1. La sfida dell’auto elettrica in Italia
Intendiamo analizzare la situazione del settore auto in Italia nel 2024 attraverso i dati raccolti nel libro Osservatorio sulle trasformazioni dell’ecosistema automotive italiano 2024 dell’Università Ca’ Foscari di Venezia. Il testo è diviso in saggi che andremo a studiare a partire da quello di Francesco Zirpoli e Bruno Perez Almansi sull’ecosistema automotive italiano. Il settore è caratterizzato da segnali di vitalità in segmenti specifici ma anche da ritardi strutturali preoccupanti. La survey 2024 mostra che il 64% dei fornitori italiani ha svolto attività di Ricerca e Sviluppo (R&S) nel 2023, registrando un incremento del 5% rispetto al 2022, sebbene solo il 54% di queste attività sia specificamente dedicata al settore automotive, evidenziando un significativo processo di diversificazione verso altri settori. La maggioranza di queste aziende investe tra l’1% e il 5% del proprio fatturato in R&S, con un tasso medio per l’auto del 3,5%. Tuttavia solo il 25% delle aziende impegnate in R&S riesce a brevettare i propri prodotti, confermando una difficoltà cronica nel trasformare l’attività di ricerca in proprietà intellettuale protetta. Un segnale positivo proviene dal sottoinsieme di aziende che investono nei veicoli elettrici, le quali mostrano un dinamismo maggiore con un tasso di investimento del 4,5% del fatturato, un punto percentuale sopra la media, e il 78% di esse svolge anche attività di R&S nel settore automotive. L’analisi geografica rivale disomogeneità significative. Il Nord-Est ha la percentuale più alta di aziende che fanno R&S auto (64%) ma il tasso di investimento più basso (1,5%) mentre le aziende del Centro investono in media il 7,9% del fatturato. I fornitori di infrastruttura di rete mostrano le performance migliori, con il 69% di aziende impegnate in R&S e un tasso di investimento del 10%, mentre allontanandosi dall’assemblatore finale sia la propensione all’innovazione che gli investimenti calano progressivamente. Un fenomeno interessante è rappresentato dalle micro-imprese che nonostante le dimensioni investono in media il 10,3% del fatturato in R&S auto, spesso concentrate in nicchie come il motoracing o come spin-off di progetti universitari. Guardando al triennio 2024-27, il 52% delle imprese prevede di sviluppare nuovi prodotti o servizi, con il 60% di questi investimenti orientato ai veicoli elettrici. Il 43% delle aziende prevede un aumento di questi investimenti, percentuale che sale al 56% tra quelle che investono specificamente in EV. Le aziende più innovative sono principalmente grandi e medio-grandi, operanti nel Centro-Nord, nell’infrastruttura di rete o come Tier I e II, con una forte propensione all’export e una bassa dipendenza da Stellantis. Sorprende negativamente il basso tasso di innovazione tra i fornitori fortemente dipendenti da Stellantis (71,4%), composti per lo più da Tier I del Nord Italia. Gli investimenti si concentrano prevalentemente su moduli ibridi come componenti interni e della carrozzeria (18,6%), lavorazioni meccaniche e stampaggio (17,4%) e componenti per sospensioni e freni (13,3%), aree che possono essere utilizzate sia per veicoli ICE che EV. Al contrario, gli investimenti in aree cruciali per la transizione come il software dei veicoli (3,8%), le batterie (4,7%) e l’elettronica di potenza (2,0%) rimangono marginali. Coerentemente con questa specializzazione la destinazione finale del fatturato dei nuovi prodotti è ancora per il 30% ancorata ai veicoli endotermici, contro un 18% destinato ai full electric e plug-in hybrid. La percezione dell’impatto dell’elettrificazione riflette questa relativa sicurezza: il 45% dei fornitori non prevede alcun impatto sul proprio portafoglio prodotti ICE e un altro 31% prevede un impatto inferiore al 25%. La strategia predominante è un adattamento graduale delle competenze esistenti (48%) piuttosto che un cambiamento radicale. I principali ostacoli all’innovazione per gli EV sono percepiti come esterni: la mancanza di finanziamenti pubblici (35%), la mancanza di commesse (32%) e di nuovi clienti (30%), oltre alla carenza di personale qualificato (28%). Il fronte più critico è quello dell’innovazione di processo, dove solo il 45% delle imprese prevede di investire nel prossimo triennio, con un calo significativo rispetto alle rilevazioni precedenti. Solo il 43% di questi investimenti è dedicato agli EV e le motivazioni appaiono principalmente reattive, dettate dalla richiesta dei clienti e dalla necessità di acquisirne di nuovi, piuttosto che da una strategia proattiva.
L’analisi di Anna Novaresio sull’evoluzione occupazionale e il ruolo dell’innovazione nella transizione all’elettrico del settore automotive italiano dipinge un quadro complesso e articolato, caratterizzato da sfide strutturali profonde ma anche da significative opportunità legate all’innovazione. Il contesto di partenza è critico, infatti l’industria automobilistica nazionale è sferzata da una competizione globale sempre più agguerrita, in particolare dalla Cina, e mostra sintomi di forte difficoltà con la produzione di auto in crollo, un ricorso sempre più diffuso alla cassa integrazione, licenziamenti e un calo delle commesse che minaccia l’intera filiera storica. Questo declino ha radici profonde nella configurazione stessa dell’ecosistema italiano, storicamente dipendente non solo dal suo unico grande costruttore, l’ex gruppo Fiat ora Stellantis, ma anche dagli scambi commerciali con i partner francesi e tedeschi, e dalla crisi prolungata della stessa Fiat che sta portando a un progressivo decommissioning delle sue attività sul territorio nazionale. In questo scenario già delicato la transizione verso la mobilità elettrica, resa obbligatoria dal regolamento europeo Fit for 55, è percepita da molti come l’ultimo e più importante fattore di difficoltà. Un’analisi più attenta, corroborata dai dati dell’Osservatorio sulle Trasformazioni dell’Ecosistema Automotive (OTEA) 2024, rivela che essa rappresenta in realtà un’opportunità cruciale. Contrariamente alla percezione comune, studi europei e nazionali indicano che la conversione ai powertrain sostenibili non si associa necessariamente a una contrazione occupazionale generale ma tende piuttosto a spostare il valore aggiunto dagli assemblatori finali (OEM) verso i fornitori, specialmente quelli specializzati in componenti trasversali come l’elettronica e i sistemi elettrici, settori in cui si sono già registrati incrementi occupazionali. L’indagine OTEA si inserisce in questo solco, mirando a investigare proprio l’evoluzione occupazionale nella filiera estesa (che include sia i supplier tradizionali che quelli legati all’infrastruttura di ricarica) mettendola in relazione sistematica con gli investimenti in R&S e in innovazione. L’obiettivo ultimo è comprendere se i profili d’impresa che registrano minore sofferenza occupazionale e mostrano maggiore ottimismo per il futuro siano proprio quelli più predisposti all’innovazione e con maggiori investimenti in R&S, in particolare per l’elettrico. L’analisi incrocia numerose variabili, tra cui la dimensione aziendale, la posizione nella filiera, la dipendenza dalle commesse Stellantis, la localizzazione geografica e il controllo societario, includendo anche un focus sul ruolo dei sindacati nella pianificazione industriale.
I risultati dell’indagine sono illuminanti. Innanzitutto emerge una stretta correlazione tra specializzazione nel settore e propensione all’innovazione. In media il 76% del personale delle imprese intervistate è dedicato alla filiera automotive estesa ma questo valore sale al 97% per le microimprese e scende al 57% per le piccole, segno di una maggiore diversificazione di quest’ultime. Le imprese con un’alta dipendenza da Stellantis (76-100% del fatturato) mostrano una percentuale di addetti automotive molto elevata (90%), essendo tipicamente fornitori di componenti tradizionali che richiedono competenze specifiche. Il dato più significativo, tuttavia, riguarda gli investimenti: le aziende che hanno pianificato investimenti in innovazione per l’elettrico nel quadriennio 2024-2027 hanno una percentuale di personale dedicato all’auto ben superiore alla media (80,7%) mentre quelle senza investimenti si attestano su un misero 57,7%. Questo sfata il luogo comune secondo cui le imprese più legate al “vecchio” mondo automotive siano resistenti al cambiamento, al contrario, sono le più proattive nell’abbracciare la transizione tecnologica. La composizione del personale stesso varia drasticamente in base all’orientamento innovativo. Le imprese che investono per l’EV hanno percentuali superiori alla media di addetti indiretti, specializzati in R&S e in Information Technology (IT), confermando le previsioni della Commissione Europea secondo cui la transizione valorizzerà proprio queste competenze. Le aziende che non investono mostrano una percentuale più elevata di addetti diretti alla produzione. Per quanto riguarda il livello di formazione, prevale il personale diplomato (33%) e con licenza media (25%) ma i laureati sono più numerosi nei Tier I (fornitori diretti degli OEM, 24%) e soprattutto tra le imprese dell’infrastruttura di ricarica (36%) mentre i diplomati ITS trovano grande spazio nei Tier III (fornitori di secondo livello, 43%). Le assunzioni degli ultimi tre anni vedono in testa i diplomati ITS (71,1%) e i laureati in discipline scientifiche (54,4%), segnalando una forte domanda di competenze tecniche specializzate e la necessità di allineare sempre più i percorsi formativi ITS alle esigenze della twin transition (ecologica e digitale). Le previsioni occupazionali per il triennio 2024-2027 sono complessivamente positive, con una variazione media attesa dell’+1%. Questo dato aggregato nasconde dinamiche contrapposte. Si prevedono aumenti significativi per gli specialisti IT (+7%) e per il personale di R&S (+3%) mentre si attende un forte calo per le figure amministrative e contabili (-13%). Le microimprese sono un caso particolare. Pur prevedendo un calo negli addetti generici (-24%) e, unico caso, in R&S (-6%), contano di compensare con aumenti nella produzione diretta e indiretta (+10% ciascuno). I maggiori beneficiari della transizione saranno i fornitori di primo livello (Tier I) e le imprese dell’infrastruttura di ricarica che prevedono incrementi per tutte le figure tecniche e specialistiche. La dipendenza da Stellantis non determina scenari negativi in assoluto, anzi le imprese con un fatturato totalmente dipendente dall’OEM prevedono un +3% generale, trainato da R&S (+8%) e IT (+3%). L’analisi geografica restituisce una mappa molto disomogenea del Paese. L’Emilia-Romagna si conferma la “culla dell’innovazione” con un atteso straordinario +16% negli addetti alla R&S. Il Nord-Est e il Centro Italia prevedono generalmente variazioni positive per la produzione mentre il Nord-Ovest (storica base di Fiat) e il Sud (dove sorgono stabilimenti come Melfi e Pomigliano) registrano perdite significative negli addetti diretti e indiretti, riflettendo la contrazione produttiva di Stellantis in quelle aree. La Lombardia, invece, si distingue per le assunzioni previste nel marketing e nell’IT.
