Le ragioni dei nostri Si

Compagno Marco

La prossima settimana, l’8 e il 9 giugno, si voterà alle urne sui 5 quesiti del Referendum indetto dalla CGIL, riguardante i temi di Lavoro e Cittadinanza. I quesiti del Referendum saranno 4 per il Lavoro ed 1 per la Cittadinanza. Le questioni della proposta referendaria riguarderanno nello specifico l’abrogazione di alcune normative del Jobs Act, cioè l’insieme di misure e provvedimenti normativi promulgati dal Governo Renzi che nel 2015; e, per quanto riguarda l’ultimo quesito, la riduzione della tempistica dai 10 ai 5 anni per l’ottenimento della cittadinanza per tramite della residenza legale nel nostro paese. Come Collettivo Le Gauche ci impegniamo ai fini della promozione della campagna referendaria, in quanto questo Referendum è da noi ritenuto la spinta propulsiva di un’iniziativa sociale importante, possibile di ulteriori sviluppi, e un segnale forte di ripresa delle lotte nel nostro paese per una serie di ragioni, non solo politiche in senso stretto.
Il Referendum sul Lavoro si pone l’obiettivo di abrogare le normative che costituiscono l’intelaiatura più tossica del Jobs Act, così composti i 4 quesiti:

  • Licenziamenti illegittimi e abrogazione delle norme concernenti i Contratti a Tutele Crescenti: si tratta di abolire, per tutti i dipendenti assunti con contratto a tempo indeterminato, quelle normative introdotte col Jobs Act ed entrate in vigore dal 7 marzo 2015, riferite nello specifico al decreto n.23/2015 nelle imprese con più di 15 dipendenti. I nuovi assunti a partire da quella data, attraverso tale normativa, faranno riferimento in tutti i loro contratti al nuovo regime contrattuale-tutelare definito “a tutele crescenti” che si discosta radicalmente dal modello precedente nell’art.18 dello Statuto dei Lavoratori: il Licenziamento Illegittimo, in quanto violazione dei diritti del lavoratore, era prima sanzionato nei processi da una discrezionalità del Giudice che poteva autonomamente decidere quale fosse la forma di risarcimento adeguata al danno subito dal soggetto lavoratore: risarcimento monetario o, nella maggior parte dei casi, il vero e proprio reintegro del lavoratore. Questa combinazione faceva sì che i rapporti fra Datore e Lavoratore, per la strutturazione normativa stessa di questi rapporti, si risolvesse in sede legale quasi sempre a favore di quest’ultimo, in quanto beneficiario nel concreto di maggiori vantaggi: difatti si arrivava spesso al vero e proprio reintegro in sede di sentenza giuridica, conservando il posto di lavoro. Con il contratto a tutele crescenti al Giudice viene posta meno invece proprio quella discrezionalità che, nella situazione concretamente strutturata, si risolveva spesso in maggiori tutele verso il Lavoratore. Con questa normativa si elimina difatti il diritto al reintegro e alla non perdita del posto di lavoro, prima presente, salvo casi specifici ed eccezionali(previsti dall’art.2 del tutele crescenti). Sarà previsto da qui in poi infatti solo un aumento del risarcimento monetario per il danno arrecato al lavoratore licenziato in base al criterio di anzianità prestato: un’indennità proporzionale(crescente, appunto)agli anni di servizio prestati dal lavoratore da versare, con un minimo e un massimo di soglia prevista. Tale misura di sanzione è appunto definita “a tutele crescenti” perché, presa in senso letterale e non guardando l’impatto complessivo, propone di imporre un’indennità economica direttamente proporzionale al crescere del grado di esperienza lavorativa.
    Questo sistema pone quale sanzione principale insomma l’indennizzo economico in base al tempo di servizio del lavoratore: andando a sostituire quella che si configurava in molte sentenze come possibile reintegrazione al lavoro, già depotenziata rispetto all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori dall’ancora precedente Riforma Fornero ma comunque operante nel quadro giuridico complessivo.

