Verso la piena sottoccupazione. Come cambia il lavoro in Italia è un libro collettivo composto da molti saggi che analizzano le trasformazioni del mercato del lavoro nel nostro paese. L’introduzione è curata da Raffaele Brancati e Carlo Carboni i quali introducono il filo conduttore del testo. Lo studio analitico del mercato del lavoro italiano nel primo venticinquennio del XXI secolo smaschera il “fascino ingannevole” di indicatori positivi come la crescita occupazionale e la riduzione del tasso di disoccupazione, rivelando invece l’inarrestabile avanzata della sottoccupazione, un fenomeno multiforme che rappresenta la vera tendenza strutturale del periodo. I dati Eurostat ci dicono che con 5,4 milioni di lavoratori sottoutilizzati (labour market slack), l’Italia detiene il primato negativo in Europa dopo la Spagna mentre le stime Istat sui lavoratori vulnerabili e part-time involontari indicano che circa il 25% degli occupati rientra in questa categoria di sottoccupazione “in senso lato”. Questo esercito silenzioso di lavoratori sottoutilizzati spiega perché, nonostante l’aumento del numero di persone occupate, si registri una preoccupante stagnazione dei redditi da lavoro. Se i salari orari mostrano una tenuta relativa (pur restando inferiori alla media europea), è il crollo dell’intensità lavorativa, con una media di giornate lavorate annue in calo, a determinare un monte salari complessivamente insufficiente. La radice del problema va cercata nella peculiare struttura del mercato del lavoro italiano, storicamente segmentato tra un nucleo centrale di lavoratori garantiti e una vasta periferia di sottoccupati, una dicotomia che si è radicalizzata con la transizione a un’economia sempre più terziarizzata ma poco qualificata. La moltiplicazione dei lavori, anziché tradursi in percorsi professionali avanzati come avvenuto in alcuni segmenti del manifatturiero, ha prodotto soprattutto impieghi a basso valore aggiunto nel terziario, dove la flessibilità si è trasformata in precarietà cronica, dando vita al fenomeno dei working poors (lavoratori poveri) praticamente assente fino agli anni ‘90. Il caso del part-time involontario, in costante crescita e diventato uno dei principali indicatori di questa vulnerabilità diffusa, dimostra come la riduzione d’orario sia spesso imposta dalle circostanze più che frutto di scelta. Le vittime principali di questa deriva sono giovani e donne, nonostante il loro livello di istruzione sia superiore alla media nazionale (anche se ancora insufficiente rispetto ai benchmark europei). Le donne, in particolare, rappresentano un paradosso. La loro maggiore partecipazione al mercato del lavoro segna un progresso sociale ma essa si concentra in forme di occupazione marginali, con un tasso di part-time involontario che supera di gran lunga quello degli altri paesi europei e salari mediamente più bassi non solo per effetto del gender gap ma in valore assoluto. I giovani, pur più istruiti delle generazioni precedenti, vengono relegati in percorsi professionali sottodimensionati rispetto alle loro competenze, in quella che Massimo Paci definirebbe una storica difficoltà di incontro tra domanda e offerta di lavoro, aggravata da un modello produttivo basato prevalentemente su microimprese a bassa innovazione. Il confronto internazionale offre ulteriori spunti di riflessione. La globalizzazione e l’avanzamento tecnologico hanno aumentato ovunque disuguaglianze e sottoccupazione ma in Italia queste dinamiche assumono tratti peculiari. Le differenze retributive interne alle stesse imprese sono più marcate che altrove e soprattutto il legame tra produttività e salari appare più debole: il premio salariale legato a maggiori livelli di produttività è rimasto sostanzialmente invariato negli ultimi anni, rappresentando solo una quota minoritaria della crescita retributiva. La globalizzazione a trazione tecnologica e finanziaria ha creato un divario crescente tra lavori iper-remunerati in settori high-tech e lavori poveri a bassa qualificazione ma nel caso italiano si aggiunge una specifica difficoltà a tradurre i guadagni di produttività in miglioramenti salariali diffusi. Sullo sfondo di queste tendenze ci sono tre grandi trasformazioni sistemiche che ridisegnano il panorama del lavoro: la terziarizzazione “minuta” e frammentata (con la moltiplicazione di micro-attività nei servizi più che la creazione di nuovi settori strutturati), il declino demografico che vedrà la popolazione in età lavorativa ridursi di 5,5 milioni di unità entro il 2040 (una vera e propria bomba sociale innescata) e il ritardo tecnologico del sistema produttivo italiano, costantemente in coda alle classifiche europee per innovazione e digitalizzazione. A complicare il quadro un cambiamento culturale profondo che vede il lavoro perdere centralità tra i valori individuali, soprattutto tra le giovani generazioni, con fenomeni come il quiet quitting (disimpegno emotivo) a segnalare una crescente divaricazione tra aspettative personali e realtà occupazionali. In questo contesto il Mezzogiorno rappresenta l’epicentro delle criticità, con un mercato del lavoro bloccato da carenze formative croniche, mismatch occupazionali e una fuga costante di giovani qualificati verso il Nord Italia o l’estero. Le politiche pubbliche finora adottate, dal Reddito di Cittadinanza (poi abolito nel 2023 nonostante l’Istat stimi in 5,6 milioni gli italiani in povertà) alle misure attive del lavoro si sono rivelate largamente insufficienti, spesso prive di un disegno strategico organico e vittime di una gestione burocratica inefficace. La possibile via d’uscita, secondo gli autori, passa attraverso un mix di interventi che coniughino politiche industriali per “buoni lavori” (occupazioni ben retribuite, stabili e ad alta produttività) con un potenziamento del cosiddetto “lavoro di cittadinanza” nei settori della cura, dell’ambiente e dei beni comuni, da sviluppare attraverso partenariati pubblico-privato che superino la logica assistenziale. Fondamentale sarà anche colmare il gap tecnologico, potenziando la formazione tecnica superiore (come gli ITS) e creando migliori collegamenti tra sistema educativo e mondo produttivo. Senza dimenticare che, in un paese che invecchia rapidamente, la questione demografica richiederà scelte coraggiose sia sul fronte delle politiche familiari che della gestione dei flussi migratori, l’unico fattore che potrebbe compensare, almeno in parte, il crollo della popolazione attiva nei prossimi decenni.