Il libro approfondisce le strategie che le imprese intendono adottare per riorganizzare competenze e attività in risposta alla transizione verso i veicoli elettrici, con un focus su reskilling e upskilling del personale. I dati raccolti rivelano un panorama articolato in cui la formazione interna emerge come lo strumento principale, con quasi il 70% delle imprese che prevede di organizzare corsi di formazione interna e più del 60% che opterà per la formazione sul posto di lavoro, il cosiddetto training on the job. A questo si affianca il ricorso a soggetti esterni, con la metà delle imprese intervistate che dichiara di volersi avvalere di scuole di formazione e consulenti, mentre più di un terzo (35%) utilizzerà corsi interprofessionali. Non tutte le aziende percorrono questa strada. Solo il 30% cercherà il sostegno di clienti e fornitori per formare il proprio personale e una quota significativa, oltre il 20%, ha dichiarato di non aver pianificato alcun tipo di formazione per adeguare le competenze dei dipendenti alla transizione in atto. Un’analisi più approfondita rispetto alla dimensione aziendale svela forti discrepanze. Sono soprattutto le micro e piccole imprese a dichiarare di non voler erogare formazione, una scelta che il rapporto attribuisce potenzialmente a una forza lavoro già in possesso di una formazione superiore e più aggiornata, visto che molte di esse sono startup o PMI innovative, o, più pragmaticamente, alla carenza di risorse da destinare all’aggiornamento delle competenze. Le imprese medio-grandi e grandi mostrano un approccio molto più proattivo e strutturato, avendo preventivato in misura maggiore sia attività di formazione interna che esterna, mostrando una netta preferenza per quest’ultima, in particolare sotto forma di corsi interprofessionali e attività di consulenza. Oltre alla formazione l’indagine ha esplorato le misure che le imprese intendono adottare per gestire il personale che potrebbe risultare in esubero a seguito dell’elettrificazione. In questo ambito lo strumento più gettonato si è rivelato essere il ricorso agli ammortizzatori sociali, pianificato da oltre il 57% delle imprese intervistate, visto come la soluzione preferita o più agevole da implementare. Una buona fetta del campione (54,9%) dimostra un approccio più volto alla retention, dichiarando di voler tentare di ricollocare il personale in eccesso all’interno dell’azienda o del gruppo assegnando nuovi ruoli. Altre opzioni considerate, sebbene in misura minore, includono la predisposizione di piani di prepensionamento (30%), il ricorso a dimissioni con incentivo e l’attivazione di politiche di outplacement (entrambe circa il 27%). Misure come il ricollocamento tramite fondi di solidarietà o il licenziamento senza incentivo risultano poco appetibili (16%) mentre i contratti di espansione sono considerati un’opzione percorribile da meno di un’impresa su dieci. Infine la ricerca ha indagato il livello di coinvolgimento degli attori sociali, come le rappresentanze sindacali, nella pianificazione delle nuove attività industriali. I risultati mostrano che il 44,6% delle imprese coinvolge i sindacati di stabilimento mentre solo il 19,1% include nel processo decisionale anche i sindacati territoriali. Anche in questo caso la dimensione aziendale è un fattore determinante: le grandi imprese e, in misura minore, quelle medio-grandi, mostrano una propensione significativamente maggiore a coinvolgere le rappresentanze sindacali, verosimilmente perché in esse la presenza sindacale è più radicata e strutturata, a differenza delle piccole realtà che spesso utilizzano canali diversi per la concertazione.
Il capitolo di Serena Di Sisto e Giuseppe Giulio Calabrese si propone di analizzare nel dettaglio le politiche industriali necessarie per supportare queste trasformazioni in Italia, basandosi sui risultati di un’indagine condotta tra le imprese dell’ecosistema automotive italiano. Alle aziende è stato espressamente chiesto di esprimere una valutazione su diciassette diverse tipologie di interventi e possibili iniziative degli enti di governo, ritenute direttamente o indirettamente necessarie per sostenere le trasformazioni in atto. La valutazione è stata effettuata su una scala Likert a cinque valori, da “non importante” a “molto importante”. Queste politiche sono state poi raggruppate in sei categorie distinte: le politiche per favorire la mobilità elettrica, che includono gli incentivi per sostenere la domanda di veicoli elettrici e quelli per migliorare l’infrastruttura della ricarica elettrica, le politiche per supportare la filiera automotive, comprendenti incentivi per attrarre nuovi assemblatori finali e per il rinnovo degli accordi di innovazione del settore, le politiche per strutturare il sistema produttivo, che annoverano incentivi per la costruzione di nuovi impianti produttivi, per il rientro in Italia di attività produttive (reshoring), per la crescita dimensionale anche tramite acquisizioni, la ridefinizione dei contratti di sviluppo e l’acquisizione di tecnologie per la riconversione produttiva, le politiche per favorire lo sviluppo dei prodotti, con incentivi per la ricerca e lo sviluppo e per la collaborazione con le imprese e i centri di ricerca, le politiche per l’occupazione, che includono incentivi per favorire la formazione dei lavoratori, per la defiscalizzazione delle assunzioni di personale, per il potenziamento dei dottorati industriali e per l’ulteriore sviluppo degli ITS e infine le politiche energetiche per la riduzione del costo dell’energia elettrica per gli impianti produttivi e per incentivare l’utilizzo delle fonti rinnovabili. Dall’analisi dei dati emerge una gerarchia di priorità assolutamente chiara e significativa. Le politiche energetiche sono in cima alla classifica, rivelando un’urgenza prioritaria per le imprese. Il 71% degli intervistati ha infatti classificato come “importante” o “molto importante” gli incentivi volti a ridurre il costo dell’energia per gli impianti produttivi, posizionandoli saldamente al primo posto assoluto. Al secondo posto, con un altissimo 67%, si collocano gli incentivi per l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili. Questo dato duplice riflette una crescente e matura consapevolezza delle imprese non solo sull’importanza strategica di ridurre l’impatto ambientale della propria attività ma anche sull’esigenza immediata e concrete di abbattere i costi operativi variabili che rappresentano un vincolo cruciale per la competitività in un mercato globale sempre più agguerrito. Subito dopo, le politiche per l’occupazione sono considerate cruciali. Gli incentivi alle assunzioni di personale raggiungono il 60,6% di valutazioni positive, piazzandosi al quarto posto in classifica, mentre gli incentivi per favorire la formazione dei lavoratori ottengono il 56,6%, in quinta posizione. Questo dato è un’ulteriore testimonianza del fatto che le aziende percepiscono come necessario e urgente rafforzare le competenze professionali all’interno delle imprese, gestire il ricambio generazionale e formare il personale sulle nuove tecniche richieste dalla transizione elettrica. Anche il potenziamento degli ITS è ritenuto importante da esattamente la metà delle imprese intervistate (50%), che si colloca al settimo posto. Per quanto riguarda la mobilità elettrica, le imprese mostrano una preferenza netta e strategicamente molto illuminata. Gli incentivi per migliorare l’infrastruttura della ricarica elettrica sono considerati “importanti” o “molto importanti” dal 65,2% dei rispondenti, conquistando il terzo posto in classifica e registrando un significativo aumento di 5,1 punti percentuali rispetto alla survey precedente. Gli incentivi per sostenere direttamente la domanda di veicoli elettrici si fermano al 50,8%, in sesta posizione, un dato sostanzialmente in linea con l’anno prima. Questa divergenza indica che le aziende identificano nella carenza infrastrutturale il principale collo di bottiglia e la condizione imprescindibile per accrescere l’adozione della mobilità elettrica. Senza una rete di ricarica pubblica e privata capillare, affidabile e diffusa, qualsiasi incentivo alla domanda non raggiungerebbe il suo pieno potenziale. Le imprese riconoscono il valore dei veicoli elettrici per il futuro ma il supporto diretto alla domanda è considerato meno urgente rispetto alla soluzione del problema infrastrutturale e, soprattutto, alla riduzione dei costi energetici. Le altre categorie di politiche ottengono consensi inferiori alla maggioranza assoluta. Le politiche per strutturare il sistema produttivo vedono l’acquisizione di tecnologie e la riconversione produttiva al 49,9%, gli incentivi al reshoring di attività industriali al 49,7% e quelli per la costruzione di nuovi impianti produttivi al 47,6%. Le politiche per supportare la filiera automotive sono considerate le meno urgenti: il rinnovo degli accordi di innovazione del settore automotive si ferma al 43,6% (dodicesima posizione) e gli incentivi per attrarre nuovi assemblatori automotive al 40,4% (quindicesima posizione). Chiudono la classifica la riduzione dell’importo minimo per accedere ai contratti di sviluppo, all’ultimo posto con il 34,8%, e il potenziamento dei dottorati industriali con defiscalizzazione delle assunzioni, in penultima posizione con il 35,9%, quest’ultimo in netto calo di 10,4 punti percentuali rispetto all’anno precedente, segno che questo strumento è percepito come poco efficace o non rispondente alle esigenze immediate delle imprese. L’analisi diventa ancor più ricca e significativa quando incrocia queste preferenze generali con le caratteristiche specifiche delle imprese stesse. Emergono differenze marcate e sistematiche in base a sette fattori distintivi: la dimensione aziendale, l’area geografica della sede operativa principale, il posizionamento nella filiera automotive estesa, la dipendenza da grandi gruppi come Stellantis, la tipologia del controllo societario, la propensione alle esportazioni e l’intenzione a investire nell’elettrificazione. Ad esempio, a livello dimensionale, le micro imprese e le grandi imprese sono generalmente le più favorevoli e interessate a tutte le politiche mentre le medio-grandi mostrano spesso un interesse inferiore alla media. Dal punto di vista geografico le imprese della Lombardia dimostrano un interesse superiore e trasversale per quasi tutte le politiche, riflettendo il suo ruolo di cuore industriale nazionale. Le imprese del Nord-Est e del Sud pongono una maggiore enfasi sul sistema produttivo e le politiche per l’occupazione, dimostrando un’esigenza di rafforzare la capacità produttiva locale e la formazione. Il posizionamento nella filiera è cruciale: le imprese specializzate nell’infrastruttura di rete e quelle dell’aftermarket ritengono rilevanti quasi tutte le tipologie di politiche mentre i fornitori più lontani dagli assemblatori finali (Tier III e oltre) mostrano un interesse sistematicamente inferiore. La dipendenza da Stellantis crea un interessante gradiente: le imprese che dipendono dal gruppo per l’1-25% del fatturato attribuiscono grande importanza alla mobilità elettrica, alla filiera e ai costi energetici, mentre quelle con una dipendenza molto alta (76-100%) mostrano un interesse minore. Le imprese a controllo estero mostrano una particolare attenzione a tutte le iniziative, specialmente la mobilità elettrica e la riduzione dei costi energetici, mentre quelle a controllo italiano sono spesso meno interessate. Infine, le aziende con una bassa propensione all’export (fino al 25%) e, in modo prevedibile ma significativo, quelle che intendono investire nella mobilità elettrica, sono le più supportive verso l’intero ventaglio di politiche proposte, a dimostrazione del fatto che chi è più orientato alla trasformazione ne riconosce la necessità di un supporto sistemico. Il capitolo studia anche l’utilizzo effettivo degli incentivi da parte delle imprese. Emerge un panorama variegato dove gli strumenti più semplici e trasversali sono i più diffusi. Il credito d’imposta per l’acquisto di beni strumentali 4.0 è di gran lunga lo strumento più utilizzato, con il 58,8% delle imprese che ne ha beneficiato. Seguono il credito d’imposta per la ricerca e sviluppo, l’innovazione e il design (38,6%) e la Nuova Sabatini (29,8%). Un significativo 11,6% delle imprese dichiara di non aver utilizzato alcun incentivo, segnalando un possibile gap informativo o difficoltà di accesso. Strumenti più complessi, settoriali o con soglie di investimento elevate registrano un utilizzo marginale: il Patent Box (6,8%), gli Accordi per l’innovazione (9,7%), il Green New Deal italiano (3,1%), il Fondo per la transizione industriale (2,8%) e i Contratti di sviluppo (2,3%) sono utilizzati da una piccola frazione del campione, spesso a causa di requisiti stringenti o di una percezione di lontananza dalle esigenze immediate delle PMI.
