BARBETTA: Quanto incide la quantità dei soggetti coinvolti nel lavoro immateriale rispetto alla qualità del lavoro che questi svolgono, in particolare se si abbandona la tesi dell’operaio massa per la figura del lavoratore intellettualizzato?
NEGRI: Ponendoci questa domanda, ritorniamo all’analisi della tendenza. Già oggi possiamo forse riconoscere che essa è attuata. Guardiamo alla Cina, dove indubbiamente i lavoratori immateriali stanno diventando una massiccia avanguardia rispetto ai lavoratori materiali. Naturalmente restano enormi zone di lavoro subordinato ma le proporzioni sono oggi totalmente sconvolte – tali da permetterci di riprendere il vecchio esempio marxiano delle fabbriche tessili dell’Inghilterra Settentrionale o del nord della Francia come avanguardie rispetto all’enorme massa del lavoro artigianale o manifatturiero che viene travolto nello sviluppo tendenziale. Oggi, la forza della tendenza spinge con il massimo vigore all’immaterializzazione del lavoro.
Ricordo quando sono arrivato a Parigi nel 1983 e già lavoravo all’interno di queste tematiche di aver scritto di tutto questo in un libro, Venti tesi sul comunismo, uscito da poco in Italia, ma che era già stato pubblicato in inglese nel 1986. Ci sono sì alcune affermazioni avventate, però, più o meno, ci prendevo.
BARBETTA: In Marx oltre Marx lei afferma che la legge del valore-lavoro diventa la legge del plusvalore.
Lei insiste sull’idea che Marx, nei Grundrisse, definisce la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto in funzione della legge del plusvalore, cioè in funzione della resistenza del lavoro. Una deviazione rispetto questa visione sarebbe determinata quando Marx nel Capitale, nei capitoli 13, 14 e 15 del volume III, spiega la caduta tendenziale in termini di aumento della composizione organica del capitale e non direttamente attraverso la legge del plusvalore.
Non sembra che lei dia conto di questa differenza. Nella prefazione a Marx oltre Marx, lei ha commentato che l’importanza dei Grundrisse stava nel fatto che le proiezioni di tendenza là definite erano state verificate oggi, in particolare, per quanto riguarda la perdita della centralità del lavoro di fabbrica come base per la riproduzione del sistema. A mio avviso, proprio questa dinamica è dovuta all’aumento della composizione organica del capitale avvenuta con l’informatizzazione, automazione e ora con la robotizzazione degli ultimi anni. A parer mio entrambe le spiegazioni sopracitate sulla caduta tendenziale del saggio di profitto sono complementari e non si escludono a vicenda. Lei cosa ne pensa?
NEGRI: Sono d’accordo ma lo direi in maniera diversa. Non mi sembra che si possano opporre, soprattutto nella lettura che Marx oltre Marx fa dei Grundrisse, una interpretazione soggettivista ed una oggettivista. In particolare, a te sembra che la caduta tendenziale del saggio di profitto possa da me essere interpretata con una lettura soggettivista. A me non sembra vero. Il profitto cade nella misura in cui la resistenza operaia cresce: cosa c’è di soggettivo qui? La resistenza è tanto oggettiva quanto l’investimento capitalista sul capitale fisso. Bisogna uscire da ogni concezione che consideri lo sviluppo in termini darwiniani. Non si può ridurre il rapporto di capitale ad uno solo dei suoi elementi. Proprio l’analisi dello sviluppo del tasso di profitto lo mostra: con la crescita della resistenza, cresce anche la strutturazione del capitale in modo tale da bloccare la crescita della lotta. Che poi questa sia una legge è un altro paio di maniche.
BARBETTA: Mi sembra legato ad una possibile spiegazione della crisi in Marx, cioè la profit-squeeze. Una possibile spiegazione per le crisi capitalistiche è la riduzione degli utili dovuta all’aumento dei salari. Questa spiegazione è anche comunemente difesa dalla corrente neoliberista, che spesso attribuisce la colpa a una regolamentazione “eccessiva” sui diritti dei lavoratori e al “troppo” potere sindacale, ma da posizioni diverse anche dagli operaisti degli anni ‘70. Dal punto di vista marxista, tuttavia, può essere visto come una conseguenza necessaria della logica stessa del capitalismo.
L’aumento dell’accumulazione capitalistica aumenta gli investimenti di capitale e la domanda di forza lavoro. Se sorge una situazione che confina con la piena occupazione, è possibile che le aziende debbano competere per assumere lavoratori, con il conseguente aumento dei salari. Se i salari aumentano, ma le aziende cercano di mantenere gli stessi prezzi competitivi, allora c’è solo una via d’uscita: la riduzione dei profitti. È ciò che Marx nel volume III del Capitale chiama anche sovraccumulazione: un maggiore investimento di nuovo capitale non si traduce nel profitto ottenuto finora, ma in uno più piccolo. In breve, all’aumentare dell’accumulazione, il profitto diminuisce a causa di salari più alti. Questo fenomeno può verificarsi in generale o in particolare in determinati rami o settori dell’economia, ad esempio dove è richiesta una forza lavoro altamente qualificata. E come in altri casi, ci sono anche uscite che possono contrastarne l’effetto.
NEGRI: Nello studio critico dell’economia politica, è fuori dubbio che un’interpretazione ricardiana del rapporto salario-profitto sia presente sia negli operaisti che fra alcuni neoliberali. Sono convinto che questa lettura sia correttamente ripresa da Marx. Una volta riconosciuto questo, quando superiamo il livello della fabbrica, questo discorso – questo rapporto – può diventare tuttavia assolutamente non vero. Ad esempio, una volta inserito nel mercato mondiale, l’aumento di salario in fabbrica può non rompere la capacità del padrone di accumulare profitto. Ci possono essere, a livello globale, nei paesi in via di sviluppo, grandi regioni dove l’aumento salariale e l’aumento di profitto vanno di pari passo. Questo è avvenuto in Cina per un lunghissimo periodo, senza che intervenissero modificazioni della produttività legate alla tecnica, legate al capitale fisso. Adesso la situazione è profondamente mutata.
BARBETTA: Però parlavamo di una situazione di relativa piena occupazione, che il padrone fatica ad accettare, come diceva anche Kalecki. Però il padrone è relativamente spaventato dalla piena occupazione e non licenzia a causa di essa. Licenzia perché non vende. C’è il rischio di pensare al padrone come se fosse una persona.
NEGRI: Da questo punto di vista tu hai ragione, però andiamo alla sostanza: il rapporto salario-profitto. Ritengo che la concezione ricardiana sia da ritenere corretta e la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto sia da collegare direttamente ad una immagine ricardiana del salario come di capitale variabile – meglio, come figura del lavoro vivo.
