Le Nuove Indicazioni Nazionali del primo ciclo d’istruzione e la scuola del governo Meloni

Le Nuove Indicazioni Nazionali del primo ciclo d’istruzione sono un documento utile per comprendere la visione della scuola del governo Meloni. Giustamente sul sito della rivista Insegnare, legata al Cidi, Giuseppe Bagni afferma che esse si inseriscono in un contesto politico e culturale che mira a riportare la scuola indietro nel tempo, non attraverso un reale rinnovamento pedagogico bensì tramite una retorica nostalgica che celebra un passato mitizzato che si affianca a pericolosi provvedimenti repressivi nelle nostre scuole e università. Ad esempio l’inasprimento delle sanzioni disciplinari, l’introduzione di nuovi reati per i minori e la stretta sul voto di condotta (che può determinare l’esito degli scrutini e della maturità) rivelano una volontà precisa, ovvero criminalizzare la protesta giovanile, anche quando è pacifica, e normalizzare comportamenti accondiscendenti. Si tratta di una strategia che utilizza la paura per giustificare misure repressive, alimentando il mito di una delinquenza minorile in crescita, nonostante i dati dimostrino il contrario. Per quanto riguarda l’università, citiamo solamente la proposta (poi parzialmente ritirata) di obbligare gli atenei a collaborare con i servizi segreti, cosa che svela un disegno di sorveglianza generalizzata in netto contrasto con i principi costituzionali di autonomia e libertà della ricerca. L’adolescenza, con le sue domande scomode e la sua ribellione, spaventa perché mette in discussione lo status quo. I giovani, soprattutto quelli che chiedono giustizia climatica, diritti e un futuro dignitoso, sono percepiti come una minaccia. La risposta è una doppia strategia: l’esclusione attraverso percorsi formativi differenziati (come la filiera professionalizzante abbreviata) e l’assimilazione forzata a un’identità culturale presentata come superiore. Questo approccio tradisce il mandato costituzionale della scuola e rischia di alimentare ulteriore rabbia e frustrazione, come dimostrano gli episodi di violenza giovanile, spesso privi di un obiettivo preciso ma radicati in un senso di esclusione e precarietà. Sul piano didattico le Indicazioni del 2025 propongono un ritorno a un nozionismo sterile, con un’ossessione per contenuti enciclopedici e una pedagogia autoritaria che ignora le evidenze scientifiche. L’idea che esistano “talenti innati” (come il “pallino per la matematica”) è scientificamente infondata e pedagogicamente dannosa perché scoraggia l’impegno e giustifica le disuguaglianze. Allo stesso modo, la proposta di affrontare la violenza di genere con una generica “educazione del cuore” nega la dimensione strutturale del problema, riducendolo a una questione di buoni sentimenti. Il cambiamento del titolo da “Cultura, scuola, persona” a “Persona, scuola, famiglia” non è casuale. Segna un passaggio da una visione collettiva e democratica dell’istruzione a una prospettiva individualista e familista che svuota il ruolo sociale della scuola. La Costituzione parla di rimuovere gli ostacoli alla libertà e all’uguaglianza ma queste Indicazioni li moltiplicano, differenziando i percorsi in base a presunte “potenzialità” già definite. Sulla stessa linea si attesta Massimo Baldacci che, in un seminario della FLC CGIL e di Proteo Fare Sapere del 14 marzo 2025 a Didacta, concentra la sua analisi principalmente sulla “Premessa culturale generale”, evidenziando due aspetti fondamentali che, a suo avviso, caratterizzano in modo problematico l’impianto culturale e pedagogico del testo: una visione fortemente occidentocentrica e una prospettiva educativa antiegualitaria e determinista. Baldacci critica la tendenza del documento a presentare la cultura occidentale come superiore alle altre, senza riconoscere adeguatamente il carattere multiculturale della società contemporanea, specialmente nelle aree metropolitane. Un esempio emblematico è l’affermazione secondo cui la libertà sarebbe un valore esclusivo dell’Occidente fin dalle sue origini, con riferimento ad Atene, Roma e Gerusalemme. Questa tesi è storicamente discutibile poiché ignora il fatto che le società greca e romana erano basate sulla schiavitù e su sistemi di esclusione politica (come l’assenza di diritti per donne, schiavi e meteci). Inoltre trascura le contraddizioni della modernità occidentale, come il colonialismo, la tratta degli schiavi e il razzismo, che hanno segnato profondamente la storia europea e americana. Un altro passaggio problematico è quello in cui si afferma che “solo l’Occidente conosce la storia” mentre altre civiltà avrebbero prodotto solo qualcosa che “vagamente assomiglia” alla storia. Baldacci contesta questa posizione, sottolineando come essa riproponga una visione eurocentrica già criticata dagli studi postcoloniali (come quelli di Edward Said e Stuart Hall), che hanno dimostrato come simili narrazioni siano state strumentalizzate per giustificare il dominio coloniale. La conseguenza pedagogica di questa impostazione è una marginalizzazione della storia extra-occidentale, nonostante la presenza in classe di alunni con origini migratorie. Il documento, inoltre, sembra promuovere un modello di integrazione assimilazionista, in cui gli studenti provenienti da altre culture devono adattarsi alla cultura italiana ed europea senza che vi sia un reale riconoscimento delle loro radici storiche e identitarie. Questo approccio, secondo Baldacci, rischia di minare il dialogo interculturale e di alimentare tensioni sociali anziché favorire una convivenza basata sul reciproco rispetto. L’altro grande tema critico sollevato riguarda l’impostazione pedagogica del documento che sembra fondarsi su una visione deterministica delle capacità degli alunni. Il testo pone al centro il concetto di “talento”, definendolo come qualcosa di intrinsecamente legato al “potenziale cognitivo” di ciascuno studente. Secondo Baldacci questa formulazione rischia di veicolare un’idea innatista delle capacità individuali, come se le differenze negli apprendimenti fossero dovute principalmente a predisposizioni naturali piuttosto che a fattori sociali, culturali ed educativi. Il problema è che, se si accetta l’idea che il talento sia una dote innata, si finisce per giustificare le disuguaglianze negli esiti scolastici, attribuendole a differenze “naturali” tra gli alunni invece che a possibili carenze del sistema formativo. Questo approccio contrasta con il dettato costituzionale (art. 3) che impegna la scuola a “rimuovere gli ostacoli” che limitano l’uguaglianza e a garantire a tutti il pieno sviluppo delle proprie potenzialità. La proposta pedagogica del documento si basa inoltre sul concetto di “personalizzazione”, intesa come adattamento delle strategie didattiche alle inclinazioni individuali degli studenti. Baldacci riconosce che una certa flessibilità metodologica può essere utile, ma avverte che, se applicata in modo acritico, la personalizzazione rischia di cristallizzare le differenze esistenti anziché contrastarle. Ad esempio, se un bambino mostra difficoltà in matematica, un approccio puramente “personalizzato” potrebbe portare a ridurre le aspettative nei suoi confronti, invece di aiutarlo a superare le sue lacune. Per contrastare questa deriva Baldacci propone un modello alternativo, quello dell’”individualizzazione” che prevede percorsi didattici flessibili ma finalizzati al raggiungimento di obiettivi comuni per tutti gli studenti, in modo da garantire a ciascuno le competenze di base necessarie per la cittadinanza attiva. Baldacci conclude osservando che le due criticità analizzate, l’etnocentrismo culturale e l’antiegualitarismo pedagogico, sembrano convergere verso un progetto di scuola che, nonostante le dichiarazioni di principio, rischia di essere poco inclusivo e democratico. Da un lato, si nega valore alle culture non occidentali, dall’altro si accettano come inevitabili le disuguaglianze educative, attribuendole a differenze innate anziché a fattori sociali modificabili. Bisogna individuare la fonte di simili tesi sulla scuola che hanno ampio spazio nel governo Meloni. Per farlo analizzeremo due libri che esemplificano nel migliore dei modi possibili queste idee di scuola: Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza e L’aula vuota.

1. Alla ricerca delle radici della concezione meloniana della scuola

Entrambi i lavori in esame sono intrisi di nostalgia per il passato e di un furore ideologico contro il ‘68 e la pedagogia progressista ad esso associata che si ritiene, erroneamente, dominante nella nostra scuola e perciò associato al suo declino. Non a caso Antonio Brusa, in un’intervista a La tecnica della scuola, criticando Galli della Loggia afferma che: “la maggior parte dei docenti pratica il cosiddetto modello tradizionale: lezione/manuale/interrogazione. Quindi, se c’è una crisi, è a questi insegnanti che va imputata. Ora, la gravità di queste indicazioni è che incoraggiano a proseguire in questa pratica, che l’esperienza storica dovrebbe dichiarare come negativa, mentre contrastano coloro che vorrebbero trovare soluzioni alternative”. Negli ultimi anni Paola Mastrocola e Luca Ricolfi sono stati tra i principali critici della scuola democratica e progressista contro cui hanno scritto il libro Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza. In questo testo il loro intento è smontare l’immagine della scuola italiana come luogo accogliente, orizzontale, fluido, individualizzato e “inclusivo”, rivelandone i tratti meno visibili, le contraddizioni sistemiche e soprattutto le conseguenze, a loro avviso, distruttive sul piano educativo e sociale. La tesi centrale è che le trasformazioni avvenute nella scuola italiana negli ultimi decenni, in particolare dalla fine degli anni ‘60, abbiano svuotato l’istituzione del suo significato originario, rovesciando la sua funzione fondamentale, quella cioè di veicolo di trasmissione del sapere e strumento di emancipazione per le classi popolari. Questa metamorfosi, avvenuta nel nome della lotta all’autoritarismo, dell’apertura democratica, dell’attenzione allo studente e alla soggettività, ha però finito per sortire l’effetto opposto a quello dichiarato: mentre proclamava di voler combattere le disuguaglianze, la scuola le ha in realtà consolidate, accentuate, istituzionalizzate. Gli autori individuano la matrice ideologica di questa deriva nella sinistra, o meglio, in quella parte egemone della sinistra che ha fatto propria una visione pedagogica ispirata a istanze libertarie, a tratti antiautoritarie, che ha promosso l’abbandono della centralità del sapere a favore del benessere psico-emotivo dello studente, riformulando l’insegnamento come processo relazionale più che come trasmissione di contenuti strutturati. Mastrocola e Ricolfi parlano della “scuola progressista” come di una costruzione ideologica che ha messo al centro valori come la personalizzazione, la creatività, la leggerezza, la spontaneità, la partecipazione, la parità tra docente e discente, il rifiuto del voto e della selezione che però, nel momento in cui sono divenuti principi normativi, hanno comportato un drammatico indebolimento della struttura educativa. È in questa operazione che gli autori riconoscono la responsabilità della sinistra. Essa non solo avrebbe promosso questo tipo di discorso pedagogico ma l’avrebbe trasformato in uno strumento di legittimazione culturale, investendo il piano educativo di una retorica etica e politica che ha trasformato l’idea di autorità, sapere, disciplina e sforzo in simboli di oppressione borghese, di conservatorismo culturale, se non addirittura di reazionarismo. Così facendo essa ha abdicato al suo ruolo storico di forza dell’emancipazione popolare, tradendo, è il termine che ritorna più volte nel libro, i figli dei ceti umili, coloro che non hanno altro accesso alla cultura se non attraverso la scuola e per i quali la difficoltà, il rigore, la selettività costituivano una chance concreta di riscatto. È proprio qui che si chiarisce il vero senso della critica mossa dagli autori. La loro proposta si fonda sull’idea che l’unico modo per garantire giustizia scolastica sia offrire a tutti un sapere forte, organico, solido, articolato, condiviso. Una scuola è davvero giusta solo se mette a disposizione degli strumenti cognitivi elevati anche a chi non li possiede in partenza, se pretende molto da ogni studente e fornisce i mezzi per raggiungere quel molto, se tratta ciascuno non come un individuo da coccolare o proteggere ma come un soggetto pensante capace di affrontare la fatica dello studio e crescere attraverso di essa perché l’emancipazione, sostengono Mastrocola e Ricolfi, non è mai un processo immediato, spontaneo, “felice” ma sempre un attraversamento del limite, uno sforzo per uscire da sé, un incontro con l’alterità del sapere che chiede tempo, disciplina e costanza. Questo è il vero “ascensore sociale” che la scuola può rappresentare: un luogo dove si apprende ciò che non si sa e che non si può imparare altrove, un luogo di confronto con la cultura alta e non la conferma delle proprie condizioni o dei propri gusti. Nel denunciare quella che chiamano la retorica inclusiva, gli autori non negano certo la necessità che tutti siano accolti e rispettati nella scuola ma sottolineano che un’accoglienza che rinuncia ad esigere, che non sfida, che abbassa le aspettative in nome della fragilità individuale o dell’integrazione immediata, si rivela alla lunga una forma subdola di esclusione. L’inclusività di facciata, infatti, produce una