1. Da dove si parte
Bruno Anastasia afferma che il mercato del lavoro italiano ha subito profonde trasformazioni nel corso del secondo dopoguerra, riflettendo i mutamenti economici, demografici e socio-culturali del Paese. Nei primi trent’anni successivi al conflitto mondiale l’Italia ha vissuto una radicale transizione da un’economia prevalentemente agricola a una industriale, con un massiccio trasferimento di manodopera dalle campagne alle fabbriche, concentrate soprattutto nel Nord-ovest. Questo passaggio, legato alla ricostruzione postbellica e alla crescente domanda di beni di consumo durevoli, come frigoriferi, lavatrici e televisori, resi accessibili dalla produzione fordista, ha determinato un aumento significativo della produttività e del PIL pro capite che in quel periodo si attestava spesso tra il 5% e il 6%, senza mai scendere sotto il 3%. Parallelamente la struttura familiare è cambiata: se nella società contadina tutta la famiglia, comprese donne e minori, partecipava al lavoro nei campi, nella nuova società industriale si è affermato il modello della famiglia nucleare, con il marito operaio, la moglie casalinga e i figli a scuola almeno fino all’assolvimento dell’obbligo scolastico. I censimenti rivelano che tra il 1951 e il 1971 la popolazione attiva in Italia è scesa sotto i venti milioni, con un calo di oltre 900.000 unità (-4%). Il 1969, anno dell’Autunno caldo, segna il picco storico dell’occupazione industriale e il minimo dell’occupazione femminile. Dagli anni ‘70, con l’esaurirsi della spinta fordista, il mercato del lavoro ha ripreso ad allargarsi grazie all’espansione del terziario, sia nei servizi alle imprese (trasporti, logistica) che in quelli legati al welfare (sanità, istruzione) e al consumo privato (turismo, cultura). In questo periodo emerge con forza il modello dei distretti industriali, tipico della cosiddetta Terza Italia (Nord-Est e Centro), basato su strutture produttive flessibili, radicate nel territorio e capaci di valorizzare saperi locali. Tuttavia la crescita occupazionale non è stata lineare. Tre grandi crisi hanno segnato battute d’arresto. Negli anni ‘90, con la crisi politica della Prima Repubblica e la svalutazione della lira dopo il “mercoledì nero” del 16 settembre 1992; tra il 2008 e il 2014, a seguito del crack finanziario globale iniziato con il fallimento della Lehman Brothers e aggravato dalla crisi dei debiti sovrani europei e infine nel 2020, con la pandemia di Covid-19 e le conseguenti restrizioni alle attività produttive. In ciascuna di queste fasi l’occupazione è diminuita di circa un milione di unità, con tempi di recupero più rapidi negli anni ‘90 e una ripresa più faticosa dopo il 2014. L’ultima recessione, però, ha avuto un esito diverso perché la contrazione è stata violenta ma il rimbalzo è stato immediato, grazie agli interventi europei come lo strumento Sure e il Next Generation EU che hanno sostenuto la Cassa integrazione e introdotto misure straordinarie per i lavoratori autonomi. Nonostante queste fluttuazioni il tasso di occupazione (15-64 anni) è cresciuto dal 57% nel 1977 al 61% nel 2023, anche se l’Italia rimane indietro rispetto alla media europea, con un divario superiore ai 10 punti percentuali rispetto ai sei Paesi fondatori dell’UE. Dal 2014, inoltre, la popolazione in età lavorativa ha iniziato a diminuire, un fenomeno inedito dal dopoguerra che impone un ulteriore aumento del tasso di occupazione per compensare il calo demografico. Le proiezioni Istat al 2080 indicano che, se la popolazione in età lavorativa scenderà dagli attuali 37,5 milioni a 32 milioni nel 2040, per mantenere gli stessi livelli occupazionali sarà necessario un tasso di occupazione del 72% entro il 2040 e addirittura del 95% nel 2080. In alternativa l’Italia dovrà puntare su una maggiore immigrazione, un incremento della partecipazione femminile e meridionale al lavoro o una crescita straordinaria della produttività. La disoccupazione, nel corso dei decenni, non ha sempre seguito un andamento simmetrico rispetto all’occupazione. Negli anni ‘80, nonostante la crescita del lavoro dipendente, l’ingresso nel mercato della numerosa generazione del baby boom ha generato un aumento della disoccupazione giovanile e femminile, affrontato con la legge 285/1977, che introdusse i contratti di formazione-lavoro. Le crisi successive hanno visto interventi diversi come la legge 223/1991 che istituì le liste di mobilità per gestire i licenziamenti collettivi; durante la Grande Recessione (2008-2014), si è fatto largo uso della Cassa integrazione, anche “in deroga”; nel 2020, invece, sono state adottate misure eccezionali come il blocco dei licenziamenti e la Cassa integrazione Covid. Oggi, con un tasso di disoccupazione sceso sotto il 4% in alcune regioni del Nord, il problema non è più la mancanza di domanda ma il mismatch tra competenze richieste e offerte sostiene Anastasia. Le imprese segnalano difficoltà nel reperire profili specifici, con un’incidenza dei posti vacanti superiore al 2%. Le cause sono molteplici: salari insufficienti, scarse prospettive di carriera, mobilità territoriale limitata e talvolta anche una maggiore resistenza dei giovani, grazie al sostegno delle famiglie, ad accettare condizioni lavorative ritenute insoddisfacenti. L’occupazione femminile è uno dei cambiamenti più significativi degli ultimi decenni. Le donne occupate sono passate da 6 milioni nel 1977 a 10 milioni oggi, sebbene il tasso di occupazione femminile si attesti ancora al 42-43%, ben al di sotto di quello maschile. Questo incremento è stato accompagnato dalla diffusione del part-time, regolamentato per la prima volta nel 1984 e oggi scelto (o subìto) dal 35% delle donne occupate, contro l’8-9% degli uomini. Contemporaneamente il lavoro autonomo, che negli anni ‘70 rappresentava il 30% degli occupati (tra coltivatori diretti, artigiani e commercianti), è progressivamente diminuito, scendendo a circa 5 milioni di unità, con un calo soprattutto nelle figure tradizionali e una crescita tra i liberi professionisti. Il terziario privato è stato il motore dell’occupazione negli ultimi trent’anni. I servizi professionali sono più che raddoppiati, passando da 1,6 milioni di occupati nel 1995 a 3,6 milioni nel 2023, mentre il settore pubblico, dopo una lieve espansione fino al 2006 (3,6 milioni di unità), ha subito una contrazione a causa delle politiche di austerity, attestandosi oggi sui 3,4 milioni. Un altro fenomeno rilevante è l’immigrazione. Da Paese di emigrazione l’Italia è diventata meta di flussi migratori, con gli stranieri occupati passati da 1 milione nel 2004 a 2,5 milioni nel 2023, nonostante politiche restrittive. Il lavoro irregolare, dopo un picco del 14-19% nel 2002 (anno della maxisanatoria “Maroni”), si è ridotto, pur rimanendo un problema, specialmente in alcuni settori come l’agricoltura. La precarietà, spesso al centro del dibattito pubblico, riguarda soprattutto giovani, donne e stranieri. I dipendenti a termine, che a metà anni ‘90 rappresentavano il 10% del totale, oggi sono il 17%, con picchi in settori come l’agricoltura (oltre 600.000 stagionali) e la scuola (400.000 supplenti). Il divario tra Nord e Sud resta una costante. Nel 1977 il tasso di occupazione meridionale era di 10 punti inferiore a quello del Nord-est mentre oggi il gap supera i 20 punti, con il Sud fermo sotto il 50%. Sul fronte salariale, i dati Ocse mostrano che il salario medio italiano in termini reali è stagnante dal 2000, a differenza di Francia e Germania, dove è cresciuto del 15-20%. L’analisi Inps rivela che la modesta crescita nominale (+14,2% tra il 2008 e il 2022) è stata erosa dall’aumento del part-time e dei contratti discontinui, con retribuzioni più basse. Nonostante le criticità, il 50,2% degli occupati si dichiara soddisfatto del proprio lavoro, con punte più alte tra i laureati (56,1%). Le maggiori insoddisfazioni riguardano le opportunità di carriera (31,8%) e il reddito (37,5%). Silvia Montecolle, Federica Pintaldi e Alessia Sabbatini presentano un’analisi approfondita delle trasformazioni strutturali che hanno caratterizzato il mercato del lavoro italiano nell’arco degli ultimi trent’anni, evidenziando come questi cambiamenti siano il risultato dell’interazione complessa tra fattori demografici, congiunturali, socio-culturali e politici. L’invecchiamento demografico emerge come uno dei fenomeni più rilevanti, con un impatto significativo sulla composizione della forza lavoro: tra il 1993 e il 2022 l’età media della popolazione in età lavorativa (15-64 anni) è aumentata di 3,9 anni, passando da 38,1 a 42 anni, ma l’invecchiamento è stato ancora