1. L’educazione nel mondo primitivo e classico
Anibal Ponce in Educazione e lotta di classe. Una ricostruzione marxista della storia dell’educazione inizia la sua analisi dalle prime comunità umane organizzate. Nella comunità primitiva, come emerge dagli studi di Lewis Henry Morgan sugli indiani nordamericani, ricerche che Marx considerò così rilevanti da ispirargli un’opera che Engels avrebbe poi sviluppato, si manifestava una forma di comunismo tribale che rappresentava la fase originaria di tutte le società conosciute. Queste piccole collettività, radicate nella proprietà comune della terra e unite da legami di sangue, erano costituite da individui liberi ed eguali nei diritti, la cui vita era regolata dalle decisioni di un consiglio democratico formato da tutti gli adulti della tribù, senza distinzione di genere. La produzione collettiva veniva immediatamente distribuita e consumata, senza possibilità di accumulo a causa dell’estrema rudimentalità degli strumenti di lavoro. In alcune tribù contemporanee, come quelle del sud-ovest di Victoria, gli unici strumenti disponibili potevano essere semplici asce di pietra. Questo livello tecnologico primitivo costringeva la comunità a dedicare tutte le energie alla mera sopravvivenza quotidiana, in una condizione di totale dipendenza dalla natura che impediva qualsiasi progresso significativo. La divisione del lavoro, seppur embrionale, si basava sulle differenze naturali tra i sessi ma senza alcuna forma di subordinazione della donna. In queste società, dove spesso intere famiglie convivevano nello stesso spazio, le attività femminili, come la gestione dell’economia domestica e la raccolta di risorse alimentari complementari, avevano un carattere pubblico e sociale pari a quello delle attività maschili. Tra i boscimani, ad esempio, le donne non solo gestivano l’accampamento ma contribuivano attivamente alla sussistenza raccogliendo larve, formiche e locuste, dimostrando una piena consapevolezza della loro parità sociale. L’educazione dei bambini avveniva attraverso un processo completamente spontaneo e diffuso. Fin dai primi mesi di vita i piccoli partecipavano attivamente alla vita comunitaria, trasportati dalle madri in sacchi durante le attività quotidiane. Questo costante contatto con la vita adulta permetteva un apprendimento per imitazione e partecipazione diretta: per imparare a cacciare, il bambino cacciava; per apprendere la navigazione, manovrava effettivamente le piroghe. L’allattamento prolungato (che poteva durare diversi anni) e la continua vicinanza fisica creavano un legame simbiotico tra l’individuo e la collettività. Non esistevano metodi educativi formali né sistemi punitivi strutturati. I bambini venivano lasciati liberi di svilupparsi secondo le proprie inclinazioni, pur essendo costantemente immersi in un ambiente sociale che ne plasmava il comportamento. Come osservato da Paul Descamps, se una madre puniva occasionalmente un figlio per impazienza, era poi il padre a correggere la madre per il suo gesto. Questo approccio apparentemente non direttivo produceva tuttavia adulti perfettamente integrati nel sistema tribale, tanto che Marx paragonò questo legame sociale a un “cordone ombelicale” che univa indissolubilmente l’individuo alla comunità. La concezione del mondo di queste società rifletteva perfettamente la loro struttura egualitaria. L’assenza di gerarchie sociali si traduceva in una religiosità priva di divinità personali, basata invece sulla credenza in forze impersonali diffuse in tutta la natura. Questo sistema di credenze, per quanto possa apparire primitivo, rappresentava una perfetta coerenza tra organizzazione sociale e visione cosmologica. L’ideale pedagogico era l’interiorizzazione profonda dell’identità collettiva, un processo che iniziava già nella prima infanzia attraverso l’assimilazione del linguaggio, dei gesti quotidiani e delle pratiche comunitarie. Prima ancora di poter camminare, il bambino riceveva, in forma confusa ma efficace, i principi fondamentali della vita tribale. L’educazione non aveva bisogno di istituzioni specializzate perché la società nel suo complesso fungeva da gigantesco apparato formativo, simile al modo in cui oggi si apprende la lingua madre. Questa forma di educazione “per la vita attraverso la vita” rappresentava un sistema perfettamente funzionale a una società senza classi, dove gli interessi individuali coincidevano completamente con quelli collettivi. Ogni membro della tribù riceveva lo stesso tipo di formazione e aveva accesso alle stesse risorse, in un processo formativo che era al tempo stesso spontaneo (perché non mediato da istituzioni) e integrale (perché coinvolgeva tutte le dimensioni dell’esistenza). La crisi di questo modello educativo coincise con la trasformazione della comunità primitiva in società divisa in classi. Quando emersero le prime forme di proprietà privata e di stratificazione sociale, l’educazione cessò di essere un processo collettivo e uniforme per diventare strumento di differenziazione e mantenimento delle disuguaglianze. La comunità primitiva, con il suo sistema educativo diffuso e partecipativo, rappresenta dunque una fase storica in cui l’istruzione era pienamente integrata nella vita sociale e funzionale al mantenimento di un ordine comunitario egualitario. La comparsa delle classi sociali ebbe probabilmente una duplice origine: la scarsa produttività del lavoro umano e la sostituzione della proprietà comune con quella privata. Nella comunità primitiva, una rudimentale divisione del lavoro distribuiva i compiti in base al sesso e all’età ma col tempo emersero ulteriori differenze. La distribuzione dei prodotti, l’amministrazione della giustizia, la direzione della guerra e la gestione dei sistemi di irrigazione richiesero forme di lavoro sociale distinte dal lavoro materiale. Data la fatica estrema richiesta dalle tecniche primitive, chi si dedicava alla coltivazione della terra, ad esempio, non poteva svolgere altre funzioni necessarie alla tribù. La nascita di un gruppo di individui esentati dal lavoro materiale fu dunque una conseguenza inevitabile della bassa produttività del lavoro umano. Questi “funzionari”, sebbene sotto il controllo della comunità e privi di privilegi formali, acquisirono gradualmente un certo potere derivante dalle loro responsabilità sociali. Ad esempio, colui che distribuiva i viveri disponeva di aiutanti per custodire i depositi e col tempo la sua relativa preminenza si trasformò in una vera egemonia. È importante notare che le classi sociali che divennero poi “privilegiate” iniziarono svolgendo funzioni utili alla comunità. La loro supremazia relativa fu inizialmente accettata come un fatto spontaneo, giustificato da differenze di intelligenza, abilità o carattere ma col tempo queste disparità generarono sottomissione. Un esempio emblematico è quello dei faraoni egizi, celebrati come promotori dell’agricoltura e della gestione delle acque, il cui ruolo derivava dalla necessità di centralizzare il controllo dei sistemi di irrigazione, attività complessa che richiedeva conoscenze precise e un’organizzazione rigorosa. Allo stesso modo, figure come sacerdoti, medici e maghi acquisirono un ruolo essenziale nella gestione delle forze mistiche, ritenute capricciose e pericolose. In loro, come negli altri funzionari, emerse una crescente separazione tra direzione del lavoro e lavoro manuale, tra forze mentali e fisiche. Questa divisione tra “amministratori” e “esecutori” non avrebbe portato alla formazione delle classi sociali così come le conosciamo oggi senza un altro processo parallelo, ovvero l’aumento della produttività del lavoro. I progressi tecnici, come la domesticazione degli animali e il loro impiego in agricoltura, accrebbero la produttività, permettendo alla comunità di produrre più del necessario per il proprio sostentamento. Nacque così un surplus di beni e lo scambio, prima limitato, si intensificò, accentuando le differenze di ricchezza. Alcuni produttori, avendo più tempo libero, iniziarono a produrre non solo per sé ma anche per il commercio con altre tribù. Questo “ozio” fu fecondo di conseguenze perché permise la creazione di nuovi strumenti, la ricerca di materie prime e la riflessione sulle tecniche, gettando le basi per la scienza e la cultura. Con l’aumento del rendimento del lavoro, il lavoro umano acquisì valore. Mentre in passato le comunità sopprimevano l’aumento della natalità per evitare carestie e uccidevano i prigionieri di guerra perché incapaci di mantenerli, ora, con il miglioramento delle condizioni di vita, i prigionieri furono risparmiati e ridotti in schiavitù. La crescita del bestiame richiedeva più manodopera e la riproduzione umana non bastava a soddisfare questa domanda. L’incorporazione di estranei nella tribù come schiavi divenne necessaria e possibile. Il lavoro degli schiavi aumentò ulteriormente il surplus di prodotti da scambiare con altre tribù. Col tempo le funzioni direttive divennero ereditarie e la proprietà comune si trasformò in proprietà privata delle famiglie al potere. Queste, padrone dei prodotti, divennero anche padrone degli uomini. Una simile trasformazione segnò un passaggio cruciale, infatti nella società primitiva la collaborazione si basava sulla proprietà comune e sui legami di sangue mentre nella società divisa in classi la proprietà divenne privata e i legami di sangue furono sostituiti dal dominio dell’uomo sull’uomo. Con la scomparsa degli interessi comuni e l’emergere di interessi antagonistici, l’educazione, un tempo unica e omogenea, si divise. Le famiglie dirigenti, che organizzavano la produzione e controllavano la distribuzione, plasmarono anche riti, credenze e tecniche secondo i propri interessi. Liberate dal lavoro materiale, inizialmente il loro “ozio” non fu ingiusto ma col tempo sfruttarono la loro posizione per mantenere il potere, monopolizzando il sapere e relegando le masse all’ignoranza. Le cerimonie di iniziazione rappresentarono il primo esempio di educazione differenziata e coercitiva, precorritrici della scuola al servizio di una classe. Sacerdoti e maghi, custodi del sapere tribale, iniziarono i giovani delle classi superiori ai segreti del potere, attraverso prove durissime che sottolineavano l’importanza di tali conoscenze. Iniziati e non iniziati, così come bambini e adulti, furono posti su livelli diversi, con disparità non solo nell’istruzione ma anche nell’alimentazione. Nella comunità primitiva, la semplicità delle relazioni sociali rendeva superflua una disciplina rigida ma con l’avvento delle classi e la complessità crescente della società, l’educazione divenne sistematica, organizzata e violenta. Studi etnografici mostrano che i popoli con un’educazione più severa erano quelli più civilizzati, confermando che l’istruzione coercitiva emerge quando la società perde la sua omogeneità originaria. La primitiva visione del mondo come realtà unitaria, dove forze mistiche e naturali si intrecciavano in un flusso indistinto, viene radicalmente trasformata dall’affermarsi di una struttura sociale ed economica gerarchica. Questo passaggio fondamentale si riflette in una nuova concezione religiosa che sostituisce l’antico pantheon di forze diffuse con divinità chiaramente gerarchizzate, specchio fedele dell’organizzazione tribale ormai stratificata in classi. La stessa idea di sopravvivenza oltre la morte, inizialmente patrimonio comune di tutti i membri della tribù, si trasforma in privilegio esclusivo delle classi nobiliari, con l’educazione che diventa strumento essenziale per legittimare e perpetuare queste disuguaglianze. L’analisi comparata mostra come questo fenomeno si manifesti con impressionante uniformità tra le diverse civiltà antiche. In Polinesia, i nobili giustificavano l’esclusione dell’istruzione per le classi inferiori con la loro presunta destinazione alla servitù. Tra gli Inca, Tupac Yupanqui teorizzava apertamente la necessità di negare le conoscenze superiori ai plebei per evitare che questi potessero minacciare l’ordine costituito. In Cina, i filosofi taoisti elaboravano una pedagogia differenziata che mirava deliberatamente a mantenere il popolo in uno stato di ignoranza controllata, sufficiente solo per svolgere i lavori manuali. La trasformazione della proprietà da collettiva a privata produce un radicale cambiamento nella struttura familiare e nella condizione femminile. Nelle società primitive basate sul comunismo tribale, il matriarcato rifletteva sia l’indeterminatezza della paternità sia l’importanza sociale del lavoro femminile. Con l’accumulo di ricchezze private, si afferma invece la filiazione patrilineare come garanzia della trasmissione ereditaria dei beni e la famiglia monogamica diventa il pilastro di questo nuovo ordine sociale. La donna, precedentemente uguale all’uomo nella partecipazione alla produzione sociale, viene progressivamente confinata alla sfera domestica, subendo una drastica riduzione del suo status e una infantilizzazione della sua educazione. Quindi, l’emergere delle classi sociali porta con sé tutta una serie di istituzioni complementari: la religione si organizza in gerarchie divine che riflettono quelle terrene; l’educazione diventa strumento di differenziazione sociale; l’autorità paterna si consolida come microcosmo del potere statale; il sapere si separa dal lavoro manuale. Le funzioni amministrative, originariamente finalizzate alla gestione collettiva delle risorse, si trasformano in strumenti di oppressione di classe. I guerrieri, un tempo protettori della comunità, diventano braccio armato delle élite dominanti. Nasce lo Stato come istituzione specificamente finalizzata a legittimare e perpetuare la divisione in classi. Il potere politico si avvolge in un’aura sacrale, con rituali e rappresentazioni artistiche che ne esaltano il carattere soprannaturale. L’osservazione di Malinowski tra i melanesiani mostra come persino i gesti quotidiani fossero codificati per ribadire continuamente la superiorità dei nobili. L’arte egizia, con le sue convenzioni rappresentative differenziate per classi sociali, dimostra come ogni aspetto culturale venisse mobilitato per rafforzare l’ordine costituito.
