In questa intervista, abbiamo l’opportunità di dialogare con Luca Lombardi, gestore del sito Xepel e noto economista marxista, autore di numerosi e importanti saggi come Il modo di produzione asiatico, Valore, Crisi, Transizione e Arte e capitalismo. Saggi sull’ideologia borghese. Lombardi si distingue per la sua capacità di coniugare analisi teoriche approfondite con una forte attenzione alle implicazioni pratiche, il che lo rende una delle voci più rilevanti nel panorama del marxismo contemporaneo in Italia.
Il Collettivo Le Gauche, grazie a Gabriele Repaci, gli ha rivolto una serie di domande su alcuni dei temi più dibattuti nel pensiero economico marxista, tra cui la pianificazione economica, il dibattito sul calcolo economico, il socialismo di mercato e l’esperienza sovietica. Questi argomenti sono centrali nel suo ultimo lavoro, Teoria e pratica della pianificazione, in cui Lombardi esamina in profondità le sfide e le potenzialità della pianificazione socialista, sia da una prospettiva storica che teorica.
Attraverso questa intervista, puntiamo a esplorare le sue riflessioni sulle grandi questioni economiche del socialismo, creando un’occasione di confronto su temi cruciali per comprendere non solo il passato ma anche le prospettive future del socialismo. L’intervista mira a stimolare una discussione critica, aperta e orientata alla ricerca di risposte su problemi ancora oggi centrali per chi si interroga sulla possibilità di un’economia pianificata e alternativa al capitalismo.
Che cos’è la pianificazione economica e quali sono i suoi principali obiettivi? In che modo si differenzia dall’economia di mercato?
Con pianificazione economica si possono intendere una vasta serie di metodi, teorie, strumenti, procedure connessi alla programmazione dell’attività economica sia a livello di singola azienda e organizzazione che a livello di un’intera economia, con lo scopo di garantire la crescita dell’azienda, di un settore economico o dell’economia nel suo complesso o per finalità specifiche (piena occupazione, creazione di settori strategici, preparazione a una guerra, ecc.). Un certo livello di pianificazione è imprescindibile in ogni società, compresa quella capitalistica. Non solo, quanto più le imprese sono grandi e complesse tanto più necessitano di una pianificazione sofisticata che concerne i livelli di produzione, gli investimenti, i fornitori, l’ingresso in nuovi mercati, ecc., ma il mercato non è in grado di sviluppare alcuni settori che vanno dunque creati o sviluppati dallo Stato. Nel libro ci concentriamo sulla pianificazione intesa come la programmazione cosciente dell’attività economica di un intero paese da parte dello Stato. Anche in questo caso, possiamo dire che in ogni epoca lo Stato sviluppa una qualche forma di pianificazione. In alcune società antiche, quelle definite “palaziali” o “idrauliche”, l’economia era essenzialmente pianificata appunto dal palazzo (e a volte anche dal tempio) e i mercati rivestivano un ruolo marginale connesso soprattutto agli scambi internazionali. Dopo la caduta di questi regimi, di solito definiti a modo di produzione asiatico, l’economia è stata sempre basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sull’asservimento della forza-lavoro, dapprima diretta (schiavitù, servitù della gleba, colonato, ecc.), in seguito attraverso rapporti formalmente liberi: il lavoro salariato. Il capitalismo è la forma più sviluppata delle società di classe, quella in cui tutto passa per il mercato e le grandi aziende dominano ogni aspetto della vita sociale, incluse la politica e la cultura. Siamo dunque nell’epoca del mercato, dove tutto riceve un prezzo e dove il valore di ogni cosa corrisponde al suo prezzo. Le leggi oggettive di sviluppo del capitalismo dominano così l’umanità condannandola a lavorare senza sosta “per i mercati” ossia per un pugno di miliardari. Sarebbe superficiale pensare che, siccome dominano i mercati, non ci sia pianificazione. Le grandi multinazionali, e anche i governi, pianificano, ma le leggi del mercato frustrano qualunque pianificazione che si riduce, alla fine, a fare previsioni sul futuro, peraltro di solito sbagliate. Certo gli investimenti pubblici sono importanti nelle economie moderne, ma rispondono comunque allo scopo di far fare profitti alle imprese private. La pianificazione per l’interesse dell’intera collettività richiede prima la presa di coscienza sul funzionamento dell’economia capitalistica e poi la rottura di questo sistema. Questo passaggio può dischiudere le porte allo sviluppo armonico dell’economia e della società mondiale. Possiamo dunque dire che la pianificazione è superiore all’economia di mercato come il cervello umano è superiore al sistema nervoso di un insetto.
