Mimmo Cangiano in Guerre culturali e neoliberismo si focalizza sul tema delle battaglie identitarie negli USA caratterizzate dalla ricerca di riconoscimento, dall’autocoscienza della posizione marginale e dalla necessità di rendere visibile la propria differenza. Questi elementi, inizialmente circoscritti all’ambito accademico, sono esplosi nel dibattito pubblico attraverso concetti come white privilege, appropriazione culturale, linguaggio inclusivo, diventando una sorta di “cornice morale del nostro tempo” e legandosi alle cosiddette guerre culturali. Questo termine, coniato da James Davison Hunter negli anni ’90, è essenziale per comprendere come lo scontro culturale sia diventato il nuovo campo di battaglia politica, sostituendo in parte le tradizionali divisioni ideologiche. Da un lato i progressisti insistono sulla decostruzione delle norme oppressive (patriarcato, eteronormatività, supremazia bianca), dall’altro i conservatori denunciano un’ideologia illiberale che minerebbe i valori occidentali. Le guerre culturali si sono intrecciate con la tendenza dei partiti a “ripagare” gli elettori con simboli culturali piuttosto che con politiche concrete, come dimostrano le promesse di Trump di porre fine alla “bullshit liberal” o quelle di Salvini di finirla con il “buonismo”. Su questi temi la destra ha costruito un vero e proprio arsenale retorico per contrastare il fenomeno woke che arriva fino all’idea che le università americano siano ostaggio del cosiddetto “cultural marxism”. Il termine si lega all’idea che il marxismo, sconfitto sul piano economico, si sia rifugiato nelle università trasformandosi in critica culturale. Figure come Jordan Peterson tentano di associare marxismo e postmodernismo, sostenendo che entrambi neghino ogni verità oggettiva in nome di un “costruttivismo radicale” dove ogni conoscenza sarebbe determinata dai rapporti di potere. Questa narrazione contiene molte distorsioni ma coglie alcune contraddizioni reali del movimento woke, in particolare il paradosso per cui da un lato si rifiuta ogni categorizzazione imposta dal potere (ad esempio l’idea di genere binario), dall’altro si costruiscono identità fisse (razziali, di genere) come base per la rivendicazione politica. Questo paradosso viene collegato alla più ampia tensione tra costruttivismo sociale ed essenzialismo identitario che attraversa il pensiero progressista contemporaneo. La critica al wokismo però non viene solo dalla destra. Cangiano parla delle obiezioni provenienti dall’area liberal e socialdemocratica citando autori come Martha Nussbaum, Mark Lilla e Nancy Fraser. Viene analizzato in particolare come il capitalismo abbia dimostrato una straordinaria capacità di assorbire e neutralizzare le istanze progressiste, trasformando l’inclusività in diversity management e il femminismo in una filosofia individualista di “empowerment”. L’esempio del “pink washing” e del “rainbow washing” mostra come le multinazionali abbiano saputo strumentalizzare le battaglie identitarie per rafforzare il controllo sui lavoratori e migliorare la propria immagine senza mettere in discussione le strutture di potere. Ad esempio il “femminismo dell’empowerment” secondo autrici come Arruzza, Bhattacharya e Fraser ha finito per legittimare l’ascesa di alcune donne ai vertici del sistema senza metterne in discussione le logiche fondamentali. La sinistra woke ha spesso privilegiato la “vittima” in quanto tale, a prescindere dalla sua posizione materiale, a differenza di Marx che vedeva nel proletariato un soggetto rivoluzionario per il suo ruolo nel sistema produttivo. Per Cangiano abbiamo davanti a noi una grande sfida teorica e politica, cioè riconciliare la critica culturale con quella economica evitando che le istanze progressiste vengano neutralizzate e assorbite dal sistema che pretendono di criticare.