–  Maggiori tutele per lavoratori e lavoratrici delle Piccole Imprese: si tratta di garantire anche nelle Piccole e Medie Imprese(cioè con max 15 dipendenti)delle forme di tutela più ampie sul Lavoro, andando ad eliminare il limite massimo previsto di risarcimento economico in caso di licenziamento illegittimo. L’attuale tetto stabilito per l’Indennità economica correlata al risarcimento è di 6 mensilità di buste paga percepite, con limitate eccezioni estendibili a 10 e 14 mensilità(per i lavoratori più anziani)così come introdotto dalla legge 50/2019, modifica successiva del Jobs Act.
Tale quesito propone l’abrogazione della suddetta legge al fine di ottenere diversi risultati: l’abolizione di un limite massimo all’ammontare dell’indennizzo, scorporandolo da una sua determinazione preventiva ed astratta e valutando ogni caso singolo; il poter stabilire, con discrezionalità del giudice, l’ammontare dell’indennizzo che sia proporzionale al danno effettivo e reale subito dal lavoratore o dalla lavoratrice. Un tema già in lizza con l’eliminazione del regime contrattuale a tutele crescenti quello del ristabilirsi dell’intervento discrezionale nel rapporto giuridico e che viene ulteriormente rafforzato dal quesito. I principi generali e l’osservazione delle norme europee già comprenderebbero forme di risarcimento integrale nell’indennizzo spettante al lavoratore, questione su cui si è espressa anche la Corte di Giustizia dell’UE chiarendo che “Una sanzione non è conforme al diritto UE se è talmente bassa da non dissuadere il datore dal violare la legge”. L’Indennizzo non può essere fisso o così basso da non rispettare il principio di effettività esistente sul caso singolo e nel rapporto individuale fra lavoratore subordinato e parte datoriale, e deve perciò ottemperare il risarcimento pieno del danno subito nel licenziamento ingiustificato.

  • Riduzione del Lavoro Precario: il terzo quesito si ricollega a una prospettiva di contrastare il fenomeno del Lavoro Precario in Italia. Nel concreto si chiede che il Datore di Lavoro che assume rispetti l’obbligo di indicare una giustificazione, o causale, nello stipulare un Contratto a Tempo Determinato che abbia durata inferiore a 12 mesi.
    Si chiede parallelamente anche di eliminare le espressioni contenute nell’articolo che permettono una durata contrattuale superiore ai dodici mesi senza che venga fornita una giustificazione, insieme ad altre disposizioni a questa correlate.
    Questa misura ha la finalità di limitare l’utilizzo dei Contratti a Termine nelle nuove assunzioni(Tempo Determinato o altra tipologia)stabilendo l’abrogazione parziale dell’art.19 del Jobs Act, ulteriormente rafforzato dal Decreto Lavoro del Governo Meloni nel 2023, che non regolamenta o pone un vincolo alla stipula di tali forme contrattuali precarie.
    Con l’abrogazione di questo articolo si otterrebbe l’effetto di restituire un maggiore potere di Contrattazione Collettiva Nazionale ai lavoratori nel complesso per tramite delle organizzazioni sindacali confederali più rappresentative: le causali o giustificazioni per le forme di contratto a termine dovrebbero essere specificate e motivate, questo perché nello stabilirle all’interno del rapporto di lavoro si restituisce voce in capitolo e considerazione ai Sindacati maggiormente rappresentativi. Difatti questi ultimi attraverso la Contrattazione Collettiva a livello Nazionale chiederebbero ai Datori di Lavoro di indicare delle giustificazioni specifiche e riferite a un livello maggiore della Singola Azienda: l’Azienda singola nello stipulare un Contratto a Termine non avrebbe più l’imposizione univoca e il lasciapassare assoluto, bensì dovrebbe fare riferimento a indicazioni legate al Contratto Collettivo Nazionale per categoria preso in accordo coi Sindacati, cioè all’insieme di tutte le aziende di un settore. Significa che, a prescindere dalla situazione della singola Impresa, il lavoratore vede tutelato il suo diritto alla stabilità occupazionale per tramite di uno strumento collettivo più generale(e la rappresentanza sindacale connessa), valido per tutte le realtà aziendali del settore sottoscriventi e non. L’utilizzo di forme contrattuali più precarie sarebbe dunque maggiormente dipendente da un quadro più generale e dal costante accordo preso con i Sindacati, non più deciso unilateralmente dalla Parte Datoriale Privata bensì deciso a livello Intra-settoriale e Nazionale. Contrastare il Lavoro Precario rappresenta una delle esigenze prioritarie dei lavoratori italiani e non solo; perché il Lavoro nel nostro sistema diventa non solo più povero, ma anche instabile e incapace di fornire prospettive di una vita dignitosa.