2. Uno sguardo più dettagliato sul settore
La transizione in atto nella filiera automotive estesa del Piemonte, storicamente baricentrata nell’area metropolitana di Torino, si configura come un processo di straordinaria rilevanza e criticità, caratterizzato da un marcato ridimensionamento produttivo e da una perdita di centralità strategica all’interno degli assetti emergenti dell’industria globale della mobilità. Il declino della produzione finale di autoveicoli nel Torinese è un fenomeno persistente dalla fine del secolo scorso, con dati che testimoniano un crollo vertiginoso: dagli oltre 500.000 veicoli annui prodotti negli anni ‘90 si è scesi al di sotto della soglia dei 100.000 dal 2010 in poi, con un ulteriore, drammatico crollo nei primi nove mesi del 2024, dove gli impianti torinesi hanno assemblato appena 22.240 veicoli, registrando un calo del 68,4% rispetto allo stesso periodo del 2023. Questo trend negativo è stato amplificato dalla nascita del Gruppo Stellantis, evento che ha portato a un vistoso assottigliamento delle funzioni direzionali e di ricerca un tempo presenti sul territorio. Sebbene recenti annunci progettino per Torino un ruolo come sede della Regione Europa e della divisione Veicoli Commerciali del gruppo, e nonostante il prossimo avvio della produzione della versione ibrida della Fiat 500 a Mirafiori, la tendenza generale sembra orientata verso uno scenario di decentramento, relegando il polo torinese a una missione legata essenzialmente a modelli specifici piuttosto che a funzioni di piattaforma strategica. Il futuro dell’intera industria dei mezzi di trasporto in Piemonte, che pure può contare su un attore globale nei veicoli industriali come Iveco Group, appare sempre più dipendente dalla capacità rigenerativa della filiera della componentistica, da intendersi oggi in un’accezione ampia di filiera estesa, di rinnovare le proprie produzioni capitalizzando competenze storiche e attivando sinergie tecnologiche con altri settori di specializzazione del territorio, quali l’aerospazio, l’elettronica, l’IT, i sistemi di produzione e l’energia. Anche la componentistica, tuttavia, ha subito un’erosione della sua quota nazionale e si trova esposta a una duplice minaccia: la trasformazione tecnologica legata all’elettrificazione, che rappresenta un’opportunità ma anche un rischio esistenziale per le numerose imprese specializzate in componenti per veicoli a combustione interna, e il pericolo di un ulteriore disimpegno di Stellantis. Nonostante molte imprese abbiano cessato l’attività o diversificato il business, sul territorio è rimasto un nucleo resiliente di aziende, capace di diversificare i mercati e dotarsi di strutture dedicate all’innovazione. La fotografia strutturale della filiera, ricavata da un campione di 132 imprese piemontesi (il 33,4% del campione nazionale, a conferma del peso della regione), la descrive come il sistema più articolato e completo d’Italia, sebbene presenti significative lacune in ambiti cruciali per la mobilità elettrica, come la filiera delle batterie e le infrastrutture di ricarica, dove nel campione non sono presenti imprese attive. La struttura dimensionale è composta per un quarto da imprese medie e medio-grandi, simile al resto del Nord, ma con la peculiarità di un’elevatissima concentrazione degli occupati (66,4%) nelle classi dimensionali superiori, a fronte di una distribuzione più omogenea nel resto del Nord. L’altro tratto distintivo è il peso preponderante delle multinazionali a capitale estero, che, pur non essendo numericamente più consistenti che altrove, assorbono il 75,1% degli addetti complessivi. Il 37,1% delle imprese opera come fornitore di primo livello (Tier I), una quota superiore alla media nazionale (31%), e di queste, circa il 60% sono multinazionali, per lo più a controllo estero, delineando una marcata divisione verticale del lavoro tra i grandi gruppi al vertice della filiera e le imprese indipendenti, spesso confinate nel ruolo di subfornitori. La dipendenza commerciale da Stellantis, sebbene ridottasi nel tempo, rimane un tratto distintivo e più marcato che in altre regioni. A livello generale il 75% dei rispondenti piemontesi dichiara una dipendenza nulla o limitata (fatturato con Stellantis <25%), una percentuale comunque inferiore alla media nazionale (83,1%) e ancor più a quella del Nord-Est (92,4%). Il dato diventa significativo se si isolano le sole Tier I: in Piemonte solo il 48% di esse ha una bassa dipendenza, contro l’80% delle Tier I nel Nord-Est. Addirittura il 28% delle Tier I piemontesi ha un’elevata dipendenza (>50% del fatturato), quota che sale al 41% tra le multinazionali a controllo estero, segno di investimenti un tempo attratti dalla presenza dello stabilimento e oggi vulnerabili. Incrociando questo dato con l’esposizione al mercato domestico, emerge che circa il 23% delle imprese piemontesi si trova in una situazione di elevata dipendenza combinata da entrambi i fattori, ovvero dalle commesse domestiche di Stellantis o Iveco.
Le prospettive produttive per il triennio 2024-27 sono nel complesso negative per il Piemonte. Mentre il 33,8% delle imprese prevede una diminuzione della produzione negli stabilimenti italiani, solo il 15,4% si aspetta un aumento, con un saldo negativo di -15 punti, il peggiore tra le macroaree confrontate. In cinque casi specifici questa contrazione in Italia sarà accompagnata da un contemporaneo aumento dell’attività produttiva all’estero, segnando un chiaro trend di delocalizzazione. Riguardo all’impatto percepito della transizione verso i veicoli elettrici, circa il 45% delle imprese piemontesi lo giudica nullo sui prodotti attualmente in portafoglio mentre per il 28,7% l’impatto è almeno medio. La produzione della 500 ibrida a Mirafiori è vista come un fattore in grado di prolungare la vita dei componenti tradizionali ma la direzione di lungo periodo è considerata inevitabile, spostando l’attenzione sulle strategie di innovazione. La propensione a investire nel prossimo triennio non mostra differenze regionali eclatanti ma in Piemonte e Lombardia l’area del “disimpegno” (nessun investimento previsto) è più estesa. Solo un terzo delle imprese intende investire specificamente per il segmento EV. Un dato particolarmente significativo è che il 77,3% delle imprese che subiscono un alto impatto dall’elettrificazione investirà ma solo il 32% di queste lo farà proprio nel campo dei veicoli elettrici. La maggior parte si orienterà verso innovazioni “neutre” o per altre motorizzazioni, suggerendo una possibile path dependence tecnologica, difficoltà oggettive di riconversione o una scommessa sul futuro di ibridi e combustibili innovativi. Analizzando nel dettaglio le caratteristiche degli investimenti, il 39,4% delle imprese piemontesi non investirà né in innovazione di prodotto né di processo, una quota superiore alla media. In Piemonte il 35,5% di queste imprese “disimpegnate” sono fornitrici di primo livello (Tier I). Tra le imprese che innovano gli investimenti sono per il 75% destinati a componenti “neutri”. Solo il 31,7% degli innovatori destinerà esplicitamente i nuovi prodotti ai veicoli full electric mentre sono solo cinque le imprese che investiranno nelle infrastrutture di ricarica, un segnale timido ma significativo per un settore poco sviluppato nella regione. L’attività di Ricerca e Sviluppo è svolta dal 60,7% delle imprese piemontesi, una percentuale leggermente inferiore ad altre aree. Per quelle che la fanno, l’orientamento verso il settore automotive è fortissimo (87,4% della spesa R&S). Un dato preoccupante è che meno della metà (45,5%) delle imprese ad alto impatto elettrico continui a svolgere R&S per l’auto, indicando un potenziale riorientamento del business. L’approfondimento sull’occupazione nella filiera automotive piemontese si articola su tre obiettivi analitici principali: la composizione qualitativa del lavoro, l’impatto atteso dell’elettrificazione e le difficoltà di reperimento delle figure professionali. L’analisi delle caratteristiche qualitative si basa su due concetti operativi fondamentali, ovvero il livello di istruzione dei dipendenti e la loro distribuzione nelle aree aziendali a maggiore intensità di conoscenza. Rispetto al panorama nazionale, il Piemonte presenta un quadro peculiare e apparentemente contraddittorio. A livello aggregato la forza lavoro regionale si distingue per un’elevata quota di laureati che rappresentano il 26,3% del totale contro una media nazionale del 21,3% e per un’alta incidenza di addetti nelle aree knowledge-intensive (32,4% contro il 24,7% nazionale), come ricerca e sviluppo, servizi avanzati e IT. Questa rappresentazione cambia radicalmente quando si osservano i valori medi per impresa. In media le aziende piemontesi presentano una percentuale di dipendenti laureati inferiore (16,4%) a quella di regioni come l’Emilia-Romagna (22,8%) o l’aggregato “Altre regioni” (27,7%) e una quota di knowledge worker (25,9%) al di sotto della media nazionale (30%). Questa divergenza tra dati aggregati e medie aziendali svela la specificità strutturale del cluster piemontese: una spinta polarizzazione e concentrazione delle competenze. I lavoratori più qualificati non sono distribuiti omogeneamente, bensì concentrati in un numero circoscritto di imprese, prevalentemente di grandi dimensioni, operanti come Tier 1 (fornitori di primo livello) e, in misura preponderante, sotto il controllo di multinazionali estere. Infatti l’82,2% dei laureati e l’84,5% dei knowledge worker totali in Piemonte sono impiegati in Tier 1 mentre il 77,7% dei laureati dipende da multinazionali a capitale estero. Questo modello crea una filiera duale con un ristretto nucleo di imprese ad altissima intensità cognitiva che presidia lo sviluppo del prodotto e, dall’altro, una vasta base di piccole e medie imprese, spesso operanti nella produzione di componenti in metallo, gomma e plastica, caratterizzate da una forza lavoro con livelli di istruzione mediamente più contenuti e ancorate a logiche manifatturiere più tradizionali. Questa struttura polarizzata influisce profondamente sulle previsioni riguardanti l’impatto occupazionale della transizione all’elettrificazione. Nel complesso il saldo previsto per il triennio 2024-2027 è fortemente negativo in Piemonte (-14,1%), in netto contrasto con le altre macroregioni che mostrano saldi positivi. Circa il 22% delle imprese prevede una contrazione dell’organico, a fronte di solo l’8% che prevede un’espansione. Se la stima quantitativa delle perdite appare contenuta (circa -215 unità), il dato qualitativo è significativo. Le contrazioni sono attese principalmente nelle aree della produzione diretta e indiretta e nei servizi generali amministrativi, dove si ritiene che l’automazione e nuovi software gestionali avranno un impatto maggiore della transizione tecnologica stessa. L’unica area con un saldo positivo è quella di ricerca e sviluppo e innovazione, segnale di un orientamento a investire nel “lavoro vivo” dell’innovazione. Tuttavia, anche in questo caso il saldo piemontese (+3,1) è molto inferiore a quello del Centro-Sud (+33,9), il che potrebbe indicare sia che il nucleo innovativo regionale abbia già raggiunto una massa critica, sia una certa cristallizzazione della divisione del lavoro che frena l’espansione di queste funzioni al di fuori delle grandi imprese già consolidate. Il tema della polarizzazione emerge con forza anche nell’analisi delle difficoltà di reperimento del personale. Quasi la metà (48,3%) delle imprese piemontesi non segnala criticità ma questo dato va interpretato alla luce degli investimenti programmati: le aziende senza difficoltà di reclutamento sono molto spesso le stesse che non intendono innovare o assumere. Il 58% delle imprese impegnate nell’innovazione attiva dichiara difficoltà in almeno due aree su sei. I profili più critici da trovare sono, coerentemente con la transizione, quelli altamente specializzati destinati alla ricerca, all’ingegnerizzazione e alla progettazione, seguiti dai tecnici e operai specializzati per le attività di produzione indiretta (manutenzione, impiantistica, logistica), la cui carenza è un problema strutturale e preesistente.