La sconfitta di Clinton, sostiene Cangiano, segnò simbolicamente la fine di un’epoca politica, quella in cui esisteva un nesso relativamente stabile tra posizione socio-economica e orientamento ideologico. Il Partito Democratico si trovò diviso tra due anime, coloro che vedevano il futuro del partito nel voto delle minoranze e dei gruppi istruiti, orientati a questioni etico-simboliche e le figure come Bernie Sanders che continuavano a sottolineare l’importanza della disuguaglianza economica come questione prioritaria. Questa tensione interna emerse chiaramente nelle posizioni contrastanti di esponenti come Symone S. Sanders che abbandonò la campagna di Bernie Sanders sostenendo che non era più il momento per “gente bianca” ai vertici del partito, e Joy Reid che sintetizzò la situazione affermando che i democratici dovevano accettare di essere il partito delle minoranze, abbandonando ogni nostalgia per l’elettorato operaio tradizionale. Il concetto di particolarismo militante, introdotto dal sociologo Raymond Williams, fornisce una chiave di lettura per comprendere questa trasformazione. Con questa l’espressione Williams indicava la tendenza a politicizzare aspetti identitari e culturali in seguito al declino degli spazi pubblici centrali e alla progressiva frammentazione della vita sociale. Questo fenomeno affonda le sue radici nel femminismo degli anni ’60 e ’70, che, oltre alla critica del capitalismo, introdusse una riflessione radicale sull’oppressione simbolica di genere. Tuttavia il femminismo storico manteneva un legame dialettico tra economia e cultura mentre le identity politics contemporanee tendono a scindere queste due dimensioni, trattando l’oppressione culturale come un problema autonomo dallo sfruttamento materiale. Nel dibattito interno al femminismo della seconda ondata emersero tensioni e contraddizioni che avrebbero segnato profondamente lo sviluppo successivo delle lotte identitarie. Alcune correnti criticarono la subordinazione della lotta di genere alla lotta di classe, proponendo un approccio separatista che vedeva nell’uomo, più che nel capitalista, il principale agente dell’oppressione. Teoriche come Silvia Federici, invece, misero in luce il ruolo fondamentale del lavoro domestico non retribuito delle donne nel mantenimento del sistema capitalistico, mostrando come lo sfruttamento economico e l’oppressione di genere fossero intrinsecamente collegati. Contemporaneamente l’emergere dell’essenzialismo strategico, cioè l’idea, sostenuta da Gayatri Spivak, che fosse necessario utilizzare tatticamente identità fisse come “donna” o “nero” per scopi politici, pur riconoscendone la natura socialmente costruita, aprì la strada a una moltiplicazione delle lotte, spesso in competizione tra loro per ottenere riconoscimento e visibilità. Con il declino dei partiti socialisti e comunisti negli anni ’80 il femminismo radicale si trovò a confrontarsi con l’ascesa di un approccio liberal che riduceva la liberazione a una questione di rappresentazione e autorealizzazione individuale. Questo passaggio coincise con l’affermazione del neoliberismo che seppe assorbire e neutralizzare progressivamente le rivendicazioni identitarie, trasformandole in strumenti di marketing e di gestione delle risorse umane, come dimostra il successo del diversity management. Cangiano critica aspramente questa deriva, sottolineando come le identity politics neoliberali si limitino a chiedere inclusione all’interno del sistema, senza mettere in discussione le strutture economiche che producono disuguaglianza. Allo stesso tempo, l’oppressione viene sempre più spesso ridotta a una questione culturale o psicologica, da affrontare attraverso la terapia individuale piuttosto che attraverso la trasformazione sociale. Le conseguenze politiche di questo processo sono profonde e problematiche. Si assiste all’affermazione di una logica vittimaria, in cui l’identità diventa il fondamento dell’azione politica, ma in una forma competitiva che spinge i diversi gruppi oppressi a contendersi lo status di “vittima più autentica”. Contemporaneamente la classe lavoratrice viene progressivamente demonizzata e marginalizzata nel discorso pubblico, dipinta come retrograda e razzista, mentre scompare completamente la consapevolezza del suo ruolo centrale nel sistema produttivo. La figura dell’alleato sostituisce quella del compagno poiché chi appartiene a gruppi privilegiati (come gli uomini bianchi) non è più un potenziale alleato nella lotta di classe ma deve limitarsi a un ruolo subalterno di autoflagellazione e autocritica, sintetizzato dall’imperativo “check your privilege”. Ci sono due chiavi di lettura principali di questo fenomeno. La prima, influenzata dal postmodernismo, vede nel rifiuto delle grandi narrazioni (come la lotta di classe) un progresso etico-culturale, un superamento delle astrazioni universalistiche che hanno caratterizzato la politica moderna. La seconda interpreta invece la frammentazione identitaria come un sintomo del neoliberismo avanzato che favorisce l’individualismo e il consumo di identità come merci. Entrambe le prospettive rischiano di ridurre il capitalismo a una sola dimensione culturale, ignorando la sua capacità di strumentalizzare tanto il razzismo quanto l’anti-razzismo, tanto l’universalismo quanto il relativismo, a seconda delle convenienze del momento. Occorre riarticolare il rapporto tra struttura e sovrastruttura, tra economia e cultura, evitando che le identity politics diventino uno strumento di divisione tra i subalterni. Senza questa consapevolezza, il rischio è che le lotte si riducano a una sterile competizione tra identità mentre il vero avversario, il sistema che produce sia lo sfruttamento economico che l’oppressione simbolica, rimane intatto e indisturbato.