più marcato per la forza lavoro attiva, la cui età media è cresciuta di ben 6,2 anni, raggiungendo i 43,6 anni nel 2022. Questo divario si è accentuato particolarmente a partire dal 2009, quando per la prima volta la forza lavoro ha superato in età media la popolazione generale, un trend che è stato ulteriormente accelerato da riforme come quella Fornero del 2012 che ha innalzato i requisiti pensionistici prolungando la permanenza nel mercato del lavoro, soprattutto per le donne. La componente femminile della forza lavoro ha registrato un invecchiamento particolarmente rapido. L’età media delle lavoratrici è aumentata di 7,7 anni tra il 1993 e il 2022, contro un incremento di 5,3 anni per gli uomini. Questo fenomeno riflette l’abbandono del tradizionale modello di partecipazione femminile, caratterizzato da un’uscita precoce dal mercato del lavoro per motivi familiari, a favore di un modello più simile a quello maschile con permanenza prolungata nell’occupazione fino al raggiungimento dei requisiti pensionistici. Il cambiamento è stato così marcato che nel 2022 l’età media delle donne occupate (43,7 anni) ha superato per la prima volta quella degli uomini (43,6 anni), segnando una svolta epocale nella struttura del mercato del lavoro italiano. A livello territoriale il Mezzogiorno presenta una forza lavoro leggermente più giovane (43,4 anni nel 2022) rispetto al Centro (44,2 anni) e al Nord (43,6 anni), principalmente a causa dell’elevata incidenza dei disoccupati che sono statisticamente più giovani (14,6% nel Sud contro il 5,1% nel Nord). Tuttavia, se si considerano esclusivamente gli occupati, l’età media nel Mezzogiorno (44,4 anni) risulta simile a quella del Centro (44,6 anni) e superiore a quella del Nord (43,8 anni), riflettendo una struttura occupazionale più anziana al Sud rispetto alle aspettative. In ambito europeo l’Italia si distingue per avere, insieme alla Bulgaria, la popolazione lavorativa più anziana, con un’età media di 43,6 anni nel 2022 che supera la media UE (42 anni) e che è il risultato di un processo di invecchiamento più intenso rispetto agli altri paesi. La composizione per classi d’età della forza lavoro è radicalmente mutata negli ultimi decenni. Nel 1993 i giovani (15-34 anni) rappresentavano quasi il 45% della forza lavoro mentre nel 2022 la loro quota si è ridotta al solo 25%, con un calo particolarmente accentuato nella fascia 15-24 anni. Parallelamente è aumentato il peso delle fasce d’età più mature. Gli occupati tra i 45 e i 49 anni sono passati dall’11,1% al 15,1% mentre quelli tra i 55 e i 64 anni sono quasi raddoppiati, passando dal 9% al 20,7%. Questo cambiamento demografico ha interessato sia gli occupati che i disoccupati. Tra i primi la quota di under 35 è scesa dal 40% al 23,3%, la più bassa nell’Unione Europea, mentre tra i disoccupati la distribuzione per età è diventata più uniforme, con un aumento significativo delle fasce adulte e mature che segnala come la disoccupazione non sia più un fenomeno esclusivamente giovanile ma capace di coinvolgere sempre più anche lavoratori maturi che hanno perso un’occupazione o hanno interrotto l’attività per motivi familiari. Le crisi economiche del nuovo secolo hanno ulteriormente aggravato le difficoltà dei gruppi più deboli. Tra il 2008 e il 2022, il numero complessivo di occupati tra i 15 e i 64 anni è diminuito di 234.000 unità ma questa variazione apparentemente modesta nasconde dinamiche opposte tra diverse fasce d’età: un crollo di 1,7 milioni di occupati under 35 e di altri 1,7 milioni nella fascia 35-49 anni, compensato solo in parte da un aumento di oltre 3 milioni di occupati over 50. Il tasso di occupazione, tornato nel 2022 al 60,1% (il livello più alto dal 2004), riflette queste divergenze: -6 punti percentuali per i giovani, +15 punti per gli over 50, con una sostanziale stabilità (-0,7 punti) per la fascia 35-49 anni. Le donne hanno registrato un aumento assoluto dell’occupazione (+340.000 unità rispetto al 2008, a fronte di un calo di 580.000 uomini), con un tasso di occupazione salito dal 47,2% al 51,1% ma che rimane comunque il più basso tra i paesi dell’Unione Europea. Nonostante i progressi permangono forti disuguaglianze di genere, con donne mediamente più istruite ma spesso confinate in occupazioni precarie e part-time involontario (56,2% dei casi). Le disparità territoriali sono altrettanto marcate poiché nel Mezzogiorno il tasso di occupazione (43,4%) è di ben 23,2 punti sotto la media UE, con picchi del 17,8% per le donne con al massimo la licenza media, contro l’82,5% delle laureate del Nord. La disoccupazione meridionale (14,6%) è più che doppia rispetto al Nord (5,1%), riflettendo un divario strutturale che si aggrava ulteriormente per i giovani e le donne.
La struttura occupazionale è profondamente mutata nel corso degli anni. Il lavoro standard (tempo pieno e indeterminato) si è progressivamente ridotto mentre sono aumentate tutte le forme di lavoro atipico. I dipendenti a termine sono raddoppiati, passando da 1,5 milioni nel 1993 (10% dei dipendenti) a oltre 3 milioni nel 2022 (17% dei dipendenti), con quasi la metà dei contratti (46,7%) di durata pari o inferiore ai 6 mesi. Il part-time è cresciuto dall’11% degli anni ’90 al 18,2% nel 2022 ma nella maggioranza dei casi (56,2%) si tratta di part-time involontario, scelto cioè in assenza di opportunità di lavoro a tempo pieno. I lavoratori autonomi sono diminuiti dal 30% degli anni ’90 al 20% circa nel 2022, con l’eccezione dei liberi professionisti che hanno mantenuto sostanzialmente stabile la loro presenza. Nel 2022 il 21,1% degli occupati (quasi 5 milioni di persone) rientra nella categoria dei lavoratori vulnerabili, caratterizzati da instabilità lavorativa e/o retribuzione insufficiente. Questa condizione interessa in misura maggiore i giovani under 35 (quasi il 40%), le donne (27,7% contro il 16,2% degli uomini), i residenti nel Mezzogiorno (27,3% contro il 17,6% del Nord) e le persone con basso livello di istruzione (24,2% contro il 17,3% dei laureati). I lavoratori vulnerabili mostrano una maggiore percezione di insicurezza (il 36,2% teme di perdere il lavoro nei successivi sei mesi, contro il 2,4% dei lavoratori standard) e una minore soddisfazione lavorativa (solo il 22,4% si dichiara molto soddisfatto del proprio lavoro, contro il 56,6% dei lavoratori stabili), con particolare insoddisfazione riguardo alla stabilità, alle prospettive di carriera, all’orario di lavoro e al livello retributivo. Alessandro Martini e Maria Elena Pontecorvo sviluppano un’analisi territoriale dei fenomeni economici e sociali motivando il lavoro con la possibilità di cogliere dinamiche altrimenti oscurate da aggregazioni troppo ampie. Lo studio dei contesti locali presenta una complessità metodologica legata alla scelta della scala geografica visto che la percezione stessa dei fenomeni cambia a seconda dell’unità territoriale considerata e ogni classificazione, seppur necessaria, comporta una semplificazione che riduce la variabilità osservabile. Per questo motivo è fondamentale disporre di dati statistici dettagliati e uniformi a livello subregionale, capaci di restituire sia la struttura che l’evoluzione dei territori. La variabilità geografica è una caratteristica marcata in Europa, dove si osservano differenze significative non solo tra Stati ma anche all’interno degli stessi, come nel caso del divario Nord-Sud in Italia o della dicotomia Est-Ovest in Germania. La definizione gerarchica delle unità amministrative regionali e subregionali gioca un ruolo cruciale nell’armonizzazione delle informazioni statistiche ma i confini amministrativi spesso non coincidono con quelli funzionali, essendo il risultato di circostanze storiche o politiche piuttosto che di reali interazioni socio-economiche. Un esempio emblematico di questa discrepanza è rappresentato dalle grandi aree urbane, dove la popolazione residente, quella ufficialmente registrata, non corrisponde alla reale presenza quotidiana di persone che vi si recano per lavoro o per accedere ai servizi. Le cosiddette “aree pendolari”, che formano un sistema integrato con i centri economici principali, sfuggono alle tradizionali delimitazioni amministrative. Per superare questa limitazione è necessario adottare un approccio funzionale che definisca i territori in base alle relazioni socio-economiche effettive, come i flussi di pendolarismo, piuttosto che a confini stabiliti a priori. I Sistemi Locali del Lavoro (SLL), introdotti dall’Istat a partire dal 1981, rappresentano proprio un tentativo di cogliere queste dinamiche. Si tratta di aggregazioni di comuni contigui basate sull’auto-contenimento degli spostamenti quotidiani per motivi di lavoro, ricostruiti attraverso i dati censuari. Nel corso degli anni il numero dei SLL è progressivamente diminuito, passando da 955 nel 1981 a 610 nel 2011, un trend legato sia al miglioramento delle infrastrutture di trasporto che hanno ampliato i bacini di mobilità, sia alle trasformazioni della struttura produttiva locale. La geografia dei SLL non si limita a descrivere i confini funzionali del lavoro, essendo stata ulteriormente arricchita da classificazioni basate sulla specializzazione produttiva, come i distretti industriali o le aree a vocazione turistica. Le stime sull’occupazione e la disoccupazione a livello di SLL sono ottenute attraverso metodologie statistiche avanzate che combinano i dati della Rilevazione sulle forze di lavoro con tecniche di stima per piccole aree, garantendo così una maggiore affidabilità e coerenza con le statistiche ufficiali. Questa granularità analitica ha permesso di evidenziare, nel 2022, un marcato dualismo territoriale nel mercato del lavoro italiano. Il tasso di occupazione nel Centro-Nord si attesta al 50,0%, contro un preoccupante 35,6% nel Mezzogiorno, mentre il tasso di disoccupazione è del 5,6% al Nord rispetto al 14,3% al Sud.
