Brevi note sulle imprese recuperate in Italia

  1. Introduzione

In Italia la storia delle imprese recuperate (ERT) è molto più antica di quella del Sud America, in particolare dell’Argentina. Prima della pandemia avevamo attive 113 ERT con oltre 10.000 lavoratori coinvolti e un fatturato vicino al mezzo miliardo di euro. Dalla crisi del 2007-2008 al 2018 sono state recuperate decine di imprese destinate al fallimento. Tra il 2007 e il 2013 sono passate da 81 a 122 le ERT, la maggior parte delle quali sono attive nel settore manifatturiero. Il resto delle imprese recuperate italiane opera nel settore dei servizi, farmaceutico, della distribuzione e dei trasporti. La presenza in questi settori segnala, anche a chi volesse ancora negare la realtà, i marcati processi di deindustrializzazione che hanno investito il nostro paese a cui gli operai rispondono recuperando la propria imprese che rischia la chiusura. Questo processo viene interamente sviluppato dal basso e in alcune occasioni con il supporto dello Stato. Per i ricercatori Leonard Mazzone e Romolo Calcagno, autori del libro-inchiesta “Le imprese recuperate in Italia” e membri del Collettivo di Ricerca Sociale, queste azioni sono una reazioni al capitalismo neoliberista da valorizzare. Il recupero avviene con un piano industriale strutturato dai soci lavoratori che mette all’angolo l’attendismo che di solito contraddistingue lo Stato in queste situazioni. La formula di rilancio della produzione industriale che prende forma farebbe comodo a tutti: i lavoratori, l’indotto dell’impresa e lo Stato, capace di incassare più di quanto spende per mettere in moto la cooperativa. Questo è possibile da una grande differenza con gli scenari argentini e brasiliani che abbiamo analizzato in precedenza, ovvero una legge, la 49/1985 chiamata Marcora con cui è possibile proporre un diverso modello sociale ed economico. Giovanni Marcora non era un comunista ma un democristiano che divenne ministro dell’industria nel 1981 con il governo Spadolini. La legge risente fortemente del solidarismo cristiano e aveva lo scopo di dirottare le risorse finanziarie della cassa integrazione verso interventi concreti che prevedevano la partecipazione attiva dei lavoratori.

“Ancora oggi sconosciuta ai più, la norma testimonia la convergenza di vedute tra PCI e DC, che individuarono nelle cooperative di produzione e lavoro uno strumento per: 1) intervenire direttamente sul problema occupazionale italiano che non accennava a dare segni di inversione; 2) rendere stabili le forme di partecipazione dei lavoratori e delle lavoratrici alla gestione delle imprese; 3) indirizzare verso nuove forme l’evoluzione dell’apparato produttivo italiano”1.

Complessivamente, dal 1985 ad oggi, sono state costituite 323 ERT coinvolgendo 10408 lavoratori. Il 70% di loro ha ricevuto un sostegno pubblico. Il 35%, 113 ERT, sono ancora attive nel 2018 e investono un capitale sociale di 63 milioni di euro con un patrimonio netto di 113 milioni che garantisce un utile di 1,7 milioni. 202 delle 218 imprese recuperate prima del 2003 hanno una durata media di 15,2 anni. Con alcune eccezioni, come la RiMaflow, quasi tutte le ERT europee non ha assunto un carattere apertamente anticapitalista.

  1. La legge Marcora

Originariamente la norma prevedeva due diversi interventi. Il Titolo I prevedeva finanziamenti a tasso agevolato per le cooperative che avessero aumentato la produttività con i propri investimenti. Il Titolo II invece era legato al finanziamento a fondo perduto del capitale sociale delle cooperative di produzione e lavoro gestite da lavoratori licenziati, cassaintegrati o dipendenti di aziende in crisi o sottoposte a procedure concorsuali. Il finanziamento era legato alla validità del progetto industriale dei lavoratori. Gli interventi erano garantiti da due fondi da 90 miliardi di lire ciascuno erogati dal Tesoro. Il primo, per i finanziamenti a tasso agevolato, la valorizzazione del prodotto, l’acquisto dell’impianto produttivo o parte di esso e la razionalizzazione della distribuzione, si chiamava Fondo di rotazione per la promozione e lo sviluppo della cooperazione. Dal 1985 ai primi anni 2000 è stato gestito dalla Banca Nazionale del Lavoro per poi passare alle regioni. Ne beneficiano le cooperative riconosciute come PMI e iscritte all’albo delle Società Cooperative Italiane. L’altro si chiama Fondo statale speciale per gli interventi e la salvaguardia dei livelli occupazionali e aveva lo scopo di finanziare il capitale sociale delle nuove cooperative di produzione e lavoro in tutti i settori ma in un rapporto di 3:1.

