- Note sulla speranza
John Holloway nel libro La speranza in un tempo senza speranza ci invita ad analizzare criticamente un sistema sociale che è basato sul dominio del capitale e in cui il possesso o non possesso del denaro plasma l’esistenza di ognuno di noi. Questa analisi serve a rifiutare un mondo funzionante in questo modo, profondamente falso e sbagliato, traghettando, così, la nostra rabbia nella grammatica della speranza. Il senso di colpa che emerge dall’incontro con le ingiustizie può essere colmato in molti modi. Possiamo fare beneficenza, chiudendo però gli occhi sulle cause scatenenanti il problema a cui vogliamo trovare una soluzione, può diventare indifferenza e con una “scrollata di spalle” possiamo continuare come se nulla fosse la nostra esistenza oppure può trasformarsi in rabbia nei confronti dei disperati che ci fanno sentire in colpa. La sensazione che ci sia qualcosa di sbagliato si rivolge contro le vittime e ci fa pretendere assurdità come la reclusione dei senzatetto, l’espulsione dei migranti o la repressione del movimento femminista che pretende eguali diritti per le donne. Questo schema, che l’autore chiama dolore-rabbia-frustrazione, sembra funzionare al momento in quest’ultimo modo facendo moltiplicare il razzismo, il sessismo, la paura e il nazionalismo.
“Abbiamo più che mai bisogno di speranza, la speranza in una società radicalmente diversa, la speranza che possa far fluire creativamente il dolore del mondo, la speranza che scaturisca dalla rabbia, ma che dia senso a quella rabbia, la speranza che porta ad aprire, e non chiudere e fortificare porte e finestre”1.
La speranza ci serve per far fluire creativamente il dolore del mondo. La speranza ci spinge fuori, diversamente dalla paura e per fare tutto ciò occorre partire dalla nostra ricchezza e dalle nostre potenzialità creative, da quello che l’autore definisce assoluto movimento del divenire al momento intrappolato ma la cui forza trabocca dalla gabbia in cui è imprigionato. Si tratta di un’enorme ricchezza che ci spinge contro-e-oltre. Questa ricchezza è una ricchezza-contro, quella dell’antagonismo contro il tempo senza speranza, contro il mondo che umilia la nostra ricchezza o cerca di impoverirla oppure contro il capitale che minaccia la nostra vita. Bisogna opporre al dominio lo schema rifiuto-resistenza-ribellione. In questo modo riusciremo ad andare oltre la tradizione della sinistra, tanto critica verso il capitalismo ma incapace di portarci fuori di esso, rimandando a data da destinarsi il giorno della rivoluzione. Si tratta di un modo di ragionare capace di trasformare la nostra speranza in paura a cui dobbiamo opporre la gioia della lotta e la sua luce fatta di coloro vivaci che illumina il nostro mondo. Holloway elenca molti momenti in cui ciò è accaduto dal ‘68 alle lotte in Argentina tra il 2001 e il 2002 oppure Occupy, le primavere arabe per arrivare fino ai gilet gialli. Sono tutti eventi capaci di trasformare la nostra percezione e consapevolezza di ciò che siamo e possiamo essere, in definitiva, durante questi momenti di lotta vengono rotti i limiti del possibile e siamo in grado di pensare a cose prima impossibili. Oltre a queste ribellioni Holloway pensa che lo stesso risultato possa essere raggiunto dalla proliferazione quotidiana del rifiuto e dalle sperimentazioni di alternative all’attuale sistema capitalista qui e ora la cui moltiplicazione per l’autore è il modo migliore per rompere con la società in cui viviamo.
Partire dalla speranza oggi significa parlare di una speranza sempre più angosciata per le crisi che dobbiamo affrontare. Pensare alla speranza significa raffigurarsi qualcosa di simile a Giano, il dio romano a due facce, una che guarda indietro e un’altra che guarda avanti. La speranza ci obbliga a tenere in considerazione entrambe le direzioni in quella che Holloway definisce speranza-contro-la-speranza, qualcosa di diverso dall’ottimismo e che ci permette di essere coscienti della corrente capace di scorrere verso la distruzione. In poche parole, parliamo di una speranza senza certezze e senza la rassicurazione di un lieto fine.