  • Rafforzamento della Sicurezza sul Lavoro negli Appalti e Subappalti:
    Il tema della Sicurezza sui Luoghi di Lavoro è sfortunatamente sempre più attuale e necessario, coinvolgendo in molti casi la vita stessa dei lavoratori. Il quarto quesito si pone come finalità quella di limitare fortemente l’assenza di ulteriori controlli per chi assume all’interno dei fenomeni di appalti e subappalti, ritenuti doverosi ed essenziali per chi assume. Si tratta infatti e innanzitutto di abrogare di una specifica parte dell’articolo 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008 n. 81, modificato in senso peggiorativo da nuovi interventi normativi di cui il più recente con decreto legge  21 ottobre 2021 n. 146: la soppressione del punto che elimina la responsabilità solidale da parte dell’Impresa appaltatrice/subappaltatrice(committente)verso i rischi cui sono esposti i lavoratori derivati dalle condizioni di lavoro nelle imprese di appalto e subappalto. Bisogna puntualizzare che l’Impresa Committente risulta già responsabile dei rischi correlati alle Imprese a cui sceglie di appaltare/subappaltare, ma solo verso i Rischi Generici(indipendenti dalla mansione o attività lavorativa svolta): quello che si vuole fare con l’eliminazione di questo articolo è rendere l’Impresa Committente responsabile anche dei Rischi Specifici e legati all’attività dell’azienda a cui si è appaltato(e le condizioni di lavoro da questa poste), cioè quelli riguardanti l’infortunio o malattia professionale dei lavoratori. Questo quesito è ritenuto di importanza cruciale in materia di sicurezza, perché ha un insieme di effetti combinati che prima di tutto mirano ad evitare che le famiglie colpite restino senza un risarcimento economico adeguato a casi di gravi incidenti sul luogo di lavoro, e a semplificare l’avvio di cause legali tese a ottenerli. L’effetto però più rilevante di tale misura è che, nel quadro generale, costituirebbe un incremento significativo di controlli e verifiche da parte delle Aziende che commissionano attività e lavori con gare d’appalto verso quelle che le vincono e divengono. Si esercita una pressione non indifferente sulle Imprese Committenti, che come grossa parte datoriale sono così incentivate a vigilare severamente sulla qualità dei luoghi e condizioni di lavoro nei loro Appalti/Subappalti, che questi investano nella costante nella formazione dei lavoratori, così come nell’utilizzo di strumenti conformi alle normative in materia sicurezza.