BARBETTA: Quindi accetta le conclusioni in merito di Sraffa. Allora tiriamo dentro la sua posizione rispetto alla teoria del valore-lavoro. Per lei, la teoria del valore-lavoro si “estingue” nel processo di sviluppo capitalista poiché nell’era post-industriale il capitale produce nuove forme di organizzazione in reazione alla lotta di classe. La lotta di classe sviluppa la legge del valore in legge del plusvalore perché costringe il capitale a modificare l’organizzazione del lavoro. Nell’era dell’informazione questo processo conduce a sua volta all’estinzione della legge da cui tutto si è originato. Allo stesso tempo Lei afferma che lo sfruttamento non scompare. Come viene spiegato questo processo? A mio avviso, è vero che la base per il calcolo e il funzionamento del sistema si è ridotta, in considerazione degli effetti pratici della legge che tende ad aumentare la composizione organica del capitale. Ma questo non significa che il “tempo di lavoro socialmente necessario per produrre merci sia materiali che immateriali” sia scomparso. Se un giorno arriveremo ad uno scenario in cui i robot sostituiranno completamente il lavoro vivo dell’uomo come produttore di valore e plusvalore, sarei d’accordo con lei ma credo davvero che siamo lontani da questo scenario. Quando dico “completamente sostitutivo” intendo che detto processo di robotizzazione dovrebbe includere la produzione e la riproduzione dello stesso robot, in modo tale che il lavoro vivo non appaia da nessuna parte. Perché se il lavoro vivo dovesse produrre robot e riprodurli, allora la legge del valore continuerebbe ad essere viva e vegeta poiché la fonte del plusvalore risulterebbe in ultima analisi dal lavoro vivo e la robotica lo trasmetterebbe solo alle merci, come avviene ancora oggi. Fingere di misurare il valore esattamente come hanno tentato gli economisti classici potrebbe portare alla stessa loro conclusione: all’abbandono della legge a causa dell’impossibilità di tale misurazione. La correzione di Marx agli economisti classici, quando introdusse il concetto di “lavoro socialmente necessario” in riferimento al tempo di lavoro coagulato nelle merci, di fatto ruppe con l’idea di cercare di misurare il valore contenuto in una merce in relazione al suo prezzo individuale. Da quello che ho capito, lei non è in disaccordo con Marx nel calcolo del valore per merce individualizzata, se non sulla presunta corrispondenza tra valori totali e prezzi di mercato totali. Per Marx tale corrispondenza esisteva nonostante la differenza quantitativa tra prezzo e valore data dall’abbandono dell’ipotesi di uniformità di composizione organica riscontrabile nel secolare problema della trasformazione valore-prezzo: quindi i prezzi, in ultima analisi, provenivano dal valore e non dall’utilità maggiore o minore espressa dal comportamento dei consumatori nel mercato, come affermano i sostenitori della teoria dell’utilità marginale.
Prima di iniziare la discussione, volevo analizzare la sua tesi sulla fine della validità della teoria del valore-lavoro. Lei parte dall’analisi della produzione biopolitica, e sottolinea che in essa la teoria del valore definisce di questo (il valore) due caratteristiche principali: l’essere “fuori misura” e l’essere “oltre misura”. “Fuori misura” perché la vita viene messa interamente a valore e “oltre misura” perché la forza-lavoro è in grado di valorizzarsi autonomamente fuori dal ciclo capitalista D-M-D’. Quest’ultima idea era già presente nel testo Marx oltre Marx. La sua è una lettura essenzialmente politica dei Grundrisse, visto che non ritiene l’obiettivo di questa opera la totalizzazione della critica dell’economia politica, ma semplicemente una riflessione sull’imminenza della crisi finale del capitale e sull’esplosione rivoluzionaria delle sue contraddizioni, dando così una definizione soggettiva del comunismo.
E infatti ritiene che sia questo il motivo per cui il manoscritto inizia con l’analisi del denaro, perché esprime il desiderio di Marx di affrontare, fin dall’inizio, le visioni correnti sulla crisi, in particolare quelle di Proudhon e Alfred Darimon. La crisi appare a questi due autori come una crisi monetaria, causando una brusca oscillazione del prezzo dei beni. Secondo lei, Marx cerca di dimostrare che si tratta, in effetti, di una crisi nelle relazioni sociali, tra il lavoro necessario e pluslavoro, rivelandosi spazialmente (crisi commerciale) e temporalmente (crisi ciclica).
Quando la crisi esplode, viene esposta la natura delle relazioni sociali capitaliste, e si dà una interruzione della funzione feticistica del denaro come espressione astratta di valore, indispensabile in un sistema di valori di scambio. L’unità artificiale che l’espressione monetaria del valore ha permesso di realizzare tra il valore dei beni e il valore della forza lavoro è rotta, permettendo a quest’ultima di essere riconosciuta nella sua specificità, non oggettivata e, quindi, soggettiva, di essere una fonte creatrice di valore. L’alternativa borghese alla crisi sarà il passaggio dalla sussunzione formale a quella reale: la crescente socializzazione del processo di produzione negli stampi capitalistici, che si tradurrà nella trasformazione del denaro da mezzo di scambio a mezzo di eccellenza nella circolazione del capitale, capace di autovalorizzazione, e questo nel contesto sempre più ampio del mercato mondiale.
Il passaggio dall’analisi del denaro all’analisi del capitale, nella sua analisi, rappresenterà uno spostamento nella direzione e nel ritmo dettati dall’antagonismo fondamentale. Il primo, ma decisivo, passo di Marx sarà la critica della teoria classica del valore, attraverso la formulazione della teoria del plusvalore. Qui insisterà sul fatto che è possibile superare la definizione “ristretta” marxiana di lavoro produttivo, come creatore di valore, attraverso il concetto di valore d’uso per lavoro. Nel processo di produzione capitalista, la forza lavoro è un valore d’uso immediato per il lavoro, mentre il capitale lo trasformerà in modo coercitivo in valore di scambio, indirizzando l’energia vitale verso la produzione di beni sotto il suo comando. Tuttavia, affermerà che nel lavoro questo valore d’uso rimane in opposizione al capitale. La tendenza antagonista si rivela nel fatto che il capitale cerca continuamente di appropriarsi del valore d’uso della forza-lavoro. In questo modo, l’estrazione del plusvalore non si limiterebbe al processo di produzione, comprenderebbe anche il processo di circolazione e, con ciò, la società nel suo insieme (sussunzione reale). Possiamo quindi, per esporre questo suo essenziale argomento, enunciarlo come segue: in qualsiasi momento del processo globale della società capitalista, data la necessaria opposizione e separazione tra forza lavoro come valore d’uso per il lavoro e come valore di scambio con il lavoro per il capitale, si sviluppano due processi di valorizzazione autonomi e indipendenti, in modo antagonistico, vale a dire quello del lavoro e quello del capitale.
Dopo questa breve ricostruzione che ci porta ad uno dei due elementi che le fanno affermare la fine della teoria del valore-lavoro, cioè la natura antagonista della forza lavoro che consente di superare la definizione classica di capitale variabile, tocchiamo il secondo elemento: l’impossibilità di misurare il tempo di lavoro per produrre una merce immateriale, argomento che si collega alla questione della definizione del lavoro immateriale.
Collegandomi ad una critica fatta alle sue tesi dall’economista Husson, se, ad esempio, produco un software gratuito, rimarrebbe il tempo di lavoro per la sua produzione ma esisterebbe una nuova forma di distribuzione che invaliderebbe la teoria del valore-lavoro. Ma quando il software viene tratto da merce da vendere sul mercato, non vede un tentativo del capitalismo di imporre legalmente o in maniera coercitiva il funzionamento della teoria del valore-lavoro?
NEGRI: La mia idea iniziale è sempre stata quella secondo la quale la teoria del valore-lavoro ha due facce. In primo luogo, è un’ontologia della lotta di classe: significa cioè che il lavoro produce valore e che non c’è valore senza lavoro.
Si tratta di una teoria ricardiana modificata perché collocata nell’antagonismo di classe – la teoria del valore-lavoro è dunque una teoria dell’antagonismo. In secondo luogo, la legge del valore si presenta come legge della misura del valore. Quest’idea della misura, e la legge del valore in quanto misura del valore, non funzionano più.
Il fatto è che la legge del valore è diventata centrale nell’uso politico del marxismo non come elemento critico, demistificatore dell’economia politica della borghesia, ma come politica economica, centrata sull’uso socialista del lavoro e sull’organizzazione pianificata della produzione industriale. Ma questa conversione era impossibile! Quindi la critica si è mossa su diversi piani. Innanzitutto a proposito del lavoro qualificato, mostrando l’impossibilità di ridurlo ad unità di tempo omogenee. In secondo piano, la critica ha decostruito il concetto di lavoro produttivo. Per Marx, lavoro produttivo è solo quello da cui si estrae plusvalore. Escludendo così dal lavoro produttivo, ad esempio, gli insegnanti, gran parte degli operatori dei servizi, le donne ed il lavoro domestico, ecc. ecc.
