Raúl Sánchez Cedillo nel libro Esta guerra no termina in Ucraina ritiene che, a partire dalla Prima Guerra Mondiale, ogni guerra moderna semina, promuove e accelera forme di fascismo. Da qui nasce l’imperativo di investigare le condizioni per una pace emancipatrice o pace costituente in Europa. La chiave per capire questa dinamica è il concetto di regime di guerra, definito come l’introduzione dello schema amico-nemico tanto nella politica estera che in quella interna. Questo regime utilizza una narrazione in cui il nemico (nel caso della guerra in Ucraina è la Russia) è il capro espiatorio per ogni misura antipopolare, dagli aumenti della spesa militare agli accordi con dittature che producono materie prime strategiche come il petrolio.
La guerra in Ucraina in una prospettiva storica
La guerra scoppiata in Ucraina si inserisce in un contesto storico e strategico di lungo periodo, rappresentando per il militarismo occidentale un’opportunità senza eguali per mettere in pratica una “guerra ordinatrice”, un conflitto finalizzato a imporre ordini sociali e a distruggere ostacoli politici e di contropotere che non possono essere rimossi con mezzi diplomatici o commerciali. Questa lettura si scontra con la percezione eurocentrica e atlantica che, secondo l’autore, distorce la realtà presentando l’invasione russa come un atto unilaterale e slegato dalla storia, quando in realtà è solo l’ultimo, ennesimo episodio di un secolo segnato da guerre e massacri senza fine.
Per comprendere la profondità di questa crisi è necessario tornare al periodo successivo alla Rivoluzione d’Ottobre del 1917, quando il territorio ucraino divenne l’epicentro mortale di una serie di guerre. La lotta del nazionalismo ucraino per l’indipendenza si intrecciò inestricabilmente con la prosecuzione della guerra imperialista mondiale e con la guerra civile scatenatasi nel vecchio Impero Russo. In quell’inferno, reso ancor più cupo da quattro anni di Grande Guerra, si scontrarono fino a sette eserciti diversi: le forze della Repubblica Popolare Ucraina, quelle della Repubblica Popolare dell’Ucraina Occidentale, l’Armata Rossa russa e ucraina, le armate bianche della reazione zarista, l’esercito anarchico di Nestor Makhno, l’esercito della Seconda Repubblica Polacca in cerca di conquiste e le forze rumene con mire territoriali. Questo orrore, insieme al genocidio armeno perpetrato dall’Impero Ottomano, rappresenta un esempio storico fondamentale per decifrare le relazioni mortifere tra impero e nazione.
In questa e in tutte le guerre successive la politica è stata la continuazione della guerra e la guerra la prosecuzione della politica con altri mezzi. In Ucraina le linee di classe di contadini e operai rivoluzionari, che fossero socialisti, anarchici o bolscevichi, si mescolarono con le linee nazionali e con un antisemitismo trasversale a quasi tutti gli schieramenti. Fa eccezione il comportamento, seppur non irreprensibile, dell’Armata Rossa: sebbene alcune sue unità, come la Prima Cavalleria di Budënnyj, commisero pogrom, il numero di vittime ebree per cui fu responsabile fu significativamente inferiore a quello dei nazionalisti ucraini di Grigor’ev o, soprattutto, delle forze di Simon Petljura. In alcuni casi l’Armata Rossa condannò ufficialmente questi massacri e punì i responsabili.
Per capire il percorso che ha portato all’invasione russa del 2022 è quindi necessario analizzare le relazioni bilaterali e multilaterali tra Ucraina, Russia, NATO e Unione Europea alla luce delle ultime tre decadi di globalizzazione neoliberale. L’ambiguità del periodo apertosi nel 1989 è un dato oggettivo e costitutivo di quegli anni decisivi. Il processo di demolizione delle strutture del socialismo reale in Russia e Ucraina ha presentato i tratti di un’accumulazione originaria di capitale per espropriazione. Questo saccheggio, programmato e concordato tra le élite locali vittoriose e le istituzioni finanziarie internazionali, fu guidato da figure come Yegor Gaidar e Anatolij Čubajs in Russia, seguendo le ricette di shock therapy proposte da Jeffrey Sachs della Columbia University e dal Fondo Monetario Internazionale.