Il dibattito sul calcolo economico ha rappresentato un punto di scontro tra pianificatori e sostenitori del mercato. Quali sono stati i principali argomenti sollevati dai critici della pianificazione economica, come Mises e Hayek?
La pianificazione, come tutto ciò che è connesso al socialismo, è considerato dagli economisti, e dagli intellettuali borghesi più in generale, come un nemico dell’umanità. In quanto difensori di questo sistema, non possono che concepirlo come eterno e naturale. Così negano che vi siano epoche storiche sostenendo che tutta la storia umana si possa ridurre allo sforzo degli individui per diventare più ricchi, siano essi uomini delle caverne o banchieri di Wall Street. In quanto il capitalismo rispecchia la natura umana, tentare di superarlo è appunto innaturale, e dannoso. Il socialismo, come società che supera il dominio borghese sulla produzione, è dunque prima ancora che economicamente inefficiente, assurdo sul piano della natura delle cose. Tuttavia, questa negazione a priori poteva funzionare quando il movimento operaio era agli inizi, e poteva essere liquidato sul piano concettuale come un sogno infantile, e sul piano pratico con i manganelli e le baionette. Quando però, a partire dalle prime nazioni industrializzate, i socialisti da sparuta setta di intellettuali, divennero partiti di massa, questa posizione non funzionava più. Occorreva scendere sul terreno dell’analisi e provare a confutare i teorici socialisti. Così hanno tentato gli economisti a partire dalla seconda metà dell’Ottocento con Marx. È però interessante osservare che poiché la teoria di Marx è la “necessaria continuazione” come disse lui stesso, dell’economia politica classica di Smith, Ricardo e altri, rovesciata però nelle sue premesse metodologiche e nelle sue conclusioni politiche, gli economisti non potevano più servirsi di quella che per un secolo era stata la loro teoria.
Così, a partire dal 1870 circa, rinunciarono a quel paradigma scientifico, per non dover concludere come Marx, che è razionale lottare per superare il capitalismo, e riprendendo vecchie idee utilitariste, fondarono un nuovo paradigma economico, definito impropriamente neoclassico, che tuttora domina la teoria economica. Il paradosso è che questo paradigma pretende di essere astorico e privo di ogni riferimento a specifiche economie, inclusa quella capitalistica e dunque in astratto potrebbe anche descrivere una società socialista. Questo è vero soprattutto per il filone più matematizzato, quello di Walras e poi Pareto sino alle formulazioni moderne di Arrow e Debreu. Già nel 1908 un economista di questa scuola, Barone, scrisse un articolo in cui equiparava una società socialista a una società di mercato. L’intento di questi studi non era, ovviamente, difendere una società socialista, ma al contrario negare che il socialismo fosse qualcosa di diverso. Se le condizioni matematiche di ottimizzazione del processo di produzione e consumo sono le stesse (banalmente le equazioni sono identiche), che differenza c’è? Socialismo o capitalismo sono solo nomi diversi per raggiungere lo stesso risultato. Scrisse Barone: “Da ciò che abbiamo visto e dimostrato finora, si scorge all’evidenza quanto siano fantastiche quelle dottrine che sognano nel regime collettivista una produzione ordinata in modo sostanzialmente diverso da quello che è la produzione « anarchica »”. Sebbene l’obiettivo fosse la difesa dello status quo, ai difensori più estremi del capitalismo, gli economisti della scuola austriaca, questa linea difensiva sembrava una concessione al nemico. Se i prezzi sono conoscibili a priori, a che servirebbero i mercati? L’economia potrebbe essere gestita appunto dal “ministero della produzione”. Più in generale, sul piano metodologico, accettare un qualunque concetto aggregato, ad esempio quello di PIL, a questa scuola sembra una concessione al socialismo. Negano infatti valore a qualunque statistica economica e in generale a ogni dato empirico, rifugiandosi in una concezione filosofica e deduttiva della difesa del capitalismo. A dire il vero, la prima generazione di economisti austriaci, in particolare Böhm–Bawerk, scrissero contro il marxismo da un punto di vista del funzionamento concreto del sistema economico, ma quella linea di attacco non ebbe successo, e non venne sviluppata. La generazione successiva, quella di Mises, negava invece semplicemente che il socialismo potesse funzionare sul piano concettuale: i prezzi, necessari per dividere il lavoro, non pre-esistono al mercato, si formano solo durante le contrattazioni e dunque senza mercato non esistono prezzi, non esiste calcolo economico, non esiste economia.