scuola che promuove tutti senza insegnare a nessuno, che finge di coltivare competenze mentre lascia franare i saperi, che valuta “percorsi” soggettivi invece di misurare apprendimenti oggettivi. In questa scuola chi ha un contesto familiare colto o economicamente agiato riesce comunque a ricevere altrove gli strumenti di cui ha bisogno mentre chi proviene da contesti meno favoriti resta indietro, spesso inconsapevole della perdita. È questa la “macchina della disuguaglianza” che dà il titolo al libro: un sistema che, dichiarandosi democratico, produce esiti aristocratici perché garantisce il successo solo a chi ha già le risorse per costruirselo da solo. Su Jacobin uscì nel 2021 una critica di Pietro Savastio al libro dove si sostiene che la tesi di Ricolfi e Mastrocola si basa su un presupposto errato, ovvero l’idea che la scuola italiana sia stata radicalmente trasformata dal progressismo pedagogico. Al contrario, osserva che, nonostante alcune riforme di ispirazione democratica (come quella di Berlinguer negli anni ’90), la scuola odierna conserva in larga misura strutture e metodi tradizionali. Basta entrare in un’aula, nota Savastio, per rendersi conto che i banchi sono ancora disposti in file verso la cattedra, la lezione frontale domina la didattica e i libri di testo rimangono lo strumento principale di insegnamento (in un seminario sulle Nuove Indicazioni Nazionali a cui chi scrive ha partecipato, la segretaria della FLC CGIL Gianna Fracassi ha ribadito che questo aspetto è ampiamente noto al ministero, il quale sta accelerando il percorso di introduzione delle indicazioni proprio per poter modificare i libri di testo e di conseguenza modificare la didattica in classe). Le metodologie attive, cooperative o laboratoriali, spesso associate al progressismo educativo, sono in realtà poco diffuse e relegate a esperienze sporadiche. La tesi di una scuola “annacquata” dal progressismo appare dunque infondata. Il vero problema è semmai che la scuola non è cambiata abbastanza, restando ancorata a modelli autoritari e trasmissivi che non rispondono più alle esigenze di una società complessa e diversificata.  Un altro punto cruciale della riflessione di Savastio riguarda la questione dell’inclusione. Ricolfi e Mastrocola rimpiangono una scuola selettiva, in cui la bocciatura fungeva da meccanismo di filtro, garantendo (a loro dire) una solida preparazione agli studenti meritevoli. Savastio ribatte che questa visione ignora il carattere classista della scuola del passato che escludeva sistematicamente i figli delle classi popolari, riservando l’istruzione di qualità a una ristretta élite. La scuola di massa, nata con la riforma della scuola media unica nel 1963, è stata una conquista democratica fondamentale che ha permesso a milioni di giovani di accedere a un’istruzione prima preclusa. Certo, questo ampliamento ha portato nuove sfide ma la soluzione non può essere il ritorno a un modello escludente. Al contrario, occorre lavorare per una scuola che sappia davvero includere, accompagnando tutti gli studenti, soprattutto i più svantaggiati, verso il successo formativo. Savastio riconosce che la scuola italiana oggi non funziona come dovrebbe ma le cause vanno cercate altrove: nelle riforme incompiute, nei tagli ai finanziamenti (come quelli operati dalla riforma Gelmini e oggi dal governo Meloni), nella mancanza di una vera formazione docente sulle didattiche innovative. La cosiddetta “scuola progressista” denunciata da Ricolfi e Mastrocola è in gran parte un fantasma. Ciò che esiste è piuttosto una scuola ibrida, dove convivono residui di autoritarismo e timidi tentativi di rinnovamento, spesso frustrati da carenze strutturali. La vera sfida sarebbe realizzare finalmente una scuola democratica in senso pieno, ispirata ai principi della pedagogia attiva e cooperativa, capace di promuovere conoscenze, pensiero critico, autonomia e partecipazione. In questa prospettiva Savastio richiama l’eredità di figure come Don Milani e Célestin Freinet, per i quali l’educazione doveva essere uno strumento di emancipazione delle classi subalterne. Una scuola veramente progressista non è quella che abbassa l’asticella bensì quella che offre a tutti gli strumenti per raggiungere traguardi ambiziosi, attraverso metodologie inclusive e partecipative. Purtroppo questo modello non si è mai affermato compiutamente in Italia, dove prevale ancora una didattica nozionistica e trasmissiva, incapace di rispondere alle disuguaglianze sociali. La conclusione di Savastio è netta: invece di guardare con nostalgia a un passato idealizzato, occorre impegnarsi per costruire la scuola che ancora non c’è, una scuola autonoma, comunitaria, fondata sulla cooperazione e sulla liberazione delle potenzialità di ciascuno. Solo così l’istruzione potrà diventare davvero un motore di uguaglianza e democrazia. La posizione di Ricolfi e Mastrocola, al contrario, rischia di riportare indietro le lancette della storia, perpetuando un modello elitario e selettivo che non ha mai funzionato per la maggioranza degli studenti. La posta in gioco, conclude Savastio, non è solo pedagogica ma politica. Si tratta di decidere se vogliamo una scuola che riproduce le disuguaglianze o una che le combatte, costruendo una società più giusta. Un altro caposaldo della visione meloniana della scuola è il pensiero di Ernesto Galli della Loggia, oltretutto coinvolto nella stesura delle Nuove Indicazioni Nazionali. Nel libro L’aula vuota Ernesto Galli della Loggia sviluppa un’idea di scuola fortemente connotata in senso storico-culturale e politico, ancorata alla convinzione che l’istruzione debba essere molto più di un apparato tecnico-amministrativo finalizzato alla trasmissione di competenze. L’autore denuncia con chiarezza la perdita di significato profondo della scuola italiana, considerata non più come un luogo costitutivo della formazione del cittadino ma come una macchina burocratica svuotata di missione, visione e autorità. L’analisi ruota attorno al concetto di “vuoto” che non è semplicemente una mancanza di contenuti bensì la manifestazione concreta dell’assenza di un fondamento ideale condiviso. La scuola si ritrova priva di un principio ordinatore, senza più una narrazione collettiva da trasmettere, disancorata da un’identità storica nazionale e da qualsiasi progetto di civiltà. Nel ragionamento di Galli della Loggia emerge con forza la convinzione che la scuola abbia cessato di essere un’istituzione fondante della coscienza collettiva. Il suo venir meno non è un fenomeno autonomo ma il riflesso di una più ampia crisi della cultura pubblica, della politica e della nazione stessa. Un tempo, sostiene l’autore, la scuola rappresentava lo strumento attraverso cui lo Stato nazionale forgiava cittadini: insegnava la lingua, la storia comune, trasmetteva valori condivisi, stabiliva gerarchie di contenuti e responsabilità. Era un luogo di costruzione dell’identità, nel quale il sapere non era mai neutro ma implicava sempre una presa di posizione etica e culturale, un radicamento nella storia e nella civiltà di appartenenza. La trasformazione della scuola in un contenitore neutro e “inclusivo”, dove ogni forma di giudizio o di autorità è percepita come arbitraria o oppressiva, rappresenta la degenerazione estrema di un’ideologia che ha smarrito il nesso tra educazione e cultura. Galli della Loggia sviluppa una critica severa alla sinistra italiana, accusata di aver contribuito in maniera decisiva allo smantellamento della scuola come istituzione culturale. Secondo l’autore, la sinistra, egemonizzata da un certo pedagogismo post-sessantottino, ha sostituito l’idea della scuola come trasmissione di sapere con una visione sentimentalista e individualistica dell’educazione, fondata sul rifiuto dell’autorità, sul primato dell’esperienza soggettiva e sulla svalutazione sistematica della conoscenza disciplinare. In nome di una presunta democratizzazione dell’istruzione si è affermata un’ideologia che ha trasformato il docente in un facilitatore, lo studente in un utente, il programma in un elenco di competenze da acquisire, svuotando così l’atto educativo di ogni contenuto trascendente o strutturante. La sinistra ha creduto che rendere la scuola più “democratica” significasse abbattere ogni gerarchia, ogni distinzione, ogni principio di merito, senza rendersi conto che così facendo ha contribuito a distruggere proprio le condizioni minime della giustizia educativa visto che senza regole, senza essere esigente, senza autorevolezza, la scuola non emancipa ma conferma le disuguaglianze e priva i più deboli dell’accesso a un sapere capace di liberarli. L’autore è particolarmente duro con quella cultura pedagogica, spesso egemone nella sinistra intellettuale e universitaria, che ha fatto della “didattica delle competenze” il suo feticcio ideologico. Secondo Galli della Loggia l’enfasi sulle competenze ha avuto l’effetto di spezzare il legame tra sapere e cultura, tra conoscenza e civiltà, riducendo l’apprendimento a una serie di abilità misurabili e decontestualizzate, funzionali solo a un mercato del lavoro frammentato e privo di prospettive. La scuola non serve più a costruire l’uomo, il cittadino o la nazione ma a produrre soggetti adattabili, flessibili, consumatori di servizi formativi. E proprio la sinistra, che un tempo parlava di emancipazione e cultura critica, si è resa responsabile di questa deriva, rinunciando a ogni idea forte di educazione, affidandosi a una burocrazia ministeriale che ha moltiplicato le circolari, i protocolli, le griglie valutative e gli acronimi mentre i contenuti si svuotavano, il prestigio dei docenti crollava e l’istituzione scolastica veniva consegnata all’insignificanza sociale. L’analisi di Galli della Loggia è intrisa di una nostalgia consapevole ma non propone un ritorno meccanico al passato in quanto reclama una rifondazione ideale dell’istruzione su basi culturali solide. Per farlo, suggerisce, occorre recuperare il senso della scuola come luogo di discontinuità rispetto alla vita quotidiana, spazio separato e regolato da norme proprie, dove la trasmissione del sapere richiede fatica, disciplina, attenzione, gerarchia e senso del limite. Contro il mito dell’inclusione a ogni costo, contro l’illusione che la scuola debba adattarsi ai desideri individuali, Galli della Loggia afferma la necessità di un’educazione che “chieda” e non solo “offra”, che imponga anche ciò che lo studente non comprenderebbe da sé e che faccia dell’apprendimento non un’esperienza orizzontale e autoreferenziale bensì un atto di immersione in un mondo altro, più grande, che viene da lontano e a cui occorre sapersi inchinare per poterlo ereditare. L’aula vuota è soprattutto quella simbolica, un’aula senza parola, senza autorità, senza racconto condiviso. Su Minima&Moralia Christian Raimo stroncò il libro descrivendolo come privo di valore, costruito su argomentazioni fragili, pregiudizi ideologici e una fastidiosa nostalgia reazionaria. Il testo, che vorrebbe essere una riflessione profonda sulla crisi della scuola italiana, si rivela invece un’accozzaglia di luoghi comuni, citazioni decontestualizzate e analisi superficiali, condite da un tono arrogante e spesso autoassolutorio. Galli Della Loggia, fin dalle prime pagine, rivela la sua approssimazione metodologica, infatti dichiara di non essere un esperto di pedagogia e sminuisce le scienze dell’educazione come pseudodiscipline, senza però fornire alternative teoriche solide. La sua analisi si basa su aneddoti personali (come i ricordi della nonna maestra o della professoressa fascista che ammirava le “aquile di Roma”) e su generalizzazioni prive di dati concreti. Il risultato è un libro che pretende di diagnosticare i mali della scuola italiana senza mai confrontarsi seriamente con la storiografia o con le ricerche più recenti. Uno degli aspetti più irritanti del libro, secondo Raimo, è il ricorso continuo a un linguaggio polemico e vagamente dispregiativo, con termini come “democratica”, “moderna” o “inclusione” sistematicamente messi tra virgolette, come se fossero concetti da smascherare piuttosto che da discutere. Questo approccio, oltre a essere intellettualmente pigro, tradisce una visione profondamente classista della scuola, vista non come strumento di emancipazione ma come luogo da preservare per una presunta élite culturale. Particolarmente odiosi, per Raimo, sono gli attacchi a figure come Tullio De Mauro, ridotto a una citazione estrapolata da un articolo del 1971, e Maria Montessori, liquidata con un giudizio superficiale copiato da Prezzolini. Anche Don Milani viene banalizzato, trasformato in un’icona buonista da demolire mentre il suo vero contributo anticlassista viene ignorato. Eppure, mentre Galli Della Loggia si scaglia contro la scuola “permissiva” e “senza disciplina”, non riesce a spiegare come mai l’abbandono scolastico in Italia sia ancora tra i più alti d’Europa, né offre soluzioni concrete oltre al vago rimpianto per un passato idealizzato. Il libro, infine, cade spesso nel ridicolo, come quando difende l’idea di reintrodurre la predella (il rialzo sotto la cattedra) come simbolo di autorità. Senza contare le analisi storiche approssimative, come quella sulla riforma Gentile o sui decreti delegati trattati con un’ostilità preconcetta e senza alcun approfondimento serio. Per Raimo L’aula vuota è insomma un’opera fallimentare. Un pamphlet reazionario che non aiuta a capire la scuola ma si limita a alimentare sterili polemiche, fondate più su rancori personali che su una reale conoscenza dei problemi. 