L’esame dettagliato della distribuzione dei tassi di occupazione e disoccupazione per SLL conferma queste disparità. Ad esempio, nel quartile superiore della distribuzione del tasso di occupazione (valori tra il 50,9% e il 61,9%) si concentrano il 69,8% dei SLL del Nord-Est e il 46,2% di quelli del Nord-Ovest mentre non compare nessun SLL meridionale. Al contrario, nel quartile inferiore (tasso di occupazione tra il 26,2% e il 36,6%) si trovano esclusivamente SLL del Mezzogiorno, in particolare oltre il 90% di quelli calabresi e siciliani. Una situazione analoga si osserva per il tasso di disoccupazione. Il quartile con i valori più alti (12,0%-31,5%) include solo SLL meridionali, con picchi in Calabria (35 su 43 SLL), Sicilia e Campania. L’analisi di lungo periodo (2008-2022) rivela come le crisi economiche abbiano colpito in modo differenziato i territori. La crisi del 2009 ha avuto un impatto particolarmente severo nel Mezzogiorno, dove l’occupazione è crollata di oltre 500.000 unità, circa la metà del calo nazionale. La ripresa è stata più lenta al Sud mentre il Nord, pur subendo un forte contraccolpo durante la pandemia del 2020, ha mostrato una maggiore capacità di recupero. Nel complesso il bilancio occupazionale del quindicennio è positivo (+73.000 occupati) ma questa media nasconde dinamiche opposte. Il Centro e il Nord-Est registrano una crescita mentre il Mezzogiorno non ha ancora raggiunto i livelli pre-2008. Una classificazione dei SLL in base alla loro resilienza mostra che i sistemi “robusti” (nessun calo occupazionale né nel 2009 né nel 2020) sono concentrati nel Nord-Est e nel Centro mentre quelli “fragili” (cali occupazionali in tutte le fasi) sono prevalentemente meridionali. I sistemi urbani e quelli specializzati nel Made in Italy hanno dimostrato una maggiore capacità di resistenza, a differenza delle aree periferiche del Mezzogiorno, dove persistono criticità strutturali.
Barbara Boschetto ed Elisa Marzilli nel loro saggio sostengono che nell’attuale società della conoscenza, caratterizzata da un’incessante innovazione tecnologica e da un generale incremento dei livelli di istruzione terziaria, la valorizzazione del capitale umano rappresenta un fattore cruciale per la competitività economica e la capacità di affrontare sfide globali come la transizione verde e digitale. L’Unione Europea, consapevole di questa necessità, ha promosso strategie come Europa 2020, fissando obiettivi ambiziosi: un tasso di occupazione del 75% nella fascia d’età 20-64 anni, una quota di laureati del 40% tra i 30-34enni e un investimento in ricerca e sviluppo pari al 3% del PIL. Tuttavia l’Italia non solo non ha raggiunto questi traguardi ma si trova in una posizione di svantaggio rispetto alla media europea, con una produttività stagnante e un livello di competenze della forza lavoro inferiore agli standard internazionali, come evidenziato dai dati Ocse del 2018 e Istat del 2023. Uno dei problemi più rilevanti è il cosiddetto skill mismatch, ovvero lo squilibrio tra le competenze richieste dal mercato del lavoro e quelle effettivamente possedute dai lavoratori. Questo fenomeno assume in Italia una doppia forma. I bassi livelli di istruzione media generano una sotto-qualificazione della forza lavoro mentre la struttura produttiva del paese, dominata da piccole imprese a conduzione familiare con scarso interesse per l’innovazione, limita la domanda di professionalità avanzate. Inoltre la composizione dei laureati italiani riflette una sproporzione tra discipline umanistico-giuridiche, che rappresentano una quota significativa ma offrono minori opportunità occupazionali, e quelle scientifico-tecnologiche (STEM), che invece garantiscono migliori prospettive di impiego ma sono scelte solo dal 25% dei laureati, con un marcato divario di genere (34,5% uomini contro 16,7% donne). La carenza di un’offerta formativa terziaria professionalizzante, presente invece in altri paesi europei, aggrava ulteriormente il problema. Mentre nazioni come Germania e Francia dispongono di percorsi vocational che facilitano l’inserimento lavorativo, in Italia molti diplomati tecnici non accedono a un’istruzione superiore adeguata, fermandosi al diploma. Questo limita la possibilità di colmare il gap tra domanda e offerta di competenze, come sottolineato anche dall’Agenda europea per le competenze del 2022. I dati Istat del 2023 mostrano che i livelli di istruzione in Italia, pur essendo migliorati nel tempo, restano inferiori alla media europea. Solo il 63% degli adulti (25-64 anni) possiede almeno un diploma, contro il 79,5% dell’UE, e la quota di laureati tra i 30-34enni è del 27,4%, ben al di sotto dell’obiettivo europeo del 40%. Le disparità territoriali sono evidenti. Nel Centro-Nord il 30,5% dei giovani è laureato mentre nel Mezzogiorno la percentuale scende al 21,6%. Anche il genere incide con le donne che superano gli uomini (33,8% contro 21,0%) ma il loro vantaggio si riduce quando si considerano le discipline STEM, dove la sottorappresentazione femminile è particolarmente accentuata. L’analisi delle professioni rivela ulteriori criticità. Sebbene i dirigenti e gli imprenditori abbiano un livello di istruzione relativamente alto (49,5% diplomati, 19,2% laureati), una quota significativa (30%) possiede solo la licenza media, riflettendo l’elevato numero di piccoli imprenditori con bassa scolarizzazione. Le professioni specialistiche sono invece dominate dai laureati (79,9%) ma settori come l’insegnamento primario presentano ancora una percentuale rilevante di non laureati (72,1%), soprattutto tra gli over 50. Le professioni tecniche mostrano un mix di diplomati (55,7%) e laureati (36,6%), segno di un possibile overskilling, mentre nei ruoli impiegatizi e operai si riscontra una preoccupante presenza di laureati sovra-istruiti, in particolare tra i giovani (38,5% nella fascia 25-34 anni). Il fenomeno della sovra-istruzione, che nel 2022 riguardava 1,9 milioni di laureati (34% del totale), ha implicazioni negative non solo economiche ma anche sociali. I lavoratori sovra-istruiti dichiarano livelli di soddisfazione inferiori (7,68 su 10 contro 7,9 dei pari istruiti), specialmente riguardo alla carriera e all’interesse per il proprio lavoro. Le donne sovra-istruite sono più numerose (35,9% contro 31,7% degli uomini) e mostrano un calo di soddisfazione con l’età, passando da un punteggio di 6,6 (25-34 anni) a 5,9 (over 50) nella valutazione della propria carriera. Il confronto europeo attraverso l’indicatore HRST (Human Resources in Science and Technology) conferma il ritardo italiano. Nel 2022 solo il 37,4% della popolazione attiva rientrava in questa categoria (contro il 49,3% dell’UE), con una componente “core” (laureati in professioni scientifiche) ferma al 17% (vs. 25,4% UE). La quota di scienziati e ingegneri è particolarmente bassa (15,2% degli occupati HRST, contro il 23,7% UE), con un divario di genere a sfavore delle donne (11,5% contro 18,5% uomini). Quindi l’Italia sconta un duplice deficit: una formazione terziaria insufficiente e un mercato del lavoro che fatica ad assorbire competenze avanzate. Senza politiche mirate a potenziare l’istruzione STEM, sviluppare percorsi professionalizzanti e incentivare l’innovazione nelle imprese, il rischio è un ulteriore declino competitivo, con conseguenze negative per la crescita economica e la coesione sociale.