Questa posizione poteva risultare in qualche modo utile sino agli anni ’20, quando il socialismo era un movimento politico. Con la vittoria dei bolscevichi in Russia e la nascita dell’economia pianificata, alla borghesia non era più di nessuna utilità negare la possibilità del socialismo in linea di principio. La successiva generazione di economisti austriaci, in particolare Hayek, presero dunque una strada diversa: il socialismo era sì possibile ma inefficiente perché produceva un’economia stagnante, una società antidemocratica. Hayek riteneva che qualunque intervento pubblico nell’economia fosse l’anticamera del socialismo e nel 1944 pubblicò il libro The Road to Serfdom in cui attaccava socialismo, keynesismo, pianificazione, aziende pubbliche, partiti socialisti, regimi stalinisti come un unico mostruoso nemico dell’umanità da annientare. Questa posizione spiega perché questa scuola non ha avuto nessuna influenza sul dibattito economico nel dopoguerra. Sebbene i suoi esponenti fossero riveriti come importanti figure nella battaglia contro il socialismo nella guerra fredda, le loro ricette pratiche erano del tutto irrilevanti. Esemplare fu a questo proposito l’atteggiamento di Keynes, nume tutelare di tutti i riformisti dagli anni ’30 in poi. Keynes comunicò ad Hayek la sua totale vicinanza politica e morale per quel libro, ma allo stesso tempo spiegò ad Hayek che per difendere il capitalismo, usare il liberismo ottocentesco e lo stato minimo erano inutili. Le battaglie che si combattevano erano di tipo diverso. Per difendere il capitalismo occorreva l’economia mista, che è quella che ha prevalso da allora. Il punto non era più dunque l’impossibilità astratta del socialismo, che peraltro negli anni ’50 non avrebbe capito nessuno, dato che i regimi che si definivano a vario titolo socialisti occupavano buona parte dell’Europa, dell’Asia e si andavano affacciando persino in America e Africa. Si trattava di accettare che il capitalismo aveva dei problemi ma che potevano essere affrontati e risolti. Di fronte all’IRI italiana, alla NHS britannica, alla pianificazione indicativa francese, ai piani pluriennali che si sviluppavano in numerosi paesi capitalisti, le polemiche sulla pianificazione persero interesse. Lo stalinismo andava combattuto con la socialdemocrazia e il keynesismo.
Come rispondono i sostenitori della pianificazione centralizzata alle critiche sulla presunta inefficienza nella gestione delle informazioni e delle risorse?
Per quello che abbiamo detto, le critiche alla pianificazione sono connesse alla più generale battaglia ideologica e politica contro il socialismo e il movimento operaio. Non sono dunque di grande interesse. Bisogna comunque dividere due periodi. Prima della rivoluzione bolscevica, il dibattito era puramente teorico e politico, si pensi a quello tra Böhm-Bawerk e Hilferding sul tema del rapporto tra I e III volume del Capitale (ne ho discusso inEconomia borghese ed economia marxista. Gli austriaci e la critica alla teoria marxista del valore). In assenza di problemi pratici della pianificazione, la discussione verteva in ultima analisi sulla possibilità dei lavoratori di poter gestire la produzione in assenza dell’incentivo al profitto. La discussione non era però risolvibile concretamente: i difensori del capitalismo sottolineavano la necessità che la produzione fosse guidata da capitalisti, che si assumevano il rischio di impresa in cambio del profitto. I sostenitori del socialismo negavano questa necessità. Sebbene durante la prima guerra mondiale, tutti i governi belligeranti avessero largamente pianificato l’economia per le esigenze della guerra, questa esperienza veniva considerata temporanea.
Dopo la nascita dell’URSS, successi e insuccessi di quell’esperienza hanno costituito il fulcro del dibattito, e la discussione si è dunque spostata sull’analisi dello sviluppo economico sovietico. Sotto il profilo strettamente teorico, è però interessante osservare come alcune scuole economiche borghesi, tra cui quella walrasiana già citata, ritenevano il socialismo del tutto possibile. Lo stesso Schumpeter, notoriamente un intellettuale profondamente conservatore, scrisse un testo (Capitalism, Socialism and Democracy) nel 1942 per sostenere che la deriva verso un’economia governata da una burocrazia socialista era più o meno inevitabile. Sicuramente non è più possibile oggi sostenere che la proprietà dei singoli capitalisti è necessaria per la produzione. Le grandi aziende sono public company possedute da una molteplicità di azionisti e la gestione è affidata a una casta di manager professionisti come peraltro le organizzazioni pubbliche, come ministeri, banche centrali, ecc. Sul piano economico, a meno di non limitarsi alla posizione deduttivista, in cui, per ipotesi, il socialismo non può funzionare (ma ciò che è assunto per ipotesi non si può proporre come risultato del ragionamento), il tutto si limita a sostenere che il capitalismo è più efficiente del socialismo, un problema che però ha natura pratica non più concettuale. Oggi, alla fine gli argomenti contro il socialismo sono di natura politica e si nutrono della forma dittatoriale assunta dai regimi a economia pianificata dopo gli anni ’30.