  • Il Referendum sulla Cittadinanza, cioè il quinto ed ultimo quesito, ha l’obiettivo di modificare i criteri acquisizione della Cittadinanza, in modo da renderli più accessibili per tutti coloro che, vivendo e lavorando in Italia da lungo tempo, non riescono a ottenerla a causa di rigidezza nelle normative attuali. Si abbassa il requisito di durata minima della residenza legale continuativa per presentare la domanda necessaria all’ottenimento: da 10 a 5 anni. Al contempo si va a scardinare l’estrema rigidità del principio dello Ius Sanguinis: la proposta referendaria infatti prevede che, una volta ottenuta la cittadinanza, questa venga automaticamente trasmessa a figli o figlie minorenni conviventi al genitore. Tale misura procederebbe a passo spedito nel favorire l’integrazione e regolarizzazione di quella fetta di popolazione straniera che, pur vivendo, lavorando e contribuendo al sistema fiscale in maniera costante nel nostro paese e partecipando alla vita economica e sociale, rimane ancora nell’area dell’esclusione da una serie di diritti civili e politici connessi allo status del cittadino. Tale iniziativa mira non solo a rendere più efficace la regolarizzazione degli stranieri che lavorando contribuiscono alla ricchezza del paese, ma anche a porci in continuità con gli standard europei più avanzati sui temi dei diritti e dell’inclusione: molti paesi dell’UE, già prevedono forme e tempistiche più brevi per l’ottenimento della cittadinanza rispetto all’Italia.

Per capire meglio le ragioni per cui un Referendum di questo tipo risulta necessario, si può dare uno sguardo ai dati circa la situazione reale nel nostro paese e ripercorrere brevemente la storia della riforma. Lo Statuto dei Lavoratori fu un’importante insieme di leggi, nate dalle forti lotte del movimento operaio e sindacale degli anni ‘70. Rimase in vigore senza sostanziali modifiche per tutti i primi anni 2000, fino a dopo il 2010, e secondo diversi giuristi contribuì a creare, soprattutto con l’art.18, un quadro di stabilità e tutela del posto lavorativo senza eguali in altri paesi, sebbene solo nelle Grandi Aziende(più di 15 dipendenti). Ci fu anche un tentativo da parte di un grosso movimento sociale di lavoratori di estendere lo Statuto anche alle Piccole e Medie Imprese, con meno di 15 dipendenti: il Referendum del 2002, cui purtroppo votò solo il 25,7% degli aventi diritto, non raggiungendo il quorum. Dopo la crisi del 2008, tornò l’interesse forte delle Imprese e dei Datori di Lavoro di avere “libertà di licenziare” per sopperire alla situazione economica depressiva, ed è in questo clima che bisogna inquadrare gli attacchi ai diritti sociali, al lavoro e alle conquiste ottenute in varie corpus legislativi come lo Statuto, che divenne bersaglio principale per le modifiche effettuate successivamente dalla Politica e dai Partiti. Da qui, passando per la Riforma Fornero del 2012 che, sebbene questa prevedesse il riottenimento del posto di lavoro per meno casistiche(per motivi discriminatori o disciplinari illegittimi)almeno tutelava contro licenziamenti abusivi; si arriva al Jobs Act, come esplicita volontà di “superare l’articolo 18 dello Statuto”. Il Jobs Act in contrasto con gli intenti dell’Art. 18 e dello Statuto dei Lavoratori ha prodotto un’ondata di precarietà lavorativa: le Aziende possono utilizzare forme di contratti a termine senza giustificazioni o causali, rispettando il limite max. di 36 mesi; ha reso le Indennità di disoccupazione ancora dipendenti dal modello contrattuale precedente, lasciando scoperte molti lavoratori intermittenti(donne con carriere interrotte o disoccupati di lunga data); non ha introdotto misure di contrasto ai rapporti di lavoro atipici in abuso, come i contratti di collaborazione o a somministrazione. Col Jobs Act insomma si assiste dopo 45 anni non solo alla scomparsa del diritto alla reintegrazione lavorativa, ma si instaura come sottolineato da giuristi del lavoro come Romagnoli o Rusciano, una contro-tendenza fortemente degenerativa e filo-padronale in ambito