Particolarmente significativo è il caso del nilometro egiziano che illustra perfettamente la duplice funzione del sapere nelle società classiste. Da un lato, questa conoscenza tecnica permetteva una migliore gestione delle risorse idriche; dall’altro, veniva utilizzata come strumento di controllo sociale e di accrescimento del potere delle élite, sia attraverso l’aumento delle tasse proporzionale alla prevista abbondanza del raccolto, sia attraverso la messa in scena del potere soprannaturale del faraone sulle acque del Nilo. Questo esempio dimostra come il sapere, nelle mani delle classi dominanti, cessi di essere strumento di progresso collettivo per diventare mezzo di dominio e di perpetuazione delle disuguaglianze sociali. Il passaggio dalla comunità primitiva a una società strutturata in classi sociali non avviene in modo immediato né lineare ma attraverso un processo graduale in cui le contraddizioni tra gli interessi delle diverse classi emergono in maniera inizialmente oscura e solo in un secondo momento si trasformano in una lotta di classe pienamente cosciente. Questo concetto, già espresso da Marx ed Engels nel Manifesto comunista, sottolinea come la storia delle società umane sia caratterizzata da un conflitto continuo tra oppressori e oppressi che si manifesta talvolta in forma velata e altre in modo esplicito. Una distinzione fondamentale, elaborata da Marx in Miseria della filosofia, è quella tra classe in sé, definita puramente dalla sua posizione nel sistema produttivo, e classe per sé che acquisisce una coscienza collettiva del proprio ruolo storico e delle proprie aspirazioni. La trasformazione da una condizione all’altra richiede un lungo percorso di elaborazione teorica e di esperienza pratica nelle lotte sociali, nel quale intellettuali e avvenimenti storici giocano un ruolo determinante. Le classi dominanti, grazie alla loro posizione privilegiata e alla possibilità di dedicarsi alla riflessione intellettuale, resa possibile dallo sfruttamento del lavoro altrui, sviluppano una coscienza più chiara dei propri interessi rispetto alle classi subalterne. Per mantenere il controllo sociale, l’educazione imposta dalle classi egemoni deve adempiere a tre funzioni fondamentali: eliminare ogni residuo di tradizioni culturali antagoniste, consolidare e ampliare il proprio dominio e prevenire qualsiasi forma di ribellione da parte delle classi subordinate. Questi obiettivi vengono perseguiti simultaneamente, anche se con diversa intensità a seconda delle circostanze storiche. Nel momento in cui la società comunitaria primitiva si trasforma in una società divisa in classi, l’educazione assume un ruolo cruciale nel contrastare le tradizioni egualitarie del passato, imponendo l’idea che le classi dominanti agiscano per il bene comune e reprimendo ogni forma di dissenso. Ponce afferma che l’ideale pedagogico non è più uniforme e per questo motivo le classi privilegiate adottano un modello educativo radicalmente diverso da quello riservato alle masse, presentando questa disuguaglianza come un fatto naturale e immodificabile. Nella Grecia antica il comunismo primitivo era già un ricordo lontano, sostituito da un sistema basato sulla proprietà privata e sull’autorità patriarcale. Tra il X e l’VIII secolo a.C. l’economia era essenzialmente agricola e autarchica, con scambi commerciali limitati a beni di prima necessità o a prodotti che non potevano essere ottenuti localmente. A partire dal VII secolo, tuttavia, l’incremento della produttività del lavoro favorì lo sviluppo di un’economia mercantile, nella quale il commercio, gestito principalmente da schiavi e stranieri, divenne sempre più rilevante. Le classi superiori, liberate dal lavoro manuale, si dedicarono ad attività considerate più nobili, pur traendo profitto dalle attività commerciali condotte da altri. Nonostante il disprezzo formale per il commercio, i patrizi greci si arricchirono attraverso il lavoro degli schiavi e dei liberti che gestivano botteghe e traffici mercantili in loro nome. Le tecniche produttive rimanevano rudimentali, basate prevalentemente sulla forza umana e su strumenti semplici come leve, rulli e piani inclinati. La manodopera a basso costo, costituita principalmente da schiavi, non incentivava l’innovazione tecnologica, tanto che persino nelle grandi opere architettoniche si ricorreva a metodi artigianali. In agricoltura, strumenti come l’aratro rimasero immutati per secoli. A partire dal V secolo l’espansione del commercio marittimo impose due innovazioni decisive: la coniazione della moneta, che facilitò gli scambi, e il miglioramento delle tecniche di navigazione, che permise viaggi più lunghi e redditizi. L’arricchimento della nobiltà attraverso il commercio e la finanza, compresa la pratica dell’usura, accentuò le disuguaglianze sociali. I grandi proprietari terrieri, già detentori di vasti latifondi, estesero ulteriormente i loro possedimenti attraverso prestiti ipotecari, riducendo i piccoli contadini alla condizione di coloni obbligati a cedere gran parte del raccolto o, nei casi più estremi, alla schiavitù per debiti. Questo sistema generò una crescente concentrazione della proprietà terriera e un parallelo impoverimento delle classi subalterne, alimentando un circolo vizioso di sfruttamento e conflitto sociale. L’educazione divenne uno strumento fondamentale per plasmare l’ideologia delle classi dominanti e mantenere il controllo sulle masse. A Sparta, ad esempio, la riforma di Licurgo aveva istituito una distribuzione egualitaria delle terre tra i cittadini ma le differenze economiche persistevano e la proprietà rimaneva inalienabile e vincolata al servizio militare. La società spartana, sospesa tra il comunismo primitivo e un più avanzato sistema di proprietà privata, era organizzata come una caserma, con una minoranza di Spartiati che dominava una popolazione molto più numerosa di iloti (semiliberi) e perieci (liberi ma privi di diritti politici). L’educazione spartana, rigidamente militarizzata, mirava a formare soldati disciplinati e a prevenire qualsiasi tentativo di rivolta da parte degli strati inferiori della popolazione. Fin dall’infanzia i cittadini erano sottoposti a un addestramento severo e continuo mentre le donne, in un contesto di relativa parità sociale, gestivano famiglie non rigidamente monogamiche e partecipavano attivamente alla vita della comunità. L’educazione spartana, sia per gli uomini che per le donne, era caratterizzata da una severità e crudeltà deliberate, finalizzate a forgiare individui duri e pronti alla guerra, con un’esplicita promozione delle relazioni omosessuali come mezzo per consolidare i legami tra soldati. Lo scopo ultimo di tale sistema era garantire la supremazia militare sulle classi dominate, attraverso una disciplina inflessibile, basata sull’addestramento ginnico e sul controllo rigoroso esercitato dagli éfori, i cinque magistrati che rappresentavano l’aristocrazia e detenevano un potere pressoché assoluto. Questo modello educativo produceva individui rozzi, taciturni, astuti, spietati e, in alcuni casi, eroici, ma sempre capaci di imporre la propria autorità. L’istruzione, intesa nel senso moderno di trasmissione di sapere teorico, era quasi inesistente. Solo una ristretta cerchia di nobili possedeva rudimenti di lettura e calcolo mentre ogni attività che potesse distogliere dall’addestramento bellico era vietata. Per gli iloti e i perieci, le classi subordinate, l’educazione era concepita come uno strumento di oppressione e controllo. Agli iloti era negata qualsiasi forma di esercizio fisico e venivano umiliati attraverso pratiche come l’obbligo di ubriacarsi durante i banchetti per divertimento dei nobili. Dopo la rivolta del 464 a.C., la classe dominante istituì la kripteia, un corpo speciale composto da giovani spartani incaricati di eliminare fisicamente gli iloti più forti o ribelli, dimostrando così il carattere spietato del dominio aristocratico. La società spartana, fondata sullo sfruttamento sistematico del lavoro servile, riservava esclusivamente all’élite il diritto all’istruzione militare e politica, impedendo qualsiasi forma di mobilità sociale. Ad Atene, nonostante l’immagine idealizzata tramandata dalla tradizione, l’educazione rifletteva anch’essa una rigida stratificazione sociale. La città, basata su un’economia schiavistica, vedeva nei cittadini liberi una minoranza privilegiata che disprezzava il lavoro manuale, considerato attività indegna e riservata agli schiavi e ai meteci. L’educazione dei giovani ateniesi delle classi elevate combinava l’addestramento fisico e militare, svolto nelle palestre e nei ginnasi, con lo studio della musica, della poesia e della filosofia, attività considerate espressioni del diagogos, ovvero di un ozio culturalmente elevato. Il lavoro produttivo era ritenuto incompatibile con la virtù (areté), intesa come qualità esclusiva di chi deteneva il potere. Aristotele definiva l’uomo come un “animale politico”, sottolineando che solo i cittadini liberi, esenti da necessità lavorative, potevano partecipare pienamente alla vita pubblica. La ricchezza e l’appartenenza a una stirpe nobile erano considerate condizioni indispensabili per l’esercizio della virtù e l’educazione era strutturata per formare governanti, non sudditi o lavoratori. Anche ad Atene, nonostante la maggiore apertura intellettuale rispetto a Sparta, l’istruzione rimaneva uno strumento di dominio di classe. Le scuole elementari, gestite da privati, fornivano un’alfabetizzazione di base mentre l’efebia, l’addestramento militare e civico riservato ai diciottenni, era rigidamente controllata dallo Stato e accessibile solo ai membri delle élite. In entrambe le città-stato, dunque, l’educazione serviva a perpetuare il potere delle classi dominanti, mantenendo le masse in una condizione di subalternità culturale e politica. Se Sparta privilegiava un modello brutale e militarizzato, Atene integrava elementi culturali e filosofici ma sempre all’interno di un sistema che escludeva schiavi, donne e non cittadini dalla partecipazione attiva alla vita pubblica. L’ideale educativo greco, spesso celebrato come modello di armonia e perfezione, nascondeva in realtà una struttura sociale profondamente diseguale, basata sullo sfruttamento e sulla repressione delle classi subalterne. Nell’Atene antica, ad esempio, lo Stato esercitava un controllo rigoroso sull’educazione, determinando non solo il tipo di istruzione che i bambini ricevevano in famiglia e nelle scuole private ma anche vigilando attentamente sulla moralità e sul rispetto delle convenzioni sociali. Un magistrato speciale, il sofronista, sorvegliava i giovani per assicurarsi che il loro comportamento fosse conforme alle norme stabilite mentre l’Areopago e l’Arconte-re, definito da Renan come una sorta di inquisitore, monitoravano ogni possibile violazione delle leggi, della religione o della morale. Platone ribadisce questo principio affermando che le leggi, fondate sull’esistenza degli dei, impedivano ai cittadini di compiere atti empì o di esprimersi contro l’ordine costituito. Nonostante si parlasse di “libertà di insegnamento”, questa non significava affatto libertà di pensiero o di dottrina. I maestri non potevano plasmare gli allievi secondo le proprie convinzioni personali ed erano obbligati a formarli come futuri governanti, instillando in loro devozione verso la patria, le istituzioni e gli dei. Questa presunta libertà nascondeva un sistema profondamente classista: mentre lo Stato si asteneva dal finanziare direttamente l’istruzione, imponeva alle famiglie il peso economico dell’educazione privata, riservando l’accesso ai ginnasi, e quindi alle cariche pubbliche, solo a chi poteva permettersi anni di studi costosi. In questo modo l’aristocrazia terriera manteneva il monopolio del potere, escludendo sistematicamente i figli dei piccoli proprietari che spesso non potevano sostenere gli studi oltre un livello elementare. Senofonte, con la sua prosa diretta, sintetizza questa disparità in una frase lapidaria: sebbene tutti i cittadini liberi avessero formalmente il diritto di mandare i figli a scuola, solo quelli che potevano mantenerli senza farli lavorare lo facevano realmente. Anche le leggi di Solone riflettevano questa divisione di classe. I figli dei poveri imparavano a malapena a leggere e a nuotare prima di essere avviati al lavoro manuale mentre quelli dei ricchi studiavano musica, equitazione, filosofia e frequentavano i ginnasi, completando un percorso educativo che li preparava a una vita di governo e di ozio intellettuale. Nel V secolo, l’ascesa di una nuova classe sociale, mercanti, armatori e industriali arricchiti, sconvolse questo equilibrio. Questi “nuovi ricchi”, privi di antenati illustri ma potenti grazie al commercio e alla manifattura, iniziarono a contestare l’educazione tradizionale, promuovendo un modello più pragmatico e individualista, in linea con i loro interessi economici. I sofisti, portavoce di questa mentalità, proclamavano che “l’uomo è misura delle cose” e offrivano un’istruzione finalizzata al successo personale, specialmente nell’arte della retorica e della politica. La loro influenza si diffuse rapidamente tra i giovani delle classi emergenti che vedevano nell’oratoria uno strumento per scalare la gerarchia sociale. La reazione delle élite tradizionali fu brutale. Lo Stato intensificò la repressione contro ogni forma di pensiero dissidente e filosofi come Anassagora, Protagora e Socrate furono accusati di empietà mentre i libri considerati sovversivi venivano bruciati pubblicamente. Parallelamente, venne istituito un controllo più stretto sulle scuole, con l’introduzione di programmi ufficiali per impedire la diffusione di idee pericolose. Platone e Aristotele, interpreti delle paure dell’aristocrazia, elaborarono teorie educative che giustificavano la divisione in classi. Per Platone, l’armonia sociale dipendeva dal fatto che ognuno restasse al proprio posto: i filosofi a governare, i guerrieri a combattere, i lavoratori a produrre. Aristotele, ancora più esplicito, sosteneva che la schiavitù fosse naturale e che solo una minoranza privilegiata potesse dedicarsi alla filosofia mentre il resto dell’umanità era condannato al lavoro manuale. Ponce a questo punto volge lo sguardo sull’Antica Roma e traccia un percorso che parte dalle origini della società romana, caratterizzata da una struttura comunitaria primitiva con re eleggibili, fino all’affermazione di un sistema classista fondato sulla schiavitù. In questa transizione il potere si concentrò nelle mani dei patrizi, i grandi proprietari terrieri mentre i plebei, pur essendo liberi, rimanevano esclusi dal governo. Le loro incessanti lotte per il riconoscimento politico portarono, nel 287 a.C., alla conquista dell’uguaglianza formale, permettendo la fusione tra patrizi e plebei in una nuova aristocrazia che avrebbe dominato la scena politica romana. Le continue guerre di conquista, come quella contro Cartagine, arricchirono Roma di oro e di un numero sempre crescente di schiavi che divennero la base dell’economia romana. Nei primi secoli della Repubblica, durante quella che viene definita la “vecchia educazione”, la società era ancora legata a un modello agricolo semplice, dove la divisione del lavoro non era ancora eccessivamente sviluppata. Il proprietario terriero lavorava personalmente la terra insieme ai suoi pochi schiavi, in un rapporto che, seppur gerarchico, manteneva un certo grado di familiarità. I figli dei proprietari imparavano l’agricoltura direttamente sul campo, affiancando il padre nelle attività quotidiane, ascoltando i suoi insegnamenti e partecipando alle mansioni più semplici. Poiché la ricchezza derivava principalmente dalla terra, la sua gestione era considerata fondamentale per la formazione di un cittadino romano. La proprietà terriera, inoltre, determinava l’influenza politica e l’accesso alle cariche militari: solo chi poteva permettersi cavalli e armature pesanti aveva un ruolo di rilievo nell’esercito. Fino al II secolo a.C. le legioni erano infatti composte da proprietari terrieri che lasciavano temporaneamente i loro campi per combattere, tornando spesso con nuovi schiavi e territori conquistati.