Eppure Holloway ci invita a re-imparare la speranza e per farlo parte da due autori particolari: Ernst Bloch e Adorno. Il primo vedeva la centralità della speranza in ogni attività umana che mostrava l’esistenza nel presente di un mondo ancora inesistente il cui punto di arrivo è il progetto comunista di Marx. Non possiamo avere, a 70 anni di distanza, la stessa sicurezza di Bloch in questo sbocco finale, in un mondo non dominato dal fascismo ma da qualcosa di molto simile. Inoltre viviamo in un contesto dove sono scomparsi i partiti rivoluzionari che contraddistinguono il suo mondo e assieme ad essi è collassata l’idea di un’alternativa reale al capitalismo con il crollo dell’URSS e del campo socialista. La storia sembra non essere più dalla nostra parte ma allo stesso tempo è sempre più urgente un cambiamento radicale della nostra società visto che ci sta inesorabilmente trascinando verso l’abisso dell’autodistruzione dell’umanità, annientando ogni possibilità di lieto fine per la nostra storia. Questo ha prodotto anche un abbassamento nelle aspettative della sinistra che sembra puntare più ad avere un capitalismo democratico rispetto al suo superamento mentre quest’ultimo diventa sempre più aggressivo e violento, portandoci in una situazione simile agli anni ‘30, dove riemergono i fascismi e la guerra. Allora è molto più facile cadere nella depressione rispetto a re-imparare la speranza. Holloway dice che sperare è facile, molto più difficile è pensare la speranza, cioè esercitare una docta spes, come direbbe Bloch, una speranza ragionata opposta al pio desiderio che non porta da nessuna parte. La docta spes presuppone una connessione pratica tra soggetto e oggetto. Questo legame impedisce di dare libero sfogo al pio desiderio che ha come unico risultato anestetizzare la nostra voglia di cambiare il mondo. La docta spes ci impone, invece, di confrontarci con le basi reali per costruire un mondo alternativo a quello in cui viviamo, dimostrando che non si tratta di una bella fantasia. Nel pensiero di Bloch, tuttavia, sembra che la speranza sia un motore del progresso, come se fosse qualcosa di ontologico, proprio della natura umana. La speranza in realtà è qualcosa di storicamente specifico e le forze che ci portano avanti si oppongono ad altre forze opprimenti e storicamente determinate. La speranza nella lettura di Holloway diventa qualcosa che mira alla rottura della coesione sociale ed è necessariamente antagonista. Se il progresso rafforza l’attacco contro di noi, essa è contro il progresso. La speranza non è il motore del progresso ma una spinta contro la distruzione, per l’emancipazione e per la costruzione di un modo di vivere libero dalle dinamiche distruttive del capitalismo. Da Adorno invece viene ripresa l’idea di una dialettica negativa che rompe con qualsiasi rassicurante idea di lieto fine, presente anche in Bloch.
Nel pensiero di Holloway l’antagonismo è sempre legato alla speranza blochiana intesa come il movimento di un soggetto contro un oggetto. L’antagonismo si trova al centro del pensiero dialettico perché cerca di pensare un mondo antagonistico. Si tratta di un noi contro un esso. Bisogna definire entrambi i termini, ovviamente e se non lo facciamo la speranza blochiana si trasforma in un pio desiderio che anestetizza la nostra volontà di cambiare il mondo oppure diventa un atto disperato se viene dimenticata la causa che ci spinge ad agire. La spinta alla speranza viene da un soggetto ma è il movimento di un soggetto-contro che affronta ciò contro cui ci scagliamo, ovvero un oggetto, il tedesco Gegenstand, che si oppone a noi. Adesso noi viviamo in un mondo dominato dall’oggetto, dove comanda il peso morto della totalità esistente delle relazioni sociali che ci blocca. Il pensiero-speranza prova a tenere insieme soggetto ed oggetto nel loro antagonismo e nella loro reciproca compenetrazione.