La filiera automotive lombarda si configura come un ecosistema industriale di primaria importanza nonostante l’assenza, ormai storica, di assemblatori finali di autovetture, un ruolo un tempo ricoperto dagli stabilimenti di Arese e Lambrate e oggi limitato ai veicoli industriali di Iveco. La sua forza risiede in un tessuto produttivo estremamente articolato e complesso, composto da circa 30.000 imprese che impiegano quasi 100.000 addetti, sebbene la maggior parte di queste sia attiva nella riparazione e nel commercio mentre il campione in esame si concentra specificamente sulla componentistica. Questo comparto, sostenuto dalla presenza di colossi internazionali come Pirelli, colloca la Lombardia al secondo posto in Italia per dimensioni e rilevanza strategica del suo indotto automotive. La ricerca, condotta su un campione di 99 aziende lombarde (pari al 24,9% del totale nazionale), rivela una geografia produttiva concentrata nel triangolo industriale Brescia (24 aziende), Milano (23) e Bergamo (16), con un’ampia rappresentanza anche dalle province di Monza-Brianza, Lecco e Varese. La struttura dimensionale è variegata, spazia da 9 grandi imprese (fatturato superiore a 150 milioni) a 17 medio-grandi, 29 medie, 32 piccole e 12 micro-imprese. Un dato cruciale emerso è che per molte di queste realtà l’automotive non costituisce l’unico business. Per 48 aziende assorbe oltre il 75% della forza lavoro ma per 36 il suo peso è più marginale, inferiore al 10%. Allo stesso modo, in termini di fatturato, per 45 aziende l’automotive rappresenta più del 75% del giro d’affari mentre per 27 si attesta al 25% o meno. La loro posizione nella catena del valore è prevalentemente quella di fornitori di secondo livello (Tier II, oltre il 40%), seguite da Tier I (19%) e specialisti aftermarket (13%). Nonostante un periodo di profonda trasformazione e crisi del settore, l’outlook delle imprese lombarde per il triennio 2024-27 è di un cauto ottimismo, segnato da una notevole resilienza. Rispetto al 2021 43 aziende hanno visto aumentare il proprio fatturato, a fronte di 18 che hanno registrato un calo. Questo dato, in parte influenzato da un possibile “bias di sopravvivenza” (le aziende in maggiore difficoltà potrebbero aver cessato l’attività), si riflette nelle previsioni future: la maggior parte del campione non prevede variazioni significative nella produzione e nell’occupazione negli stabilimenti italiani mentre per gli impianti esteri si delinea una tendenza alla crescita, con il 60% delle aziende che prevede un aumento della produzione fuori dai confini nazionali. Un elemento simbolo del cambiamento epocale è il progressivo disancoraggio da Stellantis. Per la stragrande maggioranza delle aziende (59) il gruppo non è più un cliente e solo per 6 rappresenta la fonte principale di fatturato. Quasi la metà delle aziende (48) prevede di sviluppare nuovi prodotti o servizi entro il 2027 e di queste 29 concentreranno gli investimenti specificamente sull’elettrificazione. Parallelamente 43 aziende investiranno in innovazione di processo, con 18 focalizzate sui processi legati al veicolo elettrico. L’impatto percepito di questa transizione è multidimensionale. Le aziende identificano la necessità di modificare il portafoglio prodotti come la sfida principale (punteggio 2,51 su 5), seguita dall’accesso a incentivi statali (2,39), dal cambiamento delle competenze dei dipendenti (2,34) e dalla capacità di reperire risorse finanziarie (2,27). Gli investimenti in sviluppo di prodotto sono diversificati. Una fetta consistente (21,2%) è destinata a componenti tradizionali ma trasversali come sospensioni e freni mentre il motore elettrico e le infrastrutture di ricarica assorbiranno ciascuno il 7,6% degli investimenti. Un dato significativo è che per il 38,6% delle aziende la destinazione finale di questi investimenti è ancora incerta, a testimonianza dell’elevato grado di incertezza sul futuro mix di alimentazione dei veicoli. L’impatto sull’attuale portafoglio prodotti è variabile. Per il 44% delle aziende sarà nullo ma per un 10% sarà devastante, rendendo obsoleti oltre la metà dei prodotti attuali. Per adattarsi la strategia principale intrapresa da 29 aziende è stata un percorso di adattamento delle competenze tecnologiche e del know-how. Le principali barriere all’innovazione per l’elettrico sono la mancanza di commesse dai clienti abituali sulle nuove tecnologie (2,96), la difficoltà a trovare personale qualificato (2,84) e l’accesso a nuovi clienti (2,82). La carenza di competenze è infatti una criticità assoluta, particolarmente acuta nelle aree di progettazione, R&S e test (segnalata da 30 aziende). Per colmare questo gap le strategie formative più gettonate sono l’organizzazione di corsi interni (61 aziende) e il training on the job (55 aziende). Infine il ruolo del settore pubblico è ritenuto cruciale. Le aziende attribuiscono la massima importanza agli incentivi per ridurre i costi energetici (4,0) e per l’utilizzo di fonti rinnovabili (3,9), vedendo in queste misure un supporto fondamentale per navigare la complessa transizione.
Il settore automotive del Triveneto (Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Trentino-Alto Adige) si inserisce in un contesto economico regionale caratterizzato da una solida base manifatturiera e da una spiccata propensione all’export, nonostante una crescita del Pil nel 2023 leggermente inferiore alla media nazionale. Questo panorama eterogeneo ma complementare fa da cornice a una filiera automotive estesa che, con le sue 233 imprese, rappresenta l’11% del totale nazionale, collocando il Nord-Est al quarto posto in Italia dopo Piemonte, Lombardia ed Emilia-Romagna. La distribuzione regionale è fortemente squilibrata a favore del Veneto che da solo ospita il 78% delle aziende (182), seguito da Friuli-Venezia Giulia (12%, 27 imprese) e Trentino-Alto Adige (10%, 24 imprese). Una disamina geografica più fine rivela concentrazioni provinciali specifiche: Vicenza, Padova e Treviso sono i poli veneti, Pordenone e Udine dominano in Friuli mentre Trento raccoglie i due terzi delle attività trentine. Il fatturato complessivo della filiera nel Triveneto ammonta a 11,88 miliardi di euro, contribuendo per il 10% al totale nazionale. Anche in questo caso il Veneto è il motore principale, generando da solo il 6% del fatturato nazionale del settore, mentre Friuli e Trentino contribuiscono ciascuno per un ulteriore 2%. L’analisi della performance 2019-2022 mostra una crescita positiva del +13% per la macroarea ma nasconde dinamiche regionali molto diverse. Il Friuli-Venezia Giulia ha registrato un boom del +42%, il Trentino-Alto Adige una crescita moderata del +10% mentre il Veneto, pur essendo il più grande, è cresciuto più modestamente (+7%). La morfologia aziendale riflette il tipico panorama italiano, con una prevalenza di imprese medie (34%), piccole (27%) e micro (20%), mentre le medio-grandi e grandi costituiscono insieme il 19% del tessuto imprenditoriale. Un dato significativo riguarda il controllo aziendale. Il 20% delle imprese del Nord-Est è sotto controllo estero, una percentuale non trascurabile che indica un certo grado di integrazione con capitali internazionali. La specializzazione produttiva della filiera è piuttosto variegata. La produzione di mezzi di trasporto è il settore più rappresentato in termini numerici (32% delle aziende), sebbene contribuisca solo al 16% del fatturato regionale. Il comparto più profittevole è invece quello dell’elettronica ed elettricità che pur rappresentando solo il 12% delle aziende genera il 24% del fatturato del Triveneto. Seguono, per numerosità, le lavorazioni dei metalli (24% delle aziende) e gli “altri comparti” (18% delle aziende) che sono anche il principale datore di lavoro con il 28% degli addetti. Gomma/plastica/chimica e produzione metalli sono i settori meno rappresentati. A livello regionale il Veneto eccelle in elettronica (23% del fatturato regionale) mentre il Friuli-Venezia Giulia spicca nella produzione di metalli (13% del fatturato macroregionale). Sul fronte dell’internazionalizzazione le imprese del Triveneto mostrano valori di export leggermente più bassi del resto d’Italia. L’intensità export/fatturato per le esportazioni globali è passata dal 33% al 36% tra il 2019 e il 2022, contro una media nazionale salita dal 31% al 37%. Significativamente, l’export verso la Germania, principale cliente italiano, è cresciuto solo del 4% nell’area, con un’intensità rimasta ferma al 9%, a indicare una minore dipendenza dal mercato tedesco rispetto al resto del Paese. I risultati dell’indagine condotta nel 2024 su un campione di 42 aziende del Triveneto (18% del totale, in linea con il tasso nazionale) rivelano ulteriori caratteristiche. Il posizionamento nella catena del valore vede una netta predominanza di fornitori di secondo livello (Tier II, 48%), una minore presenza di Tier I (21%) rispetto alla media italiana e una significativa specializzazione nell’aftermarket (17%, contro il 10% nazionale). Riguardo alle strategie di internazionalizzazione produttiva, solo il 7% delle imprese ha attualmente sedi all’estero e una percentuale analoga prevede di aprirne entro il 2027. Nonostante un contesto nazionale previsionale negativo, le aziende del Triveneto si distinguono per un ottimismo cauto, prevedendo una crescita della produzione del +2,36% e dell’occupazione dello +0,38% nel triennio 2024-2027. Il capitolo dell’innovazione presenta un quadro contraddittorio. Da un lato la propensione all’investimento in R&S è alta (63% delle imprese investe per l’automotive, la percentuale più alta in Italia), dall’altro l’entità degli investimenti è modesta (media del 2% del fatturato per R&S generale e dell’1,5% per automotive, le quote più basse a livello nazionale). Questo si riflette nella capacità brevettuale: con 58 brevetti il Triveneto detiene solo il 5,2% del totale nazionale, piazzandosi al quinto posto. L’elettrificazione delle auto è percepita come una sfida che impone soprattutto un cambiamento delle competenze di processo (rilevante per il 28% dei rispondenti) e del portafoglio prodotti (26,2%) mentre il bisogno di cambiare le competenze dei dipendenti è considerato poco urgente dal 61,9% delle aziende. Guardando al futuro il 76% delle imprese del Nord-Est (la percentuale più alta in Italia) intende sviluppare nuovi prodotti/servizi per l’elettrificazione. La maggior parte degli investimenti (64%) rimane concentrata su “componenti invarianti” (interni, carrozzeria, sospensioni) mentre solo il 13% è destinato a componenti specifici per veicoli elettrici e un misero 4% allo sviluppo software. La modalità di sviluppo preferita è quella interna (65%) mentre collaborazioni e acquisizioni sono considerate poco rilevanti. La destinazione finale di questi sviluppi conferma una transizione ancora agli albori: il 39,9% del fatturato da nuovi prodotti è previsto per veicoli a combustione interna (ICE), il 24,4% per ibridi e solo il 14,1% per veicoli full electric. Coerentemente, quasi la metà delle aziende (45,2%) è convinta che il proprio portafoglio sia già totalmente adattabile all’elettrico mentre solo una minoranza (16,7%) prevede un’obsolescenza superiore al 50% dei propri prodotti. La strategia di adattamento privilegiata è un percorso graduale di adattamento delle competenze (52,2%).