L’educazione del giovane nobile romano si basava su tre elementi fondamentali: l’agricoltura, la guerra e la politica. L’apprendimento avveniva principalmente attraverso l’esperienza diretta. Il futuro cittadino imparava a coltivare la terra lavorando al fianco del padre, si formava militarmente nei campi di addestramento e in battaglia mentre acquisiva nozioni politiche ascoltando i dibattiti nel Senato, dove i giovani assistevano alle sedute su apposite panchine riservate loro. A vent’anni, un ragazzo che aveva imparato a gestire la terra e aveva partecipato a campagne militari era considerato pronto per la vita pubblica. L’istruzione formale, affidata a uno schiavo istruito, era spesso rudimentale e limitata alle nozioni di base ma ciò non impediva ai romani di sviluppare una grande abilità oratoria, essenziale per la carriera politica. Catone definiva l’oratore come un vir bonus, un uomo virtuoso capace di governare con saggezza, e Quintiliano ampliò questo concetto, descrivendolo come il vero uomo politico, abile nell’amministrare lo Stato e nel placare le rivolte popolari con la forza della parola. Con l’espansione di Roma e l’accumulo di ricchezze, la struttura sociale cambiò radicalmente. La grande proprietà terriera, il latifondo, soppiantò progressivamente i piccoli proprietari, aumentando il divario tra ricchi e poveri e moltiplicando il numero di schiavi. Dopo la seconda guerra punica gli schiavi superarono numericamente i cittadini liberi e le conquiste di Giulio Cesare portarono a Roma oltre un milione di nuovi schiavi. Il loro sfruttamento divenne sistematico: lavoravano in condizioni disumane, spesso incatenati e sorvegliati da intendenti mentre i padroni vivevano nell’otium, il tempo libero dedicato alla politica e alla cultura. La divisione del lavoro tra gli schiavi raggiunse livelli estremi, con mansioni talmente specializzate che Cicerone criticava chi affidava più compiti allo stesso schiavo. Per mantenere il controllo su questa massa di lavoratori oppressi, Roma ricorse a metodi brutali. Gli schiavi ribelli venivano puniti con esecuzioni di massa o costretti a combattere come gladiatori, trasformando la loro repressione in uno spettacolo per il divertimento delle classi dominanti. La violenza e il terrore non bastavano a garantire una produttività efficiente, infatti gli schiavi, lavorando con odio e disperazione, rendevano poco e male. Per ovviare a questo problema alcuni proprietari iniziarono a concedere loro piccoli risparmi (peculium) o la libertà a caro prezzo, creando così una classe di liberti che si dedicò al commercio e all’artigianato. Questi ex schiavi, insieme ai piccoli proprietari rovinati dal latifondo, formarono una nuova classe sociale che, organizzata in corporazioni, acquisì gradualmente influenza politica e prestigio. Nonostante questa evoluzione, il disprezzo per il lavoro manuale rimase un tratto distintivo dell’aristocrazia romana. Artisti e artigiani erano considerati inferiori e solo in rari casi, come quello del nipote sordomudo di Messala, un nobile si dedicava alla pittura. I senatori, pur disdegnando apertamente il commercio, spesso lo praticavano in modo indiretto, affidando le attività mercantili a schiavi e liberti. La società romana, nonostante i cambiamenti, mantenne una rigida gerarchia, in cui l’educazione e il potere rimasero saldamente nelle mani di chi controllava la terra e la forza lavoro schiavile. A partire dal IV secolo si assiste a un cambiamento significativo nell’atteggiamento della nuova classe emergente nei confronti dell’educazione. La formazione tradizionale riservata ai nobili viene giudicata insufficiente e si fa strada la richiesta di un nuovo modello educativo. Come era accaduto in Grecia con i sofisti, anche a Roma compaiono diverse categorie di maestri: i ludimagister per l’istruzione elementare, i grammatici per quella media e i retori per quella superiore. Le prime scuole primarie, documentate già dal 449 a.C., erano private e frequentate principalmente da figli di famiglie modeste, che, non potendo permettersi un precettore domestico, si univano per sostenere collettivamente i costi dell’istruzione. Il ludimagister era spesso un ex schiavo, un vecchio soldato o un piccolo proprietario caduto in miseria che insegnava in angusti locali chiamati pergulae, simili a botteghe artigiane, talvolta ubicate persino nel foro, tra le bancarelle dei mercanti. Questo mestiere, retribuito, era considerato socialmente degradante poiché il lavoro salariato era visto come segno di servitù, al punto che intellettuali come Seneca e Cicerone escludevano l’insegnamento dalle professioni liberali, riservate agli uomini veramente liberi. Nonostante la loro condizione giuridica di uomini liberi, i ludimagister erano disprezzati perché costretti a lavorare per vivere, trovandosi in una posizione svantaggiata rispetto agli schiavi, il cui lavoro era più economico. Le scuole primarie erano ambienti spartani, con pochi strumenti didattici, alcuni cubi, sfere e, raramente, mappe, dove gli alunni ripetevano meccanicamente le lezioni, spesso basate sul testo delle Dodici Tavole, sotto la minaccia della férula del maestro. La retribuzione degli insegnanti era così misera che molti dovevano integrare il loro reddito con altri mestieri, come quello di copista. Inoltre, inizialmente non era nemmeno previsto un compenso ufficiale per l’insegnamento. I maestri potevano solo accettare doni dagli allievi e solo in un secondo momento questi si trasformarono in pagamenti fissi, sebbene privi di riconoscimento legale. Persino in epoca imperiale i genitori morosi non potevano essere perseguiti per il mancato pagamento delle lezioni, lasciando i maestri in una condizione di precarietà economica. La situazione era leggermente migliore per i grammatici e i retori che insegnavano rispettivamente a un livello medio e superiore. Con l’espansione di Roma e l’aumento delle esigenze politiche, commerciali e giudiziarie, l’istruzione rudimentale non bastava più. I grammatici fornivano una formazione enciclopedica che spaziava dalla corretta dizione a un’introduzione alla filosofia, diventando figure chiave nella formazione dell’opinione pubblica. I retori, invece, offrivano un’educazione ancora più specializzata, incentrata sull’arte oratoria, essenziale per accedere alle cariche pubbliche più prestigiose. Questa formazione, però, era un lusso riservato ai ricchi, come dimostra il caso di Tacito, il cui padre, un homo novus, investì nell’educazione retorica del figlio per garantirgli un posto tra l’élite senatoria. L’eloquenza non era solo una questione di contenuti ma di stile, gestualità e perfino abbigliamento. I retori insegnavano ai loro allievi come modulare la voce, come muovere le braccia durante un discorso e persino come gestire l’emozione per convincere l’uditorio. Cicerone sosteneva che l’obiettivo dell’oratore non era tanto dimostrare la verità, quanto commuovere e persuadere, distinguendosi così dal filosofo che invece mirava all’istruzione. Questo approccio rifletteva l’importanza della retorica nella vita pubblica romana, dove la capacità di parlare in modo efficace poteva determinare il successo in tribunale, in Senato o persino nell’esercito, come dimostra l’episodio in cui Cesare, attraversato il Rubicone, si stracciò le vesti per commuovere i soldati. Con il passaggio dalla Repubblica all’Impero, l’eloquenza politica perse parte della sua centralità ma l’istruzione retorica rimase fondamentale per accedere alla burocrazia imperiale che richiedeva funzionari capaci di redigere documenti, gestire corrispondenza e amministrare le province. Augusto e Tiberio favorirono la nascita di scuole pubbliche di retorica, dove i giovani delle classi agiate potevano prepararsi per una carriera nell’amministrazione. Queste scuole divennero centri di formazione per futuri segretari imperiali, governatori e persino prefetti del pretorio. La competizione tra retori si fece sempre più accesa, soprattutto in città come Atene e Bordeaux, dove l’insegnamento divenne una vera e propria industria, con maestri che cercavano di attirare studenti con ogni mezzo, persino corrompendo i servi incaricati di scortare i giovani. Nonostante il loro orgoglio, molti retori finirono per dipendere dai sussidi statali, cercando anche incarichi a corte. Lo Stato, dopo aver a lungo lasciato l’istruzione in mano ai privati, iniziò a intervenire nell’educazione superiore: Nerone concesse ai grammatici, ai retori e ai filosofi l’esenzione dagli obblighi civili mentre Vespasiano istituì sovvenzioni per i retori più illustri. Queste misure segnarono una divisione sempre più marcata tra un’istruzione superiore protetta e finanziata dallo Stato e una primaria abbandonata alla libera concorrenza, riflettendo le priorità di un sistema che privilegiava la formazione delle élite al governo dell’Impero. L’evoluzione dell’istruzione nell’Impero romano rifletteva le esigenze dello Stato di formare una burocrazia efficiente e fedele, un processo che si sviluppò gradualmente attraverso interventi imperiali sempre più incisivi. Adriano diede un impulso decisivo rendendo permanenti i sussidi precedentemente irregolari e istituendo due riforme fondamentali: mise a disposizione dei retori l’Athenæum romanum, un edificio statale dove tenere lezioni, e inserì giuristi nel consiglio imperiale, fino ad allora composto esclusivamente da senatori. Prima del II secolo d.C., il diritto