BARBETTA: Per Marx, quel tipo di lavoro è improduttivo.
NEGRI: Esatto, ma non è vero. O meglio: quella definizione di lavoro produttivo, sia per quanto riguarda la qualificazione che la produzione in genere, è vera solo quando sia legata al modello di composizione di classe (tendenzialmente egemonica nella società) del periodo in cui Marx scrive Il Capitale. Ma la sua validità si ferma lì, ed è successivamente saltata per aria.
Quindi, la teoria del valore-lavoro è diventata falsa, non perché il lavoro non sia alla base di ogni valore ma perché la misura del valore diviene altra. Si tratta oggi di una misura sociale. La moneta misura il valore più di quanto non lo misurasse il tempo di lavoro nell’episteme marxiana. Di conseguenza, quando passiamo dal lavoro industriale in fabbrica a quello fondato sulla cooperazione sociale, dobbiamo trovare categorie di misurazione adeguate a questa trasformazione.
BARBETTA: Ad esempio Fumagalli parla di “produzione di denaro a mezzo di conoscenza”, aggiungendo l’elemento K (knowledge) alla formula marxiana D-M-D’ che diventa D-M(K)-D’.
NEGRI: Chiaro. Vi consiglio soprattutto i libri di Vercellone, molto efficace nelle sue ricerche e definizioni sulle trasformazioni della legge del valore, ed al suo impianto sulle nuove dimensioni del “Comune”.
BARBETTA: Lei così riduce il valore a categoria storica.
NEGRI: Il valore è una categoria storica perché il lavoro muta nella storia e la forza-lavoro si soggettivizza nella storia in maniere diverse; perché siamo dentro una storia concreta, cioè alla trasformazione della classe operaia in classe lavoratrice sociale, e quindi ad una nuova definizione del lavoro produttivo.
BARBETTA: Questo nostro discorso mi fa venire in mente un ragionamento che Balibar fa in Cinq études du matérialisme historique: “qualsiasi formulazione dal punto di vista della classe proletaria in concetti teorici adeguati, lungi dal ‘risolvere’ le difficoltà o le impasse dell’economia politica, può solo introdurre contraddizioni insolubili in essa. La teoria marxista non è un’economia politica. […] L’idea che il marxismo possa “risolvere” le difficoltà della teoria economica è tanto assurda quanto l’idea che i capitalisti possano usare la teoria marxista per gestire l’accumulazione di capitale.”
NEGRI: Sì, questo è un modo diverso di esprimere quello che dicevo poco fa. Il marxismo è critica dell’economia politica, non di un’economia politica di piano com’è stata sviluppata dalla Prima Internazionale e imbastardita in Unione sovietica. Nella domanda parli giustamente di “valore sociale medio” che poni come alternativa al valore individuale del lavoro. Si tratta di una riflessione giusta nella lettura dei testi marxiani: è anche però una definizione imprecisa perché “valore sociale medio” non significa nulla se non lo apri alla produttività sociale, ad una figura di produzione sociale completamente diversa.
BARBETTA: In Unione Sovietica c’è stato un tentativo illusorio di uso politico della teoria del valore-lavoro a fini contabili. Per rendere conto del plusvalore prodotto dal lavoro degli operai sovietici.
La conseguenza fu che bisognò pensare la costruzione del socialismo con gli strumenti economici del capitalismo stesso.
NEGRI: Non so se questo sia realistico. Direi che bisogna partire prima dalla domanda: che cos’è il socialismo? Dalla risposta conseguono gli strumenti di analisi economica. Il problema è da porsi in questo modo:
- Il capitalismo non ragiona mai semplicemente in termini di valore ma di plusvalore, cioè di comando. La funzione-comando anticipa, sussume e domina tutto il resto. Il capitale pensa, prima di tutto, alla propria riproduzione. Questa è una legge che va immediatamente attaccata e rotta. Per fare questo basterebbe, alla fin fine, un po’ di democrazia.
- Il capitalismo, oltre ad introdurre la materialità del comando come primum, introduce un sistema di fini e organizza teleologicamente la macchina del comando. Da questo punto di vista, la critica ecologica può essere inserita contro questa meccanica capitalista, perché nell’ecologia c’è una critica delle finalità dell’accumulazione capitalista sviluppista in termini fondamentali.
- Sono convinto che il socialismo possa darsi solo attraverso la produzione di un’altra figura di uomo, di altri bisogni e di altri desideri: insomma, non c’è un uomo naturale da restaurare. Anche la vita ecologica va dunque costruita all’interno di un modo di produzione. La critica deve dunque passare dal concetto di lavoro al concetto di produzione. Un passaggio fondamentale la cui metodologia troviamo in maniera precisa delineata da Foucault. Ed è all’interno del concetto di produzione che vengono determinate le finalità: finalità ecologiche, etiche, economiche, ecc.
- Dobbiamo rifiutare qualsiasi schema teleologico, finalistico che venga dall’esterno, ma dobbiamo mantenere fermo un telos di liberazione dentro il processo produttivo, a partire dalle soggettività e dai processi di soggettivazione. Un telos di liberazione non viene dato, deve essere costruito ogni volta.
PUPIL: In questo caso si sta parlando di una produzione non sovrastorica ma storicizzata, specifica del capitalismo, quindi determinata dalla sua associazione alla categoria astratta di lavoro in senso generale.
NEGRI: Certo, quando parliamo di produzione, intendiamo la produzione capitalistica legata ad un’astrazione del lavoro sfruttato, del lavoro soggetto in generale.
PUPIL: Lei prima ha parlato di lavoro produttivo in senso marxiano. Ed afferma che Marx pensa solo ad un lavoro prettamente materiale o, comunque, ad un concetto di lavoro produttivo estremamente limitato.
NEGRI: Ho detto una cosa precisa. La definizione marxiana del lavoro produttivo è: lavoro che produce plusvalore. Materiale o immateriale è indifferente. Dopodiché, Marx fa degli esempi, a mio avviso, impropri. Praticamente tratta da servo, non produttore di valore, chiunque non sia un operaio…
PUPIL: Infatti mi volevo collegare al libro primo del Capitale, il lavoro del maestro diventa produttivo, cito testualmente: “se si logora dal lavoro per arricchire l’imprenditore della scuola”.
Il fatto che abbia investito i suoi soldi in una scuola e non in un’altra fabbrica, non cambia nulla nella relazione.
NEGRI: Cioè quando trai dai maestri e dagli studenti denaro.
PUPIL: Infatti anche Mandel nel “Trattato di economia marxista” parla del lavoro che crea o modifica il valore d’uso come produttivo, integrando a questa definizione il fatto che il lavoro produttivo è incentrato sul tema del plusvalore. Quindi è produttivo solamente quel lavoratore che produce plusvalore per il capitalista.
NEGRI: Certo, solo che oggi il plusvalore viene prodotto socialmente. Si tratta dell’idea di fabbrica digitale, di piattaforma. Se non lavoriamo su questo, non lavoriamo più su nulla. Che cos’è il lavoro produttivo in una fabbrica digitale? È ad esempio creazione di linguaggi e loro riproduzione.
BARBETTA: Oppure la relazione con gli altri, la conoscenza acquisita prima di andare in fabbrica a lavorare.
NEGRI: Esattamente.