2. Analisi delle Nuove Indicazioni Nazionali 

Per analizzare le Nuove Indicazioni Nazionali del primo ciclo d’istruzione ci serviremo del testo pubblicato dall’Associazione Gessetti Colorati Nuove Indicazioni 2025: analisi critica a più mani che, come si può intuire, è un libro collettivo composto da più saggi. Il primo è scritto da Italo Fiorin e si intitola Ascoltare la scuola. La scuola dei Programmi, intesa come sistema didattico centralizzato fondato su indicazioni ministeriali rigide e uniformi, giunge al termine nel 1997, anno in cui viene approvata la legge 59, vero spartiacque della storia scolastica italiana recente. Con questa legge prende forma l’autonomia delle istituzioni scolastiche che ottengono la possibilità di agire in modo indipendente sul piano progettuale, didattico, organizzativo e di ricerca. A sancire operativamente questa svolta è il DPR 275 del 1999, il quale stabilisce il Piano dell’Offerta Formativa (POF) come strumento attraverso cui ogni scuola può costruire la propria identità educativa e culturale, rispecchiando le specificità del territorio in cui si trova. All’interno del POF il curricolo assume un ruolo centrale, configurandosi come espressione concreta della libertà didattica e della progettazione pedagogica. Questa trasformazione normativa traduce in pratica una svolta culturale già avviata negli anni ‘70 con la diffusione delle teorie del curricolo che puntavano a superare l’impostazione trasmissiva dei Programmi a favore di una didattica costruita in relazione ai bisogni reali degli studenti e del contesto. Emblematico di questo cambiamento è il saggio Dalla scuola dei Programmi alla scuola del curricolo di Lawrence Stenhouse, introdotto in Italia da Cesare Scurati che rappresenta uno dei riferimenti fondamentali per comprendere il nuovo paradigma educativo. L’autonomia scolastica, così come definita dalla legge, apre uno spazio significativo di libertà professionale per i docenti, messi nelle condizioni di poter scegliere liberamente metodologie, strumenti e tempi dell’insegnamento, sempre nel rispetto della pluralità delle opzioni educative, delle esigenze formative degli studenti e della libertà di insegnamento. Tuttavia questa apertura rischia di condurre a una frammentazione del sistema, soprattutto in un Paese caratterizzato da forti differenze economiche, sociali e culturali tra le varie aree. Per questo motivo, accanto all’autonomia viene introdotto un nuovo dispositivo di coordinamento nazionale: le Indicazioni nazionali, con il compito di fornire un quadro di riferimento comune, senza però comprimere la libertà delle scuole. A differenza dei vecchi Programmi, le Indicazioni non prescrivono rigidamente contenuti e metodi ma individuano pochi elementi essenziali, come obiettivi generali e specifici, discipline fondamentali, monte ore, lasciando ampio margine all’iniziativa delle singole comunità scolastiche. Inoltre, a differenza dei Programmi, pensati per durare nel tempo, le Indicazioni sono documenti “aperti” che richiedono aggiornamenti costanti per evitare l’obsolescenza in una società in continuo mutamento. Questo carattere dinamico può apparire come una debolezza ma rappresenta invece una risorsa preziosa. Solo documenti flessibili e curati nel tempo possono restare in sintonia con le sfide culturali e sociali emergenti, con la ricerca pedagogica e con l’esperienza concreta delle scuole. Dalla loro introduzione nel 2001 le Indicazioni hanno conosciuto diverse revisioni e su questo processo si sono misurate due visioni culturali e politiche opposte. La prima è quella della continuità migliorativa: un’evoluzione progressiva e sostenibile, capace di valorizzare il lavoro già svolto da insegnanti e scuole e di integrare le nuove esigenze attraverso aggiornamenti non traumatici. È il caso, ad esempio, della revisione del 2012, la quale recepì le raccomandazioni europee sulle competenze chiave, o dell’aggiornamento del 2018, volto a far fronte ai nuovi scenari globali e digitali in coerenza con l’Agenda 2030 dell’ONU. In questo approccio la scuola viene concepita come bene comune e l’autonomia come uno spazio di partecipazione, ascolto e responsabilità condivisa. Cambiare le Indicazioni non significa allora cancellare il passato bensì costruire a partire da esso. La seconda visione è invece quella della discontinuità radicale che considera necessario interrompere il percorso precedente per affermare una nuova visione culturale e politica. In questo caso le Indicazioni vengono riscritte ex novo, il lavoro svolto da docenti e scuole viene azzerato e l’autonomia rischia di diventare uno strumento subordinato a logiche di potere. Questo tipo di intervento, comprensibile solo in presenza di eventi straordinari o rivoluzioni culturali profonde, è spesso motivato invece da ragioni politiche. Così accadde con la ministra Moratti che annullò gli “Indirizzi per il curricolo” elaborati sotto De Mauro e così avviene oggi con il ministro Valditara che ha avviato la redazione di nuove Indicazioni senza una reale consultazione della comunità educativa. Su quest’ultimo punto è chiarissimo Cristiano Corsini nel libro collettivo Credere, obbedire, insegnare quando, criticando il dispositivo scelto per consentire la partecipazione delle scuole alla consultazione sulle Nuove Indicazioni Nazionali, ci descrive un questionario di 22 quesiti a scelta multipla con annesso uno spazio per proporre osservazioni di massimo 250 caratteri, spazi inclusi. Oltre a criticare questo misero spazio, Corsini sottolinea che tra le alternative selezionabili per rispondere ai 22 quesiti manca totalmente una risposta associata ad un parere negativo. In pratica, il ministero non è intenzionato a conoscere l’effettivo punto di vista della scuola ma vuole esclusivamente conferme sul testo proposto. L’oscillazione tra l’innovazione continua e il cambiamento per azzeramento riflette due modi opposti di intendere la scuola: uno aperto, partecipato, rispettoso delle competenze professionali; l’altro centralistico, decisionista, fondato sul primato politico. È questa tensione di fondo a segnare la breve ma intensa storia delle Indicazioni nazionali secondo Fiorin che nel migliore dei casi dovrebbero rappresentare non solo un riferimento tecnico ma un motore di riflessione, confronto e crescita collettiva. La storia delle Indicazioni nazionali per il curricolo scolastico italiano rappresenta un interessante caso di studio sulle diverse filosofie che possono guidare le politiche educative. Il percorso inizia simbolicamente con la Commissione dei 40 saggi voluta da Luigi Berlinguer nel 1997. Quello che rende significativa questa esperienza non è tanto il documento prodotto, quanto il metodo adottato per la sua elaborazione. Berlinguer non si limitò a ricevere il lavoro degli esperti ma lo sottopose a un’ampia consultazione nazionale, convinto che nessuna riforma scolastica potesse avere successo senza il coinvolgimento attivo di chi la scuola la vive quotidianamente. Questa filosofia trovò piena realizzazione con Tullio De Mauro e gli Indirizzi per il curricolo del 2001, dove il ministero si pose non come emanatore di direttive ma come catalizzatore di esperienze e buone pratiche già esistenti nel sistema scolastico. Abbiamo già detto che con l’avvento della ministra Moratti si verificò una brusca inversione di tendenza. Il nuovo esecutivo scelse la via dell’imposizione dall’alto, azzerando senza troppi complimenti il lavoro precedente. Fu una scelta che andava oltre il merito delle singole disposizioni, rappresentava una diversa concezione del rapporto tra istituzione e scuola, tra politica e professionisti dell’educazione. La breve parentesi morattiana lasciò il posto a una nuova stagione di partecipazione con Giuseppe Fioroni che nel 2007 ripristinò il metodo del confronto aperto, organizzando seminari nazionali e coinvolgendo figure di spicco come Edgar Morin nel dibattito sulle nuove Indicazioni. L’approccio di Fioroni venne ulteriormente sviluppato da Francesco Profumo nel 2012 che istituì addirittura un Comitato scientifico permanente con il compito di monitorare l’attuazione delle Indicazioni e raccogliere feedback dalle scuole. Questo meccanismo virtuoso permise nel 2018 l’elaborazione del documento “Indicazioni nazionali e nuovi scenari” che rappresenta forse l’esempio più compiuto di come una politica educativa possa evolversi attraverso un dialogo continuo con il territorio. Oggi ci troviamo di fronte a un nuovo tentativo di cambiamento radicale che sembra riproporre la logica del “punto e a capo”. Le bozze di revisione circolate recentemente rivelano non solo contenuti diversi ma un metodo profondamente alterato. La fretta con cui si sta procedendo, la natura orientata delle consultazioni, la marginalizzazione degli esperti pedagogici a favore di una visione meramente disciplinare: tutto concorre a delineare un modello di scuola che guarda più al passato che al futuro. La vera questione non è tanto se modificare o meno le Indicazioni, del resto ogni testo normativo necessita di aggiornamenti, ma come farlo. La storia ci insegna che le riforme calate dall’alto, per quanto teoricamente valide, difficilmente attecchiscono nel complesso ecosistema scolastico. Al contrario, i processi partecipativi, pur più lenti e faticosi, producono cambiamenti più duraturi e condivisi. In un momento storico caratterizzato da profondi mutamenti sociali e culturali, la scuola italiana ha bisogno di politiche educative che sappiano coniugare innovazione e continuità, visione e concretezza ma soprattutto ha bisogno di essere considerata non come un campo di battaglia ideologico per consolidare il proprio consenso ma come una comunità educante da ascoltare e valorizzare perché alla fine, al di là delle diverse posizioni pedagogiche, resta una verità semplice ma fondamentale dice Fiorin: non esiste riforma scolastica efficace che non nasca dal basso, dall’ascolto attento di chi ogni giorno, nelle aule di tutto il paese, si assume la responsabilità di educare le nuove generazioni. La contrapposizione tra la cultura dell’ascolto e quella del “punto e a capo” non è una semplice differenza di metodo ma riflette due modi antitetici di concepire il cambiamento nella scuola. C’è chi sostiene che, alla fine, le Indicazioni nazionali contano poco visto che gli insegnanti, nella pratica quotidiana, continueranno a fare ciò che ritengono giusto, indipendentemente dalle direttive ministeriali. È vero che i docenti più motivati e innovativi hanno sempre trovato il modo di sperimentare, anche nei periodi più burocratici e conservatori della scuola italiana. Allo stesso modo, i manuali scolastici e le dinamiche reali delle classi spesso finiscono per plasmare l’insegnamento più dei documenti ufficiali. Questa visione, per quanto confortante, coglie solo una parte della verità. Le Indicazioni, da sole, non trasformano magicamente la scuola però hanno un potere simbolico e politico enorme. Quando sono ben costruite, frutto di un confronto autentico con la comunità educante, non impongono ma legittimano le buone pratiche, offrendo un sostegno istituzionale a chi cerca di innovare. Al contrario, Indicazioni retrive o ideologicamente orientate, anche se non vincolanti, creano un clima sfavorevole, mettendo in difficoltà chi cerca di lavorare con professionalità e apertura. Dice Fiorin che non bisogna dimenticare che la scuola italiana gode ancora di un margine di autonomia: i contenuti non sono rigidamente prescritti e ancor meno lo sono i metodi didattici. Questo spazio di libertà permette agli insegnanti di resistere alle derive più autoritarie ma farlo richiede coraggio. Come ricordava Edgar Morin, resistere allo spirito del tempo è un atto di forza interiore che diventa più facile quando si è in rete, quando la solitudine del singolo docente si trasforma in solidarietà professionale. Forse, allora, è il momento di riscoprire la lezione di don Milani: l’obbedienza acritica non è una virtù. Di fronte a riforme calate dall’alto che ignorano il confronto e pretendono solo consenso, la risposta non può essere l’adattamento passivo bensì la capacità critica, la cooperazione tra colleghi, la difesa di un’idea di scuola come bene comune perché se è vero che le Indicazioni non cambiano la scuola da sole, è altrettanto vero che il silenzio e la rassegnazione di chi la scuola la vive ogni giorno possono finire per avallare scelte sbagliate. Questo è il tempo della responsabilità, non dell’acquiescenza. Aluisi Tosolini in Traiettorie per l’innovazione. Di tutto un po’ senza cornice di senso sostiene che le Nuove Indicazioni 2025 introducono una novità denominata Traiettorie per l’innovazione, presentata come strumento di supporto alla progettazione didattica nel rispetto dell’autonomia scolastica e della creatività degli insegnanti. Tosolini mette in discussione l’effettiva utilità e coerenza di questa sezione evidenziando come, nonostante le intenzioni dichiarate, il documento finisca per rivelare una frammentazione concettuale e un’impostazione spesso contraddittoria. La struttura delle Indicazioni Nazionali, descritta a pagina 19, prevede per ogni disciplina (ad eccezione delle STEM che godono di una premessa unificante) una suddivisione in premessa culturale, obiettivi formativi, competenze attese e suggerimenti metodologici. Le conoscenze sono organizzate attorno a nuclei fondanti, concetti chiave declinati in verticale per facilitare la costruzione del curricolo. Le Traiettorie per l’innovazione dovrebbero, in teoria, accompagnare questo processo con esempi pratici e indicazioni operative ma Tosolini osserva come la loro collocazione e il loro sviluppo appaiano poco chiari e scarsamente integrati con il resto del documento. Uno degli elementi più problematici è il Box 1, dedicato agli esempi di moduli interdisciplinari. Qui i 13 casi proposti mostrano una disarmante disomogeneità: non esiste un modello comune e gli approcci variano senza una logica evidente, lasciando supporre una mancanza di coordinamento tra gli autori. La maggior parte degli esempi è rivolta alla scuola secondaria di primo grado, con solo un modulo per la primaria e uno ibrido, scelta che sembra ignorare del tutto le esigenze della scuola dell’infanzia. Alcune proposte, come quella sull’analisi critica dello smartphone nella seconda lingua comunitaria, risultano addirittura inapplicabili a causa di recenti divieti ministeriali, rivelando una preoccupante disconnessione tra le indicazioni teoriche e la realtà normativa. L’impressione complessiva è che questi moduli, più che sostenere l’autonomia del docente, finiscano per imporre schemi rigidi e poco originali, simili a esercizi accademici piuttosto che a strumenti didattici realmente innovativi. Il Box 2, dedicato ai suggerimenti metodologici, pecca invece di un eccesso di frammentazione. L’elenco delle strategie didattiche proposte, dalla gamification al Project-Based Learning, dall’approccio narrativo alla media literacy, appare come un repertorio caotico, privo di una visione pedagogica organica. Alcune indicazioni sono talmente specifiche da risultare pedanti, come le minute precisazioni sull’insegnamento della grammatica italiana mentre altre sono vaghe e retoriche, come l’invito a “meravigliarsi” o a “lavorare sull’errore”. Manca del tutto un quadro teorico che giustifichi la selezione di queste metodologie, lasciando l’impressione di un accumulo casuale più che di una proposta ragionata. Persino l’inserimento di una citazione autocelebrativa nel capitolo sulla musica (firmata da un coordinatore di area) contribuisce a dare l’idea di un documento in cui l’erudizione fine a se stessa prevale sulla praticità didattica. Le Nuove Indicazioni dedicano uno spazio significativo al tema dell’ibridazione tecnologica nella didattica, presentandolo come una necessità imprescindibile per la scuola