In seguito l’autore si concentra sul legame tra speranza ed identità. Per Holloway il capitalismo porta le nostre attività ad essere incanalate in una forma specifica di coesione sociale propria della logica del capitale. Si tratta di un sistema di contenimento che rischia di portarci all’estinzione ma l’attività e il pensiero anticapitalista rappresentano uno straripamento rispetto a questo contenimento. L’antagonismo che da forma al mondo per l’autore è questa tensione tra contenimento e straripamento. Lo straripamento contro il contenimento è la speranza ed è anche un confronto tra anti-identità e identità perché l’identificazione è un’imposizione di limiti a ciò che facciamo, pensiamo e come vediamo il mondo. L’identità ha come obiettivo contenere mentre l’anti-identità trabocca. Questo ragionamento si applica a molte categorie della sinistra tradizionale, per esempio quella di classe. La tradizione la considera un gruppo definito invece di un processo di classificazione figlio delle dinamiche del capitalismo. Holloway afferma che noi lottiamo non perché siamo una classe specifica, come quella operaia, ma perché ci rifiutiamo di essere rinchiusi in questa classificazione materiale che finisce per modellare le nostre vite. La nostra è una lotta anti-identitaria. La classificazione o l’identificazione ci porta alla separazione nata a causa del capitalismo e delle relazioni che si instaurano sotto di esso, basate sulla vendita e l’acquisto di merci. La questione è centrale anche per come oggi si sta riaffermando l’identitarismo tramite il nazionalismo, il sessismo e il razzismo e spesso sfocia in violenza contro chi si ribella e tenta di evadere dai ruoli assegnati da questo fenomeno che è legato al mantenimento dell’ordine sociale, imponendo a ciascuno di noi di conservare il proprio posto all’interno di una specifica definizione. Questo virus contagia in parte anche la sinistra e ne possiamo uscire fuori solamente con un approccio anti-sociologico e anti-identitario capace di farci comprendere le persone sulla base del flusso e del trabocco dell’antagonismo sociale al posto di gruppi definiti. Non bisogna prendere in considerazione, come fa la sociologia, la collocazione, i ruoli o gli interessi delle persone ma non dobbiamo neanche ignorarli. Occorre considerarli come dei blocchi o dei contenimenti al flusso antagonistico. Questi contenimenti sono la riproduzione della società che ci sta distruggendo. L’antagonismo non sfocia in una divisione identitaria perché esso penetra in ognuno di noi, individualmente e collettivamente. In una maniera schizofrenica, il capitale non produce soggetti puri e all’interno di ciascuno di noi si riproduce finendo per dividere in due parti ogni essere umano. Questo è il risultato di vivere in una società antagonista. Holloway afferma che: “Viviamo nel capitalismo e proprio per questo siamo contro di esso: poiché il capitalismo è un’aggressione, il fatto stesso di esserci dentro significa che reagiamo contro di esso. Piaccia o no, nasciamo in un antagonismo, nasciamo in una lotta di classe: non è una questione di scelta”2. Queste riflessioni si collegano al fatto che noi siamo dentro e contro la relazione capitalista. Non si possono separare i due termini pensado che l’opposizione al capitalismo sia una scelta consapevole e non insita nel fatto che noi esistiamo dentro una relazione antagonistica che è lo stesso capitale. Siamo allo stesso modo contro e oltre per evitare una deriva strumentale, tipica dei partiti rivoluzionari del secolo scorso che prima si preoccupano di prendere il potere e poi di costruire una nuova società, oppure utopistica in cui l’utopia si separa nettamente dalla lotta per la sua realizzazione. A questi possibili esiti rispondiamo con la politica prefigurativa, cioè con la necessità dell’organizzazione-contro di anticipare la società che vogliamo creare, ovvero l’oltre.
- Il soggetto in Holloway
Holloway afferma che il discorso di sinistra è quasi interamente preda di una narrazione di dominio e vittimismo sulle atrocità del modo di produzione capitalistico. L’esito che dobbiamo evitare è l’orientamento della nostra narrazione della vittimizzazione verso noi stessi, finendo nella vittimizzazione di noi stessi, di chi sta criticando. Questo esito è possibile perché la nostra analisi parte dal dominio ed è un errore comune in quanti studiano Marx perché la riflessione parte dal funzionamento del capitalismo per poi, a parte, studiare lo sfruttamento e il dominio che nasce da esso, con l’esito inevitabile della rivoluzione come logica conseguenza di tutto il ragionamento. La lotta di classe finisce per essere separata dall’analisi del capitale. Manca una negazione immanente, una forza negatrice generata dal dominio stesso. Questa forza è molto presente nel Capitale e ha portato gli operaisti, seguendo la lezione trontiana, a rovesciare il punto di inizio dell’analisi tramite la famosa inversione copernicana in Lenin in Inghilterra: bisogna partire dalla lotta di classe. Noi, il soggetto, rovesceremo l’oggetto, cioè il sistema. Non dipendiamo da alcun Salvatore perché la speranza radicale ci fa rifiutare ogni forma di vittimizzazione e iniziamo a pensare il mondo a partire dal soggetto che si auto-emancipa. Ovviamente non bisogna cadere nel volontarismo soggettivista incapace di capire come sia difficile piegare il mondo alla propria volontà senza tenere conto delle strutture stabilite. Il soggetto del cambiamento sociale radicale deve essere un contenuto che trabocca e irrompe, una negazione immanente-traboccante.