Il socialismo di mercato rappresenta un tentativo di coniugare pianificazione economica e meccanismi di mercato. Puoi spiegare in cosa consiste e quali sono i principali modelli teorici di socialismo di mercato?
Occorre premettere che con socialismo di mercato (nella sua forma politica a volte definito “socialismo liberale”) ogni sostenitore intende qualcosa di diverso che ha a che fare con aspetti economici e politici delle società post-capitalistiche. Questo spesso anche come reazione alla degenerazione stalinista dell’URSS. Il teorico che ha sviluppato più organicamente questa idea è Oskar Lange, un economista e intellettuale polacco, che riprendendo il modello walrasiano di equilibrio economico generale, ne propose una formulazione per un’economia socialista. Non entriamo qui negli aspetti tecnici, ma osserviamo che il modello di Lange costituì una risposta tecnicamente ineccepibile nel dibattito sul calcolo economico nel socialismo in cui gli economisti borghesi attaccavano la possibilità che nel socialismo fosse possibile pianificare l’economia. Lange dimostrò che sul piano astratto era invece pienamente possibile. Il punto era: come avrebbe potuto l’organismo pianificatore ottenere le informazioni necessarie a pianificare?
Dopo la nascita di regimi a economia centralmente pianificata, per socialismo di mercato si intendeva di solito una sorta di terza via tra capitalismo occidentale e pianificazione sovietica. Gli intellettuali progressisti europei non sottoscrivevano ciò che consideravano eccessi della pianificazione sovietica e proponevano un sistema in cui la pianificazione coesistesse con un ampio utilizzo del mercato per far emergere quelle informazioni che altrimenti non sarebbero arrivate al centro. Infine, con socialismo di mercato nei regimi stalinisti si sono intesi quei modelli sia teorici che pratici che volevano mettere in funzione queste idee. L’esempio più famoso è quello della Iugoslavia, dove le riforme nel senso del socialismo di mercato erano molto sviluppate senza però che questo abbia risolto alcun problema della pianificazione centralizzata.
Quali sono stati i limiti e le difficoltà incontrati dai paesi che hanno tentato di applicare modelli di socialismo di mercato? Pensi che possano rappresentare una valida alternativa alle economie capitaliste?
Il problema della pianificazione sovietica è che a partire dalla fine degli anni ’20, le istituzioni originali del potere bolscevico divennero gusci vuoti. La guerra civile, l’isolamento internazionale, la sconfitta del proletariato in occidente, avevano trasformato il partito bolscevico dall’avanguardia delle masse oppresse russe e di tutto il mondo, in una struttura burocratica che pianificava sì l’economia ma ai fini di difendere i privilegi della burocrazia stessa. Nel capitalismo, la corruzione, le pratiche scorrette, le truffe, sono endemiche a tutti i livelli, ma la concorrenza tra le imprese pone un limite agli effetti di queste pratiche. Le grandi aziende in guerra tra loro, si limitano a vicenda. Ovviamente solo gli economisti possono pensare seriamente che il capitalismo abbia alcunché di efficiente. Il capitalismo passa da una crisi all’altra da cui esce inasprendo lo sfruttamento dei lavoratori, l’inquinamento del pianeta e lo sperpero di denaro pubblico. Tuttavia, in questo turbinio di sfruttamento, miseria, crimini contro l’ambiente e soldi a fondo perduto dallo Stato, l’economia di mercato è in grado di generare prezzi che permettono al sistema di procedere. Ogni capitalista deve fissare dei prezzi che gli permettano di vendere le proprie merci con un profitto. Nelle economie pianificate, in assenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, solo due meccanismi possono sostituire l’incentivo del profitto individuale: la democrazia operaia o il terrore. La democrazia operaia si basa sul controllo effettivo che in ogni articolazione del processo produttivo i lavoratori esercitano sulla produzione. Costituendo sia la classe produttrice che quella consumatrice, i lavoratori sanno tutto ciò che c’è da sapere su domanda e offerta dei beni. Queste conoscenze vanno poi aggregate dai meccanismi centrali della pianificazione. Nei regimi stalinisti, la classe operaia fu espropriata del potere politico già prima che si instaurasse effettivamente il primo piano quinquennale. I lavoratori dovevano lavorare e basta. A