si apprendeva in modo informale, frequentando i giureconsulti durante le consulenze ma con Adriano l’insegnamento giuridico assunse un carattere più strutturato, rispondendo alla necessità di formare amministratori competenti per l’apparato statale. Antonino Pio ampliò le immunità fiscali già esistenti, estendendole a insegnanti che preparavano segretari e copisti, accentuando così l’indirizzo dell’istruzione verso le professioni legate alla macchina burocratica. Fu probabilmente sotto il suo regno, o forse sotto Marco Aurelio, che le principali città dell’Impero ricevettero l’ordine di finanziare con le proprie entrate gli stipendi di retori e filosofi. Nonostante l’imperatore intervenisse sostenendo economicamente i docenti o spingendo i municipi a fare altrettanto, l’insegnamento non era ancora completamente statalizzato. I professori divennero funzionari municipali ma solo nel V secolo sarebbero stati assimilati al sistema statale. Le città accettavano con riluttanza questo onere finanziario e spesso lo trascurarono, lasciando i docenti in condizioni precarie. Libanio descrisse la miseria degli insegnanti di Antiochia, costretti a vivere in alloggi di fortuna e a impegnare i gioielli delle mogli per sopravvivere mentre fuggivano dai creditori affamati. La situazione divenne così insostenibile che Costantino intervenne con una legge per garantire il pagamento regolare degli stipendi ma poiché le città mantenevano discrezionalità sulle cifre, Graziano stabilì un importo fisso obbligatorio da inserire nei bilanci municipali. Le nomine dei professori rimanevano competenza delle città, spesso tramite concorsi, ma l’imperatore Giuliano, nel 362, si riservò il diritto di confermarle, giustificando questa ingerenza con l’idea che l’approvazione imperiale avrebbe conferito maggiore prestigio ai docenti scelti. In realtà Giuliano agiva per prevenire l’influenza cristiana nell’istruzione e da quel momento l’imperatore esercitò un controllo ufficiale sulle nomine. Il processo di statalizzazione raggiunse il culmine con Teodosio e Valentiniano nel 425, quando lo Stato si arrogò il monopolio dell’insegnamento, vietando qualsiasi forma di educazione al di fuori di quella ufficiale. Questa trasformazione fu guidata dalla necessità delle classi dirigenti di disporre di funzionari preparati e fedeli. A parte poche eccezioni, come architetti e geometri richiesti dalle esigenze tecniche dell’epoca, le scuole erano concepite principalmente per formare la burocrazia imperiale. Quando Costanzo Cloro nominò direttamente Eumene professore ad Autun, ignorando le prerogative municipali, questi rispose con un discorso carico di adulazione, paragonando la scelta dell’imperatore a quella di un comandante militare e sottolineando come l’istruzione servisse a guidare i futuri funzionari dei tribunali e della corte. Lo Stato non si limitava a fornire un’istruzione tecnica ma sorvegliava strettamente gli studenti, controllando le loro opinioni e comportamenti mentre i programmi erano permeati di retorica encomiastica verso il potere. Un maestro dell’epoca di Costanzo descriveva come i giovani, osservando le mappe esposte nelle scuole, ammirassero l’estensione dei territori dominati da Roma, plasmati dalla virtù degli imperatori. Valentiniano, nel 370, impose un regolamento disciplinare che obbligava gli studenti dell’Ateneo romano a presentare documenti di identità certificati dalla polizia, dichiarazioni sui mezzi di sostentamento e resoconti sul loro comportamento in pubblico, tutti inviati direttamente alla cancelleria imperiale. Questa sorveglianza produceva un’omogeneità culturale, come osservato da Gaston Boissier: i retori del IV secolo riproponevano gli stessi schemi mentali di quelli dell’età augustea. L’imperatore sceglieva i professori con la stessa meticolosità riservata agli ufficiali dell’esercito e manteneva su di loro un controllo costante, anche una volta insediati. Giustiniano, quando soppresse molte scuole, lo fece su consiglio del prefetto di Costantinopoli, dimostrando come l’istruzione fosse ormai un affare di Stato. L’educazione ufficiale, appena istituzionalizzata, venne assimilata a un corpo militare: i professori erano soldati al servizio dell’Impero, incaricati di diffondere l’ideologia del potere. I retori seguivano le legioni nelle province, insediandosi accanto agli accampamenti, come strumento di pacificazione e assimilazione culturale. Plutarco notò che in Spagna, dove le armi avevano ottenuto solo una sottomissione superficiale, fu l’istruzione a consolidare definitivamente il dominio romano. In una scena emblematica de I prigionieri di Plauto, uno schiavo incaricato di sorvegliare altri prigionieri li esortava a rassegnarsi alla loro condizione, affermando che “il padrone non sbaglia mai” e che persino le ingiustizie andavano accettate. Senza rendersene conto, i professori dell’Impero riproducevano lo stesso messaggio di sottomissione, plasmando generazioni di funzionari devoti a un sistema che vedeva nell’istruzione non un mezzo di emancipazione ma uno strumento di controllo.
2. L’educazione nel feudalesimo
L’economia fondata sul lavoro degli schiavi, dopo aver assicurato la grandezza del mondo antico, lo condusse al suo sgretolamento. Questo sistema di lavoro consumava uomini in gran numero, paragonabili al carbone nei nostri altiforni, e dipendeva quindi da un rifornimento regolare di uomini sul mercato degli schiavi. Tutto crollò quando il “carbone” si esaurì o divenne inutilizzabile. Con il tempo i popoli conquistati smisero di fornire schiavi e ricchezze e ciò portò a un aumento di tasse, gabelle e requisizioni. La miseria crebbe a tal punto che lo sfruttamento dei vasti latifondi, gestiti da veri e propri eserciti di schiavi, non era più redditizio. La piccola coltivazione tornò a essere l’unica forma remunerativa, segnando così l’inutilità della schiavitù poiché lo schiavo non produceva più di quanto costasse mantenerlo. Da quel momento la schiavitù scomparve come sistema di sfruttamento su larga scala. È errato attribuire al cristianesimo il declino del mondo antico e la fine della schiavitù, come spesso si fa con disinvoltura riferendosi alla Chiesa cattolica. Una religione, in quanto sovrastruttura ideologica, non può alterare i fondamenti economici di un regime di cui è un riflesso. Il cristanesimo non solo tollerò la schiavitù ma la sanzionò in numerosi concili, come dimostra il concilio di Gangra nel 324 dove si attacca chi insegnava agli schiavi a disprezzare i loro padroni o a sottrarsi al servizio. Alla fine del mondo antico le grandi estensioni terriere furono suddivise in piccoli lotti affidati a coloni liberi che pagavano un canone fisso annuo. Questi coloni, pur non essendo propriamente schiavi, non erano neppure completamente liberi. Tra le rovine del mondo antico, essi furono i primi segni del nuovo regime economico, basato sul lavoro del servo della gleba e del villano. Sebbene la condizione degli sfruttati non fosse molto migliorata, vi erano alcune differenze: lo schiavo era considerato un oggetto, senza diritti, mentre il villano, discendente dei coloni romani, era libero e poteva contrattare con un proprietario terriero per lavorare un appezzamento in cambio di una parte del raccolto e di alcuni servizi personali. Teoricamente, questo accordo privato costituiva il fondamento del sistema feudale basato su un legame contrattuale tra uomini di diverso potere e necessità. Il servo, invece, discendente degli antichi schiavi, era legato totalmente al signore senza possibilità di abbandonarlo. Nella pratica, tuttavia, la differenza tra villano libero e servo non era così marcata e molti storici preferiscono considerarli semplicemente come “contadini”. Il signore feudale, padrone della terra e degli strumenti di produzione come i mulini, traeva vantaggio dalla servitù della gleba che gli permetteva di sfruttare la manodopera senza i costi elevati della schiavitù. Il servo, infatti, si manteneva da solo e sopportava tutti i rischi del lavoro. La società feudale era organizzata verticalmente in una rigida gerarchia, con i contadini alla base che sostenevano l’intero sistema, proprio come gli schiavi avevano fatto nel mondo antico. Ciò che il servo produceva passava di mano in mano, dai villani ai castellani, dai baroni ai conti, fino ai re. Però, mentre le relazioni verticali erano chiare, quelle orizzontali tra pari (come tra conti o baroni) erano prive di regole, generando conflitti continui. La Chiesa, nel Medioevo, divenne un potente istituto economico, accumulando ricchezze attraverso donazioni, prestiti e gestioni agricole. I monasteri, in particolare, fungevano da centri di credito rurale, approfittando delle difficoltà dei contadini per acquisire terre attraverso ipoteche. Mentre i nobili dissipavano le loro ricchezze in guerre e lussi, i monasteri le accumulavano e le reinvestivano, diventando veri e propri centri di potere economico. Secondo Ponce l’idea che i monasteri nobilitassero il lavoro manuale è infondata. All’interno dei monasteri la divisione di classe persisteva: i monaci di alto rango (spesso di origine nobiliare) si dedicavano alla preghiera e allo studio mentre il lavoro pesante era svolto da servi, schiavi e conversi. La Chiesa, dunque, non abolì la schiavitù né promosse una vera uguaglianza ma si adattò al sistema feudale, diventandone una parte integrante e contribuendo a mantenerne le strutture di sfruttamento.