BARBETTA: Questa è la definizione del capitalismo cognitivo data da Vercellone: lo vede nascere dallo sviluppo dell’organizzazione scientifica del lavoro, dall’espansione del welfare e – terzo elemento – dall’intellettualità diffusa. Siccome il capitalismo è antropogenetico, l’aumento della composizione organica del capitale porta alla formazione di una soggettività che deve avere un elevato livello di conoscenza per poter lavorare nella fabbrica digitale, di piattaforma.
Qui ritorno ad un punto che spesso viene sottolineato dalle critiche alle sue elaborazioni teoriche. Non esiste un aut aut tra capitalismo cognitivo e fordismo. Riprendo delle idee che ha esposto in Impero: sussunzione formale e reale si combinano dando origine a fenomeni del tutto originali. Quindi non è scomparsa la fabbrica fordista, abbiamo nuove unioni e combinazioni. Perché questo non viene notato nelle sue analisi? Ne segue che c’è chi dice che lei abbia abbandonato la classe operaia.
NEGRI: Ormai ho quasi 90 anni, e ti posso dire che questa polemica mi tocca veramente poco. Mi ritengo marxista, non sono sicuramente un marxista accademico. Non sono uno che fa di mestiere l’interpretazione dei testi marxiani. Per me il marxismo è sempre servito per fare analisi e andare avanti nelle lotte. Sono un militante che ha usato il marxismo, per come l’ha conosciuto e studiato, sicuramente in maniera non del tutto perfetta rispetto ad una lettura filologica ma in maniera efficace per orientarsi nella lotta di classe.
Conosco dei compagni che hanno una conoscenza di Marx migliore della mia: però quando discuto con loro, non sempre riesco a trovare in quello che dicono, un fondamento a quel progresso del discorso marxiano e di indicazione politica che è utile nelle lotte. Perché è questo che mi ha sempre interessato nella mia vita di militante rivoluzionario. Nel 1973, non avremmo inventato l’Autonomia Operaia se non avessimo colto la nuova ontologia della lotta di classe che stava venendo fuori. E riconosciuto il fatto che gli operai non erano più eroi dalle mani callose ma gente che aveva studiato e lavorava in maniera diversa. Cominciavamo a ragionare sulla classe operaia, dal punto di vista critico e rivoluzionario, come e contro quello che il capitalismo faceva. Ci scontravamo con il capitale sulla trasformazione e sulla tendenza. Questa è la cosa assolutamente fondamentale, altrimenti diventi semplicemente un lacchè delle Borse valori. Mi ricordo dei sindacalisti che venivano con Ventiquattrore, il giornale della Confindustria, sotto il braccio davanti alle fabbriche a dirci che non capivamo nulla delle lotte e che la cosa importante era lo sviluppo della produzione, perché solo lì dentro si poteva agire. Noi invece sapevamo che la legge del valore significava sofferenza per gli operai, e che solo con la forza saremmo riusciti ad aver meno sofferenze e più salario, sviluppo del macchinario e più welfare. “Rifiuto del lavoro” era la parola d’ordine vincente. Di contro, ci davano degli squadristi, fino a trasformare il nome di Panzieri in Panzer e peggio ancora. Che vadano all’inferno!
BARBETTA: Quanto c’è in comune, in tutte queste riflessioni, con il pensiero di André Gorz?
NEGRI: Con Gorz siamo cresciuti praticamente in parallelo sia nel pensiero che nell’azione. Ma il rapporto fu difficile. L’ho incrociato in due occasioni diverse. Una negli anni ‘70, quando era vicedirettore di “Les Temps Modernes” con Sartre. Fu allora l’unica volta che ebbi modo di incontrare Sartre. In quell’occasione litigai pesantemente con Victor, dirigente della Gauche Proletarienne, che attaccò pesantemente me e i miei compagni – e Gorz ci rimase molto male. Poi ci siamo rivisti negli anni ‘90, quando era piuttosto invecchiato ed aveva molto maturato le proprie posizioni in senso ecologico. Mi considerava un terrorista ed era molto deluso per quello che era successo nei movimenti in Italia. Ci vedevamo molto spesso perché partecipavamo agli stessi seminari. Ha spesso polemizzato e scritto contro le miei posizioni. Al contrario, recentemente, ho pubblicato su Euronomade una recensione ad un suo libro, recuperando in parte il suo pensiero (soprattutto sul terreno ecologico). Gorz resta comunque un amico degli operaisti. Vercellone ha utilizzato il suo lavoro molto più ampiamente di me.
BARBETTA: Per concludere, non vede questo rischio di riportare, ancora oggi, la produzione delle merci dentro la legge del valore?
NEGRI: Quando nella domanda dici: “Se un giorno arriveremo ad uno scenario in cui i robot sostituiranno completamente il lavoro vivo dell’uomo come produttore di valore e plusvalore, sarei d’accordo con lei ma credo davvero che siamo lontani da questo scenario. Quando dico “completamente sostitutivo” intendo che detto processo di robotizzazione dovrebbe includere la produzione e la riproduzione dello stesso, in modo tale che il lavoro vivo non appaia da nessuna parte. Perché se il lavoro vivo dovesse produrre robot e riprodurli, allora la legge del valore continuerebbe ad essere viva e vegeta poiché la fonte del plusvalore risulterebbe in ultima analisi dal lavoro vivo e la robotica lo trasmetterebbe solo alle merci” – bene, questa è una cosa che mi interessa. Pensa ad una bella fiction in cui i lavori siano svolti in larga parte da robot e resta solo una piccola casta di uomini che li comanda, e che si configura – che ne so? – come un ceto sacerdotale. Cosa ha a che fare tutto questo con il valore? Quando c’è una tendenza forte, devi accettare questa tendenza forte alla qualificazione del lavoro. Qui c’è la qualità che diventa quantità, senza tornare alle leggi del Diamat.
BARBETTA: Concorda con la definizione del lavoro come elemento ineliminabile con cui l’uomo modifica se stesso e la natura?
NEGRI: Certo, però non si tratta di lavoro ma di forza-lavoro. Di questa forza-lavoro possiamo dire la stessa cosa che diceva Kant dell’intelletto: è la cosa più diffusa che ci sia al mondo. Perché dalla nascita in poi, è comune e tocca tutti gli uomini. Si tratta dell’unico trascendentale concreto.
BARBETTA: L’importante è non ridurre la categoria lavoro al lavoro salariato. Va tutto storicizzato.
NEGRI: Certo, la storicità è un elemento essenziale che non determina scetticismo universale ma semplicemente obbliga all’adeguatezza concreta del giudizio. Con tutti i problemi che ne seguono, certo, ma proprio a questo serve la propedeutica alla filosofia.