Per spiegare le contraddizioni del pensiero postmoderno e la sua evoluzione Cangiano prende le mosse da un episodio tratto da La fine della strada di John Barth, romanzo spesso considerato tra i testi fondativi del postmodernismo letterario, in cui un professore discute con due studenti sulla preesistenza del linguaggio rispetto alla grammatica. La risposta del docente, che elogia il ribelle capace di accettare con ironia l’arbitrarietà delle convenzioni sociali senza volerle cambiare, viene interpretata come una metafora dell’atteggiamento postmoderno nelle sue forme più classiche, cioè una consapevolezza critica che, tuttavia, non si traduce in un progetto trasformativo, limitandosi a una posizione ironico-liberale nel senso teorizzato da Richard Rorty. Questa posizione, inizialmente caratterizzata da un distacco disincantato, ha però subito negli ultimi decenni una significativa torsione, legandosi sempre più a istanze di trasformazione sociale. Permane una contraddizione fondamentale. L’epistemologia postmoderna rifiuta ogni essenzialismo, universalismo e normatività, celebrando invece il molteplice, il fluido e l’ibrido come condizioni ontologiche ma nella prassi politica questa stessa prospettiva si traduce in forme di irrigidimento identitario ed etico, come nel caso del politically correct o delle identity politics. Questo paradosso viene definito “essenzialismo di ritorno”, un processo per cui l’anti-essenzialismo postmoderno finisce per cristallizzarsi in una nuova forma di normatività, in cui il “molteplice” viene naturalizzato come dato ontologico piuttosto che storico. Questa dinamica è approfondita attraverso un aneddoto personale, l’incontro con un docente universitario che, da studioso di Flaubert, si è reinventato come teorico delle Neuro Humanities, disciplina che cerca di applicare metodologie scientifiche allo studio della cultura. Per Cangiano è un sintomo di una più ampia crisi delle discipline umanistiche, divise tra due tendenze opposte e ugualmente problematiche. Si assiste a un neo-oggettivismo che cerca di legittimare le Humanities adottando approcci parascientifici, spesso cadendo in una forma di subalternità alle scienze dure e contemporaneamente si diffonde un decostruzionismo radicale che rifiuta ogni pretesa di oggettività, riducendo tutto a “costrutti sociali” ma che, paradossalmente, si arena in un’etica identitaria e normativa, come dimostra la sacralizzazione dell’autodeterminazione individuale (“I identify as…”). Quello che manca è una narrativa capace di connettere criticamente queste elaborazioni teoriche, spesso confinate nei campus universitari, con le trasformazioni socio-strutturali del capitalismo contemporaneo. Per comprendere questa mancanza viene ricostruita la transizione dal post-strutturalismo francese alla sua rielaborazione americana, la cosiddetta French Theory. Mentre autori come Derrida concepivano la decostruzione come una pratica di destabilizzazione continua del significato, negli Stati Uniti essa è stata reinterpretata in chiave pragmatica, trasformandosi in un metodo per smascherare i “discorsi di potere” in ogni testo o pratica culturale. Questa operazione ha avuto due conseguenze principali. In primo luogo, ha favorito la fusione tra post-strutturalismo e identity politics: l’universalismo è stato identificato come strumento di dominio (maschile, bianco, eurocentrico) mentre le “minoranze”, intese in senso deleuziano-foucaultiano, sono diventate il soggetto privilegiato della resistenza. In secondo luogo, ha portato all’emergere di un’etica normativa paradossale: si nega ogni fondamento assoluto mentre si reintroducono categorie rigide di bene (ibridità, fluidità) e male (universalismo, oggettivazione). Il postmodernismo ha forti legami con il capitalismo, come si evince dalle critiche marxiste degli anni ‘90 avanzate da pensatori come Fredric Jameson, Terry Eagleton e Perry Anderson. Secondo Anderson l’erosione delle identità fisse riflette la finanziarizzazione dell’economia, dove il denaro, privo di essenza, diventa l’unico universale. Eagleton, dal canto suo, lega il culto postmoderno del contingente e del frammentario alla logica del consumo e del terziario avanzato. Jameson, infine, critica il rifiuto postmoderno della “totalità” marxista, intesa non come essenzialismo ma come analisi delle relazioni storiche, che impedisce di comprendere il capitalismo come sistema integrato.
Il postmodernismo, dunque, pur essendo sovversivo sul piano culturale, rischia di essere funzionale al capitalismo per almeno due ragioni: naturalizza il presente, interpretando il “molteplice” non come effetto storico del post-fordismo ma come condizione ontologica e separa la lotta culturale dalla trasformazione economica, favorendo un’etica identitaria che il mercato può facilmente assimilare, come dimostra la crescente commodification delle identità LGBTQ+. Il postmodernismo, rifiutandosi di riconoscersi come prodotto storico, finisce per replicare la logica ideologica del capitalismo poiché critica l’universalismo astratto senza vedere che il vero universalismo capitalista è quello della merce che riduce ogni relazione a scambio strumentale. La soluzione è un ritorno a un’analisi materialista che storicizzi il postmodernismo, mostrandolo non come “verità” ma come espressione di una fase del capitale e che riconnetta la critica culturale alla lotta contro le strutture economiche, evitando che il “molteplice” diventi un feticcio svuotato di potenziale trasformativo.