I monasteri, con il loro enorme potere, divennero le prime “scuole” medievali a partire dal VII secolo, diffondendosi in tutti i territori dell’ex Impero Romano. Con la scomparsa delle scuole “pagane”, la Chiesa si fece carico dell’istruzione, sebbene l’influenza culturale dei monasteri sia stata spesso esagerata. Le scuole monastiche si dividevano in due categorie, quelle per gli oblati, destinate alla formazione religiosa dei futuri monaci, e quelle per il popolo, le vere “scuole monastiche”. Quest’ultime non insegnavano a leggere o scrivere. Esse avevano lo scopo di indottrinare le masse contadine alle dottrine cristiane, mantenendole docili e conformiste, tramite l’impossibilità di accedere a conoscenze che potessero renderlo meno sottomesso. Nei monasteri, invece, i monaci stessi ricevevano un’istruzione superiore, necessaria per gestire le proprietà terriere. Chi voleva studiare ed era libero poteva farlo solo entrando in monastero, isolandosi dal resto della società e creando una barriera tra la propria cultura e l’ignoranza delle masse. I monasteri furono sì centri di conoscenza, ma elitari, producendo opere per pochi eruditi. Nonostante il tempo a disposizione e la relativa tranquillità in un’epoca di disordini, il loro sapere rimase limitato. Isidoro di Siviglia, ad esempio, raccolse nel volume Origini o Etimologia tutto il sapere dell’epoca, un noioso elenco di nomi. Con la ricostruzione dell’Impero i monasteri istituirono anche scuole “esterne” per clerici secolari e nobili che non intendevano prendere i voti. In queste istituzioni gli alunni studiavano per anni sotto una disciplina severa. Walafrido Strabo, alunno della scuola esterna di Reickneau, racconta nel suo diario di aver imparato a leggere in latino senza comprenderne il significato, scoprendo solo più tardi che era possibile leggere e capire contemporaneamente. Le materie principali erano grammatica, retorica e dialettica, con esercizi basati su testi giuridici e pratiche di scrittura amministrativa. I maestri di queste scuole erano spesso uomini di grande esperienza, inviati in missioni diplomatiche dall’imperatore, e trasmettevano ai loro allievi conoscenze pratiche. Molti nobili abbandonavano gli studi appena appresa la grammatica per dedicarsi alla formazione cavalleresca. Le scuole esterne producevano giuristi abili, segretari pratici e dialettici capaci di consigliare i potenti ma non guerrieri. La formazione dei cavalieri avveniva infatti altrove. I nobili disprezzavano la cultura scritta, considerando il saper scrivere un’attività femminile. Persino Carlo Magno, pur avendo avuto maestri illustri, non riuscì mai a imparare a scrivere correttamente, e lo stesso Cid Campeador commetteva errori grossolani. L’educazione nobiliare si basava su un sistema di iniziazione simile a quello degli efebi greci: fino a sette anni il giovane stava con la madre, poi diventava paggio presso un signore, a quattordici anni scudiero e infine, verso i ventuno, veniva armato cavaliere. La cavalleria idealizzava le virtù guerriere, con la fedeltà al signore come principio fondamentale. Il nobile era prima di tutto un predone, dedito alla guerra per arricchirsi, saccheggiando territori e catturando prigionieri per riscatti. I tornei, spesso descritti come nobili gare, erano in realtà affari lucrativi, dove il vincitore si appropriava del cavallo e delle armi dello sconfitto, beni di enorme valore. La vita del cavaliere era costellata di violenza e avidità, ben lontana dall’immagine romantica tramandata dalla letteratura. I signori feudali, disinteressati all’amministrazione dei loro domini, delegavano ogni funzione a intendenti, dedicandosi esclusivamente alla guerra. Le loro proprietà, spesso sparse, li costringevano a continui spostamenti per consumare i raccolti, esponendoli a rischi e conflitti. Le spese per mantenere le proprie truppe e lo stile di vita sfarzoso li portarono spesso alla rovina, costringendoli a vendere privilegi e libertà ai contadini. Così, la figura del signore “generoso” che liberava i servi nascondeva in realtà la necessità di far cassa, in un sistema feudale basato sullo sfruttamento e la violenza. L’origine della nuova classe sociale che iniziò a formarsi nel Medioevo è alquanto oscura ma essa emerge nella storia nel momento in cui un’importante trasformazione economica scuote le fondamenta del feudalesimo. Fino al X secolo, le città erano miserabili, abitate principalmente da artigiani e domestici sottoposti a un signore, in condizioni di sottomissione simili a quelle dei servi della campagna. A partire dall’XI secolo, tuttavia, progressivi miglioramenti tecnici favorirono la ripresa del commercio. Prima di allora, il signore feudale, proprietario della città o borgo, acquistava solo pochi oggetti di lusso provenienti dall’Oriente mentre i contadini dei suoi domini gli fornivano alimenti e materie prime lavorate dagli artigiani cittadini. Con l’introduzione della moneta, però, il signore trovò vantaggioso permettere ai suoi artigiani, dietro compenso, di produrre non solo per lui ma anche per altri, autorizzando al contempo l’ingresso e l’uscita di mercanti dal castello. La città divenne così un centro commerciale dove i produttori scambiavano i loro prodotti, trasformandosi da fortezza a mercato. I suoi abitanti, i borghesi, si fusero in una classe sociale orientata verso una vita pacifica e urbana, distinta da quella guerriera e rurale della nobiltà. Questa trasformazione economica non riguardò solo le città, infatti quando servi e coloni trovarono un mercato per i loro prodotti, iniziarono a pagare in denaro le rendite feudali e a intravedere la possibilità di limitare il potere del signore. Rivolte nelle città e nelle campagne segnalarono ai nobili che i tempi stavano cambiando. I borghesi, riuniti in associazioni di mutuo soccorso, arrivarono a massacrare alcuni signori, religiosi e laici, spingendo verso una riforma del sistema. Il signore concesse allora alla città una carta che limitava il suo potere arbitrario, stabilendo tributi fissi anziché imposte capricciose. Analoghe franchigie furono ottenute dai coloni e persino dai servi che comprarono la libertà dall’arbitrio signorile. Questo cambiamento nelle relazioni sociali influenzò anche l’istruzione. La nascita della borghesia urbana costrinse la Chiesa a spostare il centro della sua attività educativa dai monasteri, isolati nelle campagne, alle scuole delle cattedrali nelle città. La borghesia non era ancora rivoluzionaria, dice Ponce. Pur in conflitto con i signori, cercava semplicemente un posto nel sistema feudale, senza opporvisi frontalmente. Le scuole delle cattedrali erano organizzate come quelle monastiche, con una divisione tra esterni (laici) e interni (clero), e ponevano la teologia al centro dell’insegnamento. Sotto la spinta della borghesia queste scuole divennero il germe delle università. Le università medievali nacquero come corporazioni libere di maestri e studenti e rappresentarono una “carta di franchigia” nel dominio intellettuale per la borghesia. Gli studenti, spesso benestanti, determinavano il funzionamento delle lezioni e controllavano i professori, imponendo multe per negligenze didattiche. Grazie alle università la borghesia ottenne accesso a privilegi prima riservati a nobili e clero, come l’ingresso negli ordini religiosi o l’accesso alle cariche pubbliche. La laurea conferiva uno status quasi nobiliare, con diritti speciali in tribunale e precedenze sociali. Chiesa e monarchia cercarono di controllare le università ma queste mantennero un carattere laico, diventando centri di dibattito filosofico e teologico. Le dispute tra nominalisti e realisti riflettevano il conflitto tra feudalismo e borghesia: se i realisti difendevano l’ortodossia, i nominalisti, come Abelardo, anticipavano un razionalismo critico, pur senza rinnegare la fede. Gli stessi docenti universitari erano spesso usurai, vivendo di stipendi pagati dagli studenti e di incarichi pubblici. Gli studenti, generalmente di famiglie agiate, sostenevano costosi rituali accademici e una vita dissipata, tra giochi d’azzardo e festini, dando origine alla figura del goliardo vagabondo. Un inno studentesco dell’epoca, blasfemo e classista, esprimeva disprezzo per i contadini, ritenuti inferiori e destinati a servire gli scolari. Nel XIII secolo, mentre l’alta borghesia consolidava il suo potere nelle università, la piccola borghesia cominciava a rivendicare il controllo delle scuole primarie. I magistrati delle città iniziarono a richiedere scuole finanziate e gestite dai comuni, una mossa che contrastava apertamente il monopolio educativo della Chiesa. Sebbene l’influenza della grande borghesia nelle università non minasse direttamente il controllo ecclesiastico, la creazione di scuole municipali rappresentava una sfida più diretta. La lotta per l’autonomia scolastica fu lunga e complessa. Per due secoli le città dovettero accettare l’ispezione della Chiesa e spesso gli stessi maestri che insegnavano nelle scuole delle cattedrali erano impiegati anche in quelle comunali. L’insegnamento municipale si distingueva per un approccio più pratico, sostituendo il latino con le lingue volgari e integrando il tradizionale trivium e quadrivium con nozioni di geografia, storia e scienze naturali. Queste scuole non erano gratuite: sebbene i comuni versassero stipendi modesti ai maestri, gli studenti dovevano pagare per l’istruzione, rendendole accessibili solo ai privilegiati. La borghesia, in questa fase, abbiamo già detto, non era rivoluzionaria ma riformista, operando entro i limiti del sistema feudale. Le prime conquiste, come le carte di franchigia, miravano a estendere alle città i diritti riservati ai signori feudali, creando una sorta di “signoria borghese”. Le scuole municipali, sebbene più avanzate di quelle monastiche, mantenevano un carattere elitario, riflettendo la struttura chiusa delle corporazioni. I segreti dei mestieri erano custoditi gelosamente, come dimostrano le riserve degli architetti medievali sulle tecniche costruttive o le credenze popolari sulle tinture tessili. L’organizzazione gerarchica delle corporazioni (apprendisti, operai, maestri) alimentava l’illusione di una mobilità sociale poiché ogni artigiano sperava di diventare a sua volta maestro. Tuttavia l’accesso era limitato a chi possedeva mezzi iniziali, escludendo i più poveri. Per i mercanti materie come il calcolo e la geografia erano essenziali, tanto da spingere alla creazione di scuole specializzate in contabilità, soprattutto in città commerciali come Firenze, Genova e Bologna. Anche i monasteri, gestendo vasti interessi economici, avevano sviluppato competenze finanziarie, come dimostra il monaco Luca Palaciolo, padre della partita doppia. La borghesia, trasformando gli artigiani in mercanti, entrò in conflitto con la Chiesa anche sul piano educativo, contendendole il controllo delle scuole e delle posizioni di potere nelle città. La cattedrale gotica, la scolastica e l’università non segnavano l’apogeo della Chiesa ma l’inizio del suo compromesso con forze rivali. Tra l’XI e il XII secolo, le eresie e il sorgere dei comuni minarono il dogma mentre le cattedrali divennero centri polifunzionali (mercati, teatri, sedi di assemblee). La scolastica rifletteva questo compromesso tra feudalismo in declino e borghesia nascente, mescolando fede e ragione. Per contrastare le minacce, la Chiesa mobilitò gli ordini mendicanti, come i dominicani, istituendo l’Inquisizione e usando la predicazione teatrale e il terrorismo psicologico (esemplificato dalle prediche macabre sui dannati). Nonostante la repressione, lo slancio economico dell’XI secolo era inarrestabile. Le lingue volgari si imposero nelle scuole e nelle università mentre l’invenzione della stampa democratizzò l’accesso al sapere. Firenze, cuore del Rinascimento, incarnò l’ascesa borghese, finanziando artisti e umanisti come Boccaccio che celebrava la vita terrena contrapponendosi al feudalesimo oscurantista. Il Rinascimento non migliorò le condizioni delle classi popolari: gli umanisti, come Poliziano o Guicciardini, disprezzavano il “volgo”, riservando l’istruzione ai ricchi. La cultura rinascimentale, finanziata da banchieri come i Medici, si oppose al feudalesimo recuperando l’eredità classica. L’ideale era l’individuo colto e abile negli affari, come l’”oratore” di Quintiliano, ma con una mentalità borghese attenta al profitto (il masserizio di Alberti). Gli umanisti cercarono l’appoggio dei monarchi per garantire pace e leggi favorevoli al commercio. Intanto, le armi da fuoco, finanziate dalla borghesia, resero obsoleti i cavalieri feudali, accelerandone il declino. La fine dell’uomo feudale fu sancita da simboli come la morte del cavaliere Jacques de Lalaing, ucciso da un colpo di cannone. I borghesi acquistarono le terre, i cannoni demolirono i castelli e le scoperte geografiche aprirono nuovi mercati. Colombo sintetizzò lo spirito dell’epoca: l’oro, nuovo dio, permetteva di realizzare qualsiasi desiderio, persino “salvare le anime”. La borghesia, ormai egemone, aveva plasmato un mondo nuovo.