Le conseguenze sociali di questa transizione furono devastanti: l’illusione collettiva di una rapida prosperità capitalista si dissolse di fronte a una catastrofe umanitaria che spinse nella povertà decine di milioni di persone mentre la proprietà delle industrie strategiche e della terra si concentrava in poche mani. Questo spiega la persistente forza elettorale dei partiti comunisti in entrambi i paesi fino alla metà degli anni 2000. Nel 2022 la macchina delle relazioni tra imperi e nazioni è tornata a funzionare a pieno regime, offrendo al pubblico globale, attraverso televisioni e social network, una nuova orgia di sangue e terrore, un salario libidinale e sadico compensativo per l’impoverimento della vita quotidiana nelle stesse democrazie liberali.
Opporsi a questa realtà dominante non è semplice poiché la guerra moderna si basa sulla mobilitazione totale e sulla conquista della psiche globale. In un mondo in rete la guerra è ibrida, non lineare, senza restrizioni, come teorizzato dagli strateghi cinesi o nella dottrina Gerasimov russa. Analizzare la guerra con gli strumenti del diritto internazionale appare un esercizio sterile poiché tutte le guerre moderne seminano il fascismo e nessuna può più essere considerata “giusta”. Il diritto, senza il potere che lo sostenga, è impotente. E proprio la natura e la distribuzione di questo potere imperiale planetario sono ciò che è in discussione in questa guerra: il nuovo secolo coincide con la frattura decisiva dell’egemonia statunitense sul sistema-mondo, un’egemonia che sembrava consolidata dopo il crollo dell’URSS e la vittoria nella prima guerra del Golfo del 1991.
L’impotenza del diritto internazionale di fronte a queste dinamiche ha radici profonde. La distinzione giuridica tra aggressore e aggredito, sebbene formalmente valida, è storicamente intrecciata con colonialismo e imperialismo. Ogni conflitto bellico moderno presenta almeno due dimensioni di ostilità: il piano giuridico dell’invasione e il piano, più profondo, dell’antagonismo tra blocchi di Stati. Il diritto internazionale, basato sulla personalità giuridica degli Stati nazione sovrani, non riesce a cogliere questa complessità. Sia la Società delle Nazioni che la sua erede, l’ONU, nate dalle ceneri delle guerre mondiali sotto l’egida dei vincitori hanno dimostrato la loro incapacità strutturale di garantire una pace effettiva. La filosofia realista di Tucidide, per cui i potenti fanno ciò che vogliono e i deboli subiscono, non è stata smentita. L’architettura stessa dell’ONU, con il diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza, sancisce questa disuguaglianza di potere, rendendo vane le aspirazioni di Hans Kelsen a una pace attraverso il diritto garantita da una forza di polizia internazionale centralizzata e da un disarmo generale. Ciò che ha effettivamente impedito una Terza Guerra Mondiale non è stato il diritto ma l’equilibrio del terrore nucleare che ha canalizzato i conflitti in una miriade di “guerre per procura” nel Sud del mondo.
Con il crollo del blocco sovietico tra il 1989 e il 1991 si aprì un momento di illusione ottica. La Carta di Parigi del 1990 sembrò annunciare un’era di omogeneizzazione giuridica, economica e politica euroasiatica sotto l’egida del multilateralismo, dello Stato di diritto e del libero mercato. In realtà questa narrazione era il dispositivo enunciativo dell’egemonia statunitense e del regime neoliberale, una codifica proattiva di una controrivoluzione neoliberale presentata come l’avvento di un imperium globale finalmente democratico. L’incertezza strategica si dissolse rapidamente: la prima guerra del Golfo del 1991, scatenata contro l’Iraq di Saddam Hussein, un ex alleato ora trasformato in Stato canaglia, segnò la nascita dell’Impero dei Diritti Umani. Questo periodo di guerre umanitarie coincise con il ciclo ascendente della globalizzazione neoliberale e trovò il suo apice e il suo fallimento nei conflitti nella ex-Jugoslavia. Le guerre balcaniche, spesso attribuite solo a nazionalismi etnici, furono in realtà innescate e aggravate dai programmi di aggiustamento strutturale del FMI che demolirono le basi economiche socialiste della federazione, aprendo la strada a feroci pulizie etniche e all’intervento di una NATO che si ergeva a gendarme “umanitario”.