Cangiano cerca di portare avanti una disamina serrata delle contraddizioni insite nei Contemporary Cultural Studies. Quando entrò nel sistema universitario statunitense, esso iniziava l’abbandono di un certo approccio europeo al sapere, quello che ancora conservava un rispetto quasi sacrale per la tradizione, in favore di una pratica didattica tutta incentrata sulla decostruzione e la demistificazione. Cangiano nota come questa attitudine critica, seppur nata da istanze progressiste, finisse per essere paradossalmente condivisa sia dagli studenti di sinistra che da quelli di destra. I primi erano impegnati a smascherare le gerarchie di potere nei testi, i secondi concentrati a individuarne le incongruenze logiche. Ciò che accomunava entrambi gli approcci era però una visione profondamente strumentale della cultura, un’idea per cui ogni testo andava valutato in base alla sua utilità immediata, alla sua “spendibilità” in un contesto di realismo capitalista dove tutto, persino il pensiero critico, viene ridotto a merce. Questa osservazione apparentemente limitata a un’esperienza pedagogica si rivela in realtà il punto di partenza per una critica ben più ampia alla deriva dei Cultural Studies americani che viene analizzata nel loro sviluppo storico e teorico. Se i Cultural Studies britannici di stampo gramsciano vedevano la cultura come un terreno di lotta per l’egemonia di classe, la loro versione statunitense, plasmata dal clima postmoderno degli anni ‘80, ha progressivamente abbandonato la prospettiva materialista per concentrarsi su una battaglia prevalentemente simbolica contro le strutture del potere discorsivo. L’influenza della French Theory, in particolare di Foucault e Derrida, ha portato a un’attenzione quasi esclusiva per i meccanismi attraverso cui il potere si insinua nelle strutture epistemiche, nelle categorizzazioni apparentemente neutre come l’oggettività, l’universalismo, la razionalità, tutte viste come maschere dell’egemonia occidentale, bianca e patriarcale. Cangiano riconosce il valore di questa operazione di smascheramento ma ne evidenzia anche i limiti fondamentali. La strenua concentrazione sulla dimensione discorsiva del potere ha portato a una progressiva separazione tra critica culturale e analisi materiale, come se il capitalismo potesse essere compreso esclusivamente come un regime di rappresentazioni e non come un sistema di produzione e sfruttamento. Questo approccio, che Wendy Brown ha definito “cultural turn”, ha avuto l’effetto di trasformare concetti nati per essere radicali, come la decostruzione delle identità o la valorizzazione delle epistemologie marginali, in strumenti perfettamente integrabili nel mercato neoliberale. Uno degli esempi più lampanti di questa deriva è l’evoluzione del femminismo accademico. Se il femminismo della seconda ondata manteneva un solido legame con l’analisi materialista, le teorizzazioni più recenti, influenzate dal postmodernismo, hanno spesso finito per ridurre la liberazione a una questione di performatività e decostruzione identitaria. Judith Butler, pur offrendo strumenti preziosi per smantellare le norme di genere binarie, ha involontariamente aperto la strada a un individualismo libertario in cui la trasformazione sociale viene sostituita dallo “smarcarsi” personale dalle convenzioni. Cangiano non nega l’importanza di queste battaglie culturali ma osserva come, separate da un progetto di cambiamento strutturale, rischino di diventare perfettamente compatibili con il neoliberismo, come dimostrano le politiche di diversity management delle multinazionali o l’appropriazione del linguaggio femminista da parte di figure come Hillary Clinton che pur sposando retoricamente l’empowerment femminile ha sostenuto politiche imperialiste e antipopolari. Lo stesso problema si ritrova nell’ambito dei Postcolonial Studies e degli Whiteness Studies. Se da un lato questi campi di ricerca hanno il merito di aver smascherato i meccanismi dell’eurocentrismo e della costruzione sociale della “bianchezza”, dall’altro rischiano spesso di cadere in un culturalismo che separa il razzismo dalla sua base materiale. Autori come Dipesh Chakrabarty hanno giustamente evidenziato come il capitalismo non sia riuscito a omogeneizzare completamente le culture subalterne, lasciando spazi di resistenza epistemologica. Questa intuizione, però, rischia di trasformarsi in un nuovo essenzialismo, dove tutto ciò che è “non-occidentale” viene romanticizzato come intrinsecamente antagonista, senza considerare come certi regimi postcoloniali possano a loro volta diventare complici dello sfruttamento globale. Analogamente, negli Whiteness Studies, mentre studiosi come David Roediger collegano intelligentemente la costruzione della razza alla divisione della classe operaia, altri riducono il razzismo a un problema di bias individuale, proponendo soluzioni terapeutiche (come l’autoflagellazione bianca di Robin DiAngelo) che ignorano completamente le dimensioni strutturali dell’ineguaglianza. Il cuore della critica di Cangiano risiede proprio in questa incapacità di cogliere la natura non monolitica del capitalismo contemporaneo. Se i Cultural Studies tendono a identificare il potere capitalista esclusivamente con l’universalismo occidentale e le sue pretese egemoniche, finiscono per sottovalutare la straordinaria capacità del sistema di strumentalizzare le differenze e le stesse critiche rivolte alla sua presunta uniformità. Il capitalismo non ha bisogno di essere coerente, può promuovere tanto l’omogeneità culturale (con i suoi fast food e i suoi blockbuster globalizzati) quanto la diversità (con il marketing woke e l’appropriazione del linguaggio radicale) purché tutto avvenga nel rispetto della logica del profitto. Questa analisi ci conduce a una conclusione tanto semplice quanto radicale: la battaglia culturale, se separata da un progetto di trasformazione materiale, rischia di diventare non solo inefficace ma perfino funzionale al sistema che intende criticare. Non si tratta di abbandonare gli strumenti offerti dai Cultural Studies o dalla French Theory ma di reimpostarli all’interno di una dialettica che riconnetta costantemente la critica del discorso all’analisi dei rapporti di produzione. Come suggerisce Slavoj Žižek, il capitalismo contemporaneo ha la straordinaria capacità di prosperare sulla