del futuro. una lettura approfondita del testo rivela una serie di tensioni irrisolte tra la spinta all’innovazione e un sostrato culturale profondamente ancorato a modelli tradizionali. Questo dualismo si manifesta già a livello terminologico: l’intelligenza artificiale, fulcro delle trasformazioni in atto, viene descritta in modo ambiguo, ora come “strumento”, ora come “ultima frontiera”, senza mai approdare a una concettualizzazione chiara del suo impatto sistemico sull’apprendimento. La frammentarietà delle proposte è forse l’aspetto più evidente. Da un lato si insiste sulla necessità di formare docenti capaci di padroneggiare criticamente le nuove tecnologie; dall’altro, le indicazioni operative si risolvono spesso in un repertorio disorganico di strumenti, dalla realtà aumentata ai chatbot, dai simulatori geospaziali alle app musicali, privi di una cornice metodologica che ne giustifichi l’adozione. Manca, in altre parole, una riflessione pedagogica sull’effettivo valore aggiunto di queste tecnologie: come possono modificare i processi cognitivi? Quali nuove forme di interazione didattica abilitano? In che misura richiedono una ridefinizione dei ruoli docente-discente? Particolarmente emblematica è la contraddizione tra l’enfasi posta sulle potenzialità rivoluzionarie del cosiddetto digitale e la contemporanea riaffermazione della lezione frontale come metodo insostituibile. Questo paradosso tradisce una difficoltà culturale ad accettare fino in fondo la natura disruptive delle tecnologie emergenti, dice Tosolini, preferendo un approccio ibrido che in realtà spesso si traduce in una semplice giustapposizione di vecchio e nuovo. A un livello più profondo il documento rivela due orientamenti ideologici che ne condizionano l’intera architettura. Il primo è una visione eurocentrica del sapere che si manifesta nell’esaltazione acritica della cultura occidentale come orizzonte normativo universale. L’esempio della matematica è rivelatore: il Teorema di Pitagora viene presentato come verità eterna e atemporale, senza alcun riferimento alla storicità dei modelli matematici o al contributo di altre tradizioni culturali. Questa prospettiva, oltre a essere epistemologicamente ingenua, rischia di tradursi in una didattica dogmatica, poco adatta a formare menti flessibili in un mondo globalizzato. Il secondo elemento cardine è la riproposizione di un’immagine iper-idealizzata dell’insegnante, definito come Magis, figura carismatica e quasi sacerdotale, depositaria di un sapere assoluto. Questo modello, che riecheggia esplicitamente la pedagogia gentiliana, appare sempre più anacronistico in un’epoca in cui la conoscenza si costruisce attraverso reti collaborative e dinamiche orizzontali. Sorprende, in particolare, la totale assenza di riferimenti al learning by doing, al peer tutoring o ad altre metodologie che valorizzano l’agency dello studente. Il risultato finale è un documento che, pur riconoscendo la necessità di cambiamento, sembra volerlo contenere entro confini precostituiti. Le tecnologie digitali vengono invocate come ingrediente necessario ma sempre subordinato a una visione gerarchica e trasmissiva dell’educazione. Non vi è traccia di una prospettiva sistemica che colga le interconnessioni tra innovazione tecnologica, trasformazioni sociali e nuovi paradigmi dell’apprendere. Forse la lacuna più grave è l’assenza di una vera prospettiva futurologica: come preparare gli studenti a sfide ancora ignote? Come sviluppare competenze adattive in un mondo in accelerazione? Invece di porsi queste domande cruciali, le Nuove Indicazioni sembrano oscillare tra un tecno-entusiasmo superficiale e un conservatorismo di fondo, producendo un ibrido che rischia di scontentare tanto gli innovatori quanto i tradizionalisti. La vera sfida, forse, non è tanto elencare tecnologie da adottare ma ripensare radicalmente i fini e i metodi della scuola in un’epoca di profondi sconvolgimenti culturali ed epistemologici. Su questi temi in Credere, Obbedire, Insegnare c’è un intervento di Luca Raina e Ivano Colombo. Sostengono che il documento, pur riconoscendo il valore dell’Intelligenza Artificiale per personalizzare l’insegnamento e sostenere gli studenti, in particolare i BES, manca di un’adeguata riflessione su come gestire e sfruttare al meglio questa tecnologia. Il rischio è utilizzare l’Intelligenza Artificiale male ottenendo risultati diversi da quelli sperati finendo per demonizzarla, come abbiamo fatto con i dispositivi mobili nella didattica, tanto assenti nelle aule quanto presenti nella nostra vita quotidiana. Raina e Colombo sostengono che non sia la tecnologia in sé a rappresentare un rischio ma la sua gestione inadeguata. Le Nuove Indicazioni leggono l’Intelligenza Artificiale come un supporto alla didattica e non come un’opportunità per trasformare il processo educativo. In Estonia e Finlandia l’Intelligenza Artificiale è utilizzata per stimolare l’autonomia degli studenti e il pensiero critico mentre il nostro approccio sembra più cauto a causa della visione tradizionale della didattica che teme una perdita di controllo pedagogico da parte dei docenti. Viene segnalata la scarsa presenza di esempi concreti di integrazione dell’Intelligenza Artificiale con le materie umanistiche o attività che richiedono analisi critica. L’Intelligenza Artificiale è vista come un correttore automatico e non come uno strumento per stimolare dibattito in classe e pensiero critico. Il rischio è confinarla in un uso superficiale mentre in altri paesi è utilizzata per creare ambienti immersivi e personalizzati. Un altro problema sollevato è la formazione dei docenti. Manca un piano chiaro per spiegare ai docenti come integrare l’Intelligenza Artificiale nella loro didattica. C’è inoltre un problema di disomogeneità nell’accesso alle tecnologie. Si sostiene che alcune scuole sono attrezzate per sostenere la didattica digitale mentre altre faticano anche a garantire la strumentazione di base. Gli scenari futuri previsti sono tre, tutti importanti per la didattica. Il primo è legato al continuo miglioramento delle prestazioni dell’Intelligenza Artificiale che, se non monitorato con attenzione, può rendere la sua comprensione difficile a studenti e docenti. Il suo sviluppo rischia di superare la preparazione degli educatori rendendo l’Intelligenza Artificiale una fonte di disconnessione tra potenzialità della macchina e capacità di utilizzo da parte del docente. Poi c’è il problema della privacy. Mancano linee guida rigorose sulla gestione dei dati sensibili e sussiste il pericolo di usare l’Intelligenza Artificiale in modo invasivo minando la fiducia dei sistemi educativi nei suoi confronti. Infine c’è l’uso indiscriminato dell’Intelligenza Artificiale per completare compiti senza un’effettiva comprensione, perdendo la vera opportunità educativa. Se gli insegnanti non guidano gli studenti nell’uso dell’Intelligenza Artificiale in modo critico, potrebbe diventare una scorciatoia e non un mezzo per sviluppare pensiero e creatività. Non dovrebbe mai sostituire la riflessione e l’impegno personale. Raina e Colombo concludono affermando che la capacità dell’Intelligenza Artificiale di rispondere in maniera puntuale ed empatica alle richieste degli alunni, offrendo ascolto e assecondando lo studente, potrebbe minare l’autorevolezza del docente e la capacità di ascolto con lo studente. L’Intelligenza Artificiale potrebbe diventare un sostituto del dialogo didattico riducendo la scuola ad un’esperienza mediata dagli algoritmi e non da relazioni autentiche. L’Intelligenza Artificiale deve essere uno strumento di supporto e non un sostituto della relazione educativa, diventando un co-costruttore di conoscenza. Franca Da Re in Indicazioni nazionali per il curricolo 2012 e nuove indicazioni 2025: due documenti a confronto sviluppa un confronto tra le Indicazioni Nazionali per il curricolo del 2012 e le Nuove Indicazioni per il primo ciclo del 2025 che disegna due modelli educativi distinti, radicati in altrettante visioni della scuola, della didattica e del ruolo sociale dell’istruzione. L’analisi comparativa evidenzia divergenze sostanziali nell’impianto teorico, nella struttura organizzativa, nella concezione degli apprendimenti e nel linguaggio pedagogico adottato. Le Indicazioni del 2012 si presentano come un documento organico e coerente, espressione di un compromesso tra esigenze normative e autonomia didattica. Il testo, sviluppato dopo un’ampia consultazione delle scuole, riflette una matrice culturale pluralista, dove convergono influenze costruttiviste, attiviste e socioculturali senza dogmatismi teorici. La struttura tripartita (premessa filosofico-pedagogica, traguardi di competenza, obiettivi di apprendimento) mantiene una rigorosa gerarchia concettuale: le competenze chiave europee fungono da orizzonte di riferimento, i traguardi definiscono comportamenti osservabili al termine dei cicli mentre gli obiettivi individuano i nuclei fondanti delle discipline attraverso verbi operativi. Questo impianto garantisce alle scuole ampia libertà nella progettazione curricolare, pur nel rispetto di un quadro unitario. L’attenzione all’inclusione, all’interdisciplinarità e alla costruzione sociale della conoscenza emerge con chiarezza, così come la fiducia nella capacità dei docenti di selezionare contenuti e metodi in base ai contesti. Le Nuove Indicazioni del 2025, al contrario, manifestano fin dal titolo, dove scompare il riferimento al curricolo, un cambiamento di prospettiva. Elaborate senza un processo partecipativo paragonabile a quello del 2011 si caratterizzano per una struttura meno lineare e più frammentaria. La gerarchia tra competenze, obiettivi generali e specifici risulta spesso confusa, con sovrapposizioni terminologiche e ambiguità semantiche. L’ispirazione pedagogica, pur non esplicitamente dichiarata, tradisce un ritorno a modelli più tradizionali: il docente è visto come depositario di un sapere da “trasmettere” più che come facilitatore di processi, con un linguaggio che talvolta sfocia nel tono enfatico (“tesori da svelare”, “educazione del cuore”). La discontinuità più marcata si osserva nell’approccio alle discipline. Nel 2012 i contenuti erano funzionali allo sviluppo di competenze, nel 2025 assumono un valore intrinseco, particolarmente evidente in italiano e storia. La differenza emerge con chiarezza nell’organizzazione dei saperi disciplinari. Le Indicazioni del 2012 definivano “nuclei concettuali” trasversali (ad esempio oralità, scrittura, lettura per l’italiano), lasciando alle scuole la selezione dei contenuti più adatti a sviluppare competenze. Le Nuove Indicazioni, invece, introducono un’inedita rigidità. In storia si prescrivono percorsi cronologici dettagliati già dalla prima primaria, con scelte discutibili sul piano dello sviluppo cognitivo; in italiano si enfatizzano grammatica normativa, studio mnemonico e canone letterario nazionale. Questa deriva contenutistica, giustificata con la necessità di contrastare presunti “abbassamenti degli standard”, rischia di mortificare l’autonomia didattica e di ridurre gli apprendimenti a mere performance riproduttive. Sul piano metodologico il contrasto è altrettanto netto. Il documento del 2012, pur evitando prescrizioni didattiche, orientava verso pratiche collaborative e inclusive, con forte attenzione alla costruzione di ambienti di apprendimento capaci di valorizzare differenze e promuovere pensiero critico. Le Nuove Indicazioni, pur non rinnegando completamente queste istanze, le indeboliscono attraverso un linguaggio ibrido. Ad esempio mantengono riferimenti formali alle competenze europee però introducono indicazioni minutamente prescrittive (come i “percorsi interdisciplinari” in STEM, più simili a giustapposizioni tematiche che a integrazioni autentiche). L’apparente apertura alla progettualità docente (“curriculum makers”) si scontra con la proliferazione di vincoli impliciti, soprattutto nella scelta dei contenuti e nella valutazione degli esiti. La divergenza si radicalizza nella visione politica della scuola. Le Indicazioni del 2012, coerenti con i principi costituzionali, concepivano l’istruzione come strumento di emancipazione individuale e coesione sociale in una società pluralista. Le Nuove Indicazioni, soprattutto nella premessa e nelle discipline umanistiche, sposano invece una funzione identitaria dell’istruzione, con espliciti richiami alla costruzione di un “senso di appartenenza nazionale”. Questa torsione culturale, unita alla marginalizzazione del dibattito pedagogico nella fase di elaborazione, solleva interrogativi sulla capacità del nuovo documento di rispondere alle sfide della contemporaneità, dalla crisi climatica alle disuguaglianze educative, in modo critico e innovativo. Le Indicazioni Nazionali per il Curricolo del 2012 si fondano su una visione laica e pluralista della scuola, concepita come spazio inclusivo in cui la diversità culturale e individuale è riconosciuta come un valore e non come un ostacolo. L’obiettivo principale è formare cittadini consapevoli e responsabili all’interno di una società democratica e multiculturale, evitando però riferimenti espliciti a una specifica identità religiosa o culturale. L’attenzione è posta sull’educazione alla convivenza civile, all’accoglienza delle differenze e alla costruzione di un senso di appartenenza comune, in linea con i principi costituzionali di uguaglianza e solidarietà. Dal punto di vista pedagogico, le Indicazioni del 2012 adottano un approccio costruttivista che vede l’alunno come protagonista attivo del proprio percorso di apprendimento, valorizzando metodologie didattiche innovative come il cooperative learning, la didattica laboratoriale, la ricerca-azione e il problem solving. L’interdisciplinarità è considerata essenziale per favorire connessioni tra i saperi e sviluppare competenze trasversali, in particolare quelle di cittadinanza, ispirate al Quadro Europeo delle Qualifiche. La struttura del documento è aperta e flessibile, con linee guida generali che lasciano ampio spazio all’autonomia didattica dei docenti, permettendo una personalizzazione dei percorsi educativi in base alle esigenze degli studenti. Tuttavia un limite evidente è la scarsa attenzione riservata alle tecnologie digitali e all’integrazione delle discipline STEM che rimangono marginali nonostante la loro crescente rilevanza nel mondo contemporaneo.  