3. L’uomo borghese, l’educazione e la lotta di classe
Quando Pantagruele si assunse la responsabilità dell’educazione del giovane Gargantua, gli fece bere immediatamente l’acqua di elleboro affinché dimenticasse tutto ciò che aveva appreso sotto i suoi precedenti precettori. Questo episodio, tratto dall’opera di Rabelais, riflette le aspirazioni più profonde della borghesia rinascimentale, desiderosa di rompere con le tradizioni feudali e cattoliche. Rabelais, formatosi sotto i monaci di Fontenay-le-Comte, conosceva bene la rigidità dell’educazione medievale, basata sul trivium e sul quadrivium, e per questo immaginò per il suo personaggio un nuovo tipo di insegnamento, libero dai vincoli del passato. Allo stesso modo, Martin Lutero, ricordando la sua esperienza scolastica a Magdeburgo, criticava le scuole dove gli studenti perdevano anni senza apprendere nulla, auspicando un cambiamento radicale. Entrambi questi pensatori, nati nello stesso anno ed entrambi inizialmente frati, rappresentano due correnti distinte del movimento umanista: Rabelais, che abbandonò l’abito religioso, e Lutero, che fondò una nuova chiesa dogmatica in opposizione a quella cattolica. L’umanesimo era un movimento variegato e spesso contraddittorio, influenzato dalle condizioni economiche e sociali delle diverse regioni. In città come Firenze, dove la borghesia era fiorente, l’umanesimo assunse toni più radicali, con un ritorno al paganesimo e un rifiuto del potere feudale della Chiesa. In Germania, invece, dove la borghesia era più debole, esso si limitò a chiedere riforme all’interno della Chiesa, spesso alleandosi con la nobiltà impoverita che sperava di trarre vantaggio dalla riduzione del potere ecclesiastico. Figure come Montaigne, rappresentanti della piccola nobiltà, e Luis Vives, mercante e pedagogo, incarnarono l’ascesa di valori borghesi come l’utilità pratica e lo studio della natura, in contrasto con l’educazione medievale, basata sulla teologia e sulla dialettica. Vives, ad esempio, sosteneva che gli studenti dovessero interessarsi alle attività commerciali e artigianali mentre Montaigne proponeva un’educazione più legata alla vita reale per i giovani nobili. Questi ideali riflettevano i cambiamenti economici portati dal nascente capitalismo commerciale che richiedeva nuove competenze e una mentalità più pragmatica. L’educazione medievale, centrata sulla figura di Dio come unico maestro e sulla lettura passiva dei testi, era agli antipodi rispetto alla nuova concezione umanista che vedeva la conoscenza come una costruzione attiva dell’uomo. L’individualismo borghese, già evidente nell’arte rinascimentale, si manifestò anche nella pedagogia, con una maggiore attenzione alla personalità dello studente e a un ambiente di apprendimento più sereno. Tuttavia, molti umanisti, come Vives ed Erasmo, pur criticando la tradizione, si dichiaravano formalmente sottomessi all’autorità della Chiesa, forse per prudenza di fronte alla repressione ecclesiastica. Nonostante ciò, la Chiesa li considerava nemici, come dimostra il caso di Pierre de la Ramée, condannato per aver criticato Aristotele e poi assassinato durante la notte di San Bartolomeo, probabilmente su istigazione dei gesuiti. La Compagnia di Gesù, fondata nel 1534, rappresentò la risposta della Chiesa cattolica alla Riforma protestante e all’umanesimo laico, combattendo sia il protestantesimo sia l’incredulità dei laici con metodi spietati. Nel frattempo la Riforma protestante, pur essendo meno radicale del Rinascimento pagano, ebbe un impatto più ampio perché si espresse nelle lingue nazionali e mantenne un legame con il cristianesimo, attirando non solo la borghesia ma anche le masse contadine. Lutero, rappresentante della borghesia moderata, tradì presto le aspettative delle classi popolari, schierandosi con i principi e condannando le rivendicazioni sociali di Thomas Müntzer, leader della frangia più radicale della Riforma. Lutero promosse l’istruzione elementare come mezzo per permettere ai fedeli di leggere la Bibbia ma la sua visione rimase limitata: considerava le masse con disprezzo e timore, negando loro un’educazione vera e propria. Le scuole protestanti, concentrate sulla religione e sul latino, servirono principalmente a formare la borghesia benestante mentre le classi inferiori ricevettero solo un’istruzione rudimentale, spesso affidata ai pastori. Contemporaneamente la Compagnia di Gesù divenne un potente strumento della Chiesa cattolica per consolidare il potere papale e contrastare le minacce della Riforma protestante. I gesuiti si dedicarono con particolare zelo all’educazione ma il loro obiettivo non era quello di diffondere una cultura libera e critica, bensì di plasmare le menti delle classi dominanti, nobiltà e alta borghesia, per assicurarne la fedeltà alla Chiesa e all’ordine costituito. I loro collegi, celebri per l’eccellenza formale, erano progettati per offrire un’istruzione impeccabile sul piano retorico e classico ma sempre subordinata agli interessi religiosi e politici della Compagnia. La Ratio atque institutio studiorum, pubblicata nel 1659 dopo decenni di riflessione, rappresentava il culmine di questo sistema: un metodo educativo rigidamente controllato che mirava a spegnere ogni forma di autonomia intellettuale negli studenti. Anche l’insegnamento delle lettere classiche, per quanto raffinato, veniva distorto per servire la causa cattolica, con interpretazioni forzate e omissioni che annullavano ogni potenziale eversivo dei testi antichi. Mentre i gesuiti si occupavano dell’istruzione delle élite, la Chiesa delegava ad altri ordini religiosi, come i geronimiti e i Fratelli delle Scuole Cristiane, il compito di gestire l’istruzione popolare. Queste scuole, però, erano ben lontane dall’offrire una vera emancipazione culturale. L’obiettivo principale era il controllo sociale: insegnare ai figli del popolo solo i rudimenti della lettura e della scrittura, sufficienti per apprendere il catechismo e diventare servi obbedienti. Charles Demia, un sacerdote lionese del Seicento, venne celebrato come pioniere dell’istruzione gratuita ma le sue scuole erano pensate per formare domestici e operai docili, non cittadini consapevoli. I programmi erano limitati alla religione e a nozioni basilari mentre i maestri svolgevano anche un ruolo di sorveglianza sulle famiglie, verificandone la moralità e l’ortodossia. Nel frattempo il mondo stava cambiando rapidamente. L’espansione del commercio globale e la nascita della manifattura stavano trasformando i metodi di produzione, spingendo la borghesia a cercare un’istruzione più pratica e funzionale. Filosofi e scienziati come Bacone, Cartesio e Pascal promossero un nuovo approccio al sapere, basato sull’esperimento e sull’evidenza, in netto contrasto con l’educazione scolastica tradizionale. Comenio, con la sua Didactica Magna, propose una rivoluzione pedagogica, ovvero un insegnamento rapido, concreto, basato sull’osservazione diretta della natura anziché sui libri. La sua idea di “risparmiare tempo” rifletteva le esigenze di una società in cui il tempo stesso stava diventando una merce preziosa, come dimostrò l’introduzione dell’orologio a secondi alla fine del Seicento. John Locke, pochi decenni dopo, criticò apertamente l’istruzione tradizionale, ritenendo inutile lo studio del latino per chi avrebbe svolto mestieri pratici. La sua insistenza sull’importanza della contabilità e delle abilità concrete rivelava le necessità di una borghesia sempre più influente che richiedeva un’educazione funzionale alle attività commerciali. Anche Locke, però, nonostante le sue idee innovative, rimase legato a un modello elitario, rivolgendosi principalmente ai figli della nobiltà ormai sempre più assimilata alla classe borghese in ascesa. L’introduzione di materie come geografia, aritmetica, storia e diritto civile nel curriculum formativo dell’aristocratico segnava un cambiamento epocale, dimostrando come il commercio e l’industria avessero non solo avvicinato borghesia e nobiltà, ma avessero anche imposto nuovi metodi educativi, accelerato il progresso scientifico e scosso i dogmi tradizionali. Le vecchie strutture feudali, privilegi corporativi, barriere commerciali, dazi oppressivi, frammentazione legislativa e culturale, stavano crollando sotto la spinta di una nuova epoca. Fu in questo contesto che i fisiocratici lanciarono il loro celebre motto: “laissez faire, laissez passer”, esprimendo l’esigenza di libertà economica che divenne per la borghesia una questione vitale. Questa libertà non si limitava al commercio; si estendeva anche al pensiero, alle credenze, alla circolazione delle idee. Locke pubblicò nel 1688 la Carta della tolleranza, un testo che incarnava lo spirito del tempo, aprendo la strada a una nuova concezione della società. La borghesia, dapprima sotto le sembianze del deismo e poi con il volto più radicale dello scetticismo, si impegnò a scalzare la Chiesa dai suoi ultimi bastioni di potere. Persino l’angoscia metafisica che aveva tormentato Pascal, quel “silenzio degli spazi infiniti” che un tempo terrorizzava gli spiriti più sensibili, ormai non turbava più neppure le nobildonne che amavano circondarsi di filosofi come Fontenelle. La critica feroce alla nobiltà e alla Chiesa spinse la borghesia a rimettere in discussione ogni aspetto della società. Rousseau, con il suo appello al ritorno alla natura, diede voce a questa esigenza di ricominciare da zero, di “aprire nuovi libri per nuovi conti”. Questo richiamo alla natura non era un caso isolato, ogni epoca di crisi profonda aveva visto emergere simili inviti, come lo stoicismo nella decadenza dell’antichità o il paganesimo della carne e della bellezza del Rinascimento durante il declino del feudalesimo. Ora, con la monarchia assolutista sempre più in difficoltà e la borghesia in ascesa, Rousseau proclamava con ardore il suo “vangelo della Natura”, un messaggio in cui risuonavano l’individualismo dei sofisti, il culto della personalità degli stoici e l’eredità umanistica del Rinascimento. Goethe avrebbe presto sintetizzato questo spirito con la frase: “la felicità suprema dei figli della terra è la personalità”. E in effetti, dietro le apparenti divergenze tra l’ironia tagliente di Voltaire, l’idealismo di Rousseau e il rigorismo morale di Kant, pulsava lo stesso individualismo borghese che rivendicava i diritti dell’individuo dopo secoli di oppressione feudale. Libertà di contrattare, di commerciare, di credere, di viaggiare, di pensare: queste erano le parole d’ordine di un’epoca che celebrava l’umanità, la ragione e i lumi. La borghesia, nel suo assalto al feudalesimo e alla monarchia, si presentò come portatrice degli interessi dell’intera società, con un coraggio e un entusiasmo che per un breve momento la resero davvero universale. La nobiltà, un tempo protettrice delle comunità locali, era ormai ridotta a una caricatura di se stessa, incapace di svolgere qualsiasi funzione sociale utile. Già Lutero, al tempo della Riforma, aveva ironizzato sul fatto che i nobili fossero troppo occupati “negli affari della bottega, della camera da letto e della cucina”. Nel Settecento la situazione era ancora più grottesca. Diderot, nel romanzo Le bravate indiscrete, descriveva l’educazione del principe Nangogue come un’istruzione che lo aveva reso esperto solo nel “bere, mangiare e dormire con tanta perfezione quante se ne richiede a qualunque personaggio della sua età”. Marx avrebbe poi osservato che, perché una classe possa rappresentare l’intera società, è necessario che un’altra incarni tutti i suoi mali, diventando il bersaglio universale dell’indignazione. Alla fine del Settecento la nobiltà era proprio questa classe: per i borghesi, gli artigiani, i contadini, essa era il simbolo vivente di un crimine sociale. Fu così che il Terzo Stato, riunendo sotto di sé elementi eterogenei, dai materialisti radicali ai fisiocrati moderati, poté lanciare la sua sfida: “Cos’è che siamo? Nulla. Cosa dovremmo essere? Tutto”. Le differenze ideologiche erano profonde. Pensiamo al deismo prudente di Voltaire e all’ateismo militante di D’Holbach oppure all’educazione individualista di Rousseau e a quella pubblica e statale proposta da Diderot ma in quel momento queste divergenze passarono in secondo piano di fronte all’obiettivo comune: l’abbattimento dell’ancien régime. Rousseau nell’Emilio aveva promesso non semplicemente un uomo nuovo ma l’Uomo nella sua pienezza, libero e autentico. Era una visione grandiosa, carica di speranza che avrebbe infiammato le masse rivoluzionarie. Tuttavia la borghesia, dopo aver raggiunto il suo momento più alto, avrebbe presto iniziato una lenta e inesorabile discesa verso la crisi che oggi conosciamo. Però, in quel breve e luminoso istante aveva saputo accendere una fiamma capace di illuminare il mondo. Ponce analizza come la borghesia, una volta conquistato il potere, plasmò l’educazione in funzione dei suoi interessi di classe, svelando il divario tra i principi illuministi e la realtà concreta del nuovo ordine capitalista. L’analisi prende le mosse da due figure emblematiche dell’Illuminismo: Voltaire e Diderot. Sebbene entrambi rappresentassero il Terzo Stato, le loro posizioni riflettevano divisioni interne alla società. Voltaire, vicino all’alta borghesia e alla nobiltà illuminata, in una lettera del 1757 al re di Prussia Federico II, esortava a combattere la superstizione religiosa ma non tra la plebe, considerata indegna di essere illuminata e naturalmente sottomessa, bensì tra le persone di condizione elevata. Diderot, al contrario, esprimeva le aspirazioni degli artigiani e degli operai, come dimostra il suo Piano di una università presentato all’imperatrice Caterina di Russia, in cui sosteneva che l’istruzione doveva essere estesa a tutti, dal ministro al contadino, perché un popolo analfabeta era più facilmente sfruttabile. Quando la borghesia trionfò con la Rivoluzione francese, furono le istanze più moderate a prevalere. La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, pur proclamando libertà e uguaglianza, elevava la proprietà a diritto sacro e inviolabile mentre un decreto del 1791 vietava le coalizioni operaie, punendole come attentati alla libertà. Ciò dimostrava che la “ragione” e l’”umanità” tanto celebrate dalla borghesia erano in realtà la ragione e l’umanità della classe dominante che usava le istituzioni per consolidare il proprio potere. La Rivoluzione, nata con slanci universali, si trasformò rapidamente in un sistema al servizio degli industriali e mentre la cattedrale di Notre Dame diventava il Tempio della Ragione, figure come Talleyrand e Saint-Simon venivano arrestati per traffici illeciti con il piombo del tetto dello stesso tempio, rivelando l’ipocrisia di una borghesia poco interessata agli ideali e molto agli affari. Persino Danton, simbolo della retorica rivoluzionaria, si arricchiva con speculazioni, mentre Rouget de l’Isle, autore della Marsigliese, decenni dopo compose un “Canto degli industriali”, segno di come la Rivoluzione avesse finito per servire non il popolo ma il capitale. Le masse, già sfruttate dal feudalesimo, si ritrovarono sotto un nuovo padrone. Per sviluppare il capitalismo, la borghesia aveva bisogno di una forza lavoro “libera” ma priva di mezzi di sussistenza, costretta a vendere il proprio lavoro per sopravvivere. Se nel Medioevo il contadino poteva contare su un pezzo di terra, dal XVI secolo in poi, con l’espulsione dei piccoli proprietari terrieri e la concentrazione della ricchezza, l’operaio divenne un salariato permanente, senza alternative. Il sistema capitalista, come spiegava Marx, si basa sullo sfruttamento: il lavoratore riceve un salario che copre appena la sua sopravvivenza mentre il capitalista si appropria del plusvalore, ossia del valore non retribuito del suo lavoro. In questo contesto l’educazione divenne uno strumento per riprodurre le disuguaglianze. Rousseau, sempre nel suo Emilio, aveva immaginato un’educazione elitaria, riservata a un giovane ricco che poteva permettersi un precettore privato. Questa visione si concretizzò nelle proposte pedagogiche della borghesia rivoluzionaria. Basedow, influenzato da Rousseau, fondò il Filantropino, una scuola che distingueva nettamente tra l’istruzione per i ricchi e quella per i poveri. Per i primi, un’educazione approfondita che li preparasse a dirigere la società; per i secondi, un’istruzione minima, accompagnata dal lavoro manuale, perché, come diceva Basedow, “per fortuna i bambini del popolo hanno bisogno di un’istruzione minore rispetto agli altri e debbono dedicare metà del loro giorno ai lavori manuali”. Anche Filangieri, nella sua Scienza della legislazione, sosteneva che l’educazione doveva adattarsi alla posizione sociale: il contadino doveva imparare solo ciò che gli serviva per il suo lavoro, senza aspirare a diventare magistrato. Mirabeau, in un discorso probabilmente redatto da Cabanis, affermava ipocritamente che l’educazione borghese mirava a sviluppare liberamente le facoltà umane per poi opporsi alla scuola gratuita perché “molti uomini sarebbero stati tolti dal loro luogo naturale”, ossia avrebbe minacciato l’ordine sociale. Nella pedagogia dell’epoca svettano due figure fondamentali: Condorcet e Pestalozzi.