BARBETTA: Dopo la teoria del valore-lavoro, ha messo in discussione un’altra categoria fondamentale per il marxismo-leninismo cioè l’imperialismo. Se l’imperialismo era caratterizzato dall’esportazione di capitale da parte degli Stati nazionali, l’Impero è definito nel suo libero flusso di ricerca della redditività. Non c’è barriera che possa resistergli. E quello che resiste viene abbattuto. Con l’Impero non scompaiono né lo sfruttamento né la disuguaglianza regionale. Quello che succede è che lo spazio globale è tendenzialmente sussunto dal capitale e lo sviluppo ineguale e combinato appare ovunque. Se prima questo sviluppo si manifestava tra le regioni, ora appare all’interno di ciascuna regione, in modo tale che le condizioni del terzo mondo siano nel primo e viceversa. La tesi che lei sostiene è che il pericolo di una conflagrazione mondiale tra imperialismi non esiste quando scompare l’imperialismo degli Stati nazionali. Questo conflitto sarebbe stato sostituito dal consenso delle classi dominanti globale e dal riconoscimento dell’egemonia nordamericana. Questa egemonia, tuttavia, non è assoluta, cioè non ha la supremazia, ma alla fine dipende dal riconoscimento del dominante e quindi non può o non deve agire da sola. Tuttavia, questo non è molto chiaro alla luce di ciò che è accaduto con l’invasione unilaterale dell’Iraq con il sostegno solo dell’Inghilterra e della Spagna, ad esempio. Secondo lei, questa invasione è stato un tentativo di colpo di stato degli Stati Uniti contro l’Impero stesso. Un tentativo di governare da solo che è fallito non riuscendo a controllare la situazione dopo l’invasione. Né è molto chiaro se il pericolo di una nuova guerra mondiale sia scomparso. Russia e Cina non sembrano accettare la relativa egemonia degli Stati Uniti e potrebbero costituire una coalizione anti-dollaro e anti-americana nel quadro di un possibile conflitto che potrebbe essere innescato, ad esempio, da una precedente guerra regionale (Corea del Nord, Arabia Saudita, Iran, Palestina o forse Venezuela) o a causa di una nuova, ancora più devastante ripresa della crisi economica globale. In relazione alla teoria della dipendenza e alla sua attuale evoluzione nel modello dei sistemi-mondo, come la sua analisi riesce ad esser più completa sia rispetto alla tendenza globale che ai giochi tra potenze?
NEGRI: Ne abbiamo di carne al fuoco. Vorrei iniziare tornando a quella che è stata l’occasione del lavoro su Impero. Nasce in maniera abbastanza improbabile. Ad un certo punto ho avuto un’offerta di lavoro per scrivere un libro sul concetto di sovranità per una casa editrice francese, allora abitavo a Parigi. Si trattava di un libro scolastico rivolto ai laureati che dovevano svolgere l’agrégation per diventare professori. Mi sono messo a lavorare su questo argomento e mano a mano che andavo avanti, mi accorgevo che le caratteristiche classiche della sovranità, quelle definite dal trattato di Westfalia, e che poi sono state riconfermate sul terreno giuridico fino alla Conferenza di San Francisco e al nuovo regime mondiale post-seconda guerra mondiale, erano venute meno.
Questo perché era avvenuta una integrazione passata attraverso la formazione di mercati specifici, come, per esempio, quello sulla moneta (che si era isolato in maniera evidente dopo Bretton Woods) o quello della cultura (dominato da Hollywood). E quindi si trattava di vedere la questione da questo punto di vista.
Poi c’era un problema che da operaista mi interessava molto, ed era di capire come si poneva il suddito, quali erano i movimenti di classe, di popolazioni in rivolta, all’interno di quel processo di unificazione globale che si era in qualche maniera determinato.
C’erano dunque due processi da studiare insieme: uno era quello che portava ad una forma diversa di sovranità e l’altro era quello che portava ad una forma diversa di conflitto di classe sul livello globale. Questo discorso era partito da molto tempo: ad esempio, questa ricerca, a Padova, era stata iniziata da Luciano Ferrari Bravo che aveva lavorato sulle categorie dell’imperialismo negli anni ‘70 in un libro edito da Feltrinelli (Imperialismo e classe operaia multinazionale). Purtroppo non si trova più in circolazione, perché Feltrinelli – dopo il 7 aprile 1979 – distrusse l’intera collezione dei “Materiali marxisti” edita dal Collettivo di Scienze politiche di Padova. In quel libro, partendo dalla concezione leniniana dell’imperialismo, si faceva qualche passo in avanti e si definiva un campo di analisi dove l’imperialismo non fosse semplicemente un terreno di dominio ma anche un terreno di lotta di classe. L’imperialismo non riguardava evidentemente solo i paesi sottosviluppati e i movimenti in lotta contro di esso, ma – in una connessione che già per Luciano Ferrari Bravo negli anni ‘70 sembrava estremamente importante – implicava i paesi centrali e i movimenti proletari, anche nazionali, nelle varie regioni del mondo sotto il comando imperialista. Quando era positivamente vissuto questo rapporto non era semplicemente di solidarietà internazionale ma si legava agli interessi specifici della lotta di classe: in questo modo, LFB respingeva la centrale delle ragioni hobsoniane del discorso sull’imperialismo, e cioè che la classe operaia metropolitana fosse sempre alleata del capitale centrale nello sfruttamento del proletariato del Terzo Mondo.
BARBETTA: Era in antitesi all’idea che portavano contemporaneamente avanti Sweezy e la rivista Monthly Review.
NEGRI: Certo. Badate bene, non era una questione semplicemente teoretica, era anche tattica.
BARBETTA: Rompevano con l’idea di una rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato.
NEGRI: Esatto, noi lottavamo, eravamo dentro una situazione, una lotta, una continuità organizzativa che ci permetteva di parlare di un movimento rivoluzionario in atto. E devo dire che era abbastanza idiota trovarci davanti dei terzomondisti che ci davano del “mascalzone”, perché portavamo avanti gli interessi di classi operaie centrali e privilegiate! Siccome questi argomenti, negli anni ’70, non rappresentavano una maggioranza politica e teorica, potevamo escludere con un colpo di penna queste obiezioni. Naturalmente, però, la cosa ci restava sullo stomaco… Probabilmente, Impero scende anche da questa esperienza.
Impero, dunque: un libro finito il 30 giugno 1997, visto che il 1 luglio da Parigi (dove ero in esilio da 15 anni) torno in Italia, e in galera. Il libro uscirà tre anni dopo ad Harvard, dopo la messa a punto di Hardt, e risponde a quella che era una necessità per tutti, marxisti e non: ricalibrare il discorso sulla globalizzazione dopo la fine della Guerra Fredda e in presenza di una potenza egemone – indubbiamente la potenza americana.
Si trattava di ricalibrare il discorso anti-imperialista, ricordando che siamo dentro una nuova realtà internazionale, ed è qui dentro che il movimento va riqualificato.
BARBETTA: Porsi all’altezza delle sfide che ci impone il capitalismo.
NEGRI: Su questa posizione si orienta il movimento no global che scoppia ed emerge nel 1999 a Seattle. Fortunata coincidenza!
Impero nasce così da una duplice configurazione, ovvero da un lato la ricerca sulla globalizzazione e la definizione di Impero, e dall’altro la nuova dinamica della lotta di classe e l’esperienza della moltitudine, che combaciano in una situazione reale, a fronte cioè di una prima grande proposta di azione moltitudinaria a livello globale che si organizza e si muove mettendo alla prova l’egemonia statunitense. Naturalmente, entrambi i concetti, Impero e moltitudine, andavano definiti. Per quanto riguarda il concetto di Impero, Francesco, credo che le cose dette nella tua domanda siano corrette. Lo spazio globale è tendenzialmente interamente sussunto dal capitale e lo sviluppo ineguale e combinato si rivela in questo nuovo spazio. Diciamo che se allora, nel ‘95, queste frasi potevano ancora essere considerate imprudenti e preda di una spinta futurista, credo che dopo trent’anni siano, purtroppo, di un realismo spaventoso. Quando poi si prevedeva che presto il consenso globale si sarebbe opposto alla volontà centrale del sovrano americano, obbligandolo a risituarsi non sopra ma dentro la globalizzazione, anche su questo bisogna dire che la previsione era corretta: oggi ci troviamo infatti in una situazione definita da diversi piani di potere (ovvero strutture sovrane) che non si separano ma si qualificano dentro la globalizzazione. Questa è la cosa fondamentale. Quello che oggi sta avvenendo non ha nulla in comune con la Guerra Fredda o situazioni precedenti ad essa. Oggi la globalizzazione è avvenuta e dentro di essa si determinano eccedenze, o se volete emergenze, di altri poteri globali. Riporto un discorso che faccio sempre quando spiego queste cose. Abbiamo due sfere che, come due bambole russe, stanno una dentro l’altra. La prima sfera è quella della globalizzazione ed è una rete globale, direi universale, fatta di tubi di gas, telecomunicazioni, cavi elettrici, reti informatiche che stanno sopra e dentro la Terra intera, determinando un’incredibile connessione di ogni punto del pianeta con un altro e costituendo globalità. Una globalità di comunicazioni, di realtà in connessione l’una con l’altra che non poté essere mai immaginata nel passato in alcun modo. In più tutto questo è caratterizzato da un assetto monetario del tutto unificato da processi borsistici e dalle strutture del capitale finanziario, anche questi del tutto irriconoscibili rispetto a quello che erano (Hilferding compreso). Capitali che oggi si presentano con il passaporto delle nazionalità più diverse, e si propongono in una combinazione che non ha esempio.