In netto contrasto, le Indicazioni del 2025 segnano una svolta verso un modello più tradizionale e trasmissivo, in cui la centralità delle conoscenze disciplinari prevale sullo sviluppo delle competenze. La struttura diventa più rigida e prescrittiva, con obiettivi di apprendimento dettagliati per ciascuna materia, specialmente nelle discipline umanistiche come italiano e storia, dove si assiste a un ritorno alla lezione frontale e a una narrazione storica finalizzata alla costruzione di un’identità nazionale piuttosto che all’analisi critica dei fatti. Nella scuola dell’infanzia, l’approccio ludico-esplorativo, che nelle Indicazioni del 2012 era considerato fondamentale per lo sviluppo cognitivo ed emotivo del bambino, viene ridimensionato a favore di obiettivi più strutturati e precoci, limitando la flessibilità didattica. Sul piano valoriale, il documento assume una prospettiva più identitaria, con riferimenti espliciti alla tradizione culturale italiana e ai valori occidentali, a discapito di una visione interculturale e globale. L’inclusione è interpretata principalmente in relazione alle difficoltà di apprendimento, perdendo di vista la valorizzazione delle differenze come risorsa per la crescita collettiva. Inoltre, emerge una visione tradizionalista della società, con richiami a modelli familiari e di genere conservatori che contrastano con l’evoluzione sociale degli ultimi decenni. Nonostante queste criticità, le Indicazioni del 2025 presentano alcuni aspetti positivi, in particolare nell’ambito delle discipline STEM e della geografia, dove si promuove una didattica basata sulla sperimentazione, il laboratorio e il metodo scientifico, con un’attenzione alle connessioni tra scienza, tecnologia e mondo reale. In geografia, ad esempio, viene valorizzata la dimensione globale, con riferimenti ai flussi migratori e all’interdipendenza tra territori e risorse. Questi elementi progressisti coesistono in modo disorganico con una visione complessivamente più conservatrice, rivelando una mancanza di coerenza interna nel documento che appare come il risultato di compromessi tra diverse correnti pedagogiche e ideologiche. Rodolfo Marchisio in Educare alla cittadinanza attiva e critica attraverso le Indicazioni 2025? offre un’analisi approfondita e critica delle Indicazioni del 2025 per l’educazione alla cittadinanza mettendo in luce una serie di tensioni tra l’impianto teorico del documento e i principi costituzionali che dovrebbero guidare la formazione di cittadini attivi e consapevoli. Il testo si presenta come un insieme disorganico di prospettive, dove coesistono frammenti di pedagogia progressista accanto a derive individualiste e a un lessico ambiguo che tradisce una visione ideologica più vicina alle politiche governative che alla tradizione democratica italiana. Uno degli aspetti più problematici è lo slittamento semantico dal concetto di cittadino, centrale nella Costituzione, a quello di persona, un termine che, sebbene apparentemente neutro, è carico di implicazioni filosofiche legate al personalismo cristiano. Questo passaggio non è innocente. La Costituzione pone l’accento sui doveri di solidarietà (art. 2) e sulla dialettica tra diritti individuali e bene comune, le Indicazioni del 2025 sembrano sposare una prospettiva più vicina al liberalismo anglosassone, dove la libertà individuale prevale sulle responsabilità sociali. Marchisio osserva che, in questo modo, si perde di vista l’idea di cittadinanza come partecipazione attiva e critica alla vita collettiva, riducendola a una questione di autorealizzazione personale. Anche sul piano metodologico il documento mostra contraddizioni significative. Da un lato si dichiara a favore di una didattica attiva e laboratoriale, in linea con le migliori pratiche pedagogiche; dall’altro, però, impone un’organizzazione rigidamente predeterminata di obiettivi, competenze e persino esempi di Unità di Apprendimento (UDA), lasciando poco spazio all’autonomia degli insegnanti e delle scuole. Questa iper-strutturazione, unita a un linguaggio burocratico e a tratti paternalistico, rischia di trasformare le linee guida in un ricettario didattico standardizzato, in netto contrasto con il principio costituzionale della libertà di insegnamento (art. 33). Marchisio sottolinea con ironia che l’enfasi posta sull’innovazione metodologica sembra più funzionale alle esigenze delle case editrici, le quali dovranno produrre nuovi materiali didattici, che a un reale ripensamento pedagogico. Le competenze di cittadinanza proposte dal documento appaiono, inoltre, deboli e poco incisive. Se da un lato si parla di convivenza pacifica, rispetto delle diversità e sostenibilità ambientale, dall’altro manca un approccio critico alle disuguaglianze strutturali e ai conflitti sociali. Marchisio nota che il riferimento alla “cura del pianeta” e alla “sobrietà dei consumi” stride con le politiche governative che, in altri contesti, privilegiano lo sviluppo economico a scapito della tutela ambientale. Allo stesso modo, l’approccio alla storia e alle culture altre è accusato di eurocentrismo, con un’insistenza sulle “radici occidentali” che rischia di marginalizzare contributi culturali diversi e di legittimare una visione nazionalista dell’identità. Un altro elemento critico è la rappresentazione idealizzata della scuola come “comunità educante”, descritta in termini quasi idilliaci, aule dinamiche, orti didattici, collaborazione serena tra docenti e studenti che contrasta con la realtà quotidiana di molte istituzioni scolastiche, alle prese con carenze strutturali, classi sovraffollate e crescenti disuguaglianze. Marchisio invita a diffidare di questa retorica che rischia di nascondere una deriva verso una scuola sempre più subordinata alle logiche del mercato e del controllo politico, piuttosto che a quelle dell’emancipazione critica. Cinzia Mion in Alla ricerca della complessità perduta apre la sua riflessione con un tono critico verso le Nuove Indicazioni del 2025. Ciò che emerge con forza è il rammarico per la perdita di quel “paradigma della complessità” che caratterizzava le vecchie Indicazioni, un approccio culturale che aveva trovato ispirazione nel pensiero di Mauro Ceruti, presidente della Commissione che le elaborò, nonché coautore con Gianluca Bocchi del testo La sfida della complessità. La complessità, come viene spiegato, rappresenta una rottura rispetto alla tradizionale visione lineare e binaria del sapere, tipica del razionalismo cartesiano, che separa nettamente soggetto e oggetto, vero e falso, giusto e sbagliato. Al contrario, il pensiero complesso, influenzato da autori come Edgar Morin, presente alla presentazione delle Indicazioni del 2007, propone una logica circolare, capace di integrare prospettive diverse e apparentemente contraddittorie. Questo approccio si lega strettamente all’ermeneutica moderna, sviluppata da Gadamer, che ha messo in discussione l’idea di una verità oggettiva e immutabile, sostituendola con un continuo dialogo tra interpretazioni. Mion ricorda come già negli anni ’80, con Vattimo e il suo Pensiero debole, si fosse affermata l’idea che la razionalità dovesse accettare l’incertezza e il dubbio, abbandonando la pretesa di un sapere assoluto. Kuhn, con il concetto di “cambiamento di paradigma”, aveva del resto dimostrato che ogni sistema conoscitivo è storicamente determinato e destinato a essere superato. Un esempio lampante di come la politica scolastica abbia spesso tradito queste istanze è rappresentato dalle Indicazioni Moratti del 2003 che ridussero il concetto di competenza, inizialmente elaborato da Edith Cresson in chiave ermeneutica e critica, alle semplicistiche “tre I” (Inglese, Informatica, Impresa), svuotandolo di ogni valenza culturale e civica. Mion sottolinea poi come la complessità non sia solo una teoria astratta ma abbia ricadute concrete nella didattica e nella società. Prendendo ad esempio l’intercultura, spiega che un approccio multilogico permette di coniugare uguaglianza e differenza, evitando sia l’assimilazione forzata (che nega le identità) sia l’esclusione (che nega i diritti). Le Nuove Indicazioni del 2025, invece, sembrano cadere in un nazionalismo escludente, enfatizzando l’”italianità” e ignorando la realtà multiculturale delle classi, con il rischio di alimentare tensioni sociali. Un altro aspetto cruciale è il contrasto tra due modalità didattiche: quella basata sugli esercizi che presuppongono risposte giuste o sbagliate e quella centrata sui problemi che invece valorizzano l’errore come momento di riflessione e crescita collettiva. Mentre la prima riproduce una logica meccanica, la seconda sviluppa pensiero critico e capacità di problematizzare la realtà, competenze sempre più urgenti in un’epoca in cui l’Intelligenza Artificiale può risolvere problemi (problem solving) ma non formulare le domande giuste (problem posing). La riflessione si chiude con un richiamo all’attualità. Morin, nel suo ultimo libro Svegliamoci!, denuncia una crisi globale che non è solo politica o economica ma soprattutto crisi del pensiero. La scuola dovrebbe essere un baluardo contro i fondamentalismi, insegnando il decentramento prospettico e l’ascolto dell’altro. Le Nuove Indicazioni del 2025, invece, appaiono ancorate a un modello autoritario e semplificato che rischia di impoverire la didattica e l’intera società. Raffaele Iosa in L’inclusione tra finzione, retorica, banalità esprime forte delusione per il modo in cui viene trattato il tema dell’inclusione nelle Nuove Indicazioni Nazionali. Mentre ci si aspetterebbe una riflessione profonda e innovativa, il nuovo testo si riduce a una paginetta e mezza di retorica sterile e banalità didattiche, inserita più per obbligo che per reale interesse. Il documento si concentra su una visione conservatrice della scuola, basata su contenuti tradizionali e un’idea di cittadinanza legata alla “nazione”, trascurando completamente le sfide educative contemporanee. Non c’è traccia di un’analisi critica sulle disuguaglianze nei saperi, sulle difficoltà relazionali o sul rischio di selezione sociale che la scuola può perpetuare. Al contrario, prevale un approccio paternalistico che idealizza il “bambino-tipo”, relegando gli altri a un problema marginale da gestire con carità piuttosto che con un impegno verso l’uguaglianza dei diritti. Iosa critica aspramente l’influenza di Ernesto Galli della Loggia, figura chiave nella stesura del documento, noto per le sue posizioni contro l’inclusione radicale e a favore di un ritorno alle scuole speciali. Questa visione si riflette nel testo, dove l’inclusione è presentata come un’utopia romantica, un ostacolo all’educazione dei “signorini dei talenti” dice Iosa. Il risultato è un’elencazione vuota di luoghi comuni pedagogici, privi di spessore scientifico o di una reale comprensione delle problematiche attuali. Iosa denuncia anche la crescente medicalizzazione della scuola che trasforma le differenze in diagnosi cliniche, alimentando un sistema di certificazioni e interventi specialistici spesso più interessati a logiche di mercato che al benessere degli alunni. Invece di affrontare questi nodi critici, il documento propone soluzioni superficiali, come l’enfasi sulle tecnologie assistive (Universal Design for Learning), presentate come panacea per l’inclusione mentre si ignora il valore della comunità educativa e delle relazioni umane. Concludendo, l’autore definisce il testo ministeriale una “minestrina di basso profilo”, incapace di stimolare un dibattito serio tra educatori e di affrontare la crisi della didattica inclusiva, aggravata dalla scarsa formazione dei docenti di sostegno. Invita perciò a ritirare il documento e a ripensarlo radicalmente, ribadendo l’urgenza di tornare allo spirito rivoluzionario del Documento Falcucci e di figure come don Milani, per una scuola davvero democratica e inclusiva. Stefano Stefanel in La valutazione come verifica delle conoscenze evidenzia come la valutazione scolastica nelle Nuove Indicazioni Nazionli venga ridefinita in modo radicale, abbandonando la tradizione pedagogica progressista degli ultimi decenni per abbracciare una visione centrata sulle conoscenze individuali piuttosto che sulle competenze collettive. Il documento ministeriale, partendo dal presupposto costituzionale che pone la persona al centro anziché il cittadino, opera una svolta concettuale significativa: la scuola non è più vista come spazio di costruzione di una cittadinanza condivisa ma come luogo in cui l’individuo afferma il proprio io attraverso l’acquisizione di saperi predeterminati. Questo slittamento semantico da “cittadino” a “persona” non è neutrale visto che riflette un’impostazione che lega l’identità alla famiglia e a un’idea di conoscenza scolastica come strumento di affermazione individuale piuttosto che di integrazione sociale. La valutazione perde la sua funzione formativa e di accompagnamento dei processi di apprendimento per trasformarsi in uno strumento di misurazione di contenuti fissi, valutati in termini di adesione a un canone culturale preciso. Le Nuove Indicazioni propongono un ritorno a un’idea di scuola come presidio dell’umanesimo, dove i contenuti simbolici della tradizione occidentale, dalla Bibbia ai poemi omerici, dal latino al corsivo, assumono un ruolo centrale come pilastri indiscutibili del curricolo. Questo approccio, che Stefanel definisce contenutistico più che processuale, rischia di ridurre l’apprendimento a una forma di assimilazione passiva di narrazioni preconfezionate, come dimostra l’affermazione apodittica secondo cui “solo l’Occidente conosce la storia” che trasforma la storiografia da disciplina critica a dogma identitario. Un altro aspetto problematico è la trattazione delle STEM ridotte nel documento a semplice sinonimo di “matematica e scienze”, con l’eliminazione della dimensione ingegneristica e tecnologica che invece caratterizza questo approccio a livello internazionale. Allo stesso tempo si insiste su un’ibridazione forzata tra tradizione e innovazione, dove “carta, penna e biblioteche d’aula” devono convivere con le tecnologie digitali, senza però una reale integrazione pedagogica. Questo dualismo si riflette nella valutazione che diventa uno strumento ambiguo. Essa deve misurare l’acquisizione di competenze digitali come verificare l’adesione a pratiche tradizionali, ad esempio la scrittura corsiva, senza una chiara visione di come questi elementi debbano interagire nel processo formativo. La proposta di un curricolo verticale, basato su tre dimensioni, istruzione (conoscenza teorica), formazione (competenze operative) ed educazione (valori etici), potrebbe in teoria rappresentare un equilibrio tra sapere e saper fare. Tuttavia Stefanel sottolinea come, nella pratica, il documento privilegi nettamente la trasmissione di contenuti astratti, considerati la base per la formazione di un’identità etica e sociale. In questo modo, la valutazione non serve a guidare l’alunno nel suo percorso bensì a certificare l’avvenuta assimilazione di un corpus di conoscenze selezionate, con una logica che ricorda i vecchi programmi ministeriali più che un sistema autonomo e flessibile. Dietro queste scelte, secondo Stefanel, si intravede un progetto politico-culturale preciso: una reazione conservatrice contro le esperienze di valutazione formativa e contro l’autonomia scolastica, accusate di aver indebolito il ruolo della scuola come trasmettitrice di valori tradizionali. La reintroduzione di un approccio docimologico tradizionale, con voti e giudizi sintetici, risponde a una domanda sociale che vede nella scuola senza voti e nelle competenze trasversali un pericolo per l’ordine culturale esistente. Allora le Nuove Indicazioni non rappresentano un semplice aggiustamento tecnico ma un vero e proprio cambio di prospettiva: la scuola, da laboratorio di cittadinanza critica, assume la forma di un dispositivo per riaffermare un’identità nazionale attraverso contenuti univoci e gerarchizzati. La conclusione di Stefanel è netta: siamo di fronte a una restaurazione dell’umanesimo in chiave tecnologica, dove l’uso strumentale della valutazione serve a demarcare confini culturali più che a promuovere crescita individuale e collettiva. Il rischio è che, in nome di un ritorno alla “disciplina” del sapere, si sacrifichino l’innovazione didattica e l’autonomia degli insegnanti, sostituendole con un modello centralizzato e poco incline al confronto con la complessità del mondo contemporaneo. Antonio Valentino in Letture in sequenza delle Indicazioni Nazionali del 2025 e di quelle del 2018: due mondi, due culture propone un’analisi comparativa tra le Indicazioni Nazionali per il 2025 e quelle del 2018, mettendo in luce una frattura profonda tra i due documenti, quasi riflettessero due filosofie educative inconciliabili. Fin dalla prima lettura emerge una volontà esplicita delle nuove Indicazioni di marcare una netta distanza dal precedente impianto, abbandonando i principi di essenzialità, flessibilità e apertura a metodologie innovative che caratterizzavano il testo del 2018, per abbracciare invece un approccio più rigido e prescrittivo, con contenuti definiti in modo più chiuso e dettagliato.  