stessa critica rivolta a esso, trasformando ogni tentativo di sovversione simbolica in una nuova merce o in una nuova forma di controllo. Di fronte a questa situazione l’unica via d’uscita è ripoliticizzare radicalmente la teoria critica, rifiutando sia l’economicismo volgare sia il culturalismo ingenuo, per tornare a pensare la cultura come parte integrante, ma non autonoma, di un più ampio sistema di sfruttamento che va smantellato nella sua totalità. A conferma di questa necessità Cangiano cita una riunione del suo Marxist Reading Group durante la quale un collega accusa il gruppo di esercitare un “discorso di potere” sui subalterni attraverso il loro stesso tentativo di analisi e comprensione delle condizioni delle fasce più deboli. Questa critica, ispirata alle prospettive foucaultiane, sostiene che l’atto stesso di definire e categorizzare le oppressioni (di genere, razza e classe) finisca per negare l’autonomia dei soggetti oppressi, avvolgendoli in un ulteriore “discorso di verità” che riproduce dinamiche di dominio. Questa prospettiva viene rovesciata con una domanda radicale: ma noi intellettuali critici siamo davvero autonomi? Le nostre condizioni materiali possono essere migliori di quelle dei subalterni ma ciò non significa che siamo immuni dalla logica del capitale. Anzi, persiste in noi una credenza inconsapevole, ovvero che il discorso intellettuale possa esistere in una sfera separata dalla prassi capitalista, come se leggere un articolo di bell hooks avesse un potere trasformativo maggiore delle forze materiali di Amazon, dei supermercati aperti 24/7 o delle piattaforme di food delivery. Questa illusione di autonomia deriva da un fraintendimento dialettico fondamentale, si misconosce il fatto che la cultura non è un campo indipendente ma è sempre intrecciata alla prassi storica e materiale. Il “cultural turn” critica giustamente la presunzione degli intellettuali di ergersi a custodi della verità ma cade in un paradosso significativo. Smaschera i micropoteri ma presuppone che il discorso critico stesso non sia determinato dalla stessa logica che intende combattere. In altre parole, si crede che l’autocoscienza, l’analisi dei propri privilegi, la decostruzione dei linguaggi, sia di per sé liberatoria, ignorando che anche questa operazione avviene all’interno di un sistema che può assorbirla e strumentalizzarla. Dietro la “modestia” di chi riconosce i propri privilegi si nasconde in realtà una forma di hybris: la convinzione che l’intellettuale possa autodeterminarsi al di fuori delle condizioni materiali che lo producono. In un contesto storico in cui le possibilità di un’azione trasformativa sul piano economico si sono drasticamente ridotte, con il ritiro dei partiti socialisti e socialdemocratici da un discorso economico alternativo e la loro trasformazione in “partiti radicali di massa”, come aveva intuito Augusto Del Noce, la lotta culturale diventa lo spazio privilegiato del conflitto. Questo spostamento ha un prezzo altissimo perché si perde di vista il funzionamento concreto del capitale che non è un blocco monolitico ideologico ma una forza flessibile e strumentale, capace di adattare le sovrastrutture alle esigenze della prassi economica. Cangiano porta esempi concreti di questa doppiezza. Nelle università si organizzano corsi sulla diversity e si promuove un linguaggio inclusivo ma nella prassi concreta il capitale continua a operare attraverso meccanismi brutali di sfruttamento. Alle donne incinte si offrono contratti precari, ai lavoratori immigrati si pagano salari più bassi con la scusa che “lavorano male”, la diversificazione dei prodotti (come i grembiulini scolastici in vari colori) non risponde a un’istanza di inclusività ma alla necessità di espandere il mercato. Il problema, dunque, non è solo che il capitalismo è ipocrita ma che il “cultural turn”, concentrandosi esclusivamente sulla critica dei discorsi, rischia di non vedere come questi stessi discorsi vengano riassorbiti e neutralizzati. Il “cultural turn” ha progressivamente sostituito la lotta di classe con quella che Žižek ha definito la battaglia delle “classi simboliche”, cioè posizionamenti politici determinati non dal rapporto con i mezzi di produzione ma da scelte di campo su attitudini etico-culturali. Per questo motivo la scalata sociale di alcuni individui appartenenti a minoranze viene celebrata come una vittoria collettiva, veicolando l’illusione di un sistema che si riforma progressivamente mentre le disuguaglianze strutturali permangono intatte. Questa deriva è particolarmente evidente nel concetto di “classismo”, ridotto a una questione di atteggiamenti culturali (“non stereotipare i poveri”, “riconoscere la loro agency”) piuttosto che a un rapporto oggettivo di sfruttamento. Come nota Walter Benn Michaels, in questa prospettiva i ricchi hanno ragione a non trattare i poveri come uguali perché la disuguaglianza non è un problema di attitudini ma di rapporti materiali. Non serve alcun “discorso di potere” per escludere i poveri da certi spazi, basta semplicemente il denaro che non hanno. Ciò che emerge è una perdita della dimensione collettiva e strutturale del conflitto, frammentato in una miriade di identità concorrenti che riproducono la logica stessa del mercato. Il “cultural turn”, mentre critica gli universalismi, finisce per presupporre che il capitalismo operi sempre attraverso logiche monologiche e uniformanti. In realtà, il capitale è proteiforme, può promuovere discorsi razzisti o sessisti in certi contesti mentre in altri (specie nel capitalismo postfordista) sfrutta abilmente la retorica della differenza, del nomadismo e della flessibilità. Il neoliberismo ha incorporato molti temi della French Theory (ibridazione, fluidità, marginalità) non per caso ma perché perfettamente funzionali all’espansione dei mercati e alla creazione di nuove nicchie di consumo. Ne consegue che il culturalismo, anziché minare il sistema, rischia di diventarne l’ideologia più raffinata, mitigandone gli effetti più crudi senza intaccarne la logica profonda. La soluzione è ripristinare il legame dialettico con la prassi materiale, come insegnava Gramsci. Senza questa riconnessione, la critica rischia il suo sintomo più avanzato: un capitale dal volto umano, che assorbe e neutralizza ogni dissenso trasformandolo in merce simbolica.