2. Quali problemi da affrontare
Francesco Devicienti e Bernardo Fanfani nel libro affrontano il dibattito sul declino dei salari partendo dai preoccupanti dati OCSE, i quali mostrano una crescita negativa del -2,9% dei salari reali italiani tra il 1990 e il 2020 contro il +33,7% tedesco o il +31,1% francese, sviluppando un’analisi articolata che smonta diversi luoghi comuni. La prima fondamentale precisazione riguarda la natura stessa del dato: ciò che è diminuito non sono i salari unitari (orari/giornalieri), bensì i redditi annuali da lavoro, una differenza cruciale che spiega come l’Italia abbia contemporaneamente registrato una crescita del +4,2% dei salari giornalieri mediani tra il 1990-2008 (migliorando persino la performance tedesca ferma a +3,5%) e un crollo verticale delle retribuzioni annuali, particolarmente accentuato (-35%) per il decile più povero della popolazione attiva tra il 2006 e il 2021. Questo paradosso apparente si spiega con il drammatico calo delle giornate lavorate, diminuite del 10% a livello generale ma con picchi del 30% per il quartile più basso della distribuzione dei redditi, un fenomeno che traduce in cifre la crescente precarietà del mercato del lavoro italiano. I dati UNIEMENS dell’INPS rivelano infatti che mentre i salari giornalieri reali al decimo percentile crescevano del 6% nel quindicennio 2006-2021, il numero di giornate lavorate crollava così drasticamente da erodere completamente questo vantaggio e produrre quel -35% di reddito annuale che fotografa l’impoverimento della working class italiana. L’analisi si addentra poi nel complesso rapporto tra contrattazione collettiva e dinamiche salariali, mostrando come il sistema italiano, a differenza di quello tedesco che dopo le riforme degli anni ’90 ha visto crescere le disparità tra imprese, abbia compresso le disuguaglianze tra salari unitari (come attestano i dati sulla deviazione standard dei salari settimanali in Veneto tra il 1977-2013) ma abbia anche indebolito il legame tra salari e produttività. Le stime mostrano che un aumento del 10% del valore aggiunto per lavoratore si traduce in Italia in una crescita salariale del solo 2,2%, con una componente di rent-sharing (premi salariali legati alla produttività aziendale) in costante diminuzione (da +1,2% nel 2004-2006 a +0,9% nel 2013-2015), segno del fallimento delle politiche di incentivazione alla contrattazione di secondo livello. Il quadro che emerge è dunque quello di un mercato del lavoro dove la tenuta dei salari unitari (+4% per la mediana e novantesimo percentile, +6% per il decimo percentile nel 2006-2021) nasconde un dramma sociale fatto di redditi annuali in picchiata (-6% mediana, -35% decimo percentile), giornate lavorate evaporate (-30% per i lavoratori più poveri) e un sistema di relazioni industriali che, pur avendo preservato i minimi contrattuali, non è riuscito a contrastare la precarizzazione né a creare quel circolo virtuoso tra produttività e salari che caratterizza economie più dinamiche. Gianluca Busilacchi e Federico Sofritti si concentrano invece su due fenomeni emergenti che ridefiniscono il concetto di lavoro fragile: il part-time involontario (Pti) e la povertà lavorativa (in-work poverty, Iwp). Il loro saggio parte da una premessa storica che evidenzia come il mercato del lavoro italiano si sia storicamente caratterizzato per un dualismo territoriale, con il Nord più vicino alle medie europee e il Sud con livelli di occupazione più bassi, e per uno svantaggio strutturale di giovani e donne rispetto agli uomini adulti. La sociologia del lavoro ha tradizionalmente analizzato la segmentazione tra insider (lavoratori garantiti) e outsider (lavoratori precari) ma negli ultimi anni è emersa una nuova fragilità poiché anche gli insider non sono più al riparo da rischi sociali, come dimostra l’aumento dei working poor (lavoratori che, pur occupati, vivono sotto la soglia di povertà) e del part-time involontario che riflette una crescente sottoccupazione. Uno dei dati più significativi riguarda proprio il part-time involontario che in Italia costituisce il 53% del totale dei contratti part-time, una percentuale molto più alta rispetto alla media europea (19,3%) e a Paesi come la Germania (5,8%) o la Francia (25,9%). Questo fenomeno è esploso soprattutto dopo la crisi del 2008. Tra il 2004 e il 2018, la quota di Pti è quasi raddoppiata, passando dal 36,2% al 64,4%, con un picco del 76% tra gli uomini (che accettano più spesso un part-time per mancanza di alternative) e del 60,3% tra le donne. La crescita è stata particolarmente marcata nei settori a bassa qualificazione, dove il Pti raggiunge il 72,4% del totale, contro solo il 33% nei ruoli manageriali. Le conseguenze sono gravi, infatti il 39% dei lavoratori in Pti vive in famiglie senza altri redditi e chi svolge mansioni poco qualificate guadagna tra 580 e 760 euro al mese, cifre che rendono difficile sfuggire al rischio di povertà. Le donne sono le più colpite (circa il 70% dei lavoratori in Pti), soprattutto al Sud, dove il 21,9% delle occupate lavora in part-time involontario, contro il 14,4% del Nord-ovest. Questo divario si spiega con il modello familistico di welfare italiano che scarica sulle donne la maggior parte del lavoro di cura, spingendole ad accettare lavori a orario ridotto per conciliare impegni professionali e familiari. La povertà lavorativa (Iwp) è definita come la condizione di chi, pur lavorando, vive in famiglie con un reddito inferiore al 60% della mediana nazionale. In Europa il fenomeno è cresciuto dal 6% nel 2003 al 10% nel 2021, coinvolgendo oltre 20 milioni di lavoratori. In Italia l’Iwp colpisce soprattutto giovani, lavoratori a tempo determinato e autonomi, con forti disuguaglianze territoriali: al Sud e nelle Isole il 26-27% delle famiglie ha almeno un componente in povertà lavorativa, contro solo il 7-10% del Nord. Un dato particolarmente significativo è che il 25% dei nuclei con capofamiglia a tempo determinato è in Iwp, contro solo il 10% di quelli con contratto a tempo indeterminato. Anche il titolo di studio gioca un ruolo cruciale visto che tra i capifamiglia con istruzione primaria o inferiore la povertà lavorativa raggiunge il 56% nelle Isole e il 40% al Sud mentre tra i laureati scende al 4-10%.