Uno degli aspetti più significativi di questa divergenza è la scomparsa, nelle Indicazioni del 2025, di qualsiasi riferimento agli “scenari” futuri che invece costituivano il cuore della riflessione del 2018. Quel documento, infatti, partiva dalla consapevolezza che la scuola non potesse ignorare le grandi trasformazioni in atto, l’esplosione tecnologica, le crisi ambientali, le migrazioni globali, e che fosse necessario ripensare i curricoli per preparare gli studenti a un mondo in rapidissimo cambiamento. Le Nuove Indicazioni, al contrario, sembrano voler eludere queste questioni, come se la scuola potesse permettersi di restare ai margini delle sfide contemporanee. Non c’è traccia, ad esempio, di una seria riflessione su come l’accesso immediato a un’enorme mole di informazioni debba tradursi in una didattica rinnovata, né di un’attenzione concreta alle emergenze planetarie, disuguaglianze, guerre, cambiamenti climatici che pure influenzano profondamente la vita degli studenti. Un altro tema cruciale, presente nel 2018 ma quasi assente nel 2025, è quello della sperimentazione didattica. Il documento precedente, infatti, promuoveva attivamente la creazione di reti di scuole, sostenute da un Comitato Scientifico Nazionale, per sperimentare nuovi curricoli, metodologie e ambienti di apprendimento, coinvolgendo direttamente gli insegnanti in un processo di innovazione dal basso. Nelle Nuove Indicazioni, invece, questo slancio sperimentale sembra dissolversi, lasciando spazio a un modello più centralizzato e meno aperto al contributo attivo dei docenti. Particolarmente problematico, secondo Valentino, è il tono e l’impostazione della Premessa culturale del 2025 che introduce concetti come “persona” e “famiglia” in modo enfatico e talvolta ambiguo. La definizione della persona come “realtà che si costituisce dicendo ‘io’” suona astratta e poco pedagogica, rischiando di legittimare un individualismo esasperato che contrasta con l’idea di scuola come comunità educativa. Allo stesso modo, l’insistenza sulla personalizzazione dell’apprendimento, diversa dalla più ragionevole individualizzazione, potrebbe portare a un’istruzione sempre più selettiva, concentrata sui “talenti” anziché sul diritto di tutti a una formazione solida e inclusiva. Tuttavia è soprattutto la visione della famiglia a suscitare perplessità. Le Nuove Indicazioni attribuiscono infatti alla famiglia, in modo quasi esclusivo, il compito dell’educazione affettiva e valoriale mentre alla scuola riservano una funzione puramente istruttiva, riducendola a mera trasmettitrice di saperi. Questo dualismo rigido, presentato come un “nuovo patto” quasi sacrale tra scuola e famiglia, ignora deliberatamente la complessità delle dinamiche sociali odierne, dove molte famiglie sono fragili, assenti o culturalmente lontane dall’istituzione scolastica. L’idea di una famiglia “ideale”, capace di assolvere pienamente al suo ruolo educativo, appare così come una costruzione retorica più che una base realisticamente utile per progettare una scuola inclusiva e al passo con i tempi. La riflessione di Valentino si chiude con una domanda cruciale: che scuola emerge da queste Indicazioni? Una scuola che rinuncia a essere motore di cittadinanza attiva, che trascura la formazione docente e la ricerca didattica e che sembra volersi sottrarre alle grandi questioni del nostro tempo. Il rischio è un progressivo impoverimento del ruolo sociale dell’istruzione, lasciando insegnanti e studenti in un clima di crescente disorientamento. La sfida, allora, è capire come riportare al centro un’idea di scuola aperta, solidale e coraggiosa, capace di affrontare le complessità del presente senza ripiegarsi su modelli del passato. Mario Maviglia in Nuove Indicazioni e scuola dell’infanzia offre un’analisi approfondita e critica delle Nuove Indicazioni per la scuola dell’infanzia mettendo in luce una contraddizione di fondo tra la presunta continuità con i documenti precedenti e una serie di sottili ma significative innovazioni che tradiscono un’impostazione più rigida e controllante. A prima vista il testo sembra riproporre gli stessi principi cardine che hanno guidato la scuola dell’infanzia fin dagli Orientamenti del 1991 e dalle Indicazioni Nazionali del 2012, con il mantenimento delle finalità tradizionali legate allo sviluppo dell’identità, dell’autonomia e delle competenze relazionali, cognitive ed emotive dei bambini, nonché la conferma dei cinque campi di esperienza che strutturano l’azione educativa. Questa apparente stabilità potrebbe far pensare a un riconoscimento della validità del percorso fin qui compiuto ma Maviglia avanza due ipotesi alternative: la possibilità che la commissione incaricata di redigere le nuove indicazioni non avesse le competenze necessarie per innovare rispetto al passato e la scelta deliberata di mantenere uno status quo ritenuto sufficientemente solido ma che in realtà nasconde un cambiamento di prospettiva più profondo. La vera novità, secondo l’autore, emerge dall’analisi della struttura del documento che abbandona l’approccio aperto e flessibile delle precedenti indicazioni per adottare uno schema più rigido e prescrittivo. Ogni campo di esperienza viene infatti articolato in quattro sezioni fisse, Finalità, Competenze attese, Obiettivi specifici e Suggerimenti metodologici, che riducono lo spazio per l’adattamento creativo da parte degli insegnanti. In particolare le competenze non sono più presentate come traguardi dinamici e progressivi ma come obiettivi fissi e gerarchicamente subordinati a una visione predeterminata del curricolo. Questo passaggio da un’impostazione “cinematografica”, attenta al divenire e alle tappe evolutive dei bambini, a una “fotografica”, che cristallizza le aspettative in una serie di obiettivi statici, rappresenta una svolta significativa verso una didattica più standardizzata e meno sensibile alle differenze individuali e contestuali. Un ulteriore elemento di critica è rappresentato dalla natura eccessivamente dettagliata e minuziosa dei suggerimenti metodologici che scendono in particolari operativi, come la gestione delle presenze e assenze o la cura delle piante in aula, tradendo una sfiducia di fondo nell’autonomia professionale degli insegnanti e una tendenza a trasformare le indicazioni nazionali in un vero e proprio manuale d’uso. Questa deriva prescrittiva sembra riflettere una più generale tendenza delle politiche scolastiche recenti, caratterizzata da un maggiore controllo centralizzato e da un approccio autoritario, come dimostrano anche i richiami ossessivi all’ordine, alla disciplina e al rispetto dell’autorità che permeano il documento. Maviglia collega esplicitamente questa impostazione alla linea del ministro Valditara, evidenziando come il testo trascuri completamente le reali condizioni in cui operano le scuole dell’infanzia, spesso alle prese con classi sovraffollate, risorse insufficienti e una burocrazia asfissiante. La figura dell’insegnante, idealizzata come “modello” di virtù educative sulla scia di pensatori come Comenio e Rousseau, appare slegata dalla realtà quotidiana di una professione sempre più complessa e poco riconosciuta mentre il rapporto con le famiglie viene ridotto a una serie di formule retoriche sul patto di corresponsabilità, senza tenere conto delle pratiche innovative di partecipazione che molte scuole hanno sviluppato nel tempo. Anche il trattamento di temi cruciali come l’intercultura o l’uso delle tecnologie risulta superficiale e moralistico, con avvertimenti contro gli eccessi digitali che ignorano completamente il ruolo delle politiche sociali e formative nel contrastare questi fenomeni. Maviglia legge nelle Nuove Indicazioni il segno di una scuola dell’infanzia immaginata come spazio di “libertà vigilata”, dove l’apparente continuità con il passato nasconde in realtà un progetto di normalizzazione e controllo che rischia di mortificare l’autonomia professionale e l’innovazione pedagogica. Antonio Brusa in La storia nelle nuove indicazioni sviluppa una critica dell’insegnamento della storia nella Nuove Indicazioni Nazionali mettendo in luce come queste rappresentino un preoccupante ritorno a una visione mitizzata e ideologica del passato, finalizzata alla costruzione di un’identità nazionale piuttosto che all’educazione storica critica e scientifica. Partendo da un’analogia suggestiva, Brusa osserva che così come la favola di Cappuccetto Rosso, pur essendo un racconto affascinante, non può essere presa come modello per orientarsi in un bosco reale, allo stesso modo una ricostruzione storica deformata da intenti politici non può essere considerata una guida affidabile per comprendere il passato. Il film Il Gladiatore, per quanto spettacolare, non è certo una fonte valida per studiare la dinastia degli Antonini, eppure le Nuove Indicazioni propongono una narrazione altrettanto distorta, seppur in modo più sottile e istituzionalizzato. Il cuore del problema, secondo Brusa, risiede nel cambiamento di statuto epistemologico della storia nelle Indicazioni: da disciplina scientifica, basata sull’analisi critica delle fonti e sul confronto storiografico, essa viene trasformata in uno strumento politico, finalizzato a plasmare un’identità collettiva. La Commissione incaricata di redigere le nuove linee guida ha elaborato quella che gli storici definiscono una “biografia della nazione”, un racconto che presenta gli eventi del passato come tappe di un destino nazionale predeterminato. In questa narrazione gli antichi popoli italici vengono presentati come radici primigenie degli italiani moderni, Roma diventa il simbolo di una grandezza da rivendicare, i Longobardi vengono reinterpretati come precursori dell’unità nazionale e il Risorgimento assume i toni di una liberazione epica dall’oppressione straniera. Si tratta, sostiene Brusa, di una costruzione artificiosa, che ignora il fatto che quelle popolazioni non avevano alcuna coscienza di un’identità italiana condivisa e che ripropone una visione superata dalla storiografia contemporanea, la quale da decenni ha smascherato queste “tradizioni inventate”. L’autore solleva inoltre una questione di legittimità costituzionale: l’articolo 33 della Costituzione italiana garantisce la libertà di insegnamento delle scienze, non delle narrazioni leggendarie. Se da un lato lo Stato ha il diritto-dovere di definire i programmi scolastici, dall’altro non può imporre una visione della storia che contraddice i principi della ricerca scientifica. Brusa sottolinea con ironia che nessun editore accetterebbe di pubblicare un manuale che presentasse apertamente delle favole come verità storiche, eppure le Nuove Indicazioni rischiano di legittimare proprio questo approccio. Per comprendere la portata di questa svolta, Brusa ripercorre le tappe fondamentali dell’insegnamento della storia in Italia e in Europa. Nell’Ottocento la storia fu introdotta nei sistemi scolastici proprio con l’obiettivo di costruire l’identità nazionale, in un’epoca in cui gli Stati vedevano nella scuola uno strumento chiave per formare i cittadini. Tuttavia, nel corso del Novecento, soprattutto dopo le tragedie delle due guerre mondiali, la storiografia ha compiuto un profondo rinnovamento metodologico, emancipandosi dalla subordinazione alla politica. La scuola delle Annales, con Marc Bloch e Lucien Febvre, ha promosso una storia “totale”, attenta alle strutture sociali ed economiche più che ai grandi personaggi mentre nel secondo dopoguerra ci si è interrogati criticamente sul ruolo del nazionalismo nella genesi dei conflitti. In Italia i programmi del 1979 e le Indicazioni del 2007 e 2012 hanno cercato di superare la vecchia storia evenemenziale e nazionalistica, privilegiando un approccio problematico, capace di sviluppare competenze critiche negli studenti e di allargare lo sguardo all’Europa e al mondo. Le Nuove Indicazioni, invece, rappresentano una brusca inversione di tendenza, un ritorno a un modello ottocentesco che gli storici avevano faticosamente superato. Ernesto Galli della Loggia, coordinatore del gruppo di lavoro, ha del resto esplicitamente dichiarato che si tratta di un progetto ideologico, legato alla sua visione di una “patria perduta” dopo il 1943 e da ricostruire attraverso la scuola. Brusa contesta questa prospettiva su più livelli. Da un punto di vista storiografico, osserva che la “biografia della nazione” proposta è una costruzione arbitraria che ignora le complessità del passato. Sul piano pedagogico, sottolinea che una storia intesa come catechismo nazionale non solo è inefficace ma può rivelarsi controproducente, infatti le ricerche citate da Luigi Cajani dimostrano che, nelle classi multiculturali, l’insistenza su narrative identitarie tende a provocare chiusure e resistenze tra gli studenti di origine straniera mentre un approccio più aperto e globale favorisce il dialogo. Brusa smonta anche l’argomento pragmatico. Se davvero si volesse rafforzare l’identità nazionale, bisognerebbe riprodurre le condizioni dell’Ottocento, con investimenti massicci in cultura, monumenti, celebrazioni. Invece il governo stanzia fondi per le discipline STEM e trascura la storia, illudendosi che poche ore settimanali possano ottenere ciò che un secolo fa richiese uno sforzo collettivo enorme. Infine l’autore critica la didattica implicita nelle Indicazioni. L’insegnante non è più visto come un mediatore critico ma come una sorta di sacerdote che deve “affascinare” gli studenti con i fasti del passato, in una visione retorica e acritica che ricorda i peggiori manuali di epoca fascista. Brusa lancia un monito: le nuove Indicazioni non solo tradiscono la missione educativa della storia ma rischiano di produrre effetti opposti a quelli dichiarati, alimentando divisioni invece che coesione. Quello che per Galli della Loggia è un sogno a lungo coltivato, per gli insegnanti e gli studenti potrebbe trasformarsi in un vero e proprio incubo didattico, allontanando la scuola dalla sua funzione di laboratorio di pensiero critico e cittadinanza consapevole. Giancarlo Cavinato in Dieci ragioni per amare la lingua costruisce un discorso articolato e appassionato sull’educazione linguistica, muovendosi tra pedagogia, linguistica e letteratura per smontare l’idea di una lingua ridotta a mero strumento normativo e per proporre invece una visione viva, sociale e creativa del linguaggio. La sua riflessione nasce dalla constatazione di un paradosso, infatti mentre la scuola tradizionale impone un approccio rigido, fondato sulla memorizzazione di regole e sulla fatica (come nell’antico adagio spagnolo “la letra con sangre entra”), la vera essenza della lingua risiede nella sua capacità di costruire relazioni, significati e mondi condivisi. Cavinato parte da un’immagine potente, tratta da Furore di Steinbeck, dove i migranti, attorno a un fuoco, diventano comunità attraverso il canto e la narrazione. È questa la metafora centrale della lingua come atto collettivo. La classe, come quel bivacco, dovrebbe essere il luogo in cui le parole si costruiscono insieme, dove emergono leader, si negoziano significati e si sciolgono ambiguità. In un contesto cooperativo la lingua non è un fine a sé stesso ma lo strumento con cui l’”uomo sociale” esprime sé stesso e dialoga con gli altri. Questo contrasta con la deriva tecnicistica che spesso domina la didattica, dove l’intervento sugli errori degli alunni perde di vista le motivazioni profonde che guidano l’apprendimento. La lingua, però, non è solo espressione spontanea, è anche un sistema complesso e Cavinato attinge a Jakobson e Kruszewski per spiegare come funzioni attraverso due assi fondamentali: la selezione (basata sulla similarità tra parole) e la combinazione (basata sulla contiguità). Questa struttura dinamica rende impossibile un insegnamento puramente tassonomico. La lingua va esplorata nella sua infinita capacità generativa, attraverso stimoli che invitino a sperimentare, a produrre testi, a giocare con le parole. Inoltre, in un