Il neoliberismo, a differenza del liberismo classico, non si fonda su una meta-narrazione rigida, come l’idea dell’homo oeconomicus, ma promuove una razionalità strumentale basata sull’efficienza, la concorrenza e l’adattamento continuo, una logica che non impone un’ideologia fissa ma modella comportamenti e pensieri in modo che si conformino spontaneamente alle esigenze del mercato. Questa logica, come aveva osservato Cynthia Cruz, ha ridotto persino il concetto di “progresso” a ciò che dimostra un’utilità immediata, un principio che ha influito non solo sull’organizzazione del lavoro ma anche sulla riformulazione delle discipline umanistiche in senso utilitaristico, svuotandole della loro funzione critica e trasformandole in mere ancelle del mercato. Il principio dell’efficienza si è così imposto come valore sociale universalizzato, un valore che ha rivestito di sé non solo il mondo produttivo ma ogni aspetto della vita, dai servizi pubblici alle relazioni interpersonali, fino all’autopercezione degli individui, sempre più spinti a concepirsi come imprenditori di se stessi, in costante competizione per ottimizzare le proprie performance.
La trasformazione del lavoro post-fordista forse è l’esempio più lampante di questa mutazione. Se il fordismo aveva imposto gerarchie rigide e una netta separazione tra tempo di lavoro e tempo libero, il neoliberismo ha sostituito quel modello con un sistema basato sulla flessibilità, sulla precarietà e sull’auto-imprenditorialità. Il lavoratore non è più un semplice ingranaggio in una catena di montaggio ma un soggetto chiamato a gestire la propria carriera come un piccolo business, in un contesto di continua competizione. L’autonomia concessa da questo nuovo paradigma, però, è solo apparente: il tempo libero, il wellness, la creatività sono incoraggiati solo in funzione di una maggiore produttività, in un meccanismo perverso che trasforma ogni momento della vita in un’opportunità di auto-miglioramento finalizzato al lavoro. La deregulation delle strutture fordiste, insomma, non ha portato a una maggiore libertà ma a un modellamento ancora più totale delle esistenze, in cui l’individuo è chiamato a interiorizzare i valori del mercato e a fare della competizione il principio organizzativo della propria vita. Questo processo, come aveva notato Luc Boltanski, non si basa più sull’idea di un progresso legato alla giustizia sociale ma su una retorica dell’autorealizzazione che maschera la crescente disuguaglianza e la precarizzazione del lavoro.