“Oltre a prevedere la possibilità di includere fra i soci e le socie i lavoratori e le lavoratrici in cassa integrazione fino al 20% e persone giuridiche fino al 25% (art. 14, comma 3), la norma riconosceva il diritto di prelazione alle cooperative costituite da lavoratori e lavoratrici per salvaguardare i livelli occupazionali grazie all’acquisto o all’affitto di aziende/rami d’azienda/gruppi di beni di proprietà delle stesse messe in vendita (art. 14, commi 1 e 2). I soci erano tenuti a versare una quota minima di due milioni di lire a testa nel capitale sociale della cooperativa all’atto della sua costituzione e altri due milioni di lire entro i due anni successivi (art. 15, comma 1), anche sotto forma di cessione totale o parziale del Trattamento di Fine Rapporto (TFR). L’articolo 16 riconosceva inoltre la possibilità di far partecipare al capitale sociale delle nuove cooperative anche le società finanziarie composte per almeno l’80% da cooperative di produzione e lavoro. La concessione del Fondo speciale era vincolata alle valutazioni positive del piano industriale presentato dai soci della nuova cooperativa da parte della società finanziaria del settore cooperativo partecipata dal Ministero dello Sviluppo Economico, ovvero Cooperazione Finanza Impresa (CFI). Il D.L. 223/1991 avrebbe riconosciuto ai lavoratori e alle lavoratrici di aziende in crisi il diritto di richiedere e ottenere la corresponsione anticipata anche della mobilità in un’unica soluzione per avviare un’attività autonoma o costituire il capitale sociale della cooperativa (fatta ovviamente eccezione per le mensilità già percepite)”.

In questo modo avviene la trasformazione degli ammortizzatori sociali non ancora goduti nel capitale sociale della nuova impresa. Per Confindustria, però, questa legge era in contrasto con la normativa europea sulla concorrenza e la Commissione Europea avviò una procedura d’infrazione. A seguito di una errata equiparazione tra imprese recuperate e qualsiasi altro tipo di impresa, le erogazioni previste dalla legge furono bloccate tra il 1995 e il 2001, anno in cui venne riscritta con la cancellazione di buona parte del Titolo II. L’articolo 12 della nuova norma prevede solo la partecipazione temporanea delle società finanziarie pubbliche come soci di minoranza della cooperativa per l’intera durata del finanziamento. Sono stati eliminati i finanziamenti a fondo perduto. Sono estesi i finanziamenti alle cooperative sociali.

La partecipazione statale non può durare più di 10 anni ma c’è stata una riduzione dei tempi di erogazione, prima erano 18/20 mesi e 60 mesi per il Titolo II.
“All’indomani dell’aggiornamento del quadro normativo, anziché triplicare il capitale sociale costituito dai soci e dalle socie ed erogarlo a fondo perduto, il finanziamento statale alle nuove cooperative avrebbe dovuto essere pari al capitale sociale versato dai soci e avrebbe dovuto essere restituito entro una certa scadenza, solitamente compresa fra i sette e i dieci anni (in ottemperanza alla modifica dell’art. 7, comma 1). Quando la Legge Marcora tornò a essere operativa nel 2006 (art. 12 della L. 57/2001), dunque, i finanziamenti alle singole imprese recuperate diminuirono del 33%”.

Negli anni la legge è stata più volte modificata. Nel 2013 viene reintrodotta la possibilità di comprare in via preferenziale lo stabilimento da parte dei dipendenti dell’impresa o un suo ramo. Prevede l’intervento pubblico anche per cooperative con meno di 9 dipendenti. Viene istituito al Mise un fondo, operativo dal luglio 2015 con 12 milioni di euro, nel 2014 per favorire la nascita di nuove cooperative con incentivi specifici per il Sud Italia. Nel 2015 è prevista la possibilità di richiedere tutta la NASpI all’Inps come incentivo per comprare il capitale sociale di una nuova cooperativa dove il lavoratore disoccupato si inserirà come socio vincolato al progetto per 2 anni per poter usufruire nuovamente della NASpI. Dal 2019 la NASpI utilizzata per questi fini non è tassata.
Si parla di fatto di una nuova Marcora. Tra i cambiamenti più significativi troviamo la durata di 10 anni massimi dei finanziamenti erogati a cooperative con almeno 2 anni di vita tranne quelle al Sud che continuano a poter usufruire di tassi d’interesse più bassi di quello comunitario di riferimento e un importo da massimo un milione di euro ma in ogni caso non può essere superiore di quattro volte della quota posseduta dai fondi statali. Con la legge 178/2020 la Marcora può convertire le imprese in cooperative prima della loro crisi o in caso di vendita o mancato ricambio degli assetti proprietari che attiva, in quest’ultimo caso, un fondo con lo scopo di recuperare, con esenzione fiscale del TFR, le risorse con la conversione in cooperativa. Nel 2021 viene fissata “da tre a dieci anni la durata del nuovo regime di aiuti a sostegno delle cooperative di produzione e lavoro e sociali. Oltre a consentire a CFI di intervenire sul capitale sociale delle cooperative e sul loro capitale di debito sotto forma di finanziamenti per investimenti, prestiti partecipativi e prestiti subordinati, il fondo agevolato del MISE introdotto con questo provvedimento integra l’intervento della Marcora I (che ne costituisce il prerequisito), e può essere concesso per un importo che non superi cinque volte la quota già detenuta dalla società finanziaria nel capitale della cooperativa beneficiaria e, in ogni caso, non eccedente i due milioni di euro, a un tasso di interesse pari allo zero percentuale e, nel caso vengano concessi a fronte di nuovi investimenti, a copertura dell’intero importo del programma di investimento”.
Esistono altri fattori da tenere in considerazione per la formazione di una cooperativa:

  1. La domanda di mercato preesistente o nuova a seguito della riconversione dell’industria.
  2. Gli effetti prodotti dalla combinazione di distretti industriali, sindacati e centrali cooperative con amministratori locali. Questo ha determinato la concentrazione delle ERT italiane in alcune aree del paese. Ad esempio, il 76% delle imprese recuperate create tra il 1979 e il 2014 si trovano nel Centro Italia e nel Nord-Est, dov’è maggiormente presente l’industria manifatturiera a cui appartiene il 63,2% di esse.
  3. L’assenza di alternative al proprio posto di lavoro. I lavoratori coinvolti in questi processi sono altamente specializzati in province dove non hanno la possibilità di ricollocamento a seguito del fallimento dell’impresa favorito dalla finanziarizzazione dell’economia tipica del neoliberismo.

3. Come avviene il recupero

Davanti all’assenza di alternative, i lavoratori si mobilitano per difendere il proprio posto di lavoro. Ad un primo dubbio sulla strada del recupero cooperativistico subentra l’idea della ripresa in autogestione della fabbrica. Questo progetto può nascere internamente tramite la vecchia proprietà, liberi professionisti o interlocutori statali. In questo caso il processo di recupero prendere il via prima della visibilità pubblica. È il caso di Travertino Toscano o Aurora Cucine. Quando la fonte di questo progetto è esterna, emerge a mobilitazione pubblica già avvenuta tramite presidi, come alla Bolfra, oppure con occupazioni, come alla RiMaflow. Queste mobilitazioni rafforzano la solidarietà tra i lavoratori e dimostrano di poter giocare l’auto imprenditorialità neoliberista contro il capitale. Con il recupero dell’impresa vengono scoperti i documenti amministrativi dell’impresa dietro il fallimento e la ripresa della produzione diventa un serio banco di prova perché spesso avviene senza proprietà e dirigenti. Il suo successo dipende dalle capacità autogestionali dei lavoratori. In questa fase viene socializzata la conoscenza sul processo produttivo per superare le asimmetrie di conoscenze tra i soci.
Vengono riportate “in auge le priorità del mutualismo originario e le dinamiche fiduciarie delle relazioni con comunità territoriali periferiche. Non si tratta necessariamente di comunità orizzontali e simmetriche, sprovviste di gerarchie interne. All’interno delle imprese recuperate è possibile riscontrare figure di riferimento capaci di fungere da veri e propri collanti umani di queste comunità produttive: queste figure trasformano il bagaglio personale della loro formazione culturale e politica o il loro “stile relazionale” con gli altri colleghi in un patrimonio comune attraverso concrete pratiche decisionali e processi organizzativi capaci di incanalare e mediare in maniera non violenta i conflitti interni”.
C’è la possibilità di sperimentare pratiche innovative di sostenibilità produttiva e nuovi modelli di gestione. In questo modo, però, si formano nuovi quadri dirigenti e conseguentemente nuovi potenziali conflitti interni. Nonostante ciò, le loro pratiche e gerarchie, benché funzionali alla gestione di un’impresa, sono sottoposte ad una forma di controllo democratico da pare dei soci. Questa tendenza dipende dal senso politico dietro il recupero dell’impresa che influenza la sua resilienza e la capacità di attirare l’attenzione delle istituzioni tramite le mobilitazioni.
L’80% delle imprese recuperate italiane riesce ad affrontare queste sfide e a rimanere in piedi nonostante il fallimento della vecchia proprietà. I problemi principali che devono affrontare sono: l’accesso al credito, la difficoltà nel comprare lo stabilimento, l’intensificazione, specie ad inizio attività, dei tempi di lavoro, l’assunzione di figure professionali assenti, l’anticipo delle forniture e i vincoli imposti dal mercato. Per questo motivo gli autori sostengono la necessità di creare una rete nazionale delle imprese recuperate per elaborare delle rivendicazioni comuni.

    1. Romolo Calcagno, Leonard Mazzone, Le imprese recuperate in Italia. Da un lavoro di inchiesta del Collettivo di Ricerca Sociale, Castelvecchi, Roma 2022, tutte le citazioni sono tratte da un ebook e pertanto non sono disponibili le pagine ↩︎

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