L’Emilia-Romagna rappresenta un caso peculiare nel settore automobilistico italiano. La sua industria automotive non coincide semplicemente con il segmento di alta gamma della Motor Valley, che pure occupa una posizione di primo piano, ma convive con un ecosistema articolato che include imprese di componentistica di primo rango, una fitta rete di PMI fornitrici e produttori di veicoli speciali per la movimentazione delle merci. Questa struttura mista implica che la doppia transizione, digitale e verde, presenti rischi differenziati: se i produttori finali del lusso potrebbero subire impatti contenuti, l’intera filiera, e in particolare la componentistica di livello inferiore, si trova ad affrontare la minaccia concreta derivante dalla minore necessità di componenti per i propulsori elettrici rispetto a quelli a combustione interna, unita all’aggressiva concorrenza dei produttori asiatici. A questi rischi industriali si somma l’imperativo di colmare il divario di competenze e gestire la riqualificazione della forza lavoro, necessaria sia per la riconversione elettrica che per l’upgrade digitale e tecnologico, delineando nuove sfide sociali ed economiche per gli attori istituzionali e il sistema di relazioni industriali, chiamati a un inedito ruolo di regia. Per delimitare e descrivere compiutamente questo comparto il libro presenta una pluralità di approcci metodologici. Un primo metodo basato sul codice ATECO 29 (fabbricazione di autoveicoli) identifica 352 imprese attive nella regione. Il consorzio ART-ER, distinguendo tra un core (ATECO 29) e una definizione più ampia (ATECO 29+30 che include tutti i mezzi di trasporto), fornisce numeri più articolati. Il core conta 388 imprese, 686 unità locali, 19.209 addetti, un fatturato di 12,4 miliardi di euro e export per 9,8 miliardi, cifre che rappresentano una percentuale significativa del totale nazionale (dal 12,5% delle imprese al 21,4% dell’export), delineando il profilo di un settore orientato all’export e ad alto valore aggiunto. Questo approccio risulta troppo restrittivo poiché esclude aziende della filiera classificate sotto altri codici ATECO e quelle legate alla nuova mobilità elettrica. Per ovviare a questo limite viene utilizzato il database dell’Osservatorio sulle Trasformazioni dell’Ecosistema Automotive (OTEA) che ricostruisce l’intera filiera. Questo censimento identifica 249 imprese in Emilia-Romagna (l’11,55% del totale Italia), di cui 80 operano direttamente nella produzione di mezzi di trasporto. L’analisi OTEA rivela una struttura dimensionale dominata da piccole e medie imprese (il 63,6% del totale, contro una media nazionale del 59%), il cui contributo al fatturato regionale (25,22%) è però di gran lunga superiore a quello nazionale (16,06%), segnale di un tessuto produttivo di PMI solide e specializzate. Inoltre il database conferma la forte vocazione internazionale della filiera. Se le aziende che esportano oltre il 50% del fatturato sono il 25,6% del totale, esse generano ben il 57,49% del fatturato complessivo regionale, a fronte di un dato nazionale del 39,71%. Un terzo approccio, proposto da Unioncamere Emilia-Romagna, cerca di ricostruire l’intera filiera regionale suddividendola in sei stadi (quattro produttivi e due terziari) e stimando l’incidenza di ogni settore fornitore non esclusivo. Questo modello stima il core automotive regionale in 16.872 unità locali e 71.107 addetti, pari al 10,2% del totale nazionale e a circa il 3,5% dell’occupazione totale regionale. La filiera puramente produttiva conta 2.485 unità locali e 32.230 addetti (il 12,5% del dato nazionale), con un rapporto tra addetti alla produzione e addetti alla distribuzione di quasi 1 a 2, molto più alto del rapporto nazionale di 1 a 3, a conferma di una spiccata vocazione manifatturiera. La composizione della filiera mostra peculiarità territoriali. Lo stadio delle “lavorazioni finali” (assemblaggio) impiega 12.209 addetti, il 38% del totale regionale e ben il 17,8% del totale nazionale, riflettendo il peso dei grandi produttori di veicoli. Le “lavorazioni intermedie” (componentistica) impiegano il 30% degli addetti regionali, una quota inferiore al 40% nazionale, e sono caratterizzate da unità produttive più piccole (15 addetti in media contro 20 nazionali), segno di un tessuto di piccole imprese artigianali operanti in un modello di specializzazione flessibile. L’analisi del mercato del lavoro tra il 2008 e il 2023, condotta sui dati del Sistema Informativo Lavoro Emilia-Romagna (SILER), rivale un quadro in profonda trasformazione nonostante una variazione occupazionale netta sostanzialmente stabile. La dinamica delle assunzioni è dominata dal contratto di somministrazione che si mantiene costantemente sopra il 50% del totale. Trend opposti caratterizzano i contratti a tempo indeterminato, la cui incidenza è cresciuta dal 19,4% al 28,5%, e quelli a tempo determinato, scesi dal 21,6% al 13,7%. L’analisi per mansioni rivela una chiara polarizzazione della forza lavoro visto che si registra un calo significativo delle assunzioni per gli operatori di impianti e macchinari mobili (dal 35,8% al 27%) e per le professioni tecniche (dal 16,6% al 12,4%), contro un forte aumento delle assunzioni nelle professioni intellettuali, scientifiche e di alta specializzazione (dal 4,5% all’11,7%) e, all’estremo opposto, del personale non qualificato (dal 12,2% al 19%). Le professioni più richieste sono ingegneri meccanici, assemblatori, disegnatori e meccanici motoristi, con competenze specifiche in troubleshooting, applicazione di standard di qualità e lettura di disegni tecnici. Questo dato smentisce l’idea che la digitalizzazione stia causando perdite occupazionali nette ma ne conferma l’impatto trasformativo sulle skill richieste. La durata media dei contratti, infine, disegna un mercato del lavoro profondamente segmentato. I contratti a tempo indeterminato durano in media 1.521 giorni mentre quelli di somministrazione solo 125 giorni. Una disparità che si riflette anche per mansione, dove un lavoratore non qualificato ha un rapporto di lavoro medio di 211 giorni, cinque volte inferiore a quello di un professionista altamente specializzato (1.027 giorni), fotografando un settore con un nucleo stabile di alto profilo e una periferia di manodopera precaria e turnover elevato, un dualismo che risulta ancor più marcato proprio nei grandi marchi del lusso.