quel punto, l’unica leva che teneva insieme il sistema era il terrore. I dirigenti delle fabbriche rispettavano il piano perché temevano di finire in Siberia. Sebbene il Gosplan e le altre istituzioni della pianificazione elaborassero piani quinquennali e sofisticate tecniche per la pianificazione, questi piani seguivano solo gli interessi della burocrazia, non della popolazione in generale. Questo sistema poteva permettere all’URSS di creare una prima base industriale, seppure con molta più fatica di un regime socialista sano, ma quando l’URSS divenne un paese sufficientemente avanzato e sofisticato, questo modello non poteva più funzionare. Di qui l’apertura di dibattiti già negli anni ’50 e soprattutto ’60 su come riformare il sistema con, appunto, il socialismo di mercato. Quando Krusciov denunciò i crimini dello stalinismo, si aprì un dibattito anche a livello teorico che si sviluppò negli anni successivi a opera di economisti di valore come Liberman, Nemcinov, Kantorovich e altri. Le loro idee erano molto sofisticate sul piano tecnico ma scontavano l’impossibilità di toccare il punto chiave: chi controllava i meccanismi della pianificazione, e quindi i loro progetti alla fine non portarono a nessun cambiamento rilevante del sistema, un po’ come nel capitalismo le chiacchiere sulla finanza etica o l’importanza della sostenibilità sociale e ambientale non comportano nessun serio cambiamento nei meccanismi di accumulazione del capitale.
L’Unione Sovietica ha rappresentato il più grande esperimento di pianificazione economica nella storia. Quali credi siano stati i principali punti di forza e debolezza del sistema economico sovietico?
Nella Rivoluzione tradita Trotskij osserva: “Gli immensi risultati ottenuti dall’industria, l’inizio molto promettente di uno sviluppo dell’agricoltura, la crescita straordinaria delle vecchie città industriali, la creazione di nuove, il rapido aumento del numero degli operai, la crescita del livello di vita e delle esigenze culturali, tali sono i risultati incontestabili della rivoluzione d’Ottobre, nella quale i profeti del vecchio mondo videro la tomba della civiltà. Non è più il caso di discutere con i signori economisti borghesi: il socialismo ha dimostrato il suo diritto alla vittoria non nelle pagine de Il Capitale, ma su di un’arena che comprende la sesta parte della superficie del globo” (Trotskij, [1936] 2007, p. 85). Il libro di Trotskij, scritto dopo alcuni anni dall’inizio della pianificazione centralizzata vera e propria, espose sia i clamorosi successi della pianificazione, sia perché ciò non avrebbe mai condotto al socialismo e alla fine sarebbe crollata. All’epoca persino gli economisti e i politici borghesi ritenevano questo pronostico assurdo perché erano tutti stupefatti dai successi della pianificazione. La storia si è incaricata di dimostrare l’ineluttabile logica dell’analisi di Trotskij. Occorre aggiungere che mentre l’URSS creava dal nulla, per la prima volta, una società e un’industria moderna, le vecchie potenze imperialiste erano sconvolte dalla crisi del ’29 raddoppiata dalla crisi bancaria del ’31. La disoccupazione esplodeva, il quadro dell’economia internazionale tradizionale, dal gold standard al libero commercio, era a pezzi, e il riarmo era l’unica cosa che teneva in piedi il mondo capitalista. Non a caso, dopo pochi anni, il capitalismo annegò il mondo nel sangue con il più spaventoso conflitto della storia. Nemmeno era molto strana la repressione politica staliniana, in un mondo in cui Mussolini, Franco, Hitler erano la normalità della politica internazionale. Rimandando alle analisi di Trotskij, a partire dal suo capolavoro del ’36, e a quelle dell’opposizione di sinistra (soprattutto Rakovskij) e poi del movimento che si rifà a Trotskij nel dopoguerra, almeno quello che non è finito ad appoggiare i partiti stalinisti o riformisti, possiamo dunque osservare che la parabola dell’URSS ha confermato i due punti chiave: la pianificazione ha permesso una crescita economica senza precedenti, ma la crescita da sola non avvicina un paese al socialismo in assenza delle istituzioni della democrazia operaia. Il problema non è tanto di sviluppo delle forze produttive ma politico. L’URSS di Breznev era immensamente più avanzata tecnologicamente e produttivamente di quella di Lenin, ma era molto più lontana dal socialismo di quest’ultima.