Cangiano si occupa anche di quella che definisce l’etica dei Twenty-First Century Victorians, una nuova borghesia progressista che ha sostituito i corsetti vittoriani con un altrettanto rigido codice di condotta morale, basato sul culto della salute, del linguaggio politicamente corretto, dell’autocontrollo e della performatività virtuosa. Jason Tebbe coglie perfettamente il paradosso di questa classe sociale. Si proclama liberata dai ruoli di genere tradizionali e dalle costrizioni del passato mentre aderisce in realtà a un sistema di norme altrettanto opprimente, anche se più sottile e meno visibile. Il benessere fisico e mentale, l’alimentazione biologica, l’attenzione maniacale alla forma fisica, il politicamente corretto del linguaggio non sono più semplicemente scelte personali ma diventano strumenti di distinzione sociale, marcatori di status che separano chi è “dentro” da chi è “fuori”. Questo meccanismo può essere approfondito attraverso il concetto di safetyism, ovvero l’ossessione contemporanea per la sicurezza fisica ed emotiva elevata a principio fondante della convivenza sociale. Se in passato la coesione sociale si basava su valori condivisi, oggi sembra dipendere sempre più da un’idea di rispetto inteso come protezione da qualsiasi forma di disagio o conflitto. Questo approccio, apparentemente progressista, nasconde però una logica perversa perché trasforma ogni interazione umana in un potenziale campo minato di microaggressioni e traumi e in questo il safetyism finisce per generare una società iper-regolamentata, in cui la libertà individuale viene sacrificata sull’altare di un presunto bene collettivo che è in realtà un’illusione. Ciò che viene presentato come rispetto per l’altro è spesso un modo per mantenere i privilegi di classe, escludendo chi non è in grado di aderire a questi standard elevati di comportamento. Il politicamente corretto, spesso oggetto di polemiche superficiali, viene analizzato nella sua complessità. Indubbiamente è uno strumento di emancipazione che ha permesso di portare alla luce discriminazioni prima ignorate ma si è trasformato anche in un linguaggio del potere, una competenza necessaria per accedere a certi ambienti professionali e sociali. Nelle aziende progressive e nelle università elitarie la padronanza del linguaggio inclusivo e la capacità di navigare le complessità dell’identità di genere sono diventate abilità richieste, al pari della conoscenza dell’inglese o dell’informatica. Questo crea una nuova forma di disuguaglianza: chi ha avuto accesso a un’educazione privilegiata può permettersi di padroneggiare queste norme mentre chi proviene da ambienti meno istruiti viene escluso. La critica si estende poi alla woke culture e alle identity politics, accusate di aver frammentato le lotte sociali in una miriade di battaglie particolari, perdendo di vista il quadro generale. L’enfasi sull’esperienza individuale e sull’identità personale ha il merito di aver dato voce a gruppi storicamente marginalizzati però rischia di ridurre la politica a una questione di riconoscimento simbolico, trascurando le disuguaglianze materiali. Tutto ciò si lega alla riduzione della politica a terapia. Sempre più spesso i problemi sociali vengono medicalizzati, affrontati attraverso workshop aziendali, corsi di sensibilizzazione e un lessico mutuato dalla psicologia. Le oppressioni strutturali vengono reinterpretate come traumi individuali, da curare con l’autoaiuto e la mindfulness anziché con la lotta collettiva. Questo approccio finisce per depoliticizzare i conflitti, trasformandoli in questioni di gestione emotiva piuttosto che di trasformazione strutturale.
Simili temi ci riportano al tema della classe. Quando si parla di classe si intende una relazione sociale determinata dal posizionamento all’interno del sistema produttivo, non un’identità fissa o uno status culturale. Ciò significa che la classe non è definita da caratteristiche innate o da un bagaglio educativo, sebbene il capitale culturale giochi un ruolo nel mantenimento delle posizioni sociali. Piuttosto, la classe è una condizione dinamica che deriva dal modo in cui gli individui si relazionano al processo di produzione, vendendo la propria forza lavoro, controllando i mezzi di produzione o trovandosi esclusi dal mercato del lavoro. Non è una categoria immutabile ma una condizione che può cambiare in base all’attività concreta delle persone perché dipende da ciò che fanno, non da chi sono.
La classe non può essere ridotta a una questione di stile di vita, preferenze culturali o accesso all’istruzione. Anche la disoccupazione, ad esempio, è una condizione che va analizzata in relazione al sistema produttivo perché l’esclusione dal lavoro rimane un fenomeno strutturale legato al funzionamento del capitalismo. La classe è un rapporto sociale che accomuna persone diverse (per genere, razza, provenienza geografica) in base alla loro posizione nel modo di produzione. Questo approccio materialista contrasta con le visioni liberali o identitarie che tendono a frammentare le categorie sociali, perdendo di vista la loro connessione con le strutture economiche. Un aspetto cruciale del ragionamento è la relazione dialettica tra capitalisti e lavoratori. I capitalisti controllano i mezzi di produzione e determinano le condizioni dello sfruttamento tuttavia dipendono strutturalmente dalla forza lavoro che è l’unica fonte reale di plusvalore. Come sottolinea Chibber, i lavoratori sono “la gallina dalle uova d’oro” del sistema perché senza il loro sfruttamento il capitalismo non potrebbe funzionare. Questo ruolo centrale, però, è spesso oscurato da narrazioni che riducono la classe lavoratrice a una delle tante identità marginali, una categoria subalterna tra le altre, anziché riconoscerla come il perno attorno cui ruota l’intero sistema.