“La speranza rivoluzionaria è centrata non sull’uscire all’esterno per costruire alternative, ma sul rafforzamento delle forze negative generate dallo stesso sistema di dominio: non tanto immanenti quanto traboccanti, vulcaniche. Forze generate all’interno del sistema che spingono contro e oltre il sistema e quindi spingono contro e oltre la loro stessa esistenza”3.
Il capitale è in grado di produrre una forza contenuta al suo stesso interno, classificata come classe ma allo stesso tempo capace di rifiutare questa classificazione e che tracima oltre di essa. Quindi il soggetto rivoluzionario non è la classe operaia solitamente intesa ma neanche le forze produttive. Esse sono tradizionalmente intese come la nostra capacità di produrre di più che spesso ha suggerito pericolosi determinismi economici o tecnologici nelle analisi di Marx in relazione al problema della rivoluzione. Spesso queste analisi pensano all’esistenza di un rapporto di esteriorità tra sviluppo tecnologico e rapporti di produzione, come se la tecnologia si potesse sviluppare al di fuori dei vincoli sociali che influiscono sul pensiero e l’azione di ogni società. Nel Capitale, però, viene chiarito come la relazione sia interna allo sviluppo della tecnologia ed è parte della riproduzione sociale. Tutto rientra nel tentativo di contenere le nostre capacità creative all’interno della logica del sistema che finisce per dare forma a ciò che creiamo anche quando questo processo è un movimento contro-e-oltre il sistema. Non esiste sviluppo creativo fuori dal conflitto tra contenere e traboccare. In definitiva il soggetto rivoluzionario è anti-classe, anti-operaia e per l’emancipazione della nostra creatività dalle costrizioni che la modellano. Il soggetto rivoluzionario è la ricchezza, intesa come l’assoluta realizzazione delle nostre potenzialità creative. Al momento però questa ricchezza, che si esprime in molti modi come la sete degli studenti di voler capire, imparare, cambiare o il ruggito di chi rifiuta di far seppellire i propri sogni, è coperta dalla sua forma alienata, cioè la ricchezza-merce. Il risultato è la sottomissione della nostra vita alla logica del denaro. L’istruzione, la sanità, il cibo, le scelte che facciamo nella nostra vita, tutta la ricchezza della nostra vita è vittima della mercificazione e di questa perversa logica. La ricchezza, quindi, è il soggetto rivoluzionario. Holloway dice che lottiamo non perché siamo poveri ma perché siamo ricchi e vogliamo un mondo diverso adatto alla nostra ricchezza, alla nostra capacità di creare, il nostro potere di fare che al momento è imprigionato dalla forma merce e dal denaro.
“Siamo i ricchi la cui ricchezza è impoverita in una ricchezza-merce che si erge contro di noi. Siamo noi i ‘potenti’ il cui potere di fare, potere di creare, si trasforma in un potere su di noi che nega la nostra creatività, la assoggetta a una logica aliena che ci opprime. O meglio: siamo i ricchi in rivolta contro la ricchezza-merce, siamo operatori in rivolta contro il lavoro, siamo valori sociali in rivolta contro il valore. Siamo la ricchezza contro e oltre il denaro”4.
La liberazione di questa ricchezza presuppone uno scontro frontale tra dominato e dominatore che Holloway analizza come un rapporto non esterno ma interno, in cui ogni polo penetra nell’altro. Un lato di questa penetrazione porta alla riproduzione del dominatore nel dominato, rafforzando idee e modi di relazionarci capitalisti nella nostra pratica quotidiana. Tuttavia esiste anche il lato opposto, cioè le ribellioni e le resistenze dei dominati contro il processo di dominio che può dare luogo ad una repressione violenta oppure a tentativi di conciliazione e istituzionalizzazione delle lotte con l’intento di positivizzare le spinte di emancipazione e contenere i traboccamenti, gli straripamenti pericolosi per le loro imprevedibili conseguenze. Ciò che accomuna le due risposte è la paura della resistenza dei dominati. Questa opposizione non è solo quella palese di chi coscientemente decide di opporsi al capitalismo ma anche quella di chi non riesce e non può più adattarsi ai dettami del capitalismo. Sono i disadattati che non riescono più a rispondere positivamente alle esigenze delle dinamiche del capitalismo, chi rifiuta di accettare una vita in cui non potrà mai vedere i propri figli perché è sempre al lavoro, chi non riesce a sostenere l’aumento dei ritmi nel proprio lavoro costringendolo ad una vita di dipendenza dagli oppiacei e dagli antidepressivi oppure la resistenza di chi non riesce ad acquisire le competenze computazionali richieste dal capitale. Fenomeni come le grandi dimissioni, il burnout, la pandemia di salute mentale sono indicatori del modo in cui il capitale richiede un grado di subordinazione che non siamo in grado di soddisfare oppure che non vogliamo soddisfare. Questa mancanza di subordinazione si fonde all’insubordinazione aperta e finisce per entrare nel capitalismo come debolezza e crisi. Come la ricchezza non può essere contenuta dal denaro, allo stesso modo la nostra umanità non può essere contenuta dalle richieste del capitale di essere dei robot disposti a tutto pur di rispondere alle sue richieste.