In sintesi, l’URSS ha dimostrato che l’umanità può fare a meno dei capitalisti per sviluppare l’economia e la società, ma non può fare a meno della democrazia operaia, altrimenti, la schiavitù del lavoro salariato e sostituita dall’arbitrio burocratico.
La crisi economica dell’Unione Sovietica ha portato al collasso del sistema e alla transizione verso un’economia di mercato. Quali sono, secondo te, le principali ragioni economiche e strutturali che hanno portato a questa crisi?
L’URSS uscì enormemente rafforzata dalla seconda guerra mondiale. I calcoli dell’imperialismo “liberale”, ossia che i nazisti avrebbero distrutto o almeno emarginato l’URSS, si dimostrarono vani. L’Armata Rossa arrivò a Berlino, l’Europa orientale fu integrata nel COMECON. Nei paesi occidentali l’URSS era popolare e i partiti fratelli del PCUS egemoni o almeno radicati nella classe operaia; nei paesi coloniali ed ex coloniali l’esempio sovietico era trascinante, tanto che qui e là un ufficiale di un paese africano o asiatico decideva di rovesciare i fantocci locali dell’imperialismo per creare un regime a immagine e somiglianza di Mosca. La vittoria della rivoluzione cinese aveva, almeno per i primi anni, espanso gli alleati dell’URSS sino all’Estremo oriente. Le vecchie potenze imperialiste erano a pezzi. Imperi su cui una volta non tramontava mai il Sole erano in disfacimento. Eserciti che per secoli avevano terrorizzato mezzo mondo erano ora pallidi ricordi del passato. In una guerra tradizionale, il Patto di Varsavia avrebbe rapidamente annientato gli eserciti della NATO, anche perché moltissimi soldati occidentali non avrebbero avuto nessuna voglia di sacrificarsi per i loro governi. L’espansione del modello sovietico a un mondo che andava dalla Cina a Berlino diede una enorme stabilità politica alla burocrazia stalinista. Gli immensi sacrifici del popolo sovietico contro il nazifascismo vennero usati per puntellare il regime. Morto Stalin, Krusciov cercò di limitare alcuni eccessi del sistema, il totale arbitrio del tiranno. L’URSS cresceva rapidamente, gli screzi con Mao o Tito non impensierivano seriamente Mosca. Certo, quando la classe operaia cercava di ribellarsi, come a Berlino, o in Ungheria nel 1956, tutta la dirigenza stalinista, compresi i dirigenti cinesi e iugoslavi, appoggiarono l’invio dei carri armati inviati a sedare il tentativo di ricreare le condizioni della democrazia operaia, ma in URSS la classe era ormai priva di legami con l’Ottobre, atomizzata politicamente e impossibilitata a ribellarsi. Tutto ciò ritardò di alcuni decenni le previsioni che Trotskij formula nella Rivoluzione tradita. Dalla metà degli anni ’40, il modello sovietico venne come congelato nelle sue contraddizioni. La base economica pianificata rimaneva intatta, senza nessun accenno a un ritorno al capitalismo, la sua sovrastruttura politica burocratica era altrettanto stabile, senza nessuna possibilità di un ritorno alla democrazia operaia delle origini. In assenza di un reale dibattito politico, limitato alle chiuse stanze degli organismi direttivi del PCUS, tra la popolazione e anche gli strati più bassi della burocrazia si fecero strada il cinismo, la disillusione. Abbiamo sconfitto i nazisti perché il compagno primo segretario del partito della regione possa girare con la sua bella limousine? Lavoriamo come bestie nelle miniere, nei campi, in fabbrica perché il capo dello stabilimento o del kolkoz possano arredare la loro lussuosa dacia? Questi erano i discorsi sui treni, nei bar, per le strade dell’URSS nell’epoca di Breznev. Sebbene il tenore di vita fosse molto più alto della generazione precedente, e spesso non lontanissimo dalle famiglie proletarie dell’Europa occidentale, non c’era nessuna fiducia nel futuro della società sovietica. Si accettava il potere della burocrazia come una specie di tumore inoperabile, sperando in un miracolo medico.