La seconda sfera è quella del comando politico. In essa si stabiliscono gerarchie politiche che attraversano la prima sfera (quella delle reti materiali, produttive e comunicative) – nella seconda sfera il potere si singolarizza, nella prima si comunica.
BARBETTA: Anche un paese come la Cina, se vuole stare in questa logica, è costretta ad adottare questo schema di cui stiamo parlando, deve internazionalizzarsi, globalizzarsi.
NEGRI: Non solo è costretta ma ci è cresciuta dentro. Senza l’ingresso della Cina nel WTO questo non sarebbe mai avvenuto. E d’altra parte la Cina nella globalizzazione ci è rimasta. Dieci anni fa noi guardavamo da un lato agli Stati Uniti, e dall’altro alla Cina assieme agli altri paesi del gruppo BRICS. Ormai questo gruppo si è spappolato. La Cina ha fatto definitamente il suo salto nella sfera politica, che sta sopra quella della comunicazione e della globalizzazione materiale: è saltata cioè in quella dei rapporti politici, delle convenzioni politiche e probabilmente delle centrali possibilità di violenza.
BARBETTA: Come mai la Cina è riuscita a fare questo salto mentre gli altri paesi, come l’India o il Brasile, no?
NEGRI: Forse perché la civiltà cinese era predisposta all’accumulazione e alla globalizzazione, una volta liquidate le strutture feudali nelle quali era stata respinta e costretta dal colonialismo occidentale. Era una società capace di muoversi in questo senso: in più ha avuto un Partito Comunista Cinese (PCC) che, nella maniera più spregiudicata, ma anche intelligente, ha utilizzato tutte le tecniche della modernizzazione capitalista per arrivarci. Ad esempio, lo spostamento del baricentro della produzione dalle campagne alle metropoli industriali, quello che Stalin ha fatto in dieci anni negli anni ’30 (e si sa con quale costo), i “compagni” cinesi l’hanno fatto in una buona trentina d’anni. L’hanno fatto distruggendo la cultura contadina, sottoponendola ad una industrializzazione spinta, lasciando però sempre un buon numero di forza-lavoro quasi gratuita interna che potesse di volta in volta occuparsi di agricoltura oppure nutrire di mano d’opera le grandi zone industriali.
La prima volta che sono stato in Cina, consultato nei miei colloqui da teorici dello sviluppo cinesi, queste cose erano più che evidenti ed erano esposte con grande chiarezza. Dobbiamo sempre aver presente che tutto ciò avviene dentro una società in cui il PCC ha sempre un controllo delle masse infinitamente più alto di quello che sia mai potuto esistere nei paesi occidentali, nella “democrazia”.
In più, il tema di un “ulteriore passo in avanti” è stato presente in tutta l’esperienza rivoluzionaria cinese… e non accenna a smettere.
BARBETTA: Sulla questione della modernizzazione cinese ha molto riflettuto Wang Hui, un compagno cinese molto vicino alle sue idee.
NEGRI: Certo, un caro amico. Si tratta di una delle poche persone in Cina che ha ancora il coraggio di raccontare (contro il mainstream del Partito) che la Rivoluzione Culturale e le rivolte di Piazza Tienanmen del 1989 hanno rappresentato una possibilità unica per la Cina di avanzare nel socialismo. Wang Hui critica la visione secondo cui la rivolta del 1989 fosse filo-liberale. Questo lo scrive e lo dice. Dopodiché, Wang Hui è un intellettuale talmente importante in Cina che continua ad essere un professore nella più grande università di Pechino, la Tsinghua.
Per andare avanti nel nostro discorso, dopo Impero, Seattle e Genova, in Moltitudine, iniziammo a parlare di “colpo di Stato” degli Stati Uniti sulla globalizzazione. Volevamo mostrare come dopo il 9/11, attraverso delle operazioni belliche nel Medio Oriente, gli Stati Uniti tentassero di riprendere quel ruolo egemonico che la fine della Guerra Fredda gli aveva concesso e di reimporre una norma imperialista. Il colpo di Stato abortisce ma ciò non toglie che l‘ansia di egemonia che gli sottostava sia divenuta un interesse nazionale statunitense, che va dunque oltre la divisione partitica tra democratici e repubblicani. Nel seguito, quest‘istanza si ripresenta continuamente. Oggi, si riorganizza intorno al nuovo asse anti-iraniano che passa per il Patto di Abramo, con un ruolo centrale di Israele e il recupero delle petromonarchie arabe.
Facendo lavori di questo genere e muovendosi su un terreno sul quale si tratta di mettere insieme conoscenze di diritto pubblico internazionale, di politica internazionale, di economia e politica globale, non è facile evitare le fesserie. Penso che il numero di fesserie contenuto in Impero sia minore rispetto ai punti di chiarimento e soprattutto di imporre un nuovo terreno alla Teoria politica. Perciò Impero è un libro importante a livello globale e viene ampiamente utilizzato anche adesso nei programmi universitari di Scienze politiche.
BARBETTA: Come mai c‘è stata una forte opposizione da parte di tanti intellettuali marxisti a queste tesi? L‘idea che mi sono fatto è che esiste una cattiva comprensione di cosa fosse il vecchio imperialismo di Lenin. C‘è un rifiuto identitario ad accogliere certe tesi perché significherebbe smetterla di essere stalinisti, trotzkisti…
NEGRI: Quello che tu dici è sacrosanto, c‘è un rifiuto identitario legato a fedeltà consunte. E tuttavia l‘Italia è un paese strano. Non sono stato mai capace, infatti, di spiegarmi come mai, in Italia, negli anni ‘60, ci sia stata una capacità di comprensione dello sviluppo globale e un contemporaneo approfondimento del marxismo che sono andati molto al di là di quello che è avvenuto nel resto dell‘Europa. Data la posizione marginale che l‘intellettualità italiana ha a livello globale, questo straordinario sviluppo è stato dapprima messo sull‘angolo, per poi diventare invece, ad un certo momento, centrale – non grazie al lavoro dell‘insieme degli intellettuali marxisti italiani (che pure l‘avrebbero meritato), ma perché l‘ha imposto la problematica della globalizzazione – proposta da un paio di “operaisti” fuorilegge. Harvard ha pubblicato Impero quando io ero in galera, e Hardt era professore associato a Duke… allievo di Jameson, comunque, ed era forse la sola cartina di tornasole per quanto riguarda l‘intelligenza marxista del volume. Di fronte cosa avevamo? Un marxismo rugoso, e spesso isterico… Le critiche cattive e volgari al nostro lavoro in effetti non mancarono.
BARBETTA: Ad esempio, il suo libro è stato molto criticato in America Latina da intellettuali come Attilio Boron.