Le interviste con i key informants descrivono qualitativamente i processi trasformativi nel settore automotive emiliano-romagnolo, integrando l’analisi statistica e individuando tre assi principali: le trasformazioni tecnologiche e il rinnovo delle competenze, l’impatto differenziato della transizione elettrica e il ruolo cruciale degli attori socio-istituzionali. Rispetto alla digitalizzazione e all’Industria 4.0, il settore è investito da tempo da processi di innovazione che riguardano sia i prodotti, con un focus sullo sviluppo di advanced driver assistance systems (ADAS) e software-defined vehicles, sia i processi produttivi, dove si espande il ricorso all’intelligenza artificiale nella fase di design di veicoli e componenti e all’interconnessione dei macchinari per il monitoraggio istantaneo e l’ottimizzazione risorse. La velocità di queste trasformazioni non è uniforme ma dipende dalle possibilità finanziarie delle singole imprese. La presenza di costruttori finali nei segmenti del lusso e dei veicoli commerciali ha permesso alla filiera di differenziarsi e orientarsi verso alti standard qualitativi, favorendo in alcuni casi rapporti di cooperazione avanzata che vanno oltre la semplice fornitura, come la co-progettazione di componenti attraverso collaborazioni tra reparti R&S. Gli investimenti in tecnologie di prototipazione consentono una standardizzazione dei processi di sviluppo e riducono la necessità di prove fisiche, rafforzando la posizione di mercato dei fornitori. Nell’automazione gli investimenti recenti sono orientati verso processi che richiedono manodopera specializzata, come la saldatura, e verso la prototipazione e produzione in piccole serie con strumentazione di additive manufacturing (stampanti 3D). Questi processi tecnologici sono spesso accompagnati da cambiamenti organizzativi legati all’intensificazione della lean production. Le conseguenze sulla forza lavoro sono significative poiché l’automazione ha ridotto la necessità di manodopera in alcune fasi ma ha al contempo rafforzato la competitività delle imprese. Innesca dinamiche di standardizzazione delle competenze che ridimensionano il ruolo della manodopera specializzata, rendendo accessibili le postazioni robotizzate a operatori generici, mentre parallelamente richiedono un innalzamento generale delle competenze informatiche degli operatori, con necessità di conoscenze specialistiche nella gestione di sistemi, elaborazione di big data, risoluzione di problemi di connettività e cybersecurity. Si assiste quindi a una svalutazione di competenze meccaniche tradizionali d’officina e a una crescente richiesta di nuove competenze ingegneristiche specializzate, sempre più generate attraverso una stretta collaborazione tra aziende e università. Contrariamente alla digitalizzazione, le tendenze verso la decarbonizzazione e l’adozione di veicoli a batteria elettrica (BEV) rischiano di avere conseguenze più destabilizzanti per il settore, sebbene contenute rispetto al panorama nazionale. Gli OEM regionali sono colpiti limitatamente perché si rivolgono a mercati extra-europei esenti dalle restrizioni europee e perché le produzioni in piccoli volumi, come quelle del luxury, sono dispensate dagli step intermedi di riduzione delle emissioni, pur dovendo adeguarsi entro il 2035. In questo segmento l’elettrificazione (con modelli PHEV e BEV) è vista come un’opportunità per ampliare l’offerta di motorizzazioni, affiancandole a quelle tradizionali senza una sostituzione esplicita. Discorso profondamente diverso vale per il comparto della componentistica inserito nelle reti delle case automobilistiche generaliste, dove si registra una condizione di sostanziale immobilismo nonostante la presenza sul territorio di aziende del comparto elettrico ed elettronico. Questo immobilismo è attribuito al recente periodo di intensa attività legata alla produzione per veicoli a motore endotermico, specialmente per le imprese nelle catene del valore dell’industria tedesca. L’attuale crisi del gruppo Volkswagen e dell’automotive tedesco ha impatti differenziati. Gli OEM emiliano-romagnoli appartenenti al conglomerato tedesco paiono conservare autonomia e alti investimenti, sebbene questi possano subire rallentamenti, mentre le aziende della componentistica che servono i produttori tedeschi (una quota significativa che occupa fino a 4.000 addetti, circa il 20% della forza lavoro regionale) subiscono già le ripercussioni, con un ricorso crescente ad ammortizzatori sociali e procedure di mobilità. Ancora più a rischio è la situazione delle aziende della componentistica nelle catene di fornitura del gruppo Stellantis (circa un terzo delle imprese della filiera), dove il ricorso agli ammortizzatori sociali è diventato massiccio, al punto che senza deroghe si rischierebbe una vasta ondata di licenziamenti. In questo contesto le imprese che hanno investito nello sviluppo tecnologico appaiono più protette e con maggiori capacità di diversificazione produttiva, in particolare verso il settore aerospace, riconosciuto ad alto potenziale. Alcune aziende automotive, specializzate in tecnologie e lavorazioni meccaniche di precisione, possiedono già le risorse per produrre per il mercato di droni e satelliti. L’inserimento in questa filiera, che richiede specifiche certificazioni, reparti R&S strutturati e capacità progettuali, potrebbe implicare un arretramento nelle catene del valore, nonostante la parziale comunanza tecnologica tra i due settori. La filiera rimane dunque esposta ai rischi della transizione verde, con gli OEM regionali che tendono a fare sempre più affidamento su filiere estere, ritenendo quella locale non ancora pronta. Appare quindi evidente la necessità di un intervento di supporto alla riconversione che favorisca il coordinamento tra imprese e l’accesso ai finanziamenti, un ruolo che la Regione Emilia-Romagna ha già svolto in altri settori, come nell’aerospace, ma non ancora su larga scala per l’automotive. Il Patto per il Lavoro e per il Clima del 2020 e il contributo alla risoluzione di crisi aziendali rappresentano passi importanti in questa direzione. Le organizzazioni sindacali regionali sono abituate a svolgere un ruolo proattivo nell’orientare gli investimenti e tutelare i lavoratori, con un modello negoziale che va oltre la contrattazione salariale per includere l’organizzazione del lavoro e forme di contrattazione inclusiva e “di sito” per estendere le tutele anche ai lavoratori in somministrazione. Nel settore prevale un clima collaborativo con una forte contrattazione di secondo livello, dove le nuove tecnologie possono diventare oggetto di dialogo, specialmente dove i rappresentanti sindacali svolgono mansioni specializzate legate a quelle tecnologie. La sfida per il sistema di relazioni industriali è quindi di accompagnare la doppia transizione prevenendo gli esiti più nefasti per i lavoratori, anche attraverso cooperazioni transnazionali come quella tra Fiom-CGIL Emilia-Romagna e il sindacato tedesco IG Metall, avviata nel 2014, che permette di approfondire l’uso di strumenti come la Carta globale dei rapporti di lavoro del gruppo Volkswagen e la legge tedesca sulla due diligence nelle catene di fornitura.
La componente automotive meridionale affonda le sue radici storiche negli anni ‘70, legata indissolubilmente alla formazione degli indotti degli stabilimenti di assemblaggio del gruppo Fiat. Il suo sviluppo è stato plasmato da insediamenti come Cassino, Termini Imerese, la Sevel in Val di Sangro e, in seguito, lo stabilimento Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco. Un caso paradigmatico è rappresentato dalla SATA di Melfi, ultimo stabilimento Fiat costruito nel Mezzogiorno a metà degli anni ‘90, che per la prima volta in Italia diede vita a un indotto di primo livello a bordo fabbrica, sebbene composto prevalentemente da aziende di origine piemontese. Al contrario, le fabbriche di motori di Termoli, Foggia e Pratola Serra non hanno mai generato un tessuto di fornitori locale, dipendendo da sempre da componenti provenienti dal Centro Nord e dall’estero. Questo processo storico ha favorito la nascita di imprese, spesso fondate da ex-dipendenti Fiat, specializzate in secondo e terzo livello o nella fabbricazione di impianti di automazione, sebbene poche realtà propriamente meridionali siano riuscite ad assumere una rilevanza nazionale o internazionale, con le significative eccezioni di gruppi come PROMA, PRIMA SOLE e ADLER. Le specializzazioni produttive che si sono sviluppate, spesso in prossimità degli stabilimenti, hanno riguardato in particolare gli stampaggi meccanici e plastici e, più recentemente, produzioni meccatroniche per auto e veicoli commerciali, concentrate soprattutto nell’indotto abruzzese della Sevel e nel distretto della meccatronica in provincia di Bari. Dal punto di vista territoriale, il settore rimane fortemente concentrato nelle province di Frosinone, Napoli, Avellino, Potenza e in parte Bari mentre l’esperienza siciliana di Termini Imerese, chiuso nel 2011, è sempre rimasta marginale. Oggi le realtà più significative, inclusa l’ex Magneti Marelli, sono per lo più sotto il controllo di gruppi esteri. I dati quantitativi dell’Osservatorio TEA confermano questa forte concentrazione geografica. Su circa 2.400 imprese nazionali del settore, poco meno di 300 sono localizzate nel Mezzogiorno (234 escludendo il Lazio, la cui provincia di Frosinone è inclusa per contiguità territoriale con gli stabilimenti Stellantis di Pomigliano e Termoli). Queste rappresentano circa il 10% del totale nazionale. Campania e Abruzzo ospitano da sole oltre la metà di queste aziende (27% e 25,7% rispettivamente) mentre le isole, la Calabria e il Molise risultano residuali. Il dato occupazionale, stimato intorno ai 30.000 addetti per il Sud (circa il 10% del totale nazionale), vede l’Abruzzo in testa con oltre 11.000 addetti, seguito dalla Campania con circa 6.000. La struttura dimensionale è dominata da piccole e medie imprese. I due terzi hanno tra 10 e 49 dipendenti e solo il 10% supera i 250 addetti, con le aziende più grandi ubicate principalmente in Abruzzo e Puglia.