di modelli legislativi e di giurisprudenza volti a regolare i rapporti di forza; Luigi Mariucci l’ha definita la “rivoluzione tolemaica” del diritto del lavoro italiano. Come ci mostra la Fondazione Di Vittorio con i dati raccolti, a 10 anni si possono valutarne gli effetti: la precarietà lavorativa è divenuta strutturale, con quasi il 30%(stabilmente tra il 22% e il 28%)dei contratti firmati che sono a termine/part-time; i salari reali hanno continuato la loro parabola discendente, confermandosi fra i peggiori nei Paesi Europei con perdite strutturali del 9% e come conseguenze: la crescita dell’emigrazione giovanile, con 550 mila giovani(di cui 43% laureati)emigrati dal 2011 al 2023, e la crescita del lavoro povero, con il 10% degli occupati indeterminati e il 28% fra quelli precari dal 2009 al 2029; le ore lavorate complessive rispetto l’occupazione non sono cresciute significativamente, e ciò si è tradotto in buona parte in espansione dei part-time: tale tendenza si è ripresa solo nel 2022, e tuttavia con un aumento progressivo dei rapporti di lavoro atipici/precari; l’evoluzione dell’occupazione dal 2004-2024 mostra come quella standard/a tempo indeterminato-full time sia cresciuta solo del 7,2%, mentre quella precaria o parziale(tempo determinato part-time ecc…)registra aumenti del 60% dei part-time indeterminati e del 95% per i part-time a termine, con incrementi notevoli anche nei contratti parasubordinati(tirocini o intermittenti)passati a 3,1 milioni totali; le donne e i giovani sono state tra le categorie più colpite, con il saldo dei part-time fra le donne cresciuto da 1,62 milioni nel 2004 a 2,7 milioni nel 2024 e con i giovani che hanno visto crescere la quota dei contratti a tempo determinato passare dal 19% del 2004 al picco del 37% del 2018, scesa solo nel 2024 con il 30%; tra il 1995 e il 2008 si era registrata una crescita di nuovi occupati dipendenti pari a 3 milioni, mentre tra il 2008 e 2024 si registra meno della metà, con soli 1,3 milioni, tra questi una considerevole parte di nuovi precari. Non migliora la situazione invece sul fronte dati circa i fenomeni di carenza di Sicurezza e crescita degli Appalti/Subappalti irregolari come qualità del Lavoro: gli infortuni generici sul lavoro erano in perpetua diminuzione fino al 2015, anno dal quale si è registrata una battuta d’arresto, con un livello costante mantenuto fino al 2023, anno in cui si è registrato un quadro peggiorativo con 470 mila nuovi infortuni base. Gli infortuni mortali invece hanno avuto andamento oscillante, raggiungendo i 1012 casi nel 2023 e un picco nella pandemia con 1500. Tali incidenti gravi avvengono per due terzi in Imprese con meno di 50 dipendenti(sui 1012, 363 con meno di 10 dipendenti e 281 fino ai 49 addetti). Inoltre buona parte delle Imprese in cui gli infortuni di ogni genere risultano più frequenti sono in appalti o subappalti: ad esempio nel settore edile, il più colpito dal fenomeno, Fillea-Cgil registra che il 70% degli infortuni avviene in Imprese in subappalto, e diverse analisi confermano tale trend anche in altri settori come i trasporti e la logistica. Tali effetti prodotti dal Jobs Act e le altre leggi poste in questione dal Referendum si inseriscono in un periodo oramai trentennale di stagnazione dell’economia italiana, che tali provvedimenti non hanno fatto altro che accentuare.

[LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI E CONTRATTO A TUTELE CRESCENTI: APPROFONDIMENTO DELLA LEGGE E DEL RAPPORTO DATORE DI LAVORO – LAVORATORE]
Originariamente, l’introduzione della Legge del Contratto a Tutele Crescenti nel 2015 prevedeva uno scaglione di Indennità economica da un minimo di 4 mesi a un massimo di 24 mesi, decisamente peggiorativo rispetto alla Riforma Fornero del 2012; solo successivamente, cioè nel 2019, ad esempio la soglia minima e massima furono modificate dal Governo Conte col Decreto Dignità, e portate dal minimo di 6 al massimo di 36 mensilità riconosciute al lavoratore, tramite un intervento pregresso della Corte Costituzionale nel 2018.