mondo globalizzato, nessuna lingua è un’isola. L’’interlingua (quel misto di codici che nasce dal contatto tra culture, come lo spanglish o l’itangliano) non è un segno di degrado ma una risorsa per attivare confronti, scoprire nuove espressioni e avvicinarsi alle lingue straniere in modo naturale. Jakobson torna anche nell’analisi delle sei funzioni linguistiche (referenziale, emotiva, poetica…) che dimostrano come la lingua serva a molto più che trasmettere informazioni. Per Cavinato è cruciale che la scuola lavori su questa pluralità, integrando le quattro abilità (parlare, ascoltare, leggere, scrivere) in modo circolare, senza separarle artificiosamente. Leggere ad alta voce, scrivere insieme, esplorare testi ben costruiti: sono queste le pratiche che nutrono la competenza linguistica, non le esercitazioni meccaniche. Allo stesso modo, la comunicazione autentica richiede interlocutori reali. Cavinato cita le tecniche Freinet (testo libero, corrispondenza tra classi, giornalino) come esempi di come la lingua possa diventare azione concreta, capace di modificare la realtà e creare legami. La lingua è anche espressione dei vissuti e qui Cavinato si collega a Mario Lodi e a Paul Le Bohec. La scrittura collettiva, ad esempio, non è solo un esercizio ma un modo per costruire un clima positivo in classe mentre la creatività verbale (dalla poesia alla metafora) permette di elaborare emozioni e ferite. La lingua, insomma, non va separata dal corpo, dal gioco, dall’arte. Come mostra Vygotskij, l’immaginazione e la simbolizzazione sono bisogni fondamentali dell’infanzia e una scuola che li ignora rischia di spegnere la curiosità. Il testo, per Cavinato, è l’unità minima su cui lavorare: non frasi isolate ma discorsi coerenti, da smontare e rimontare per coglierne le strutture. Van Dijk e Iser vengono evocati per spiegare come la comprensione non sia passiva bensì un atto cooperativo. Leggere significa interpretare e per farlo servono strategie attive (dalla riscrittura al dibattito), non solo quiz a risposta chiusa. Eco, del resto, aveva già chiarito che il significato di un testo non è mai univoco, esso nasce dall’incontro tra l’intenzione dell’autore e l’esperienza del lettore. Proprio per questo la creatività è un tema centrale. Cavinato cita Rodari e la sua “grammatica della fantasia” per opporsi a una lingua ingabbiata in regole fisse. La metafora, ad esempio, è modo per conoscere il mondo, per “creare nuove realtà” dissociando e riassemblando significati. In una società dominata dall’informazione standardizzata dei social, la scuola dovrebbe essere il luogo dove si coltiva il pensiero divergente, dove si impara a vedere le cose da prospettive inedite. Infine, Cavinato affronta il nodo della riflessione linguistica, criticando la grammatica tradizionale, fatta di etichette e paradigmi. Il riferimento è al progetto “Il bambino giudica la lingua” del MCE, dove erano gli alunni stessi, attraverso discussioni guidate, a valutare l’accettabilità di una frase, scoprendo così le regole in modo induttivo. Parisi e De Mauro sono i punti di riferimento per una grammatica intesa come strumento di pensiero critico, sensibile alle varianti e alle eccezioni. La conclusione è amara: le Nuove Indicazioni Nazionali ignorano tutto questo, riducendo l’italiano a una serie di tecnicismi sterili. Cavinato cita Galassi quando afferma che schematizzare la lingua è come “mettere l’acqua in gabbia”. La sfida, invece, è restituire alla parola la sua forza vitale, perché, come dimostrano quelle notti attorno al fuoco in Furore, è attraverso la lingua che diventiamo comunità, che trasformiamo il caos in mondo. L’ultimo saggio è di Silvana Loiero e si intitola Cuore, fiore, amore. Con gratitudine. E tanto cuore, ma con voce. Esso parte da una riflessione apparentemente semplice, quasi poetica, sulle parole cuore, fiore e amore, termini così comuni da essere diventati, in molti contesti, quasi svuotati di significato, relegati a filastrocche infantili o a formule retoriche. Eppure, proprio perché così abusate, queste parole nascondono una sfida profonda: usarle in modo autentico, senza retorica, soprattutto quando si parla di educazione e democrazia. Il cuore, in particolare, è un termine ricorrente nelle Indicazioni del 2025 per la scuola italiana, dove viene evocato come simbolo di valori civici ed emotivi. Si parla del “cuore pulsante della democrazia”, di “sapienza del cuore”, di un’educazione che coinvolga “mente, cuore e mani”. Loiero smaschera una contraddizione fondamentale perché questo cuore batte in silenzio, senza la parola che invece è l’elemento vitale per una democrazia reale. Se democrazia significa partecipazione, allora educare alla democrazia non può prescindere dal dare voce agli studenti, dal fornire loro gli strumenti linguistici per pensare, discutere, dissentire. Qui l’autrice richiama due grandi maestri: Gianni Rodari, che vedeva nella parola uno strumento di liberazione, e Tullio De Mauro, che ne sottolineava il ruolo nella costruzione di cittadinanza attiva. Nelle Indicazioni del 2012 la parola era esplicitamente riconosciuta come diritto costituzionale (art. 21), un pilastro per formare cittadini consapevoli. Nel 2025, invece, questo principio sembra affievolirsi. Si tace sul diritto alla parola e con esso si indebolisce la possibilità di sviluppare un pensiero critico. La scuola, se non insegna a praticare la democrazia attraverso il dialogo, l’ascolto e il confronto, rischia di diventare un luogo che promette cittadinanza ma non la esercita. Loiero approfondisce poi il tema dell’educazione emotiva. Evocare sentimenti come tenerezza, fiducia o gentilezza non basta se non si insegnano le parole per esprimerli. Cuore non può essere solo un’immagine rassicurante; deve tradursi in linguaggio, in narrazione, in capacità di dare nome alle emozioni e condividerle. Altrimenti i sentimenti restano muti, privati, incapaci di trasformarsi in relazione o consapevolezza. Lo stesso vale per l’apprendimento. Se si parla di imparare con “mente, cuore e mani” ma si trascura la parola che dà senso all’esperienza, si perde la profondità del processo educativo. I bambini imparano davvero solo quando possono raccontare ciò che fanno, riflettere su ciò che provano, dare forma al loro pensiero. Un altro passaggio cruciale è quello sull’incanto, un termine che nelle Indicazioni del 2025 accompagna la magia della lettura e della scrittura nei primi anni di scuola. L’incanto nasce dall’ascolto di storie, dalla voce che legge, dalle immagini che catturano l’immaginazione. È la scintilla che accende la passione per la lingua. Questo incanto, osserva Loiero, si spegne troppo presto, quando la scrittura viene ridotta a esercizio tecnico, dominato dalla paura dell’errore e dalla rigidità delle regole. Il riassunto, ad esempio, diventa una mera riscrittura corretta, non un’elaborazione critica o creativa. L’errore, invece di essere visto come parte naturale dell’apprendimento, viene trattato come un fallimento da correggere. In questo modo la scuola rischia di uccidere la curiosità e la libertà espressiva che pure aveva inizialmente evocato. In chiusura, Loiero cita Umberto Saba che nel Canzoniere celebrava la bellezza delle parole semplici e logorate, come fiore e amore, perché in esse si nasconde una verità profonda. Per l’autrice la scuola deve fare lo stesso: riconoscere che la sua “carta migliore” è proprio la parola, non una parola vuota o decorativa ma una parola pensata, detta, ascoltata, che costruisce pensiero e relazione. La conclusione è un appassionato invito a una scuola che non si accontenti di buoni sentimenti o di incanti superficiali ma che sappia tradurre le emozioni in consapevolezza, i principi in pratica, il silenzio in voce perché la democrazia non è fatta di cuori che battono in silenzio, bensì di voci che sanno discutere, dissentire, immaginare. E perché, come scrive Loiero, servono “un cuore che batte, e fa rumore, e si sente”. Un vuoto da colmare in questa trattazione, presente sia nel libro che abbiamo preso in esame che in Credere, obbedire, insegnare, riguarda il modo in cui la matematica e le scienze naturali sono declinate all’interno delle Nuove Indicazioni Nazionali. Per quanto riguarda il primo punto facciamo riferimento all’articolo Indicazioni per la Matematica: sono tante le criticità e i nodi da sciogliere di Andrea Maffa uscito sul sito della Erickson. Per l’autore le Nuove Indicazioni Nazionali sono un documento disorganico, dove la volontà di integrare le discipline STEM si traduce in una giustapposizione meccanica piuttosto che in una sintesi armoniosa, con obiettivi disciplinari che parlano linguaggi diversi senza mai veramente dialogare tra loro. La struttura stessa del testo appare come un puzzle mal assemblato, dove competenze attese, obiettivi generali e specifici sono dispersi in sezioni distanti, creando un forte senso di spaesamento. Particolarmente emblematico è il caso del Teorema di Pitagora, relegato a mera conoscenza declamatoria piuttosto che elevato a strumento di pensiero, sintomo di una deriva nozionistica che preoccupa gli addetti ai lavori. Il cuore pulsante della didattica matematica, quel laboratorio che nelle Indicazioni del 2012 rappresentava il fulcro della costruzione attiva della conoscenza, viene ora marginalizzato, ridotto a semplice appendice metodologica relegata nelle parti finali del documento. Parallelamente, la nozione stessa di “problema” subisce una mutazione genetica preoccupante: da occasione di esplorazione e costruzione di significato diventa sempre più esercizio di applicazione di procedure, con un preoccupante slittamento semantico dall'”affrontare problemi” al “risolvere problemi” che tradisce un cambiamento epocale nell’approccio didattico. Questo cambiamento di prospettiva rischia di trasformare la matematica da palestra del pensiero critico a mero addestramento al calcolo, come dimostra la sostituzione del verbo “determinare” con “calcolare” negli obiettivi relativi ad aree e perimetri nella scuola secondaria di primo grado, un dettaglio apparentemente minore che invece rivela una visione profondamente strumentale della disciplina. L’immagine della matematica che traspare dal documento appare ancorata a una concezione dogmatica e atemporale che nega la natura storicamente determinata e culturalmente contestualizzata del pensiero matematico. La probabilità, ad esempio, vede ridimensionato il suo spazio formativo già al termine della scuola primaria, come se il caso e l’incertezza non meritassero di essere indagati con la stessa dignità delle verità eterne della geometria euclidea. Questa matematizzazione del reale rischia di produrre nei discenti una visione distorta della disciplina, percepita come insieme di regole immutabili piuttosto che come linguaggio dinamico per interpretare la complessità. L’introduzione dell’informatica nel curricolo, pur rappresentando un’innovazione in sé positiva, sembra essere stata gestita con approssimazione e senza una visione organica. La suddivisione degli obiettivi tra matematica e tecnologia ricorda più un compromesso burocratico che una scelta pedagogicamente motivata mentre l’assenza di un piano di formazione per i docenti, molti dei quali si dichiarano impreparati ad affrontare questi nuovi contenuti, rischia di trasformare questa innovazione in un boomerang didattico. Il riferimento a obiettivi mutuati da documenti del 2017 senza un adeguato adattamento al contesto scolastico attuale, unito alla mancanza di chiarezza sui tempi di attuazione e sui criteri di valutazione, completa un quadro definito  “emergenziale”. Il timore condiviso è che, invece di preparare studenti capaci di pensiero critico e problem solving, si finisca per formare esecutori di procedure, in un panorama didattico che sembra voler tornare indietro nel tempo piuttosto che affrontare le sfide del futuro. Per quanto riguarda le scienze naturali prendiamo come riferimento l’articolo di Enrico Gallo, apparso su Nuovo PavoneRisorse, L’insegnamento delle scienze nelle Nuove Indicazioni. Per Gallo queste nuove linee guida rappresentano un preoccupante arretramento rispetto alle Indicazioni del 2012 che invece costituivano un solido punto di riferimento pedagogico, frutto di un attento lavoro di esperti e ampiamente condiviso dagli insegnanti. Il primo segnale allarmante è la totale assenza di riferimenti al precedente documento, come se si volesse cancellare con un colpo di spugna anni di ricerca e sperimentazione didattica, ignorando deliberatamente un impianto metodologico che aveva dimostrato la sua efficacia nelle classi. Scavando più a fondo emergono differenze sostanziali che vanno ben oltre la semplice organizzazione dei contenuti: cambia radicalmente la prospettiva educativa. Se nel 2012 l’attenzione era centrata sui bisogni degli alunni, sullo sviluppo cognitivo e sull’espressività individuale, con un forte accento sull’inclusione e sulle competenze di cittadinanza, il nuovo documento sembra riportare indietro le lancette del tempo, privilegiando un approccio più tradizionale e verticistico, dove i doveri prevalgono sui diritti e l’apprendimento si riduce a un accumulo di nozioni. Particolarmente stridente è il confronto nell’ambito scientifico. Le vecchie Indicazioni parlavano di “situazioni sperimentali”, di esperienze di gruppo e di scoperta attraverso il metodo scientifico, suggerendo persino di estendere alla primaria le attività dei laboratori della secondaria per creare una preziosa continuità didattica, le Nuove Indicazioni si concentrano su un’impostazione più statica e teorica. Nonostante un apparente ampliamento dello spazio dedicato alle scienze, passato da tre a otto pagine, la sostanza risulta impoverita. Gli esempi pratici proposti, come il vulcano di bicarbonato o il prisma di Newton, appaiono anacronistici e superficiali, quasi fossero inseriti per dare un’illusione di concretezza, quando in realtà si tratta di attività che fanno parte da decenni del repertorio didattico delle scuole primarie. Ancora più problematico è il tentativo di presentare come innovativa una didattica “interdisciplinare” che mescola scienze, arte e musica in modo forzato e poco coerente. L’esempio dei bicchieri d’acqua per studiare le vibrazioni sonore tradisce una preoccupante distanza dalla realtà scolastica contemporanea, dove i bicchieri di vetro sono ormai scomparsi per motivi di sicurezza, rendendo l’esperimento di fatto irrealizzabile nella sua forma tradizionale. La situazione diventa paradossale quando si incontrano nel documento riferimenti a concetti complessi come la “propagazione ondosa” o le “interazioni gravitazionali tra corpi celesti”, termini che suonano più come un inutile sfoggio di erudizione che come indicazioni pratiche per insegnanti che lavorano con bambini di scuola primaria. Questa forzatura teorica, unita alla curiosa assenza di riferimenti a concetti fondamentali come la struttura atomica o il sistema solare, omissioni che fanno sorgere inquietanti interrogativi sulle possibili motivazioni ideologiche dietro certe scelte, contribuisce a delineare un quadro desolante. Le Indicazioni del 2012, pur con i loro limiti, promuovevano una visione della scienza come avventura della conoscenza, stimolando curiosità e spirito critico, quelle del 2025 sembrano rinchiudere l’insegnamento scientifico in uno schema rigido e impoverito, dove manca completamente quella passione per la scoperta che dovrebbe essere il cuore pulsante di ogni attività didattica degna di questo nome. Il rischio concreto è che, invece di formare giovani capaci di affrontare le sfide del futuro con strumenti adeguati, si finisca per produrre generazioni di studenti disincantati, privati del piacere di comprendere il mondo che li circonda. Una prospettiva che dovrebbe far riflettere non solo gli addetti ai lavori ma tutta la società.