La classificazione per codice ATECO rivela un panorama estremamente polverizzato e frammentato. Le prime 12 attività coprono solo il 35,8% del totale. La riaggregazione per macro-attività permette di identificare le lavorazioni metalliche (12,5% delle imprese) come il segmento principale, seguito dalla fabbricazione di apparecchiature elettriche ed elettroniche (6,9%), impianti, macchinari e robot (6,9%), componenti plastici (6,6%) e lavori di meccanica generale (6,2%). Queste prime otto macro-attività coprono complessivamente la metà dell’universo imprenditoriale indagato. Dal punto di vista della destinazione finale, la stragrande maggioranza delle aziende (71,3%) produce per il segmento veicoli (auto e commerciali) mentre il 10,5% è dedicato alle infrastrutture di ricarica, segnando una risposta alla transizione tecnologica. L’andamento dei ricavi tra il 2021 e il 2023 per le 241 aziende per cui i dati erano disponibili mostra una crescita complessiva del 30%, per un valore di oltre 2 miliardi di euro. Questa performance positiva è trainata in particolare dalle aziende di componenti elettronici (+65,9%), lavorazioni metalliche (+56,5%) e produzione di componenti in gomma, vetro e tessuto-non tessuto (+55,3%) mentre il comparto dei servizi ingegneristici ha subito una contrazione dell’80%. L’analisi del commercio estero (codice ATECO CL293) evidenzia per il Mezzogiorno un notevole dinamismo. Il valore dell’export è quasi raddoppiato in termini di incidenza sul totale nazionale, passando dal 7,3% (1 miliardo di euro) nel 2008 al 12,9% (1,6 miliardi) nel 2023. Le importazioni, invece, hanno mostrato un’incidenza più regolare (intorno al 15%), con un picco tra il 2015 e il 2020 quando raggiunsero un quarto del totale nazionale, spiegabile con l’avvio della produzione di veicoli Jeep a Melfi che richiese l’importazione massiccia di motori e componenti dagli Stati Uniti. Il saldo della bilancia commerciale è storicamente negativo, fatta eccezione per il periodo 2011-2014 e per il triennio 2020-2023, quest’ultimo chiuso con un surplus eccezionale di oltre 500 milioni di euro nel 2023. L’export è iper-concentrato in Abruzzo, Campania e Puglia che nel 2023 generavano il 93,2% del valore totale meridionale (erano l’85,6% nel 2008). Tuttavia le dinamiche regionali differiscono. L’Abruzzo beneficia della produzione della SEVEL e della Honda, la Puglia, pur non avendo stabilimenti di assemblaggio auto (ma motori a Foggia), vanta un distretto meccatronico di rilievo con aziende come Magneti Marelli, Bosch e Magna, la Campania, nonostante la presenza di Stellantis a Pomigliano e dello stabilimento motori di Pratola Serra, registra un saldo commerciale strutturalmente negativo. L’analisi geoeconomica delle rotte commerciali nel 2023 mostra come il Mezzogiorno abbia un profilo di import-export distintivo rispetto al resto d’Italia. Le sue importazioni provengono per il 60,2% dall’UE (contro una media nazionale del 74,4%) ma con quote ben superiori alla media dal Nord America (11,4% vs 2,7%) e dall’Asia orientale (15,8% vs 9,8%). L’export meridionale è destinato per il 68,6% all’UE e per il 13,8% al Centro-Sud America (principalmente Brasile), il doppio della media nazionale. Un dato particolarmente significativo è la crescita delle importazioni dal Nord Africa, passate dall’1,3% del 2008 al 4,9% del 2023 a livello nazionale, un trend che riflette la chiara strategia del gruppo Stellantis di orientare la propria catena di fornitura e gli investimenti verso quei paesi, dove ha recentemente annunciato nuovi e significativi insediamenti produttivi in Marocco e Algeria. Quest’ultimo punto sottolinea la profonda dipendenza del sistema della fornitura meridionale dalle decisioni di Stellantis e delinea una delle sfide più cruciali nella transizione tecnologica in atto. La produzione automobilistica nazionale nel 2024 ha segnato un minimo storico, regredendo ai volumi del 1955, con il solo gruppo Stellantis che è sceso sotto la soglia simbolica dei 300.000 veicoli. Un valore che, anche includendo le produzioni di nicchia di Ferrari, Lamborghini e Pagani, riesce appena a superare di poco tale soglia, delineando un quadro industriale estremamente critico. Questo tracollo ha interessato tutti gli stabilimenti del gruppo ma in modo particolarmente drammatico quello di Melfi, la cui produzione è crollata per la prima volta sotto le 100.000 unità, un dato che riflette l’enormità della crisi. Questa contrazione generalizzata, peraltro in linea con le dinamiche negative osservate in altri paesi europei come la Germania, ha acuito la vulnerabilità dell’intera filiera, portando sotto i riflettori la situazione dei fornitori più esposti alle commesse di Stellantis. La reazione delle imprese fornitrici è stata, ove possibile, orientata verso una strategia di diversificazione del portafoglio clienti e prodotti, spingendosi verso settori diversi dall’auto o verso veicoli speciali, pur con volumi inferiori. Questa opzione non è percorribile per tutti. I fornitori di primo livello, spesso storicamente mono-committenti e localizzati a bordo stabilimento per servire gli impianti di assemblaggio, sono i più in difficoltà. Queste aziende, analogamente a Stellantis stessa, hanno fatto ampio ricorso alla cassa integrazione negli ultimi anni e hanno recentemente iniziato ad adottare politiche di incentivi alle dimissioni volontarie, segno di una crisi profonda e strutturale. Le criticità assumono connotati specifici per quelle aziende specializzate in componenti per la motorizzazione endotermica, come il distretto meccatronico in provincia di Bari. La loro vulnerabilità è amplificata dal fatto che spesso si tratta di filiali di grandi gruppi esteri (come Bosch o Magna), i cui investimenti e decisioni sulle nuove produzioni sono dettati dalle sedi centrali in Germania o Austria, che in fase di crisi tendono a proteggere gli impianti domestici. Una problematica simile, seppur con dinamiche diverse, interessa lo storico stabilimento Marelli di Bari, che dopo la cessione da FCA ai giapponesi di Calsonic Kansei si trova ormai fuori dall’orbita diretta di Stellantis. Tradizionalmente la componentistica del Mezzogiorno ha sempre mostrato una dipendenza strutturale dalla committenza di Fiat, poi FCA e oggi Stellantis. Sebbene questo non abbia impedito la crescita di alcune imprese locali che si sono espanse a livello nazionale e internazionale attraverso acquisizioni, quest’ultime scontano comunque una minore diversificazione rispetto ai competitor, spesso compensata solo parzialmente dall’essere entrate nelle forniture di altri gruppi europei. La crisi attuale, tuttavia, sembra originarsi più dai ritardi e dalla debolezza degli investimenti di Stellantis e dalle aggressive strategie di approvvigionamento low-cost promosse dall’amministrazione Tavares che non dalla transizione verso l’elettrico in sé. Questo perché, fatta eccezione per il polo pugliese e poche altre realtà legate al powertrain, la maggior parte delle aziende meridionali produce moduli e componenti non direttamente impattati dal cambio di alimentazione. I rischi più concreti sono invece rappresentati dalla sovrapposizione con la rete fornitori del gruppo PSA e dalla pressante spinta alla delocalizzazione in Nord Africa o Europa centro-orientale per abbattere i costi. Questa strategia, su cui il management potrebbe forse introdurre qualche correttivo, sta già erodendo i tradizionali vantaggi della localizzazione a bordo stabilimento, come dimostrato dal caso di Melfi, dove commesse per i nuovi modelli elettrici sono state assegnate a fornitori di altre regioni italiane o della Turchia, a discapito degli insediamenti locali. Nonostante la persistente dipendenza, il comparto meridionale mostra segni di vivacità, con un aumento della propensione alla diversificazione e un’incidenza sull’export nazionale in crescita, sebbene permanga un numero limitato di imprese locali veramente competitive a livello internazionale. Le realtà più significative restano spesso in mani straniere e molte PMI indipendenti sono state acquisite da multinazionali, anche se non mancano casi inversi di aziende meridionali che acquisiscono all’estero. Le prospettive future dipendono dalla capacità di valorizzare le specializzazioni produttive e le concentrazioni industriali esistenti, come il distretto della meccatronica in Puglia o il Polo per l’Innovazione Automotive in Abruzzo che rappresentano casi virtuosi di raccordo tra imprese, ricerca e istituzioni. Al contrario, regioni come la Campania, nonostante le potenzialità, soffrono di incertezze istituzionali mentre il Lazio, la Basilicata e il Molise risentono rispettivamente della rarefazione dell’indotto o di una dipendenza quasi assoluta e in declino dallo stabilimento di Melfi. La transizione, sebbene lenta e incerta a causa delle strategie di Stellantis, rimane un’opportunità. I dati dell’Osservatorio TEA indicano che solo il 10% delle imprese meridionali (il 4% con rischio alto) è esposto al rischio legato alla transizione elettrica, confermando che la maggior parte produce componenti non direttamente legati al propulsore. La sfida principale non è tanto sopravvivere alla fine dell’endotermico, quanto piuttosto inserirsi nelle nuove filiere dei veicoli elettrici. Per farlo è necessaria una concertazione concreta tra tutti gli attori economici, sociali e istituzionali per costruire una filiera oggi ancora debole, supportare l’innovazione e valorizzare quelle specializzazioni che possono costituire un solido fondamento per uno sviluppo di medio-lungo termine.
3. Stellantis e l’Italia: l’analisi di Matteo Gaddi
Matteo Gaddi, in Italy – anatomy of a decline, fornisce una panoramica approfondita e preoccupante del settore della produzione di autovetture in Italia, con un focus su Stellantis, mettendo in luce un crollo drammatico e senza precedenti nel contesto europeo. L’analisi, che esclude volutamente i veicoli commerciali il cui trend è stato invece positivo, si concentra sulle variazioni volumetriche della produzione nel tempo e sulle sue pesantissime ripercussioni sull’occupazione. Il declino italiano appare ancor più marcato dal confronto con gli altri principali paesi produttori europei, sia in Europa occidentale che in quella centro-orientale. Le conseguenze occupazionali sull’intero settore (codice Nace 29) sono state purtroppo molto significative, sebbene il loro impatto sia stato parzialmente temperato da tre fattori cruciali: un ricorso massiccio agli ammortizzatori sociali, una crescita dell’occupazione nel sub-settore dei componenti e l’aumento della produzione di veicoli commerciali.
Nel 1999 l’Italia era ancora il quinto produttore europeo, per poi essere superata da Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Turchia e trovarsi ora molto vicina all’Ungheria. I dati sono inequivocabili. Si è passati da 1.410.459 veicoli nel 1999 a soli 473.194 nel 2022, un calo del 66,45%. La Francia, che ha perso la seconda quota maggiore di produzione dopo l’Italia (-63,71%), rimane comunque sopra la soglia del milione di auto prodotte. Per quanto riguarda il rapporto tra produzione nazionale e immatricolazioni, l’Italia ha la performance peggiore. La differenza tra auto immatricolate e prodotte in Italia era superiore al milione nel 2021 e di 843 mila unità nel 2022. La quota percentuale della produzione nazionale sul totale delle immatricolazioni è solo del 30-35%, un indicatore chiaro di quanto la produzione industriale sia bassa rispetto alla dimensione del mercato interno. Al contrario, con l’eccezione di Francia e Regno Unito, tutti gli altri paesi hanno un rapporto superiore al 100%, denotando una forte orientamento all’esportazione del loro settore automotive. Le perdite di produzione più gravi hanno colpito il marchio Fiat che nel 2022 ha perso rispettivamente 1.179.000 e 844.000 veicoli rispetto al 1989 e al 1996. Anche le perdite di Alfa Romeo sono alte, con un calo di quasi 174.000 vetture rispetto al 1989 e oltre 54.000 rispetto al 1996, mentre il marchio Lancia è scomparso. L’arrivo di nuovi brand come Jeep e la crescita dei segmenti di lusso (Maserati) e super-lusso (Ferrari e Lamborghini) non sono stati in grado di compensare i volumi persi nelle altre produzioni. Il calo complessivo dei volumi di auto passeggeri è stato del 76% rispetto al 1989 e di oltre il 64% rispetto al 1996.