Alla riflessione bisogna aggiungere che il rapporto di cui parla Holloway è sempre una relazione di dipendenza dove il dominatore dipende dal dominato che genera costantemente instabilità e paura dal momento in cui il secondo termine del rapporto può sempre opporre il rifiuto o la fuga. Questo ragionamento si applica anche al capitale che esiste solo nel momento in cui lo produciamo e riproduciamo quotidianamente, con la possibilità di dire no o di smettere di produrlo. Oltre alla paura di cessare di produrlo e riprodurlo ci sono quelle legate alla nostra incapacità di rispondere alle sue esigenze o di farlo non adeguatamente. Per affrontare questa paura il capitalismo ha elaborato due strategie. La prima è la violenza mentre la seconda è il denaro, cioè l’impossibilità di avere accesso alla ricchezza di cui abbiamo bisogno per vivere senza il suo utilizzo. Questo significa violenta separazione dai mezzi di produzione e obbligo di vendere la nostra forza lavoro sul mercato. Questo non ferma però la nostra lotta per uno straripamento eversivo. I lavoratori cercano costantemente di andare oltre la condizione di semplici possessori della merce forza lavoro, trovando dei tentativi di contenimento nei ruoli di lavoratori da parte del capitale che dimostra come noi e loro esistiamo dentro, ma anche contro e oltre la forma merce.
- L’oggetto in Holloway
Holloway afferma che la speranza è un movimento contro in cui dobbiamo avere idea di cosa stiamo sfidando ed è cruciale per pensare la speranza. Il nemico, cioè il capitale pensato come oggetto, non è qualcosa di statico ma una dinamica di distruzione da pensare come un legame intorno alle nostre attività la cui logica è il denaro e il legame è un legame con il denaro. Il denaro finisce per legare le nostre azioni e relazioni portandoci verso determinati schemi che ci stanno trascinando verso la morte. Si tratta di una particolare forma di coesione sociale, presente in ogni società per garantire la sopravvivenza umana e la tessitura sociale di un’enorme ricchezza dell’attività umana. Esistono però due modelli di coesione sociale. Uno è comunizzante e l’altro vincolante. Nel primo caso abbiamo una condivisione libera e volontaria della ricchezza mentre nel secondo caso abbiamo una coesione sociale coercitiva che non controlliamo simile ad una legatura capace di tenerci uniti con una forza apparentemente esterna. Questa forza impone alle nostre interrelazioni sociali un certo carattere e una certa dinamica e prende la forma del denaro. Si tratta di una forza enorme sulle nostre vite, onnipresente e che neanche vediamo. Il denaro finisce per invadere tutte le nostre coesioni finendo per monetizzare tutte le nostre relazioni sociali. Il denaro condiziona il nostro accesso o mancanza di accesso ai prodotti delle attività umane e modella ciò che viene prodotto e in quale modo. Holloway nelle sue riflessioni prosegue sostenendo che per caratterizzare il nemico come capitale partiamo dal legame delle nostre attività come merce-valore-lavoro astratto-denaro. Questa tessitura logica ha come risultato tenerci bloccati, fermi e ci spinge verso la distruzione. Tutto ciò ha un nome: capitale. Anche nelle lotte dove non appare in primo piano, come quelle delle femministe contro il patriarcato o del movimento Black Lives Matter contro il razzismo, possiamo trovare dei legami con esso e ci sono tre ragioni per sottolineare l’importanza di attaccare il capitale. La prima è legata alla dinamica distruttiva del capitale che porta dalla merce all’imperativo dell’accumulazione, questo nesso produce intensificazione dello sfruttamento dei lavoratori e distruzione della natura. La seconda motivazione è l’impossibilità di separare il concetto di capitale da quello di crisi. L’ultima ragione è nel tentativo di trovare un concetto unificante per ogni forma di oppressione e utile per sviluppare quella speranza radicale necessaria per lottare con l’obiettivo di costruire un’altra società. Il capitale serve a suggerire un’unità tra tutte le forme di oppressione che significa unità delle lotte perché dirette contro la stessa totalità delle relazioni sociali. Per riprendere una metafora zapatista, oppressioni