Il confronto internazionale mostra che l’Italia ha un problema specifico perché mentre in Germania la quota di lavoratori a basso reddito è compensata da un alto tasso di occupazione familiare, in Italia la minore occupazione (soprattutto femminile) fa sì che molte famiglie dipendano da un solo reddito, aumentando il rischio di povertà. Le politiche pubbliche finora adottate, come il Reddito di cittadinanza, non sono sufficienti. Servirebbero interventi più strutturali, come salari minimi, sostegni alla genitorialità e incentivi all’occupazione stabile, soprattutto al Sud e per le donne. Sergio Destefanis approfondisce la situazione del mercato del lavoro nel Mezzogiorno e delinea un quadro complesso e articolato basato su dati Istat aggiornati e analisi comparative che evidenziano le persistenti disparità tra il Sud e il resto del paese. Il tasso di occupazione nel Mezzogiorno, nel periodo 2004-2023, si attesta mediamente a 20 punti percentuali al di sotto di quello delle altre ripartizioni geografiche, con un andamento che risente fortemente delle crisi economiche. La disoccupazione, specularmente, mostra livelli sistematicamente più elevati al Sud, con un picco del 20,7% nel 2014 e un differenziale medio di circa il 10% rispetto al Centro-nord. Un’analisi disaggregata per genere rivela un divario ancora più marcato per le donne, il cui tasso di occupazione nel Mezzogiorno è inferiore di circa 25 punti percentuali rispetto alle altre aree del paese mentre la disoccupazione femminile, pur restando elevata, non presenta differenze di genere così accentuate. Tuttavia la dinamica della disoccupazione femminile nel Mezzogiorno appare meno negativa rispetto a quella maschile dopo la crisi del 2008, suggerendo una maggiore resilienza o, al contrario, una minore partecipazione al mercato del lavoro. Ancora più critica è la situazione dei giovani tra i 15 e i 24 anni, con tassi di occupazione giovanile nel Mezzogiorno stabilmente più bassi e disoccupazione giovanile che, negli anni successivi alla crisi del 2008, ha raggiunto livelli drammatici. Una timida inversione di tendenza si osserva dal 2014, probabilmente legata all’introduzione di Garanzia Giovani, ma il divario con il resto del paese rimane ampio. L’analisi delle correlazioni tra indicatori del mercato del lavoro e la composizione settoriale dell’occupazione mostra che una maggiore quota di occupati nell’industria in senso stretto (settori Ateco b-e) è associata a tassi di occupazione più elevati e disoccupazione più bassa, sia a livello nazionale che nel Mezzogiorno. Al contrario, una maggiore presenza del terziario avanzato ha effetti meno significativi e, in alcuni casi, persino controproducenti. Questo suggerisce che politiche industriali orientate al rafforzamento del settore manifatturiero potrebbero avere un impatto positivo sull’occupazione mentre una terziarizzazione indiscriminata rischia di aggravare gli squilibri esistenti. Per valutare l’efficienza del mercato del lavoro Destefanis utilizza la curva di Beveridge che mette in relazione il tasso di disoccupazione con quello dei posti vacanti. Nel Mezzogiorno questa curva è sistematicamente più lontana dall’origine degli assi rispetto alle altre ripartizioni, indicando una minore efficienza nel matching tra domanda e offerta di lavoro. Inoltre, a differenza del Nord-ovest, dove la curva è più stabile, nel Mezzogiorno si osservano frequenti spostamenti, segno di una maggiore volatilità nell’efficienza del mercato. Un dato particolarmente rilevante è l’aumento dei posti vacanti dopo il 2020, senza un corrispondente calo della disoccupazione, fenomeno noto a livello internazionale come Great Resignation. Questo trend, comune a tutte le aree del paese, segnala un peggioramento del funzionamento del mercato del lavoro, con difficoltà crescenti nell’incontro tra competenze disponibili e richieste delle imprese. Per approfondire questo aspetto viene applicato l’Oecd diagnostic tool, uno strumento che classifica le aree geografiche in base all’equilibrio tra domanda e offerta di competenze. Le regioni possono trovarsi in quattro situazioni: equilibrio a basse competenze (bassa domanda e bassa offerta), deficit di competenze (alta domanda e bassa offerta), surplus di competenze (bassa domanda e alta offerta) o equilibrio ad alte competenze (alta domanda e alta offerta). Nel 2018 molte regioni del Mezzogiorno presentavano un equilibrio a basse competenze o un surplus mentre nel 2023, dopo la Great Resignation, il numero di aree con surplus di competenze è aumentato. Questo indica un ulteriore peggioramento del mismatch, con un’offerta di competenze che non trova corrispondenza nella domanda locale, spingendo i lavoratori qualificati a emigrare verso aree con maggiori opportunità. Infine l’analisi si concentra sull’impatto del Pnrr sul mercato del lavoro meridionale. I dati preliminari suggeriscono che i finanziamenti abbiano avuto un effetto positivo, soprattutto nel settore delle costruzioni, contribuendo a ridurre parzialmente il divario occupazionale tra Mezzogiorno e Centro-nord. Tuttavia resta incerto se questa spesa possa risolvere i problemi strutturali del mismatch di competenze. Per ottenere risultati duraturi il Pnrr dovrebbe essere accompagnato da politiche industriali coordinate, una riforma dei Centri per l’impiego, la cui inefficienza è stata più volte denunciata, come nel rapporto Svimez del 2014, e un potenziamento del legame tra formazione e mondo produttivo. Inoltre il depauperamento della pubblica amministrazione, dovuto al blocco del turnover, richiede interventi urgenti per garantire una gestione efficiente delle risorse e delle politiche di sviluppo. Francesco Giubileo e Gianluca Scarano si occupano delle politiche attive del lavoro (Pal), le quali rappresentano un insieme di interventi finalizzati a facilitare l’accesso e la permanenza nel mercato del lavoro per categorie svantaggiate, tra cui disoccupati percettori di sussidi, cassaintegrati, inattivi abili al lavoro e inoccupati. Queste misure agiscono direttamente sul mercato del lavoro, cercando di correggerne le imperfezioni strutturali, spesso legate a squilibri informativi, carenze formative e rigidità nell’incontro tra domanda e offerta. Nel dibattito pubblico italiano si osserva una frequente confusione tra le politiche attive e i servizi pubblici per l’impiego (Spi) che invece costituiscono gli enti incaricati di erogare tali interventi. La distinzione è fondamentale perché mentre le Pal sono le azioni concrete (come corsi di formazione o incentivi all’assunzione), gli Spi sono le strutture amministrative che le implementano, spesso caratterizzate da inefficienze e sottofinanziamento. Le politiche attive si possono suddividere in quattro grandi categorie. La prima comprende misure di assistenza e orientamento, finalizzate a ridurre le asimmetrie informative che ostacolano l’incontro tra lavoratori e imprese, come programmi di ricerca attiva del lavoro, consulenze personalizzate e piattaforme di matching domanda-offerta. La seconda categoria riguarda i programmi di formazione professionale, mirati ad accrescere il capitale umano dei partecipanti, migliorandone l’occupabilità. La terza include strumenti incentivanti, come sgravi contributivi e agevolazioni fiscali per le assunzioni, nonché meccanismi di condizionalità che legano l’erogazione di sussidi di disoccupazione alla dimostrazione di impegno nella ricerca di lavoro. Infine la quarta categoria riguarda i programmi di lavoro pubblico, spesso realizzati attraverso attività di pubblica utilità.