NEGRI: Attilio Boron era un mio vecchio amico. Quando sono uscito dalla galera e mi è stato dato un passaporto nel 2003, ho iniziato a viaggiare spesso in America Latina. In questo contesto, Boron ha scatenato il pandemonio. Siccome ero amico di Lula, mi hanno chiamato ad aprire il congresso nazionale della CUT e non potete immaginare il polverone alzato da Boron. Empire attaccava infatti la linea tradizionale dei partiti comunisti, la cosiddetta “democrazia progressiva” – era una politica che aveva per noi delle conseguenze maledettamente negative. Empire negava la possibilità di fondare il programma politico comunista sul nazionalismo – l’istanza antisovranista, l’urgenza di battersi contro il nazionalismo, andava così contro la linea dei partiti comunisti (soprattutto quelli latino-americani), ovvero l’alleanza tra proletariato e borghesia nazionale. Tutto lo sviluppo della lotta di classe era stato letto su questa linea –perfettamente stalinista, permettetemi di aggiungere. Impero sosteneva esattamente l’opposto: che si era data una linea di unificazione, ormai evidente, delle borghesie a livello mondiale. E che tutto ciò aveva anche avuto degli effetti positivi. Sulla base della globalizzazione si era data, per esempio, la possibilità per miliardi di persone di potersi comprare il telefonino: e non è una cosa del tutto negativa. In ogni caso, contro l’idea di globalizzazione e la nuova “episteme” che con essa si determina, si muovono allora anche spinte sottoconsumiste ed ideologie eco-catastrofiste.
Bon, per me, il socialismo è bello quando lega la sua spinta progressiva dal punto di vista economico ad un fondamento umanistico. Questi due elementi devono andare insieme. Quando c’è solamente la spinta progressiva, il progressismo può anche diventare qualcosa di brutto, può giustificare i gulag come l’accumulazione primitiva. In Impero, progresso e umanesimo si tengono.
BARBETTA: Trovo le polemiche sulla decrescita sempre particolarmente ambigue. La moltiplicazione dei bisogni è un fatto positivo che va oltre il capitalismo.
NEGRI: Sono d’accordo con te, ma bisogna anche dimostrarlo. Tornando a noi, parlavi del “pericolo di una nuova guerra mondiale”. Io non l’ho mai negato, il pericolo di guerre esiste – eccome! Tuttavia, non credo che ci sia pericolo di guerra atomica o di una guerra comparabile alla Seconda guerra mondiale. Lo ritengo impossibile. Ne va dell’esistenza del genere umano! Il mantenimento di enormi depositi di bombe atomiche ha perciò un effetto dissuasivo.
E tuttavia questa condizione ci trova perplessi e del tutto disarmati di fronte a delle cose che non dipendono da noi in nessun modo, rispetto alle quali non possiamo intervenire. Ogni lotta pacifista è dunque una lotta sacrosanta anche se sproporzionata rispetto alla realtà nella quale ci muoviamo.
Quanto alla “Teoria della Dipendenza”, bisogna capire cosa sia, cosa pretenda di essere. Ora, questa teoria intesa nel vecchio modo, alle vecchie condizioni, come quella costruita da Samir Amin (gran brava persona), abbiamo già visto che non regge da alcun punto di vista. Esistono invece altre teorie, come quella dei sistemi-mondo, rispetto alle quali bisogna muoversi con rispetto e prudenza. Quando Arrighi ha aperto il discorso sull’asse del Pacifico, la direzione del suo discorso era sacrosanta, ma l’indice sembrava esclusivamente puntato sul Giappone. La Cina è arrivata come l’ospite inatteso.
BARBETTA: A proposito di confronto con la teoria classica dell’imperialismo. Mi viene in mente un libro che si pone a metà tra le tesi di “Impero” e dell’imperialismo classico, ovvero “L’imperialismo globale e la grande crisi” di Ernesto Screpanti, professore di economia politica all’università di Siena.
Screpanti afferma che la grande differenza tra l’imperialismo otto-novecentesco e quello globale risiede nel rapporto centro-periferia. Nel primo caso il confronto è tra paesi del centro industrializzati e della periferia precapitalistici e non industrializzati. Nel secondo caso, l’imperialismo è globale, il capitale penetra dappertutto e trasforma tutto a sua immagine e somiglianza. Il modo di produzione capitalistico è globale e non esiste più nessuna sacca di arretratezza precapitalistica. Evidente è il riferimento a Rosa Luxemburg e al suo “L’accumulazione del capitale”. L’imperialismo globale viene definito come un: “sistema di relazioni internazionali in cui le politiche statali siano spinte a rimuovere i vincoli che gli agglomerati nazionali possono porre all’accumulazione su scala mondiale.”
Il processo di accumulazione globale non segue più lo schema centro-periferia ma è multidirezionale, supera l’unidirezionalità territorialmente confinata nel conflitto tra Stati-nazioni dell’analisi leninista dell’imperialismo. Mi sembra un ponte importante con le tesi che sostiene in “Impero”.
NEGRI: Non conosco l’autore ma andarsi a studiare la Luxemburg, su questa questione, è fondamentale da tutti i punti di vista. Penso anche all’ultimo libro di Sandro Mezzadra, Un mondo da guadagnare, dove l’uso della Luxemburg è largo e continuo.
La questione che poni apre alla nuova forma dell’accumulazione globale. Michael ed io lo abbiamo affrontato nell’articolo “Impero vent’anni dopo”, pubblicato nella New Left Review. Per avanzare su questo terreno, occorre risalire alla lotta di classe oggi e riqualificarla, analizzando il divenire della moltitudine in essa. Ora, secondo noi, c’è un processo in corso, nel quale la moltitudine sta assumendo una definizione sempre più politica a livello globale. Dentro questo processo, nell’appannarsi delle differenze nella transizione, nell’“interregno”, la moltitudine si ridefinisce come “classe” (che chiamiamo C’) attraverso intersezioni razziali e di genere. Oltre il passaggio da operaio industriale a operaio sociale, ci sono dunque altri elementi di trasformazione che costituiscono un nuovo modo di essere classe a partire dalla moltitudine. Qui si tratta di capire come realizzare la moltitudine. In Impero, il discorso che avevamo fatto (anche qui sollevando un polverone) era sul “lavoro immateriale”. Sarebbe stato meglio non usare questo nome, però non sapevamo come chiamare questa cosa diversa. Avevamo cominciato, Lazzarato ed io, scrivendo un articolo su Futur Antérieur (al principio degli anni ’90) sull’immaterialità e poi ci eravamo affezionati per un po’ di tempo a questo termine. Speriamo di cancellarlo un giorno o l’altro. Vercellone sostiene che andrebbe sostituito con “lavoro cognitivo” – assunto come materia della tendenza.
Per tornare a noi, in Impero, il problema grosso era stato quello di capire come “lavoro” e “moltitudine” potessero organizzarsi in maniera produttiva. Bisognava tirar dentro al lavoro vivo moltitudinario il lavoro linguistico, quello dei servizi, quello di cura, ecc. ecc. – l’immaterialità era caratterizzante ed andava genericamente assunta. Oggi, penso che il lavoro cognitivo ricomponga in C’ l’immaterialità confusa della moltitudine.
BARBETTA: Fondamentalmente la questione di “Impero”, può essere sintetizzata nella seguente domanda: Lo Stato-nazione può essere ancora utilizzato come strumento per la rivoluzione? Da qui si divide chi è con le tesi del libro e chi contro.
NEGRI: Sì, ma quale Stato-nazione? Io la butto lì. Penso che l’unico paese in cui sia oggi possibile la rivoluzione siano gli Stati Uniti. Quando dico possibile, non sto dicendo che sarà fatta. Si tratta dell’unico paese in cui ancora, come Stato-nazione, possono accumularsi elementi potenziali che spingono la rivoluzione e che possano espandersi con velocità. Non vedo tali possibilità in Russia e non le vedo in Cina – e certamente non in Italia o in un altro paese europeo. Ma è anche vero che quando tira l’aria della rivoluzione, nulla è impossibile.