come il sessismo e il razzismo sono teste di un’unica idra che è il capitale. Tuttavia non siamo sicuri che questo corpo sia veramente il capitale perché avvolto dalla nebbia e ne possiamo scorgere i contorni solo con la riflessione. Allora cosa spinge Holloway a prendere come concetto unificatore il capitale? La risposta è nel tema dell’identità e nel modo in cui essa è generata dalla merce. Tutte le oppressioni, come quella delle donne, dei gay o dei neri, si basano su disciminazioni di particolari identità. Davanti all’oppressione, allora, può esserci una risposta identitaria che trabocca i limiti dell’identità ma allo stesso tempo rischia di portare a termine il suo traboccamento e si stabilizza imponendo una nuova identità oppure una risposta anti-identitaria. Quest’ultima è un disadattamento, uno straripamento. Possiamo essere donne, gay. indigeni ma siamo anche più di questo. Non rientriamo in nessuna categoria perché siamo un movimento in divenire. Le teste dell’idra zapatista, di conseguenza, possono essere intese come delle forzature del divenire in esserci. In altre parole esse sono processi di identificazione come nazionalismo, sessismo e razzismo, generati dal motore centrale avvolto dalla nebbia identificabile nello scambio di merci. La ricchezza viene intrappolata nella forma merce e genere un mondo identitario. Per Holloway la ricchezza è costretta ad adattarsi alla merce mentre il nostro divenire è costretto all’interno degli esseri. Le nostre lotte finiscono per essere indirizzate spesso contro le sole teste dell’idra, senza traboccare e attaccare il processo che genera le identità. Allora, come nel mito, la testa mozzata viene sostituita da altre teste. L’autore non intende stabilire una gerarchie delle lotte ma vuole avvertirci del pericolo di rimanere rinchiusi nelle definizioni imposte dall’attacco, finendo per riprodurre un’identificazione alterata.
Dietro questi processi di oppressione, per Holloway, in definitiva c’è la tessitura logica del capitale. La domanda successiva è ovviamente come spezzare questi legami. Le alternative sono due. La prima si concentra sulle connessioni tra le varie forme. Ogni passaggio della catena viene duramente contestato, come per esempio la rottura del legame tra merce e valore tramite il baratto ampiamente utilizzato durante la crisi economica in Argentina tra il 2001 e il 2002 come risposta alla mancanza di soldi da parte della popolazione. Tuttavia questa mossa ha i suoi evidenti limiti. Non si esce dall’ambito dello scambio e del valore delle merci e non può funzionare per molto tempo senza l’intervento del denaro. Un altro nodo particolarmente colpito è quello tra stato e capitale tramite l’elezione di governi progressisti puntualmente fallimentari per l’autore perché impossibilitati ad opporsi al dominio del denaro perché lo stato dipende dall’accumulazione del capitale per la sua stessa esistenza e inevitabilmente la deve promuovere. L’alternativa a questo modo di lottare è insistere sugli antagonismi interni alle forme. In poche parole bisogna soffermarsi sull’antagonismo contenuto da ogni elemento della catena. Dalla merce si passa al valore, ma prima di fare ciò, dice Holloway, concentriamoci sull’antagonismo dentro la merce.
- La crisi
A questo punto del ragionamento Holloway introduce il concetto di crisi legato alla teoria della speranza come comprensione della debolezza dell’oggetto in analisi. Dobbiamo individuare i segni di fragilità e quando ci siamo riusciti capire se questa fragilità fornisce forza alla nostra speranza. La speranza ci porta alla crisi ma senza cadere negli errori dei marxisti del secolo scorso che pensavano di poter giungere alla rivoluzione attraverso il suo arrivo e si sono ritrovati, negli anni ‘30, con il fascismo e il nazismo. La teoria critica deve trasformarsi in una teoria della crisi che prende forza dalla storicità del modo di produzione capitalistico e questo elemento genera fragilità, proprio perché è destinato a non essere eterno. Senza tenere conto di questa base teorica fondamentale che in fondo è la possibilità di superare il capitalismo, la teoria della crisi rimane intrappolata in concetti identitari.