Il primo era un filosofo e politico rivoluzionario che viene analizzato da Ponce a partire dal suo celebre Rapport del 1792, presentato all’Assemblea Legislativa francese, in cui proponeva un sistema di istruzione pubblica gratuito e organizzato dallo Stato. Se da un lato questo progetto sembrava progressista, garantendo a tutti l’accesso a un minimo di cultura e rimuovendo i privilegi dell’istruzione riservata ai ricchi, dall’altro rivelava una chiara matrice borghese. Condorcet, infatti, distingueva nettamente tra istruzione ed educazione. La prima, affidata allo Stato, doveva diffondere conoscenze scientifiche e tecniche utili allo sviluppo della società, la seconda, lasciata alle famiglie, riguardava le credenze morali, filosofiche e religiose. In questo modo la borghesia poteva promuovere un sapere funzionale al progresso economico senza intaccare le strutture sociali esistenti. Un aspetto particolarmente significativo del Rapport era il rifiuto dell’insegnamento religioso nelle scuole, visto come un ostacolo alla libertà di coscienza e al progresso razionale. Tuttavia Condorcet non voleva che lo Stato imponesse alcuna dottrina politica, né che monopolizzasse l’istruzione, proponeva invece una libera concorrenza tra scuole pubbliche e private, con i docenti scelti da società scientifiche indipendenti. Questa posizione, apparentemente liberale, nascondeva però una strategia di classe. Finché il potere statale era nelle mani dell’aristocrazia (come nella monarchia pre-rivoluzionaria), la borghesia aveva interesse a limitarne il controllo sull’istruzione per evitare che venisse usata come strumento di dominio ma quando, dopo la proclamazione della Repubblica nel 1792, la borghesia prese il potere, Condorcet modificò le sue posizioni, ammettendo che lo Stato dovesse dirigere e vigilare sull’istruzione primaria. Questo repentino cambiamento dimostra che il suo progetto non era affatto idealistico ma rispondeva a precisi calcoli politici. Una volta al comando, la borghesia aveva bisogno di usare lo Stato per consolidare il proprio dominio. Nonostante la proposta di gratuità dell’istruzione, il sistema di Condorcet rimaneva profondamente classista. In un’epoca in cui il capitalismo nascente sfruttava massicciamente il lavoro minorile, la scuola gratuita era un’illusione per i figli degli operai e dei contadini, costretti a lavorare fin dalla prima infanzia. Lo stesso Condorcet ne era consapevole, tanto da suggerire l’introduzione di borse di studio, un palliativo che però non affrontava il nodo strutturale della disuguaglianza sociale. Passando a Pestalozzi, Ponce ne demistifica l’immagine di “educatore dell’umanità”, mostrando come, nonostante il suo sincero affetto per i poveri, la sua pedagogia fosse funzionale al mantenimento dell’ordine borghese. Sebbene si presentasse come seguace di Rousseau e della Rivoluzione francese, Pestalozzi era in realtà un conservatore, convinto che l’ordine sociale fosse voluto da Dio e che l’educazione dovesse preparare ogni classe al suo ruolo: i figli dei contadini a rimanere contadini, quelli dei borghesi a diventare dirigenti. Le sue esperienze educative con bambini poveri, come quella di Neuhof, erano spesso legate a interessi industriali (ad esempio, sfruttandoli come manodopera a basso costo nelle filande) più che a un autentico progetto emancipatorio. Anche il suo celebre metodo pedagogico, basato sull’osservazione e sull’esperienza diretta, era applicato in modo differenziato. Per i ricchi prevedeva un’istruzione completa, per i poveri si limitava a un addestramento pratico, utile solo a renderli lavoratori più docili. La critica si estende infine a Herbart, pedagogo ottocentesco che, pur promuovendo un insegnamento scientifico e moderno, insisteva sull’importanza dell’educazione religiosa come strumento per mantenere l’ordine sociale e umiliare le aspirazioni delle classi subalterne. Questo conferma una continuità tra Illuminismo e Restaurazione. Già Voltaire, pur ateo in privato, riteneva necessario che le masse rimanessero religiose per evitare disordini sociali. La borghesia, a differenza delle classi dominanti dell’antichità e del feudalesimo, non poteva permettersi di negare completamente l’istruzione alle masse popolari poiché il nuovo sistema produttivo industriale, basato su macchinari sempre più complessi, richiedeva operai con un minimo di preparazione tecnica. Come sottolineava Sarmiento nella sua polemica con Alberdi, persino per compiti apparentemente semplici come manovrare un piccone o guidare un aratro meccanico era ormai indispensabile saper leggere e comprendere istruzioni basilari, tanto che i lavoratori più istruiti, come gli operai inglesi in Cile, guadagnavano salari significativamente più alti grazie alla loro capacità di svolgere mansioni che richiedevano un uso elementare dell’intelligenza. Questa necessità di diffondere un’istruzione di base si scontrava con i timori della borghesia che vedeva nell’educazione popolare una potenziale minaccia al proprio dominio. Come testimoniava il fabbricante inglese Geddes, molti industriali consideravano pericolosa un’eccessiva istruzione della classe lavoratrice, perché la rendeva “troppo indipendente”. Questo conflitto tra esigenze produttive e interessi di classe portò a un sistema educativo profondamente contraddittorio. Da un lato si sviluppavano scuole tecniche e professionali per formare manodopera specializzata, dall’altro si manteneva un rigido controllo sui contenuti e sull’accesso all’istruzione superiore. La struttura del sistema scolastico borghese rifletteva perfettamente le divisioni di classe. Alle masse popolari era riservata un’istruzione elementare funzionale alle necessità produttive, mentre ai futuri tecnici e capisquadra era destinata una formazione più avanzata nelle scuole professionali. Per i figli della borghesia, invece, esisteva un percorso separato, la scuola media classica, che riproponeva sostanzialmente il modello educativo gesuitico con i suoi studi umanistici e libreschi, completamente slegati dalla realtà del lavoro produttivo. Come osservava Durkheim, anche alla fine dell’Ottocento i licei francesi continuavano a ispirarsi all’ideale pedagogico dei collegi gesuitici del tempo del Re Sole, formando una classe dirigente che doveva “dirigere dall’alto” senza sporcarsi le mani con le incombenze pratiche. Questa dicotomia educativa corrispondeva alla crescente separazione tra capitale e lavoro: mentre il capitalista si allontanava sempre più dal processo produttivo concreto, delegando il controllo a tecnici e sorveglianti, manteneva per sé e per i propri figli un’educazione che ne legittimasse il ruolo di comando. Se guardiamo alle vicende di industriali come quelle di Carnegie e Ford, che pur essendo quasi completamente digiuni di nozioni scientifiche di base riuscivano a dominare settori ad alta tecnologia, il vero “sapere” del capitalista non consisteva nella competenza tecnica bensì nell’arte di “far lavorare gli altri”. L’ipocrisia del sistema raggiungeva il culmine nella retorica sui diritti dell’infanzia, promossi mentre migliaia di bambini continuavano a essere sfruttati nelle fabbriche. Mentre si moltiplicavano le dichiarazioni di principio sull’importanza dell’educazione, venivano mantenute condizioni che rendevano impossibile a gran parte della popolazione l’accesso a una vera istruzione. Perfino l’ispettore francese Vial arrivò a riconoscere come la scuola media era riservata a chi poteva permettersi di “aspettare fino a ventidue anni per guadagnarsi la vita” mentre al popolo restava il compito di pensare, volere e agire attraverso la mediazione della borghesia. In questo modo, mentre la rivoluzione industriale rendeva tecnicamente possibile un’istruzione diffusa e di qualità, la struttura di classe della società capitalista ne deformava lo sviluppo, trasformando la scuola in uno strumento di riproduzione delle disuguaglianze. L’educazione popolare, pur necessaria al funzionamento del sistema produttivo, veniva accuratamente dosata e controllata per non minacciare gli equilibri di potere, rivelando la profonda contraddizione tra le potenzialità emancipatrici del sapere e la sua utilizzazione come strumento di dominio da parte della borghesia. Successivamente la pedagogia borghese si sviluppa nella direzione della scuola laica che si va affermando intorno al 1880. Essa, nata dopo aspri dibattiti, rappresentò una sorta di punto d’arrivo nella secolare battaglia della borghesia per strappare alla Chiesa il monopolio dell’istruzione. Tuttavia la scuola laica non fu una vittoria netta ma piuttosto un accordo di compromesso, un equilibrio instabile tra le esigenze dello Stato e l’influenza clericale. Già dopo la Rivoluzione francese la Restaurazione aveva portato a una dura reazione nelle scuole, tanto che la borghesia liberale, durante il regno di Luigi Filippo, riaccese il suo anticlericalismo, arrivando a manifestazioni violente come il saccheggio dell’arcivescovado di Parigi, dove una folla mista di commercianti e operai distrusse simboli religiosi mentre il giornale ufficiale Le Moniteur liquidava l’episodio come giusta indignazione del popolo. La borghesia, nonostante la sua ostilità verso la Chiesa, non poteva fare a meno di essa. Le rivolte operaie, come quella dei tessitori di Lione e del proletariato parigino, la spinsero a riavvicinarsi alle istituzioni religiose che però pretesero un prezzo altissimo per la loro collaborazione. Il risultato fu una legge come quella Falloux, che a metà Ottocento sancì in Francia una quasi totale sottomissione della scuola agli interessi ecclesiastici. La borghesia, dunque, si trovò in una posizione ambivalente. Essa vedeva nella Chiesa un ostacolo al suo dominio culturale ed economico eppure la considerava un alleato indispensabile per mantenere l’ordine sociale e inculcare nelle masse l’obbedienza e la rassegnazione. La scuola laica che nacque da questo conflitto non aveva nulla di rivoluzionario. Non combatteva la religione, dice Ponce, ma si limitava a organizzare l’insegnamento confessionale in modo da evitare tensioni tra studenti di fedi diverse. Figure come Jules Ferry ed Ernesto Lavisse, pur essendo campioni del laicismo, ribadirono il rispetto per la religione. Ferry, ad esempio, nel Congresso Pedagogico del 1881, esortava i maestri a evitare tanto il fanatismo religioso quanto quello antireligioso mentre Lavisse, nel suo Discorso ai bambini, criticava gli enciclopedisti per aver trattato con troppa leggerezza lo spirito religioso. Nonostante le promesse di un’istruzione universale, la borghesia fallì nel garantire anche solo un minimo di educazione alle masse. Le statistiche dell’epoca mostrano che solo una piccola percentuale di studenti completava il ciclo scolastico: in Prussia il 45%, in Austria il 41%, in Belgio il 25% mentre in Argentina, nel 1916, appena il 20% degli alunni arrivava alla fine delle scuole secondarie. Un ex ministro argentino, Carlos Saavedra Lamas, ammise che il sistema educativo era incapace di soddisfare le esigenze della popolazione. Alcuni pedagoghi borghesi cercarono di giustificare questo fallimento sostenendo che la scuola “respingeva” gli studenti meno capaci ma questa tesi era palesemente falsa. La realtà era che molti bambini abbandonavano gli studi perché costretti a lavorare per sostenere le proprie famiglie, in un sistema economico che li privava di ogni possibilità di emancipazione. La scuola borghese, inoltre, aveva un altro obiettivo, cioè formare una piccola aristocrazia operaia, fedele al sistema e distaccata dalle proprie origini proletarie. I pochi figli di operai che riuscivano a completare gli studi venivano educati a sentirsi superiori ai loro genitori, a vergognarsi delle loro umili radici. Questo meccanismo di assimilazione e divisione era funzionale al mantenimento del dominio di classe. Di fronte a questi fallimenti, emersero due correnti pedagogiche. La prima, di stampo metodologico, si concentrava sul miglioramento delle tecniche didattiche per rendere l’insegnamento più efficiente. Figure come Binet, Decroly e Montessori studiarono la psicologia infantile e svilupparono metodi più adatti alle esigenze dei bambini, opponendosi alla rigidità dei programmi tradizionali, ai metodi mnemonici e alla frammentazione del sapere. Promossero invece l’apprendimento attivo, il lavoro cooperativo e la creazione di comunità scolastiche, dove gli studenti collaboravano tra loro come in una piccola società. Questa corrente rifletteva l’influenza del capitalismo industriale avanzato, con la sua ossessione per l’efficienza