L’attuale sistema di governance delle Pal in Italia è definito da una ripartizione di competenze tra Stato e Regioni, come stabilito dall’articolo 117 della Costituzione, che assegna alle Regioni la gestione operativa attraverso i centri per l’impiego (Cpi) e una rete di soggetti accreditati, tra cui agenzie private, enti bilaterali e organizzazioni no-profit. Le Regioni devono garantire il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) mentre lo Stato fissa gli indirizzi strategici e monitora i risultati. Questa frammentazione ha spesso generato disomogeneità nell’efficacia degli interventi, con differenze marcate tra Nord e Sud.
Un tentativo di razionalizzazione è stato compiuto con il decreto legislativo 150/2015 che ha istituito l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal), con il compito di coordinare le politiche a livello nazionale. L’Anpal ha sofferto fin dall’inizio di ambiguità operative, legate anche al fallimento del progetto di riaccentramento delle competenze dopo il referendum costituzionale del 2016. L’agenzia è stata oggetto di critiche per la mancanza di una chiara missione e per i frequenti commissariamenti, fino alla sua soppressione nel 2024 e alla sostituzione con la società in-house Sviluppo Lavoro Italia, controllata dal Ministero del Lavoro. Dal punto di vista finanziario le risorse destinate alle Pal sono state tradizionalmente scarse, con una spesa pubblica in misure attive che, nel periodo 2008-2019, si è attestata intorno allo 0,3% del PIL, ben al di sotto della media Ocse. Gran parte dei fondi deriva dai programmi europei, in particolare dal Fondo sociale europeo (FSE), gestiti attraverso i Piani operativi regionali (POR). Negli ultimi anni, tuttavia, sono stati avviati piani straordinari per potenziare i servizi per l’impiego, come il Piano del 2017 legato al Jobs Act e quello del 2019 in concomitanza con l’introduzione del Reddito di cittadinanza (Rdc). Proprio il Rdc ha rappresentato un caso emblematico delle criticità del sistema: nonostante fosse stato presentato come uno strumento di attivazione, in realtà si è rivelato prevalentemente una misura passiva di contrasto alla povertà, con scarsi risultati in termini di reinserimento lavorativo. Le critiche hanno portato alla sua abolizione nel 2023 e alla sostituzione con due nuovi strumenti: l’Assegno di inclusione, rivolto a nuclei familiari fragili, e il Supporto per la formazione e il lavoro (SFL) che enfatizza la condizionalità e il collegamento con le politiche attive, in particolare con il programma Garanzia per l’occupabilità dei lavoratori (GOL). Il GOL, finanziato con 4,4 miliardi di euro dal Pnrr, rappresenta il più consistente investimento mai realizzato in Italia in politiche attive. Il programma introduce una metodologia unica di profilazione dei disoccupati, suddivisi in cinque percorsi di intensità crescente, dal semplice orientamento fino a interventi multidisciplinari per i casi più complessi. Essendo ancora in fase iniziale non è possibile valutarne l’efficacia, anche se i primi dati mostrano un’attenzione eccessiva agli obiettivi quantitativi (numero di patti firmati) piuttosto che alla qualità degli interventi. Un altro tema cruciale è quello della condizionalità, sempre più presente nelle riforme recenti, in linea con i modelli di workfare diffusi a livello internazionale. Questo approccio, che subordina l’erogazione dei sussidi alla dimostrazione di impegno nella ricerca di lavoro, rischia però di escludere i soggetti più svantaggiati, spingendoli verso l’inattività anziché verso l’occupazione, e generando effetti psicologici negativi come stress e stigmatizzazione. La digitalizzazione degli Spi è un ulteriore fronte di innovazione, con il GOL che promuove l’uso di piattaforme informatiche per migliorare l’efficienza dei servizi. Persistono forti divari territoriali, infatti al 2022 solo il 60% dei Cpi al Sud utilizzava strumenti digitali per l’erogazione dei servizi, contro una media del 90% al Nord. Inoltre l’introduzione di algoritmi di profilazione solleva questioni etiche e di trasparenza, soprattutto quando le decisioni sono basate su dati parziali o non tengono conto di fattori socio-relazionali cruciali. Infine un problema strutturale delle Pal italiane è il cosiddetto “effetto san Matteo”, per cui gli interventi finiscono per avvantaggiare chi è già più vicino al mercato del lavoro, ampliando le disuguaglianze invece di ridurle. A ciò si aggiunge la mancanza di un sistema di valutazione robusto che permetta di misurare l’impatto reale delle politiche e la difficoltà di integrare i dati tra i diversi livelli istituzionali. Davide Arcidacono e Ivana Pais si occupano invece delle trasformazioni che la digitalizzazione e l’avvento delle piattaforme digitali stanno apportando al mondo delle professioni, sia tradizionali che emergenti, ridefinendo radicalmente i concetti di professionalità, autonomia e potere professionale. Partendo dalle classiche definizioni sociologiche delle professioni come ambiti caratterizzati da conoscenze specialistiche, autonomia, etica deontologica e riconoscimento sociale, gli autori evidenziano come il modello tradizionale, basato su meccanismi di chiusura corporativa e controllo statale dell’accesso, stia subendo un processo di profonda erosione. Già a partire dagli anni ‘70 autori come Oppenheimer avevano segnalato fenomeni di proletarizzazione e perdita di autonomia dei professionisti integrati in organizzazioni burocratiche mentre Hanlon parlava di “professionalismo commercializzato” per descrivere la crescente subordinazione alle logiche di mercato. La ricerca condotta dagli autori, basata su un’ampia mappatura di 150 piattaforme attive in Italia (di cui il 56% intermedia lavoro professionale e il 17% coinvolge professioni regolamentate), integrata da 26 interviste semi-strutturate e studi di caso come Unobravo (psicologi) e Doctorium (medici), dimostra come le piattaforme stiano ridefinendo sette dimensioni chiave del potere professionale individuate da Speranza. In particolare si osserva una tendenza alla sostituzione dei tradizionali meccanismi di credenzialismo con sistemi reputazionali basati sulle valutazioni dei clienti, come nel caso delle piattaforme per psicologi dove emerge una competizione al ribasso sui prezzi. Alcune piattaforme, come Unobravo, sviluppano addirittura propri metodi professionali alternativi (il “metodo Unobravo” caratterizzato da informalità nella relazione terapeutica), mentre altre aggirano i requisiti formali ridefinendo le attività professionali (ad esempio piattaforme che offrono servizi di progettazione architettonica senza richiedere la direzione lavori). Il potere di scelta del professionista viene progressivamente eroso da algoritmi di matching che privilegiano la selezione da parte del cliente, con evidenti conseguenze sulla stratificazione professionale. Le piattaforme tendono a standardizzare e frammentare le attività complesse (processo di “taskification”), come evidenziato nel caso degli studi legali in franchising analizzati da Van Hoy, riducendo lo spazio per l’autonomia decisionale. Contemporaneamente i professionisti in piattaforma faticano a costruire un’identità collettiva, a differenza di altre categorie come i rider che hanno sviluppato forme di mobilitazione. Particolarmente interessante è il confronto tra professioni tradizionali e nuove figure emergenti come i fitness influencer e i digital reseller, studiati attraverso