La fragilità che dobbiamo trovare per far cadere il muro del capitalismo è una negazione immanente-straboccante capace di indebolirlo strutturalmente. Cerchiamo crisi che sono allo stesso tempo convulsioni periodiche capaci di aprire ad un cambiamento radicale e convulsioni legate ad un difetto strutturale del sistema che apre ad una crisi permanente. Una delle linee di fratture più marcate è quella tra governante e governato. I governati dipendono dal governante per la propria riproduzione quotidiana ma allo stesso tempo, oscurata da ideologie e immagini di potere, i governanti dipendono sempre dai governati ed è un loro elemento di debolezza. Il crollo del feudalismo, per esempio, è figlio della fuga dei servi dai signori verso la libertà delle città ma allo stesso tempo, dimostrando di essere un movimento di reciproca repulsione, i signori sono scappati dalla loro dipendenza da un particolare gruppo di servi monetizzando la loro ricchezza, espellendo i servi della gleba sostituendoli con le pecore generatrici di reddito monetario. Il modo di produzione capitalistico, invece, instaura un nuovo modello di dominio e mutua dipendenza. I dominatori, dopo la fuga dei servi, si riorganizzano per condurre un nuovo attacco che si basa sul riconoscimento della nuova libertà dei lavoratori e sull’incorporazione di quella libertà sotto la forma di valore nei nuovi modelli di dominio. “La repulsione reciproca è al centro delle nuove relazioni, conferendo loro una caratteristica flessibilità, ma anche una particolare instabilità. Si esprime nella capacità dell’operaio di rifiutarsi di servire un padrone e andare a servirne un altro (ma con il rischio di non trovare alcun padrone) e nella capacità del padrone di licenziare gli operai e anche di sostituire il lavoro vivo con il lavoro morto, con le macchine”5. Si tratta del sogno di liberarsi dalla dipendenza dai governati. Un’illusione scambiata per la realtà che non potrà mai realizzarsi perché i governanti non posso esistere senza le persone che governano. Gli sfruttatori non possono vivere senza le persone che sfruttano. Meno evidente è la fuga dal capitale dal valore, sospinta dal valore e dall’imperativo del lavoro socialmente necessario e dalla necessità di stabilire ordine nei processi produttivi, il capitale prova a sostituire i lavoratori con le macchine. In questo modo gli sfruttatori espellono gli sfruttati in una strategia che porta alla loro stessa crisi.
Rispetto ai precedenti modi di produzione, in cui le classi dominanti si occupano solo della riproduzione del sistema di dominio, i padroni oggi devono preoccuparsi anche dell’intensificazione dello sfruttamento del lavoro generando un’inquietudine nel sistema determinata dalla grandezza del valore e dalla quantità di tempo di lavoro necessario richiesto per produrre le merci.
“Ciò significa che tutti i produttori di materie prime sono costretti a produrre le loro merci nel modo più rapido ed efficiente possibile. Sono costretti quindi a introdurre macchinari e a sostituire gli operai e con essi la fonte del valore di cui si appropria il capitale. Ciò imprime al dominio capitalistico un’instabilità o fragilità che non era presente nei precedenti sistemi. Questo si esprime come crisi”6.
Holloway dice che Marx non imposta esattamente così il problema. La crescente composizione organica del capitale produce un cambiamento nel rapporto tra lavoro vivo e lavoro morto, cioè la sostituzione dei lavoratori con le macchine. Con un saggio di sfruttamento costante, la crescita della composizione organica del capitale produrrà una caduta del saggio di profitto. Il valore viene prodotto dal lavoro vivo e di conseguenza una sua esclusione produrrà una caduta del saggio di profitto. A questo fenomeno si oppongono delle controtendenze. Marx ne elenca sei: la crescente intensità dello sfruttamento, l’abbassamento dei salari al di sotto del valore della forza lavoro, deprezzamento degli elementi del capitale costante, sovrappopolazione relativa, commercio estero e aumento del capitale azionario. In sintesi sono due: quelle che rallentano l’aumento della composizione organica del capitale e quelle che aumentano il tasso di sfruttamento. Il terzo elemento in gioco è l’eliminazione dei capitali per distribuire fra meno unità il plusvalore totale prodotto. Queste controtendenze, tuttavia, non sono sufficienti per evitare il periodico calo della redditività generale. Di conseguenza si produce un’intensificazione dell’antagonismo e dell’aggressività del capitale che per sopravvivere deve ristrutturarsi, deve mobilitare le controtendenze, intensificando lo sfruttamento, svalutando o distruggendo il capitale costante e riducendo il numero dei capitali concorrenti. In questo processo lo stato non rimane indifferente, deve intervenire per garantire le migliori condizioni per il processo di accumulazione del capitale sul suo territorio intensificando la concorrenza con gli altri stati.