BARBETTA: Samir Amin, invece, rispondeva che fosse possibile lottare per piegare le logiche della mondializzazione ad uno sviluppo macroregionale: la sua tesi del delinking.
NEGRI: Non dubito che questo possa darsi. È vero tuttavia che la sola maniera che avremmo di poter incidere veramente sullo sviluppo capitalistico è la creazione di contropoteri omogenei sul livello europeo, o perlomeno nei grandi paesi e nelle grandi metropoli centrali. Si parla di politica e quindi di scelte che si potrebbero fare o no. Ci sono compagni spagnoli che protestano contro la linea di Podemos (con il quale comunque dialogano), proprio sul fatto che non si è prestato alla costruzione di una scacchiera europea di forze alternative e di rottura ed ha invece scelto (“realisticamente”!) di andare al governo. L’unico che ha provato un delinkage è stato il povero Tsipras in Grecia, e purtroppo siamo stati tutti testimoni di come è finita.
BARBETTA: Anche Varoufakis, con il suo movimento, si muove su questo terreno ma la sua forza è veramente esigua.
NEGRI: Purtroppo è proprio solo. Comunque è una via che può essere percorsa. Studiare non è sufficiente, anzi, studiare serve solo a preparare l’azione. Non si capisce neanche quello che si studia se non lo si collega all’azione.
PUPIL: Aggiungo solo una curiosità in merito alla domanda di Francesco. Abbiamo parlato di una certa contraddizione in una serie di pensatori o meglio, nella contraddizione di attualizzare alcuni pensatori. Abbiamo parlato di Samir Amin, di Arrighi, di teoresi che vedono ancora il mondo come diviso in sistemi centrali e sistemi periferici, con una prescrizione pratica inerente ai sistemi nazione, lo Stato nazionale come matrice di liberazione e come matrice rivoluzionaria. Cercando di risalire ai padri nobili di queste teorie, troviamo Baran e Sweezy, coloro che pongono uno dei primi paradigmi di carattere economico nello studio delle relazioni tra centro e periferia nel libro “Il capitale monopolistico”.
NEGRI: Sweezy era sicuramente un ottimo economista, dai cui libri si può ancora imparare molto. Baran interpreta piuttosto una fase politica che coincide con la lotta dei popoli del Terzo Mondo per l’indipendenza nazionale. Bisognava subordinare il momento teorico al momento politico.
Per quanto riguarda il momento teorico, c’è una posizione leniniana che giunge dal Congresso di Baku dei popoli del Terzo Mondo (svoltosi nei primi anni rivoluzionari russi) e che lancia una linea internazionalista di lotta proletaria. Si comprende fino in fondo, in questo caso, come l’alleanza con le borghesie nazionali non fosse allora solo qualcosa di utile ma anche di necessario – contro l’imperialismo, contro il colonialismo era obbligata questa via – ed il discorso non era semplicemente sull’insurrezione, ma sulla rivoluzione, su un lungo periodo di lotte in cui combinare momento riformista e insurrezionale e di contropotere esplicito. Il mantenimento di questa posizione non ha tuttavia significato, una volta che si sia passati ad una fase superiore, come quella che si dà con la globalizzazione dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
BARBETTA: Gunder Frank poneva diversamente la questione affermando che l’Unione Sovietica fosse già integrata nel capitalismo globale come subimperialismo.
NEGRI: Sì, questo è vero e falso, anzi, più falso che vero. Non ci sarebbe stata la crisi di sottoconsumo in Unione Sovietica negli anni ’80 se fosse stato del tutto vero. In questo periodo sto studiando quella che ho chiamato la terza rivoluzione sovietica. La prima è quella insurrezionale del 1917, la seconda è la ricomposizione popolare resistente contro il fascismo, avvenuta durante la Grande Guerra Patriottica, la terza è quella che fa cadere il partito comunista al potere. Si tratta di una rivoluzione pacifica, con appena 4 morti in totale. Emerge qui un problema fondamentale, quello della connessione con il resto del mondo – un tema già ampiamente interiorizzato dalle élite e anche dal nuovo proletariato intellettuale russi. Lì, la critica che avviene si rivolge contro l’imperialismo interno (contro l’unità imperiale con popolazioni subordinate) e contro il partito – ormai completamente burocratizzato e corrotto.
BARBETTA: Quindi, secondo lei l’Unione Sovietica non era una formazione economico-sociale capitalista?
NEGRI: No, perché non esisteva la proprietà privata. Indubbiamente si può parlare di capitale sociale, di capitalismo socializzato, di Stato-piano burocratico. Di questo si diceva anche a proposito di alcuni paesi in Europa occidentale. Prima della rivoluzione thatcheriana, in tutti i paesi europei circa metà del sistema produttivo era nelle mani dello Stato. Questo non significa che quei paesi europei non fossero formazioni economico-sociali capitaliste. Serve a stabilire le differenze che vigono anche nelle somiglianze: il mantenimento, o meno, del diritto di proprietà privata (quando questo diritto sia assunto in maniera sistemica, per tutto l’ordinamento – come avveniva in Urss) è un elemento che distingue radicalmente una situazione socialista da una situazione capitalista.
Per tornare alla domanda di Elia, penso che Sweezy e Baran siano padri nobili del terzomondismo, ma più politici che economici. Erano immersi in quella che chiamerei “illusione di conquistare uno Stato”, attraverso la rivoluzione: di lì, da un lato, partire per allargarla e, dall’altro, di essere completamente autonomi. Tutto questo è illusorio, perché non assume la forza della risposta capitalista, sempre totale anche difronte ad un’esperienza singolare. È solo in Cina che il passaggio dalla rivoluzione alla costruzione del socialismo è stato possibile attraverso le guerre civile ed esterna (antigiapponese) e successivamente ripagando questo sviluppo atroce attraverso un passaggio dall’autarchia e dall’autonomia allo sviluppo dopo Tienanmen nel 1989. In quel momento la Cina, si mette a disposizione del mercato mondiale, e chiede di essere un laboratorio di scarico e decentralizzazione della globalizzazione. Tutto questo è stato possibile per le virtù dell’azione del PCC (o per miracolo?), che ha funzionato come un’intelligenza tecnica, statuale, borghese.
Se usassimo le categorie pre-Rivoluzione francese, dovremmo forse parlare, a tal proposito, di un Terzo Stato che emerge e riesce a trasformare la subordinazione della Cina come laboratorio industriale del resto del mondo, in elemento di guida e di tenuta attraverso uno sforzo politico e produttivo enorme, fondato essenzialmente sullo sviluppo e la concentrazione del sapere. Chi ha vinto questa battaglia sono Huawei, e le grandi imprese che giocano sul terreno del sapere contro l’Occidente.
BARBETTA: La loro politica industriale è sempre stata finalizzata ad ottenere dalle imprese occidentali, intenzionate a supersfruttare la forza-lavoro cinese, le loro tecnologie.
NEGRI: Esattamente, ma non solo questo, man mano sostituiscono le fabbriche di produzione decentrata con imprese autonome, direttamente cinesi. Si mettono in concorrenza con il decentrato.
BARBETTA: Come diceva Arrighi, il loro è uno sviluppo naturale, inteso in senso smithiano. Fanno competere i capitali, senza farli arricchire eccessivamente.
NEGRI: Certo. Per concludere, gli algoritmi di Baran e Sweezy possono essere veri e utilmente recuperati ma è difficilissimo che possano funzionare tali e quali. Oggi l’illusione è che sia possibile recuperarli.