e l’organizzazione scientifica del lavoro. La seconda corrente, più teorica e filosofica, si distaccava dalla semplice questione metodologica per puntare su un’educazione più profonda, quasi spirituale. I suoi esponenti, spesso con un linguaggio oscuro e pretenzioso, parlavano di “infondere nell’anima il senso della cultura” anziché limitarsi a trasmettere nozioni. Questa tendenza, pur criticando l’eccessivo tecnicismo della scuola, finiva per essere altrettanto elitaria, rivolta a una ristretta cerchia di intellettuali più che alle esigenze concrete delle masse. Essa, pur non entrando in aperto conflitto con quella metodologica, ne critica la limitatezza, ritenendo che la scuola non debba semplicemente adattare i giovani alla società così com’è ma debba invece contribuire a trasformarla radicalmente. Wyneken, uno dei suoi principali esponenti, parla esplicitamente di una “nuova immagine dell’uomo”, suggerendo che l’educazione debba plasmare una personalità libera e autentica, capace di superare le costrizioni del presente. Per raggiungere questo obiettivo, però, la scuola stessa dovrebbe essere sottratta all’influenza dello Stato che storicamente l’ha usata come strumento di controllo e dominio. La proposta è dunque quella di uno “Stato culturale” che rinunci al potere di indottrinamento e permetta alla scuola di diventare un luogo in cui risuoni solo “la voce dell’umanità”. Questa visione viene considerata profondamente ingenua da Ponce che ne smaschera l’utopismo attraverso un’analisi storica delle relazioni tra educazione e potere. Nel corso dei secoli, infatti, l’istruzione è sempre stata un riflesso degli interessi delle classi dominanti, modificandosi solo in seguito a cambiamenti sociali profondi. Le vere rivoluzioni educative sono state rare. Si possono citare, ad esempio, il passaggio dalla società primitiva alle società classiste dell’Antichità o l’ascesa della borghesia nel XVIII secolo che impose un nuovo modello scolastico in linea con i suoi valori. Le riforme, invece, sono state più frequenti ma sempre legate a un riassestamento dei rapporti di forza tra classi, senza rotture radicali. Oggi, di fronte alla crescente contrapposizione tra borghesia e proletariato, la domanda cruciale è: la ” dottrina” della nuova educazione” rappresenta gli interessi di una classe specifica o è davvero un progetto universale? La borghesia, ormai in crisi, ha abbandonato i suoi ideali progressisti e laici, diventando sempre più reazionaria, religiosa e autoritaria. Nei regimi fascisti, ad esempio, la scuola è apertamente usata per formare soldati e sostenitori del regime, perdendo ogni autonomia. D’altra parte, il socialismo aspira sì a una liberazione totale dell’uomo ma lo fa attraverso la lotta di classe, non attraverso un’astratta richiesta di autolimitazione dello Stato. Proprio qui sta l’assurdità della posizione dottrinaria, ovvero pretendere che lo Stato borghese, per sua natura oppressivo, rinunci spontaneamente a uno dei suoi strumenti di controllo più potenti. Si tratta di una richiesta priva di basi storiche. L’esempio di Condorcet, che nel 1792 chiese alla monarchia di non interferire con l’educazione, aveva senso perché la borghesia rivoluzionaria era ormai vicina alla vittoria. Ma oggi, in assenza di una forza antagonista altrettanto forte, chiedere allo Stato di “autolimitarsi” in nome della cultura è un’illusione che rasenta il comico. Ponce riporta un aneddoto emblematico. Pestalozzi, nel 1814, chiese allo zar Alessandro non solo di rispettare la sua scuola ma addirittura di abolire la servitù della gleba in Russia. Il sovrano, dopo un momento di silenzio, si limitò a sorridere. Allo stesso modo, i teorici della “nuova educazione” chiedono allo Stato borghese di compiere un atto di autonegazione, senza rendersi conto che, in mancanza di un reale rapporto di forza, la loro richiesta è destinata a restare un velleitario esercizio di retorica. La storia dimostra che l’educazione cambia solo quando cambiano i rapporti di potere, non per generose concessioni delle classi dominanti.
Nell’ultimo capitolo del libro Ponce torna a ragionare sul movimento pedagogico emerso agli inizi del Novecento. La duplice anima della nuova educazione trova le sue radici nelle trasformazioni sociali e culturali di inizio secolo, quando prese forma una rinnovata attenzione verso i processi educativi come strumento sia di emancipazione individuale che di cambiamento sociale. La corrente metodologica, ispirata dalle riflessioni di pedagogisti come Cousinet, poneva al centro del processo educativo il principio del rispetto per l’attività libera e spontanea del bambino. Questo approccio rivoluzionario ribaltava completamente la tradizionale concezione gerarchica dell’educazione, assegnando al discente un ruolo attivo e protagonista nel proprio percorso di formazione. Tuttavia questo principio non doveva essere interpretato in chiave individualista ed anarchica. Al contrario, la vera innovazione della “nuova didattica” consisteva proprio nella capacità di coniugare la libertà individuale con il lavoro collettivo, trasformando la classe scolastica da insieme di individui isolati a comunità cooperante. Parallelamente, la corrente dottrinaria sviluppava queste premesse pedagogiche in una più ampia riflessione filosofica e politica. Spranger, in particolare, elaborava una teoria che vedeva nell’autonomia della scuola dallo Stato la condizione necessaria per preservare la purezza dell’atto educativo. Questa posizione trovava eco nel pensiero di Gentile che nella sua concezione idealistica identificava la scuola come il luogo per eccellenza dello sviluppo dello spirito umano, libero da condizionamenti esterni e da interessi particolari. Wyneken, dal canto suo, spingeva ancora più avanti questa visione, attribuendo all’istituzione scolastica il compito epocale di formare una nuova generazione totalmente dedicata al servizio dello spirito. Simili teorie pedagogiche si scontravano con la dura realtà delle dinamiche sociali e delle lotte di classe. Mentre pensatori come Ortega y Gasset continuavano a vedere nell’educazione il principale motore del progresso sociale, questa visione idealizzata non teneva conto del fatto che ogni sistema educativo è storicamente determinato e riflette inevitabilmente gli interessi delle classi dominanti. La borghesia, pur avendo contribuito alla scoperta delle leggi che regolano i conflitti di classe (attraverso il lavoro di storici come Thierry e Guizot), aveva poi utilizzato l’istruzione come strumento per consolidare e perpetuare il proprio dominio. Nella fase storica analizzata da Ponce questa contraddizione diventava particolarmente evidente nella contrapposizione tra due modelli diametralmente opposti di “nuova educazione”. Da un lato, la borghesia fascista, attraverso i suoi teorici come Gentile e Lombardo Radice, elaborava un sistema educativo profondamente classista e conservatore. La scuola veniva concepita come istituzione aristocratica, riservata a pochi eletti mentre alle masse era destinata un’istruzione di base fortemente impregnata di religiosità. Lombardo Radice, in particolare, teorizzava la formazione di un popolo “gentile e meditativo”, docile e rispettoso dell’ordine costituito, perfettamente funzionale al mantenimento dello status quo. Dall’altro lato, il movimento operaio sviluppava una concezione rivoluzionaria dell’educazione che trovava la sua più compiuta realizzazione nell’esperienza sovietica post-rivoluzionaria. In questo modello, la scuola diventava parte integrante del processo di trasformazione sociale, strettamente legata al mondo della produzione e del lavoro. Lenin stesso sottolineava come l’educazione dovesse servire esclusivamente gli interessi delle classi lavoratrici, rompendo definitivamente con la tradizione classista dei sistemi borghesi. La scuola del lavoro sovietica rappresentava quindi un esperimento senza precedenti, dove l’apprendimento teorico si fondeva con l’esperienza pratica e dove ogni studente, indipendentemente dalla sua origine sociale, poteva accedere a tutti i livelli del sapere. Questa contrapposizione tra i due modelli di “nuova educazione” rifletteva in ultima analisi la più generale lotta tra classi sociali. La borghesia utilizzava l’istruzione come strumento di conservazione del proprio potere mentre il proletariato la trasformava in veicolo di emancipazione e liberazione collettiva. L’esperienza sovietica dimostrava concretamente come, in una società che mira all’abolizione delle classi, la scuola possa effettivamente diventare il luogo dove si forma l'”uomo nuovo”, capace di conciliare lavoro manuale e intellettuale, teoria e pratica, interesse individuale e bene collettivo. Il vero significato della “nuova educazione” dipende strettamente dal contesto sociale in cui si sviluppa e dagli interessi di classe che esprime. Solo riconoscendo questa fondamentale determinazione storica e sociale è possibile comprendere appieno le potenzialità e i limiti delle diverse esperienze educative analizzate. Tra queste due posizioni estreme si colloca una terza corrente pedagogica, rappresentata da figure come Spranger e Wyneken, che cerca di porsi come alternativa neutrale, rifiutando tanto il controllo statale fascista quanto la prospettiva rivoluzionaria socialista. Questa corrente intermedia, tuttavia, non riesce a definire una posizione coerente, riflettendo l’incertezza e l’ambiguità della piccola borghesia, la classe sociale da cui trae ispirazione. La piccola borghesia, schiacciata tra la grande borghesia e il proletariato, vive una condizione contraddittoria. Subisce l’oppressione del capitale monopolistico, che periodicamente la riduce in povertà ma, in momenti di crisi del grande capitale, riesce a riemergere, illudendosi di poter sopravvivere in un sistema che la condanna a una posizione subalterna. Questa instabilità si riflette nella sua visione dell’educazione. Essa riconosce la necessità di rinnovamento pedagogico però rifiuta ogni cambiamento radicale che metta in discussione le fondamenta del capitalismo. I teorici di questa corrente educativa, pur intuendo le trasformazioni in atto nella società, preferiscono non affrontarle direttamente, rifugiandosi in concetti vaghi come l'”irrazionale”, la “finalità” o l'”élan” che altro non sono che maschere per reintrodurre una spiritualità priva di contenuto concreto. La loro filosofia si basa sull’idea della “problematicità” e delle “aporie” (termine aristotelico che significa “senza via d’uscita”), rifiutando ogni risposta definitiva ai grandi interrogativi sociali. Questo atteggiamento non è casuale visto che nasce dalla paura di prendere posizione nella lotta di classe, preferendo una falsa neutralità che, in realtà, avvantaggia la borghesia. Nonostante i loro discorsi sulla “scuola attiva” e sull’educazione liberatrice, questi pedagoghi finiscono per riprodurre i valori dominanti. Kerschensteiner, ad esempio, tiene i suoi discorsi in chiese, presentando l’insegnante come un “sacerdote” al servizio di valori eterni; Montessori, dopo aver bandito le fiabe dalla sua pedagogia perché considerate ingannevoli, reintroduce la religione come elemento benefico per l’infanzia; Gaudig afferma che la scuola deve allinearsi con lo Stato “unificatore” e la Chiesa “moralizzatrice”. Tutti questi esempi dimostrano come, nonostante le apparenze progressiste, queste teorie finiscano per legittimare le strutture di potere esistenti. La cosiddetta “neutralità scolastica” è, in realtà, un inganno. Infatti, mentre si proclama di proteggere i bambini dalle influenze politiche, in verità si nasconde loro la realtà dello sfruttamento capitalista. I testi scolastici, la morale insegnata, la storia narrata sono tutti strumenti per perpetuare l’ideologia borghese. Se un bambino chiedesse perché esiste la disoccupazione, le risposte che riceve lo porterebbero a credere che la colpa è degli operai pigri, degli alcolizzati o di chi non sa adattarsi, mai del sistema economico stesso.
La borghesia, consapevole del potenziale rivoluzionario dell’educazione, cerca di controllare i maestri, presentandoli come figure sacre, “apostoli” disinteressati la cui povertà è addirittura esaltata come virtù. Però, quando un insegnante osa sfidare l’ordine costituito, la repressione è immediata, come dimostrano i casi dei ministri belgi Destrée e Vauthier o l’Anti-Sedition Bill di New York del 1922 che obbliga i professori a giurare fedeltà allo Stato. La scuola, in definitiva, non è mai stata neutrale. Essa è sempre stata un apparato al servizio della classe dominante.