Il passaggio dalla crisi alla ristrutturazione, due termini da trattare separatamente e che non sono identici, non è scontato. Si tratta di un salto mortale senza sicurezza di atterraggio. La ristrutturazione potrebbe richiedere molto tempo per ristabilire un sufficiente tasso di accumulazione. L’ultima volta questo processo è costato il massacro di 70 milioni di persone.
Il tema si lega alla caduta tendenziale del saggio di profitto che Holloway ridefinisce come una teoria della lotta. Essa è determinata dalla forma, non avviene nel vuoto. Come le relazioni sociali nel capitalismo esistono in certe forme, così le lotte sono plasmate da forme sociali storicamente determinate che modellano l’antagonismo. La dinamica della lotta e la sua formazione dipendono dall’aggressività concettualizzata da Marx come lavoro socialmente necessario. Si tratta della punta di diamante dell’attacco del capitale all’umanità. Questo concetto determina la grandezza del valore di una merce e fa sì che nel capitalismo non ci sia spazio per oziosi e incapaci, i quali devono morire di fame perché impossibilitati nel produrre valore. L’artiglieria pesante con cui il capitale distrugge questa umanità superflua è il costante abbassamento del tempo di lavoro necessario. Coloro che non riescono ad adattarsi a nuovi ritmi devono soccombere a questa aggressione costante e perenne alle pratiche esistenti del vivere e del fare. Il processo appena descritto si materializza tramite l’introduzione di nuove macchine che aumentano la composizione organica del capitale che va inteso come lotta, come ha sempre fatto Marx, e coinvolgendo il secondo elemento della sua analisi, cioè il tasso di sfruttamento. Non esiste spazio per inabili e oziosi. Tutti i lavoratori devono lavorare sodo e impiegare le competenze adeguate nel loro lavoro, devono dedicarsi con impegno ad essere sfruttati e produrre plusvalore di cui i padroni si appropriano come profitto. Il tempo di lavoro necessario diventa la chiave per capire la lotta di classe che proviene dall’alto. Il capitale è un attacco incessante per creare sempre più valore che incontra, essendo lotta, una resistenza che prima di essere cosciente è composta dalla non subordinazione delle persone incapaci di rendersi pienamente disponibili alle esigenze del capitale.
La crisi è anche il culmine della contraddizione tra valore d’uso e valore. L’aumento della composizione organica del capitale, con il crescente ruolo svolto dalle macchine nel processo produttivo, è una manifestazione della maggiore produttività raggiunta dalla società umana nel produrre ricchezza. Nella crisi questo progresso entra in crisi con la produzione di valore, cioè una produzione che porti un profitto al padrone. L’aumento della composizione organica comporta una minore quantità di plusvalore contenuta in ogni merce e rende, dal punto di vista del valore, la produzione meno attraente. Nella crisi lo scontro tra produzione potenziale di valore d’uso e produzione di valore diventa evidente con conseguenze disastrose per la subordinazione della prima alla seconda, come l’aumento vertiginoso della disoccupazione. La crisi rappresenta anche l’emergere di un difetto di fondo sempre presente ma di solito latente nella relazione di capitale. Il valore d’uso è la crisi del valore. Il valore d’uso è la crisi del valore perché si disadatta rispetto al concetto di valore. Lo straripamento è visibile nella crisi. Un problema simile si riscontra con la ricchezza che esiste in relazione alla forma merce come qualcosa di perennemente attaccata da quest’ultima ma che allo stesso tempo fa notare come la ricchezza possa esistere oltre la forma merce, in una società radicalmente diversa. In seguito Holloway spinge la riflessione sul denaro pensato come al centro di tutti i meccanismi per rinviare la crisi per mezzo della sua espansione. Questo lo porta ad affermare che esiste una forza centrifuga sul lungo periodo che produce una rottura crescente tra la produzione di valore e la rappresentazione del valore attraverso il denaro, un fenomeno che viene mascherato dalla crescita del debito e dal mondo fittizio di pseudo-validazione che crea. La forza centrifuga è un prodotto dell’incapacità del capitale nello sfruttare a sufficienza il lavoro e la paura di esporre questa incapacità al proletariato. Questa rottura genera la fragilità da sfruttare per superare il denaro in quanto legame che limita le nostre azioni. Le nostre ribellioni mettono in discussione questo sistema di contenimento che è sempre più spinto verso i suoi limiti nell’imporre i requisiti per un rigoroso sistema di sfruttamento e dominio. Questa paura ha spinto il sistema verso un’esistenza fittizia e fragile. Siamo davanti ad un capitalismo fragile che ci consente di pensare ad una società non basata sul capitale e l’espansione del valore.