Bisogna sottolineare oltre le modifiche adoperate dal Decreto Dignità anche le posizioni d’incostituzionalità parziale esposte dalla Corte: sugli scaglioni minimi e massimi di mensilità spettanti al lavoratore qui sopra esposti; sul criterio unico ed esclusivo dell’anzianità di servizio previsto per il calcolo dell’indennità(facendo tenere conto ai Giudici nel calcolo dunque di molteplici criteri aggiuntivi); sulla configurazione del criterio rigido ed automatico dell’anzianità, quale univoco fattore di calcolo dell’indennità, pari a 2 mensilità fisse massime per ogni anno lavorato, soglia troppo generalizzata e de-personalizzata rispetto alle diverse esperienze dei singoli lavoratori. L’Indennità economica prevista dal tutele crescenti era costituita dunque da una “soglia di mensilità fissa” estremamente inflessibile pari a 2 mensilità calcolate per ogni anno di servizio(con un minimo di 4 e un massimo di 24 mensilità), esclusivamente legate all’anzianità e senza tenere conto di fattori multipli che possono entrare in gioco nel calcolo di un’indennità adeguata al risarcimento del singolo lavoratore: il ruolo professionale, le dimensioni dell’impresa, il motivo del licenziamento, la situazione personale. Le modifiche della Corte Costituzionale andavano nella direzione dunque di corrispondere un risarcimento che sia proporzionato al caso concreto e personale, non più ancorata a semplicistici e astratti schemi di determinazione.
Nonostante le rilevanti modifiche apportate dagli organi istituzionali giuridico-governativi, rimane un nodo cruciale che tuttavia non è mai stato eliminato quale limite tecnico e strutturale del Jobs Act: la questione del parametro delle buste paga e retribuzioni da utilizzare per il calcolo delle mensilità che spettano al lavoratore come risarcimento. Il Jobs Act ha infatti introdotto come riferimento per il calcolo del risarcimento quello della “ultima retribuzione utile al T.F.R”: cioè per calcolare il risarcimento in mensilità che spetta al lavoratore, si prende a riferimento l’ultima busta versata che si usa per calcolare il Trattamento di Fine Rapporto, pagato come contributo. Quindi non si tratta della busta paga reale e concreta percepita dal lavoratore, cioè stipendio lordo o netto, bensì di una busta paga che comprende solamente le seguenti voci: la paga base mensile, tredicesime/quattordicesime, vari compensi o indennità continuative. Da questa busta paga si escludono tutti gli elementi variabili che vanno a comporre quello che il lavoratore singolo, a tempo indeterminato, potrebbe in molti casi andare a percepire nel concreto: straordinari occasionali/trasferte, rimborsi spese, benefit saltuari, premi e bonus una tantum. Tornando al precedente regime contrattuale, cioè la Riforma Fornero 2012, questa limitazione della base di calcolo per l’indennità economica sulle buste paga verrebbe soppressa: si tornerebbe infatti come riferimento alla retribuzione effettiva e lo stipendio globale, considerando tutte quelle voci che il lavoratore percepiva nella sua situazione lavorativa concreta. Tutto ciò va senza dubbio ad aumentare, talvolta anche in maniera considerevole, l’ammontare dell’Indennità economica complessiva rispetto al Jobs Act, perché si parte appunto da una base più reale ed effettiva a vantaggio del lavoratore. Al di là delle diverse e indubbie modifiche attuate allo Statuto dei Lavoratori originario, la Riforma Fornero 2012 come regime contrattuale ne ha intaccato meno il contenuto, e il suo ripristino comporterebbe un vantaggio comparato anche in termini di percezione di una soglia minima d’Indennità stabilita per legge: infatti questa sarebbe riportata alle 12 mensilità minime, contro le 6 mensilità attuali(dalle 4 originali)stabilite col Decreto Dignità su successiva modifica del Jobs Act: questo ovviamente nei casi particolari ove non fosse possibile direttamente la reintegra del lavoratore. Il ripristino di tale forma contrattuale porta oltretutto