un’approfondita etnografia multi-situata che ha seguito 40 soggetti tra piattaforme digitali e eventi fisici come fiere del fitness e mercatini vintage. Queste nuove professionalità nascono da attività originariamente amatoriali e sviluppano conoscenze vernacolari attraverso pratiche di apprendimento informale e condivisione in comunità online (ad esempio i gruppi Telegram per reseller). Tuttavia sono totalmente subordinate alle regole unilaterali delle piattaforme, come dimostrano i casi di Vinted che si sottrae alla responsabilità di verificare l’autenticità dei prodotti o di YouTube che modifica unilateralmente i criteri di remunerazione. La ricerca evidenzia come queste figure sviluppino strategie di resistenza sia individuali (creazione di codici etici informali tra influencer per gestire l’esposizione personale, specializzazione in prodotti di alto valore tra i reseller) che collettive, come le proteste degli streamer italiani con il #nostreamday o la petizione di 12.000 utenti contro l’aumento unilaterale delle tariffe di spedizione su Vinted. Tali mobilitazioni stanno iniziando a ricevere attenzione istituzionale, come dimostrano il regolamento UE 2019/1150 e le discussioni in sede ISIC e NACE per una classificazione di queste nuove attività. Il quadro che emerge mostra una trasformazione non lineare del professionalismo, dove da un lato le piattaforme possono erodere l’autonomia tradizionale (attraverso processi di deprofessionalizzazione e taskification), dall’altro creano nuove opportunità di intermediazione e riconoscimento. La mancanza di un quadro regolatorio chiaro a livello nazionale (con l’eccezione di esperienze come Doctolib in Francia) lascia però questi nuovi professionisti in una zona grigia tra autonomia e subordinazione, tra riconoscimento sociale e precarietà, ridefinendo in modo profondo il futuro del lavoro professionale nell’era digitale. Per concludere affrontiamo il saggio di Carlo Carboni e Rossella Di Federico sull’evoluzione del rapporto tra lavoro e vita personale nell’Italia contemporanea, inserendola in un contesto europeo e storico più ampio. Negli ultimi sessant’anni si è verificata una progressiva riduzione del tempo dedicato al lavoro. Se negli anni ‘50 un lavoratore italiano medio dedicava oltre 2000 ore annue al lavoro, nel 2020 questa cifra era crollata a 1534 ore, con una parziale ripresa a 1694 ore nel biennio successivo. Questa tendenza appare ancora più marcata in paesi come Germania e Danimarca, dove si lavora circa il 20% in meno rispetto all’Italia, dimostrando come economie avanzate possano conciliare minore tempo lavorativo con alta produttività e tassi occupazionali elevati. Guardando al ciclo di vita completo di un individuo, la rivoluzione è ancora più evidente. Per un ottantenne degli anni ‘50 del XXI secolo il lavoro rappresenterà solo il 9% del totale delle ore vissute (circa 700.000 ore) mentre dopo aver sottratto le ore di sonno (233.300 ore), il lavoro occuperà appena il 15% del tempo di veglia. Un cambiamento epocale rispetto a un secolo e mezzo fa, quando il lavoro assorbiva oltre il 50% del tempo di veglia, con orari doppi rispetto agli attuali e un’aspettativa di vita molto più breve. Se ci si concentra sulla fase matura della vita (dai 25 ai 65 anni), il lavoro mantiene un’incidenza significativa, passando dal 53% di un secolo e mezzo fa, al 40% di sessant’anni fa, fino all’attuale 31%. Questa riduzione relativa è il risultato di molteplici fattori: l’aumento della produttività grazie all’innovazione tecnologica, le politiche di redistribuzione del lavoro (come il part-time che in Italia coinvolge oltre 4 milioni di lavoratori, di cui 2,9 milioni involontariamente) e l’evoluzione dell’organizzazione del lavoro con l’avvento dello smart working e del telelavoro accelerati dalla pandemia. Il mercato del lavoro italiano si presenta però come un panorama frammentato e complesso, con ben 1037 contratti collettivi registrati dal CNEL nel 2023 che riflettono la moltiplicazione delle forme contrattuali: dal lavoro a tempo determinato (responsabile del 75% della crescita occupazionale 2008-2022) ai contratti a chiamata, di somministrazione, co.co.co. e apprendistato. Questa “giungla normativa” ha creato profonde disuguaglianze. I lavoratori stabili beneficiano di maggiori garanzie, i precari (soprattutto giovani e donne) devono affrontare redditi bassi (il part-time in Italia offre 10.000-15.000€ lordi annui, contro il 40% in più della Germania) e difficoltà di conciliazione. Le conseguenze di questa frammentazione si manifestano in un crescente mismatch tra ore lavorate desiderate e effettive. Secondo l’ILO nel 2022 il 9% degli italiani lavorava oltre 49 ore settimanali (sovraoccupazione) mentre al Sud e tra le donne è più diffusa la sottoccupazione. Entrambe le situazioni generano malessere. Stress e conflitti vita-lavoro per i primi, insoddisfazione economica per i secondi. Un’indagine Gallup del 2022 rivela che solo il 13% dei lavoratori europei si sente realmente coinvolto nel proprio lavoro mentre il 72% è in una condizione di “quiet quitting”, ovvero di distacco emotivo. La questione della conciliazione tra lavoro e vita privata è diventata centrale, soprattutto dopo l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro. Le donne italiane dedicano ancora in media 15 ore settimanali in più degli uomini al lavoro domestico non retribuito e il part-time riguarda 1 donna su 3 contro 1 uomo su 10, spesso in forma involontaria (61,2% dei casi secondo l’Istat nel 2022). Le politiche di work-life balance (come lo smart working) hanno dimostrato benefici sia per le aziende (maggiore produttività, minore turnover) che per i lavoratori (miglior benessere psicofisico) ma in Italia la loro diffusione è limitata dalla prevalenza di microimprese (99% del tessuto produttivo) restie a perdere il controllo diretto sui dipendenti. Interessanti sperimentazioni internazionali, come la settimana lavorativa di 4 giorni testata nel Regno Unito, Islanda e Spagna, mostrano risultati promettenti in termini di produttività e qualità della vita. In Italia alcune grandi aziende come Intesa Sanpaolo e Lavazza hanno avviato progetti simili ma il rischio è che, senza un parallelo potenziamento dei servizi di welfare, queste innovazioni possano accentuare le disuguaglianze di genere, scaricando ulteriori carichi di cura sulle donne. Parallelamente alla riduzione del tempo di lavoro si assiste a un cambiamento culturale profondo: il lavoro sta perdendo la sua centralità identitaria a favore di un individualismo che privilegia la sfera privata. Come nota Carboni, siamo passati da un “familismo amorale” a un “individualismo amorale”, dove il lavoro è sempre più percepito come un ostacolo alla realizzazione personale. Questo fenomeno è amplificato dal neocapitalismo digitale che colonizza il tempo libero attraverso tecnologie e consumi, trasformando l’intera esistenza in una risorsa economica. La sfida per il futuro sarà quindi trovare un equilibrio tra flessibilità e diritti, tra riduzione dell’orario e sostenibilità economica, in un mercato del lavoro sempre più frammentato dove convivono sovraoccupati stressati e sottoccupati impoveriti. Come suggeriscono gli autori, la “via alta” potrebbe essere quella di combinare minore tempo di lavoro, maggiori investimenti in innovazione e formazione e politiche di welfare più avanzate per riconciliare finalmente il tempo del lavoro con il tempo della vita.