3. Che conclusioni dobbiamo trarre?

Dovrebbe essere evidente a tutti i lettori che queste Indicazioni Nazionali si inseriscono in un tentativo di costruzione di una nuova egemonia culturale dell’estrema destra tramite la scuola. Questo rapporto è stato ampiamente indagato dal marxismo, specialmente da Antonio Gramsci e Louis Althusser. Nel pensiero di Antonio Gramsci il nesso tra scuola ed egemonia culturale è organico, vitale, centrale. Gramsci concepisce l’egemonia come il processo mediante il quale una classe dirigente riesce a imporre la propria visione del mondo non tanto attraverso la forza quanto attraverso il consenso, cioè mediante una penetrazione capillare e pervasiva nella vita quotidiana delle masse. Questo consenso si radica in quelle che egli chiama “strutture della società civile”, tra le quali la scuola occupa una posizione decisiva. La scuola è il laboratorio della coscienza sociale, il luogo in cui si forma il senso comune che, nel suo stato più inerte e passivo, coincide con l’accettazione delle idee dominanti come se fossero naturali, eterne, ovvie. La scuola è l’ambiente strategico dove si costruisce l’egemonia poiché lì si plasmano i quadri intellettuali e morali che renderanno stabile l’ordine sociale oppure, in un’ottica rivoluzionaria, che permetteranno di elaborare una nuova egemonia socialista. Gramsci sa che il dominio borghese, oltre che sullo Stato, si fonda sul controllo delle coscienze e sa altrettanto bene che l’unica vera rivoluzione è quella che riesce a trasformare l’inconscio collettivo, il linguaggio quotidiano, la spontaneità delle credenze. Da qui l’attenzione specifica alla pedagogia come battaglia ideologica in atto: formare nuovi intellettuali organici, capaci di interpretare e guidare le aspirazioni delle classi subalterne, implica costruire un sistema scolastico fondato sull’eguaglianza delle possibilità formative e sulla centralità della cultura generale, nella convinzione che solo chi è passato attraverso il “travaglio della scuola” potrà disporre degli strumenti concettuali necessari a comprendere e trasformare il mondo. Gramsci, dunque, assegna alla scuola una funzione insostituibile nella lotta per l’egemonia: essa è il primo campo in cui si combatte la guerra di posizione, cioè la lenta e molecolare costruzione di una nuova coscienza sociale in grado di contendere alla borghesia il primato culturale e politico. Nel pensiero di Louis Althusser il rapporto tra scuola ed egemonia culturale si situa in un orizzonte teorico radicalmente diverso, anche se anch’esso marxista. Lungi dall’essere uno spazio aperto alla costruzione del consenso attraverso la cultura condivisa, la scuola, per Althusser, è uno dei principali strumenti della riproduzione ideologica dei rapporti di produzione. La sua teoria degli apparati ideologici di Stato postula che lo Stato, oltre a dispiegare la repressione attraverso gli apparati repressivi come la polizia o l’esercito, esercita il proprio dominio principalmente attraverso apparati ideologici quali la famiglia, i media, la Chiesa e, in primo luogo, la scuola. La funzione della scuola è quella di interpellare i bambini come futuri soggetti sociali, cioè di farli esistere come lavoratori, cittadini, padri, madri, all’interno delle coordinate ideologiche del capitalismo. Essa lo fa non inculcando semplicemente delle idee ma modellando l’intero comportamento del soggetto, mediante una disciplina invisibile che agisce attraverso rituali, abitudini, norme implicite. A differenza della Chiesa, che nell’ancien régime esercitava questa funzione ideologica in modo dominante, nella modernità capitalistica è la scuola che assume questo compito cruciale: seleziona, classifica, normalizza, dissimulando la propria funzione ideologica sotto la maschera della neutralità e dell’universalità del sapere. La scuola, secondo Althusser, insegna a leggere, scrivere e contare ma soprattutto insegna a obbedire, a interiorizzare l’autorità, a comportarsi secondo le esigenze dell’apparato produttivo. Essa è il luogo primario in cui si produce l’egemonia borghese, non nel senso gramsciano di costruzione del consenso bensì nel senso strutturale della riproduzione ideologica. La scuola forma l’infrastruttura soggettiva che rende possibile il perpetuarsi delle relazioni di produzione attraverso l’adesione silenziosa alle forme di soggettività dominanti. L’ideologia non è un’illusione da smascherare essendo la struttura stessa del vivere quotidiano e la scuola è il suo epicentro. Per questo Althusser, pur riconoscendo la possibilità teorica di una “rottura ideologica” anche all’interno degli apparati ideologici, è molto più pessimista di Gramsci circa la possibilità che la scuola, così com’è strutturata, possa essere trasformata in uno strumento di contro-egemonia. Su Nuovo PavoneRisorse Ivana Summa riprende proprio Althusser per analizzare le Nuove Indicazioni Nazionali. L’autrice sostiene che il documento ministeriale sembra incarnare perfettamente l’idea di egemonia di Althusser. Non più solo leggi e repressione ma un’opera sistematica di costruzione dell’identità, una vera e propria “sostituzione culturale” che punta a plasmare le nuove generazioni attorno a un’idea fissa di italianità, radicata in una presunta superiorità della tradizione occidentale. Fin dalla premessa il testo tradisce questa volontà di controllo, presentandosi più come un manifesto ideologico che come una guida pedagogica aperta. L’ispirazione di Ernesto Galli della Loggia è palpabile: si tratta di forgiare un “soggetto conforme”, modellato su un’identità nazionale monolitica, dove il “made in Italy” diventa più di uno slogan, una categoria esistenziale. Ciò che colpisce è la nettezza di questo strappo rispetto alle Indicazioni del 2012, dove il “nuovo umanesimo” di Morin abbracciava una visione plurale, cosmopolita, capace di coniugare classicità e modernità, locale e globale. Ora, invece, quel respiro si è contratto in un nazionalismo pedagogico che, pur mantenendo alcuni titoli dei paragrafi precedenti (come “Scuola e nuovo umanesimo”), ne svuota completamente il significato. L’articolo 3 della Costituzione, citato quasi come un’etichetta decorativa, perde la sua carica emancipatrice. Non si parla più di rimuovere ostacoli sociali e culturali ma solo di “valorizzare i talenti”, in un’ottica individualista che ignora le disuguaglianze strutturali. Sparisce l’idea di una cittadinanza planetaria, sostituita da un’identità chiusa, definita in opposizione a tutto ciò che è “altro”. Persino la storia viene riscritta: il Rinascimento, il Cristianesimo e la classicità diventano simboli di un’essenza italiana da preservare da contaminazioni. Il vero pericolo non sta solo in ciò che viene detto ma in come viene detto. L’ideologia non si annuncia con un proclama, si insinua attraverso i dettagli. I “suggerimenti metodologici” che di fatto limitano l’autonomia docente, la trasformazione della scuola in un’agenzia di risoluzione dei “problemi relazionali delle famiglie”, la retorica dei “talenti” che maschera una deriva selettiva. Come negli apparati althusseriani, il meccanismo è subdolo. Nulla si impone dall’alto perché si lavora alla sua interiorizzazione e assimilazione come senso comune. Sempre su Nuovo PavoneRisorse Simonetta Fasoli opportunamente segnala che il ministro Valditara sembra aver già individuato la sua arma più potente per rendere operative le Indicazioni Nazionali: i libri di testo. Si tratta di una vera e propria operazione culturale che passa attraverso la riscrittura dei manuali scolastici, trasformati in “missionari” di una visione educativa che molti insegnanti e intellettuali considerano pericolosamente riduttiva. La mossa è astuta. Se le Indicazioni possono essere discusse, contestate, perfino ignorate nella pratica quotidiana, i libri di testo sono un veicolo più subdolo e pervasivo. Entrano direttamente nelle classi, diventano lo strumento con cui gli studenti entrano in contatto con la storia, la letteratura, la scienza. E soprattutto, sono spesso accettati acriticamente come “neutrali”, quando in realtà incarnano scelte politiche e culturali precise. Valditara lo sa bene e ha già spinto le case editrici ad allinearsi alla nuova linea, con tempistiche serrate che mirano a rendere i nuovi testi operativi già dal 2026/27. Noi aggiungiamo che il libro di testo è lo strumento attorno a cui ruota l’intero lavoro del docente con scarsa professionalità. Basta modificare questo strumento per modificare i contenuti di ciò che si insegna a scuola. In questo modo si risponde alle esigenze di un corpo insegnante composto anche da personale scarsamente qualificato che si ritrova a scuola per assenza di alternative occupazionali. Non dobbiamo girare intorno alla questione, la scuola è un gigantesco ammortizzatore sociale per la disoccupazione intellettuale di questo paese che non riesce a trovare sbocco nel settore privato. Chiaramente questo processo è facilitato da percorsi di formazione per l’insegnamento estremamente lacunosi, in particolare per quanto riguarda i docenti della scuola secondaria. In passato si era provato a risolvere il problema con la Scuola di specializzazione all’insegnamento secondario ma queste tipologie di corsi vennero cancellate dalla ministra Gelmini lasciando aperta la questione della formazione del personale docente nella scuola secondaria. Ad oggi è possibile accedere all’insegnamento della scuola secondaria semplicemente con una laurea magistrale utile e degli esami integrativi in materie come pedagogia, didattica e psicologia, senza svolgere un minuto di tirocinio a scuola. La situazione sta leggermente cambiando con la riforma dei 60 CFU che, per quanto problematici dal punto di vista del costo, quantomeno prevedono il tirocinio in classe. Nella scuola primaria e dell’infanzia la situazione è diversa perché da oltre vent’anni esiste il corso di laurea abilitante e a numero chiuso di Scienze della Formazione Primaria che prevede centinaia di ore di tirocinio e di laboratori didattici utili per costruire il profilo di un professionista dell’insegnamento. Tuttavia negli ultimi anni sono apparsi nella scuola primaria e dell’infanzia possesori over 40 di diploma magistrale, titolo abilitante all’insegnamento come la laurea, che nella loro vita hanno svolto le professioni più disparate ma hanno deciso di svolgere gli ultimi anni di lavoro prima della pensione nella scuola pubblica. Queste persone spesso non hanno le adeguate competenze per lavorare a scuola, proprio perché nella loro vita hanno fatto tutt’altro e ciò che hanno appreso nelle scuole magistrali oltre 30 anni fa non è più adatto alla scuola del 2025, finendo per ingolfare la scuola pubblica con personale non adeguatamente qualificato e con scarse motivazioni. A nostro avviso l’impostazione delle Nuove Indicazioni Nazionali, con una descrizione estremamente dettagliata delle attività da svolgere in classe, si veda la parte dedicata alla scuola dell’infanzia per averne la conferma, risponde alle esigenze di questa figura di docente. Se non si hanno le adeguate competenze per stare a scuola e per progettare le proprie attività in classe in autonomia, si è più che contenti di avere qualcuno che dall’alto spiega come lavorare, facendo però a pezzi la professionalità dei docenti che in questo modo sono ridotti a semplici impiegati di concetto. Su questo terreno il governo potrebbe finire per consolidare una solida base di consenso che è al contempo un pericoloso argine rispetto allo sviluppo di un’idea democratica e progressista di scuola, notoriamente più impegnativa del modello “valutare e punire” (copyright del Manifesto) su cui puntano i partiti al governo e che trova il consenso di tutti quei docenti che hanno preferito formarsi tramite i messaggi estemporanei dei guru del web, spesso privi di qualsiasi competenze pedagogica, che spiegano come tutti i problemi della scuola siano dei pedagogisti, delle famiglia e, in ultima istanza, degli studenti che non vogliono più farsi carico della “fatica dello studio” e mai anche di chi a scuola ci lavora o di chi della scuola indirizza il funzionamento. 

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