con sé l’incomparabile restituzione di un diritto fondamentale a chi lavora, come esposto dal primo quesito: quello del reintegro, cioè il vero e proprio recupero del posto di lavoro, non il semplice risarcimento per danno e perdita di tale. Tuttavia, ciò su cui bisogna focalizzarsi riguardo la normativa, è anche comprendere il discorso ideologico e l’azione politica dietro il suo manifestarsi tecnicamente neutrale: innanzitutto, pone delle basi per la creazione di una disparità di trattamento fra lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 e lavoratori assunti dopo; in quanto mentre per i primi è previsto il mantenimento del diritto alla reintegrazione occupazionale, i secondi risultano totalmente privi di questo diritto, se non in casi molto particolari(licenziamenti per discriminazione). L’obiettivo é quello di creare in prospettiva divisioni, quand’anche di competizione interna alla classe lavoratrice, specialmente fra le nuove generazioni di precari sistemici dell’odierno mercato del lavoro e le vecchie generazioni col posto fisso ancora legate alle conquiste di un’epoca di lotte sociali profonde, che portarono alla costruzione di un sistema industriale legato ai contratti collettivi nazionali, i loro impianti di tutela e il welfare aziendale, da cui la forza-lavoro beneficiava con il soddisfacimento parziale di alcune rivendicazioni storiche.
Dietrol a pretesa di una maggiore trasparenza e neutralità del rapporto Datore-Lavoratore, e la loro supposta uguaglianza astratta, si misconosce una duplice disuguaglianza: sia in generale che nello specifico. In generale, perché si parla di due soggetti sociali con una differenza sociologica e sociale di fondo, individuata nel contrasto fra due interessi economici inconciliabili all’interno del corpo sociale:il profitto delle Imprese e il salario dei Lavoratori, in cui il secondo si stabilisce e viene sovra-determinato a partire dal primo e in funzione di questo, determinando un rapporto di forza che a livello strutturale pone in posizione di potere determinante le Imprese. Il terzo attore, lo Stato o il Pubblico, può invece talvolta intervenire in funzione progressiva rispetto a questo rapporto: cioè attraverso pressioni e lotte dal basso e dai movimenti dei lavoratori, e regolare il contrasto a vantaggio dei Lavoratori riducendo(ma non eliminando)quella base di disuguaglianza fra le 2parti; oppure porsi in funzione conservatrice, rappresentando gli interessi esclusivi delle Imprese e mantenendo lo squilibrio sociale; il caso di tale normativa. Si va a ledere nello specifico quell’equilibrio, storicamente formatosi nelle nostre Istituzioni, del rapporto giuridico fra il soggetto Datore di Lavoro e il soggetto Lavoratore Subordinato. All’interno del singolo Luogo di Lavoro si riproducono dinamiche di micro-disparità, con tentativi sempre più accentuati della Parte Datoriale di volgere il rapporto di lavoro singolo strategicamente a proprio esclusivo vantaggio, incentivando una visione tossica del lavoro in espansione e anche delle condizioni concrete di ripercussioni inique sulla vita lavorativa di tutti i giorni. In tale quadro il principio della discrezionalità delle Istituzioni Giuridiche, grazie anche a normative precedenti frutto delle lotte passate(come lo Statuto), poteva interpretare tali situazioni ponendo in vantaggio il Lavoratore subordinato, facendo leva su un’interpretazione socialmente progressiva del ruolo dello Stato nelle controversie fra soggetti sociali. Con tali impianti normativi, vedendosi depotenziata la discrezionalità del Giudice(sulla base di una supposta neutralità ed uguaglianza tecnica fra le parti)si viene a perdere anche la visione di un Pubblico decisore che possa intervenire come arbitro per sanare le criticità dei soggetti più svantaggiati che, senza le dovute tutele sociali, resterebbero senza supporti di fronte ai conflitti con l’altra parte.

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