessione di Karl Marx sulla divisione tra lavoratori inglesi e irlandesi nel XIX secolo mantiene una sorprendente attualità nel descrivere questi meccanismi. Marx osservò come l’operaio inglese, vedendo nel migrante irlandese un concorrente che abbassa i salari e minaccia le proprie condizioni, sviluppasse sentimenti di ostilità che lo rendevano di fatto complice del dominio delle classi capitaliste. Questo stesso paradigma si riproduce oggi, con i lavoratori nativi che, identificandosi con lo Stato di appartenenza, finiscono per trascurare lo sfruttamento comune e per difendere privilegi storicamente costruiti su rapporti di forza globali ingiusti. Le radici coloniali e neocoloniali di queste asimmetrie vengono sistematicamente rimosse dal discorso pubblico, dove si tende a presentare le disuguaglianze tra Stati come dati naturali piuttosto che come esiti di rapporti di sfruttamento storici e contemporanei. Il cosiddetto “dilemma progressista”, che contrappone presunti interessi dei lavoratori nativi a quelli dei migranti, rappresenta in realtà una trappola concettuale che riproduce le divisioni funzionali al mantenimento del sistema capitalista. La vera linea di conflitto non passa tra Stati o gruppi culturali ma tra classi sociali che sperimentano in modo differenziato i processi globali di accumulazione del capitale. I modelli multiculturali e sovranazionali si dimostrano incapaci di cogliere questa dinamica perché fondati su una visione contrattualistica e cooperativa della società che elude le relazioni di potere strutturali. La divisione artificiale tra lavoratori “nativi” e “stranieri” costituisce uno degli strumenti più efficaci attraverso cui il capitalismo mantiene il proprio dominio, indebolendo la solidarietà di classe e frammentando le potenziali resistenze. Come già Marx aveva intuito, questa divisione è “il segreto dell’impotenza della classe lavoratrice” che, nonostante la sua potenziale forza numerica, viene sistematicamente divisa e quindi sconfitta. Le élite capitaliste comprendono perfettamente l’utilità di queste divisioni che vengono costantemente alimentate attraverso apparati ideologici (media, istituzioni culturali, discorso politico dominante) funzionali al mantenimento dello status quo. Per costruire un’alternativa efficace la sinistra deve abbandonare il quadro concettuale del “dilemma progressista” e riconoscere che la vera minaccia per i lavoratori non viene dai migranti ma dallo Stato capitalista e dalle sue politiche di gestione dei confini che creano eserciti di riserva di manodopera vulnerabile e divisa. Solo una prospettiva autenticamente internazionalista che rifiuti le false contrapposizioni tra lavoratori di diverse nazionalità e riconosca la comune condizione di sfruttamento sotto il capitalismo globale può offrire gli strumenti teorici e politici per una reale alternativa di trasformazione sociale. Questo implica la capacità di sfidare i discorsi dominanti anche a costo di apparenti sconfitte nel breve periodo, nella consapevolezza che senza una ridefinizione radicale dei termini del dibattito ogni conquista parziale rischia di essere riassorbita nelle logiche del sistema che si intende trasformare.