La sinistra ha progressivamente perso di vista questa centralità, abbandonando la classe come soggetto rivoluzionario e sostituendola con una figura più vaga, quella di un soggetto “illuminato” e culturalmente progressista, capace di muoversi con empatia all’interno del capitalismo. Questa deriva ha portato a interpretazioni fuorvianti delle dinamiche politiche, come la tendenza a spiegare le sconfitte elettorali attribuendole alla mancanza di cultura degli elettori o a una presunta internalizzazione dell’oppressione (ad esempio, le donne che votano per Trump sarebbero vittime di false coscienza). Queste letture ignorano il fatto che le scelte politiche sono spesso legate a condizioni materiali e a posizioni sociali, non semplicemente a convinzioni ideologiche o culturali. Cangiano critica inoltre l’assimilazione della classe alle logiche delle identity politics, dove viene trattata come un’ulteriore identità subalterna da difendere, anziché come un rapporto sociale strutturale. Autori come Jill Filipovic arrivano a dichiarare che “la working class è un’identità”, riducendola a una categoria culturale piuttosto che a una posizione all’interno del modo di produzione. Questa visione è profondamente fuorviante perché trasforma la classe in una questione di riconoscimento simbolico, distogliendo l’attenzione dallo sfruttamento materiale. Un altro problema è la separazione tra oppressione (razziale, di genere) e sfruttamento (di classe), operata da alcune correnti woke e liberal. Questa separazione impedisce di vedere come razzismo e sessismo siano storicamente funzionali al capitalismo perché permettono di giustificare salari più bassi per certi gruppi e di segmentare la forza lavoro. Ad esempio, il lavoro di riproduzione sociale (spesso svolto da donne) è sistematicamente svalutato, così come il lavoro delle minoranze razziali è stato storicamente pagato meno. Se si ignora questa connessione le lotte contro razzismo e patriarcato rischiano di limitarsi a rivendicazioni culturali, senza intaccare le strutture economiche che perpetuano le disuguaglianze. Le varie forme di oppressione vanno analizzate nella loro relazione con il modo di produzione perché è lì che si radicano. La classe non è un soggetto omogeneo ma un insieme di posizioni diversificate al suo interno (donne, migranti, lavoratori precari) che però condividono una relazione subalterna con i mezzi di produzione. La sfida per la sinistra è ricostruire un’egemonia all’interno di questa classe frammentata, riconoscendo le sue diverse condizioni senza perdere di vista l’obiettivo comune: la lotta contro lo sfruttamento capitalista.
Nel contesto universitario americano le formule radical-chic su “race, gender, class”, dice Cangiano, sono diventate rituali vuoti, un “sinistro pirandellismo” che, negando gli stereotipi, pretende di preservare l’autenticità degli individui senza mai mettere in discussione le strutture materiali che li determinano. Questo approccio, pur dichiarandosi anti-classista, finisce per occultare la vera natura dell’oppressione, riducendo il classismo a una questione di sensibilità culturale piuttosto che di rapporti di produzione. Emerge così la paradossale situazione in cui la differenza tra piccola borghesia progressista e conservatrice si riduce alla maggiore o minore consapevolezza di questo sguardo culturalista sulle classi popolari. L’uso politico delle identità ha avuto il merito storico, grazie soprattutto ai movimenti femministi, anti-coloniali e delle minoranze, di aver portato alla luce specifiche forme di oppressione prima invisibili ma vanno denunciate alcune sue derive contemporanee. Sandro Mezzadra viene citato per ricordarci che l’approccio identitario, pur avendo permesso importanti conquiste sul piano del riconoscimento, abbia finito per produrre due effetti perversi, ovvero la reificazione delle identità subalterne, concepite come categorie statiche e non dialettiche rispetto al sistema produttivo, e l’instaurarsi di una vera e propria competizione tra identità, una sorta di gara alla vittimizzazione che frammenta le lotte sociali e le rende più deboli. È in questo contesto che Cangiano inserisce la sua analisi del concetto di intersezionalità, sviluppato da Kimberlé Crenshaw sulla scia delle teorie del triple jeopardy del movimento terzomondista. Riconosce l’importanza di questo approccio nel cogliere la complessità delle oppressioni intrecciate ma individua due sviluppi problematici. L’intersezionalismo liberal, che riduce le disuguaglianze a questioni di sensibilità individuale e educazione, e l’intersezionalismo woke, che rischia di perdere di vista il legame strutturale tra oppressione e modo di produzione. Barbara Foley viene chiamata in causa per dimostrare come, senza una chiara comprensione di questo nesso, le lotte identitarie finiscano per muoversi all’interno di un orizzonte liberal che non mette mai veramente in discussione l’ordine capitalista. Tutto ciò ci riporta ancora una volta al concetto di classe inteso come posizionamento strutturale all’interno dei rapporti di produzione. Erik Olin Wright viene citato per sottolineare la natura multidimensionale dello sfruttamento contemporaneo mentre Gramsci offre la chiave per comprendere come il capitale non produca solo merci ma anche forme di coscienza. Senza una chiara prospettiva di trasformazione del modo di produzione, anche le più radicali battaglie culturali rischiano di essere riassorbite dal sistema, trasformandosi in merci culturali. Occorre collegare le lotte identitarie alla questione di classe, unica via per trasformare le rivendicazioni particolari in un progetto universale di emancipazione. Solo riconnettendo la critica culturale all’analisi del modo di produzione sarà possibile sfuggire alla trappola di un capitalismo che è sempre più abile nell’integrare e neutralizzare le differenze, trasformandole in nuove forme di mercificazione. La vera sfida, allora, non è moltiplicare le identità ma costruire un soggetto rivoluzionario capace di unificare le diverse forme di oppressione in una lotta comune contro lo sfruttamento.