Sotto il profilo strettamente economico, quanto più l’economia diventava moderna e sofisticata, tanto più i metodi della pianificazione dal centro e del terrore non davano risultati. Una cosa è produrre acciaio e carbone, un’altra produrre milioni di prodotti differenti in migliaia di stabilimenti sparsi in un paese grande 22 milioni di chilometri. Il paradosso dunque è che più la pianificazione aveva successo nello sviluppare l’economia, più l’economia ristagnava. Alla fine, la stagnazione economica e l’impasse politica portarono alla meteora di Gorbaciov, un burocrate che pensava di poter modernizzare il sistema ma ne provocò solo una più rapida distruzione. Alla fine degli anni ’80 in URSS, la popolazione nella sua quasi totalità non voleva un ritorno al capitalismo. Voleva conservare le conquiste del sistema, dal lavoro per tutti alle case a prezzi bassi, ma voleva la libertà politica che identificava nel multipartitismo e nelle elezioni. La burocrazia era nella confusione più totale, ad eccezione dei burocrati che avevano intessuto legami con l’occidente e con la mafia e che speravano di potersi impadronire delle immense ricchezze del paese. Eltsin si pose a capo di questo strato di burocrati che si andavano trasformando in capitalisti e nell’apatia generale delle masse riuscì a distruggere lo stato sovietico e a imporre un rapido ritorno al capitalismo.
Alcuni analisti sostengono che il problema dell’Unione Sovietica non fosse la pianificazione in sé, ma piuttosto la rigidità del sistema e la mancanza di innovazione. Sei d’accordo con questa interpretazione?
Come ho cercato di spiegare sopra, una volta espropriata politicamente la classe operaia, l’URSS era congelata nelle contraddizioni della pianificazione centralizzata. Poteva costruire razzi spaziali, reattori nucleari ma nei negozi mancavano scarpe e lavatrici. Il problema non era l’innovazione di per sé. L’URSS aveva molti eccellenti scienziati e ricercatori e poco prima di sparire aveva un quarto degli operatori scientifici del mondo. Molto spesso in URSS si facevano scoperte o si inventavano prodotti o procedure che però non erano sviluppati in Unione Sovietica ma da aziende occidentali nei paesi capitalisti. Il problema è che l’economia era ormai troppo sofisticata per essere gestita dai ministeri a Mosca e le aperture al mercato anziché risolvere, questo problema, disarticolavano ulteriormente il funzionamento del piano. Non c’erano vie d’uscita perché la struttura politica e quella economica erano in contraddizione tra loro, e alla fine una delle due doveva prevalere.
Che ruolo hanno giocato la globalizzazione e le pressioni esterne, come la corsa agli armamenti con gli Stati Uniti, nella crisi economica sovietica e nella sua successiva apertura al mercato?
Nella vulgata reazionaria, la corsa agli armamenti imposta dagli Stati Uniti reaganiani avrebbe fatto crollare l’economia sovietica. In realtà la pressione della spesa militare era enormemente maggiore negli anni ’40 o’50. Inoltre, negli anni ’80 l’URSS non aveva nessun timore di essere invasa. C’era la guerra per procura combattuta contro i fondamentalisti islamici armati e pagati dalla CIA (ma anche dalla Cina) in Afghanistan ma nulla che di per sé implicasse un serio sforzo finanziario. Quanto alla globalizzazione, l’URSS, come del resto oggi la Russia, deteneva scorte imponenti di materie prime fondamentali per l’economia mondiale, a partire dal petrolio e dal gas naturale, e lo sviluppo del commercio mondiale l’avrebbe se mai favorita. Il crollo è stato causato dalla totale perdita di fiducia della burocrazia nel proprio sistema. Prendiamo un alto burocrate del settore del petrolio. Era una figura importante ma pur sempre un funzionario. Il cambiamento del vertice del PCUS avrebbe potuto comportare il suo licenziamento con ciò ponendo fine a tutto ciò che aveva realizzato nei decenni, a differenza di quanto avviene in occidente dove il capitalista è proprietario dell’azienda qualunque cosa accada. Di fronte all’impasse del sistema, questo burocrate avrà pensato: al diavolo il partito, l’azienda me la prendo io che so come funziona, mi trovo dei clienti occidentali e divento ricco. Ogni burocrate cominciò a pensare a se stesso, creando cordate spesso con l’aiuto di gruppi mafiosi e istituzioni occidentali. Quando Gorbaciov provò a riformare il sistema dando maggiore libertà politica, i lavoratori continuarono a non potersi organizzare ma i burocrati iniziarono a costruirsi potentati locali, a liberarsi dal controllo del centro. Esplose il mercato nero. Alcuni consiglieri economici di Gorbaciov proponevano di seguire l’esempio della Cina di Deng ma non poteva funzionare. Innanzitutto la Cina si pose come alleato politico degli Stati Uniti a livello mondiale, e in cambio di questa umiliante sudditanza, che si è rotta solo dopo 40 anni, l’occidente investì massicciamente nel paese, mentre l’URSS non poteva seguire quella strada. In secondo luogo le riforme di Deng necessitavano di una estrema coesione politica dell’apparato, mai scossa nemmeno da episodi come la rivolta di Tienanmen. Nell’URSS di Gorbaciov i burocrati erano tutto meno che coesi, pensavano solo al loro piccolo orticello. Le pressioni esterne hanno dunque giocato un ruolo marginale. L’URSS è implosa per le proprie contraddizioni.