Questo drammatico crollo ha avuto inevitabili conseguenze sull’occupazione. Dal 1996 al 2022 nel settore sono stati persi oltre 45.000 posti di lavoro (-21,5%) e oltre 51 milioni di ore lavorate (-16,56%) fino al 2021. Per comprendere i cambiamenti strutturali occorre scomporre il dato del codice Nace 29 nei suoi sub-settori: “Fabbricazione di autoveicoli” (C291), “Fabbricazione di carrozzerie” (C292) e “Fabbricazione di parti e accessori” (C293). L’analisi rivela che mentre l’assemblaggio finale (C291) e la produzione di carrozzerie (C292) registrano un calo occupazionale, la produzione di parti e componenti (C293) aumenta. Questo aspetto, unito all’uso degli ammortizzatori sociali, ha contribuito a frenare parzialmente la caduta dell’occupazione nell’intero settore. La crescente specializzazione italiana nella produzione di componenti espone il settore a ulteriori fragilità poiché gran parte di questa produzione non è più assorbita dalla produzione automobilistica domestica ma viene esportata, rendendola così dipendente dalle scelte industriali di aziende e governi stranieri. Il ricorso massiccio alla Cassa Integrazione Guadagni (CIG) è stato un elemento determinante. I dati INPS mostrano un altissimo numero di ore autorizzate, il cui utilizzo effettivo è stimato tra il 50% e il 60%. Calcolando il numero di lavoratori coinvolti in termini di equivalenti a tempo pieno (FTE), emerge che senza questi ammortizzatori sociali le perdite di posti di lavoro sarebbero state molto più consistenti, anche se questo massiccio ricorso alla CIG ha ovviamente severamente indebolito i salari percepiti dai lavoratori. L’analisi strutturale conferma il cambiamento nella composizione dell’occupazione. La quota percentuale degli addetti all’assemblaggio finale (C291) è diminuita di 15,73 punti percentuali tra il 1996 e il 2022, quasi specularmente alla crescita di 16,29 punti nel sub-settore dei componenti (C293). La situazione di Stellantis, unico grande costruttore nazionale, è centrale e critica per le sorti dell’intero settore. All’interno del gruppo il peso del partner francese nelle scelte strategiche (allocazione di produzioni e piattaforme, investimenti) e nel management appare evidente. Preoccupazioni erano già emerse prima della nascita stessa di Stellantis, quando all’interno della collaborazione tra FCA e PSA fu scelta una piattaforma francese per i nuovi veicoli di segmento B di FCA, la cui produzione fu allocata allo stabilimento di Tychy, in Polonia, segnando un fatto gravissimo poiché si trattava di veicoli di volume. Il Piano “Dare Forward” non fornisce indicazioni specifiche sulla missione produttiva degli stabilimenti italiani, alimentando incertezze sul futuro. Nel frattempo la forza lavoro di Stellantis continua a diminuire. Un accordo sindacale del febbraio 2023 ha stabilito incentivi economici per favorire uscite volontarie, con una riduzione complessiva del 31% della forza lavoro negli stabilimenti di assemblaggio rispetto al 2014 e del 30,15% in quelli powertrain. Considerando anche altre divisioni, il totale dei licenziamenti previsti dall’accordo ammonta a 2.107 unità, pari al 9% della forza lavoro degli stabilimenti/divisioni coinvolte. L’analisi dei singoli stabilimenti di Stellantis dipinge un quadro ancor più preoccupante. Lo stabilimento di Mirafiori ha subito un vero e proprio tracollo occupazionale, passando da oltre 8.200 addetti nel 2014 a poco più di 3.300 nel 2024. La produzione della 500BEV, che avrebbe dovuto rivitalizzare lo stabilimento, è rimasta ben al di sotto delle previsioni, attestandosi su circa 80.000 unità contro le 135.000 attese, portando a un ricorso massiccio alla cassa integrazione. Le prospettive future sono legate incertamente a un restyling della 500BEV previsto per il 2027 ma la mancanza di un secondo modello ad alto volume mette a serio rischio il futuro dello stabilimento. Anche la situazione dello stabilimento di Cassino è grave, con un calo occupazionale da 4.000 a 2.890 addetti e un uso pesante degli ammortizzatori sociali. I volumi di produzione dei modelli Giulia e Stelvio sono crollati dopo la fase di lancio e le prospettive si basano sull’assegnazione della piattaforma “Large”, annunciata senza specifiche su modelli o volumi e subordinata a una riduzione dei costi che sta già erodendo gli standard qualitativi. L’impressione generale è di uno smantellamento progressivo, con assenza di investimenti, dismissioni di reparti e vendita di edifici, in un clima di totale incertezza sul futuro industriale del sito. La situazione occupazionale dello stabilimento Stellantis di Pomigliano d’Arco, dal 2010 ad oggi, è invece caratterizzata da un declino netto e preoccupante, con il numero di dipendenti passato da 5.242 alle attuali 3.994 unità, una perdita netta di 1.230 posti di lavoro che equivale a un calo del 23,5% della forza lavoro originaria. Questo drastico ridimensionamento non è stato tuttavia proporzionale al calo dei volumi produttivi, il che ha significato un sensibile aumento del carico di lavoro individuale per il personale rimanente, ottenuto attraverso una pesante revisione unilaterale da parte dell’azienda dei tempi di ciclo assegnati a ogni postazione, con un’intensificazione dei ritmi che ha avuto come diretta conseguenza un marcato peggioramento delle condizioni di salute dei lavoratori, con un’esplosione dei casi di malattie muscolo-scheletriche. Dai circa 140-150 casi del 2010 (su oltre 5.000 dipendenti) si è passati agli attuali circa 500 casi (su meno di 4.000). Contemporaneamente la forza lavoro ha subito un progressivo invecchiamento, con l’età media che dai 28-29 anni precedenti il 2000 è salita agli attuali 52-53 anni, a causa del blocco delle assunzioni protratto nel tempo. La storia produttiva di Pomigliano è stata molto travagliata, segnata dall’uso di ammortizzatori sociali ininterrottamente dal 2008. Nell’aprile 2023 un nuovo accordo sindacale ha definito l’utilizzo della Cassa Integrazione in Deroga per 500 lavoratori, quelli con capacità lavorative ridotte per i quali è molto difficile trovare una ricollocazione. Attualmente operano nell’impianto 1.248 lavoratori in trasferta da altri stabilimenti del gruppo, principalmente da Melfi e Cassino, riflettendo una filosofia manageriale che prevede di gestire le fluttuazioni produttive attraverso la mobilità interna della manodopera tra uno stabilimento e l’altro, senza procedere a nuove assunzioni. Dal punto di vista produttivo, dopo una fase critica tra il 2010 e il 2011 in cui la produzione crollò fino a poco più di 12.000 veicoli (con la cessazione dei modelli Alfa 147 e 159 che portò l’impianto vicino alla chiusura), lo stabilimento è stato sostenuto quasi esclusivamente dalla produzione della Panda, il cui volume ha toccato il picco di 207.670 unità nel 2016. Solo nel 2022 è iniziata la produzione dei nuovi modelli Alfa Romeo Tonale e Dodge Hornet per il mercato nordamericano, sebbene in volumi limitati (18.582 unità totali nel 2022). Le prospettive future sono però fosche. Non è prevista una vera elettrificazione per la Panda, limitata a una piccola ibridizzazione di supporto, e per il Tonale esiste un modello ibrido ma con un’autonomia limitata. Soprattutto per Pomigliano non esiste un Piano Industriale e non sono previsti nuovi investimenti. L’assegnazione del Tonale ha di fatto sancito la fine del piano per lo stabilimento. L’incertezza è massima riguardo al futuro della stessa Panda. Anche lo stabilimento di Melfi vive una fase di grande preoccupazione. Dopo aver raggiunto il picco occupazionale di 7.747 dipendenti nel 2015, la forza lavoro si è ridotta agli attuali 5.827 dipendenti, una perdita del 24,7% in otto anni. La cessazione della produzione della Punto nel 2018, non sostituita da un modello equivalente, ha creato un vuoto di volume che i modelli 500X, Renegade e Compass non sono riusciti a colmare completamente, impedendo all’impianto di tornare a produrre le 300.000 vetture annue di un tempo. Il calo produttivo, giustificato dall’azienda prima con il Covid-19 e poi con la carenza di semiconduttori, è proseguito fino a toccare il minimo di 163.000 veicoli nel 2022, a fronte di una capacità potenziale di 400.000. Per gestire questa crisi si è fatto un ricorso massiccio e crescente agli ammortizzatori sociali. Da un accordo del 2021 che prevedeva un uso della cassa integrazione per il 45% della forza lavoro (3.215 lavoratori) si è passati a un accordo del 2023 (non firmato dalla Fiom-Cgil) che estende il ricorso alla cassa integrazione fino all’80% del personale fino ad agosto 2024. A ciò si aggiunge che, dei 5.800 dipendenti rimanenti, 1.400 sono perpetualmente in trasferta su altri stabilimenti (Pomigliano, Termoli) e sono previsti incentivi all’uscita per ulteriori 300 unità. Le prospettive future di Melfi appaiono ufficialmente più rosee ma sono gravate da forti incertezze. Un accordo del 2021 e un annuncio del 2023 prevedono l’assegnazione di 5 nuovi modelli completamente elettrificati (2 DS, 1 Opel, 1 Lancia, 1 Jeep Compass ibrida) basati sulla piattaforma STLA Medium e la creazione di una linea di assemblaggio batterie. L’azienda non ha fornito ai sindacati numeri precisi sui volumi produttivi attesi, sul fabbisogno di personale e sui tempi esatti del transition, lasciando tutto in una zona d’ombra. Inoltre il passaggio a una piattaforma di origine PSA comporterebbe molto probabilmente uno spostamento degli approvvigionamenti verso fornitori francesi, con gravi ripercussioni per l’indotto italiano. La scomparsa della 500X, un modello di volume, è un ulteriore elemento di preoccupazione. Lo stabilimento di Termoli, dedicato alla produzione di motori e cambi, conta attualmente 2.134 dipendenti, con 300 posti persi dal 2014, e ha visto una serie di accordi per incentivare uscite volontarie. Attualmente, a fronte di volumi di produzione previsti in crescita per il 2023 e il 2024, sono sospesi gli ammortizzatori sociali e operano nello stabilimento 200 lavoratori in trasferta da Melfi. Termoli è destinato a una radicale trasformazione in Gigafactory per la produzione di batterie attraverso la Joint Venture ACC. Questo progetto, annunciato a marzo 2023 senza una documentazione ufficiale, prevede un impiego di 1.800 addetti solo una volta a pieno regime nel 2030, un numero inferiore all’organico attuale, e di questi solo 1.200 sarebbero operai diretti. La produzione di motori termici e cambi cesserà progressivamente (i cambi già tra febbraio e marzo 2024, i motori entro il 2026), senza che si conoscano le destinazioni alternative di queste produzioni, alimentando il timore di una deliberata volontà di smantellare la propulsione termica in Italia per delocalizzarla all’estero, magari in Egitto o Tunisia. Lo stabilimento di Pratola Serra, che produce motori principalmente diesel per veicoli commerciali leggeri (LCV), ha un organico attuale di circa 1.640/1.650 dipendenti, in calo rispetto ai 1.850 del 2014, con un accordo che prevede una riduzione a 1.568 unità (-15%). Nonostante il calo del personale i volumi produttivi, sebbene in diminuzione rispetto al picco di oltre 400.000 motori del 2017 (sono previste 310.000 unità per il 2023), hanno portato a un aumento del carico di lavoro individuale. La produzione futura sarà interamente dedicata ai motori diesel per gli LCV di Stellantis (Ducato, Opel, PSA) ma preoccupano la forte disorganizzazione produttiva dei reparti di lavorazione meccanica, la mancanza di investimenti significativi e il rischio concreto di esternalizzazione di componenti attualmente prodotti internamente, come già avvenuto in passato per le bielle. Lo stabilimento di Verrone, specializzato in cambi, ha subito un tracollo occupazionale, passando da 650 dipendenti nel 2019 agli attuali 390, attraverso una serie di accordi per uscite incentivizzate. Anche qui l’uso della cassa integrazione è stato continuo, spesso causato dagli stop produttivi a catena negli impianti di assemblaggio finale come Melfi, in un’ottica di produzione snella Just in Time. La produzione è crollata da quasi 379.000 cambi nel 2018 a 218.519 nel 2022, a causa della fine del ciclo vitale di molti modelli che li utilizzavano (Giulietta, Mito, Doblò, 500L). L’unica prospettiva futura è legata al cambio C637 per il Ducato ibrido, di cui Verrone dovrebbe essere fornitore unico, mentre tutti gli altri prodotti sono destinati a scomparire con la fine del termico. Anche qui, la carenza di investimenti e manutenzione sta causando problemi di qualità. La crisi si estende al comparto dei componenti, incarnata dalla travagliata storia del Gruppo Marelli. Ceduto da FCA al fondo KKR con un’operazione di leveraged buy out che ha caricato la società di un debito insostenibile (passato da 2,864 a quasi 8 miliardi di euro in nove mesi), Marelli ha dovuto avviare una pesantissima ristrutturazione finanziaria e industriale. Ciò si è tradotto in riduzioni del personale (950 tra uscite volontarie e licenziamenti collettivi) e nella decisione di chiudere 5 stabilimenti in Europa, tra cui Crevalcore (collettori) e Venaria (scaricatori) in Italia. La strategia è cambiata radicalmente: abbandonati gli ingenti investimenti previsti per l’elettrico dal management precedente, la nuova proprietà ha deciso di ridimensionare il portafoglio prodotti, abbandonando di fatto il mercato di massa per concentrarsi sul segmento luxury, dove sono i clienti a farsi carico dei costi di sviluppo. La transizione all’elettrico, quindi, non sta generando volumi significativi né tanto meno un positivo effetto occupazionale. Stabilimenti come Bari, nonostante l’acquisizione di alcune produzioni dagli impianti che chiudono (manifold in plastica da Crevalcore, e-motore da Koln), vivono in uno stato di forte incertezza con volumi bassi e l’avvio di nuove produzioni elettriche slittato al 2026, mentre si assiste a un lento ma inesorabile declino delle produzioni legate al motore a combustione.