Guardando al futuro, pensi che vi siano lezioni che i partiti di sinistra e i movimenti rivoluzionari contemporanei possono trarre dall’esperienza sovietica e dal dibattito storico sulla pianificazione economica?
Occorre premettere che i “partiti di sinistra” di oggi sono partiti presuntamente riformisti che si pongono l’obiettivo di strappare qualche concessione al capitalismo nei periodi di prosperità, ma in effetti non ne strappano da generazioni. Si tratta dunque di forze conservatrici nel senso letterale del termine: vogliono preservare il dominio capitalistico sulla produzione e sulla società. I suoi dirigenti sono da decenni marionette che finiscono la loro carriera, se va bene, a scrivere articoli sui media borghesi per spiegare le necessità di tagliare salari e pensioni, nei casi più vergognosi diventano segretari della NATO. Quali lezioni questi gruppi dirigenti possano trarre dalla storia della pianificazione possiamo immaginarlo. Per quanto riguarda i militanti e i gruppi che lottano per trasformare la società, l’esperienza fondamentale che si può trarre dalla storia economica e politica dell’Unione Sovietica è che il socialismo è necessario per salvare l’umanità dalla barbarie del capitalismo, che oggi si esprime non solo nella miseria delle masse ma nel crescente rischio di una terza guerra mondiale. Inoltre questa esperienza ci dice che senza democrazia operaia la pianificazione non funziona. Constatando la confusione politica e l’inesistenza teorica della sinistra, Il compito più importante per gli attivisti rivoluzionari oggi è riannodare i fili della storia con la battaglia di Trotskij contro lo stalinismo, con la battaglia di Lenin e del bolscevismo contro il social-imperialismo e con la tradizione teorica e politica del marxismo più in generale. Come disse Lenin, senza teoria rivoluzionaria non è possibile costruire un movimento rivoluzionario.
Testi citati
Aganbegjan, A. G, 1988. La perestrojka nell’economia, Rizzoli, Milano.
Barone, E. 1908. Il ministro della produzione nello stato collettivista, “Giornale degli economisti”, XIX, vol. 37, pp. 267-293.
Böhm-Bawerk, E., R. Hilferding e altri. 1975. Economia borghese ed economia marxista, La Nuova Italia, Firenze.
Hayek, F. [1944] 2011. La via della schiavitù, Rubbettino, Soveria Mannelli.
Lange, O. R. 1964. On the Economic Theory of Socialism, McGraw Hill, New York.
Nove, A. e D. M. Nuti (a cura di). 1972. Socialist Economics, Penguin Books, Harmondsworth.
Schumpeter, J. A. S. [1942] 1994. Capitalismo socialismo democrazia, ETAS, Milano.
Trotskij, L. [1936] 2007. La rivoluzione tradita, AC Coop. Editoriale, Milano.
Eccellente. Tre possibili linee di sviluppo/problemi aperti/contraddizioni.
1. Il “capitalismo politico” russo (cfr. Ischenko) si porrà in continuità con il regime sovietico dei burocrati ?
2. Il “local development state” cinese rappresenta una forma di socialismo di mercato efficace come sviluppo dei teorici sovietici ed esteuropei (più che Lange mi sembra Brus potrebbe essere esemplare di quel contesto)?
3. Rimane il problema della partecipazione democratica al processo di piano, e quindi della democrazia politica in generale. Il crollo dell’Unione Sovietica nella pseudo-democrazia elsiniana e il tramonto del comunismo democratico in Occidente favoriscono a distanza una ripresa di interesse verso una pianificazione socialista ademocratica (vedi Gabriele-Jabbour): non i sembra la strada giusta, e d’altronde è debolina la risposta di Sunkara et al.