Il fallimento di queste guerre umanitarie ha portato all’emergere di una nuova narrazione: la guerra giusta. Cedillo esamina le radici di questo concetto, rintracciandolo non solo in Cicerone e Aristotele ma anche, in una forma radicalmente trasformata, nella tradizione marxista e leninista. Per Lenin, in un’epoca imperialista, le guerre nazionali di liberazione contro l’oppressione rimanevano legittime e giuste. Allo stesso modo una guerra difensiva condotta da uno Stato socialista per proteggere la rivoluzione e liberare altri popoli dalla borghesia era considerata legittima. Questo realismo sulla violenza politica si basa sulla constatazione storica che, dalla Comune di Parigi in poi, il potere costituente democratico delle classi subalterne ha dovuto costantemente confrontarsi con la violenza reazionaria dello Stato e delle classi dominanti, una violenza che ha le sue radici nella stessa violenza dispiegata nelle colonie. Il pensiero reazionario di Juan Donoso Cortés, il quale difendeva la dittatura per prevenire la “dittatura del pugnale” della rivoluzione, è l’altra faccia di questa medaglia che dimostra come la borghesia, divenuta socialmente superflua, ricorra alla forza bruta per mantenere il potere, proprio come previsto da Engels. La modernità capitalista ha così incorporato il genocidio e l’ecocidio come variabili di accumulazione, rendendo il fascismo una componente latente del capitale fisso umano.
Alla luce di questa complessa e tragica storia la distinzione puramente giuridica tra aggressore e aggredito nella guerra in Ucraina, sebbene tecnicamente corretta, risulta inadeguata. Di fronte a questo conflitto Cedillo identifica tre posizioni all’interno della sinistra che ritiene problematiche: quella a favore di sanzioni contro la Russia, quella bellicista a sostegno dell’invio incondizionato di armi all’Ucraina e quella di allineamento con l’imperialismo russo. Contro queste posizioni, che di fatto sostengono un fronte imperialista contro l’altro, viene evocata la necessità di un internazionalismo antimilitarista che persegua l’obiettivo di una pace costituente in Europa, unica alternativa alla barbarie di una guerra moderna che, nella sua essenza, non può che seminare fascismo.
L’intervento di Jürgen Habermas nel dibattito pubblico tedesco successivo all’invasione russa dell’Ucraina rappresenta, all’interno del panorama intellettuale europeo, una voce di razionalità critica e di profonda inquietudine. A 92 anni l’ultimo grande teorico della Scuola di Francoforte intervenne, come sua consuetudine nelle grandi questioni tedesche dagli anni ‘60 in poi, di fronte allo Zeitenwende, sulla “svolta epocale” nella politica estera tedesca. Con il suo stile inconfondibile, che unisce l’analisi dei quadri razionali del dibattito a un posizionamento etico di stampo illuminista e progressista, Habermas ha affrontato la virulenta polemica scatenata in Germania sull’invio di armi, il riarmo del Bundeswehr e un possibile intervento diretto. La sua riflessione, condensata nell’articolo Guerra, shock e indignazione Il dilemma della linea rossa del 28 aprile 2022, si sviluppa attorno a ciò che definisce il dilemma occidentale. Questo dilemma nasce dalla collisione tra la tradizionale Ostpolitik, la politica di distensione e cooperazione commerciale con la Russia inaugurata da Willy Brandt nel 1969 e divenuta un pilastro bipartisan della politica estera tedesca, e le nuove, pressanti richieste atlantiste emerse con la guerra. Habermas esprime una palpabile mancanza di tranquillità di fronte alla sicurezza con cui gli accusatori “moralmente indignati” in Germania attaccano un governo federale più introspettivo e cauto. Il cuore del suo ragionamento risiede nell’identificazione di una soglia di rischio, determinata dalla decisione occidentale di non intervenire direttamente come belligerante e acuita dalla minaccia nucleare esplicita del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov. Oltre questa soglia un impegno bellico senza restrizioni diventerebbe un azzardo incalcolabile. Chi, con aggressiva sicurezza, spinge il cancelliere a varcare quella linea per Habermas non comprende la natura profonda del dilemma: l’Occidente è costretto a un equilibrio terribile e rischioso tra una sconfitta ucraina, che sarebbe un assegno in bianco per l’espansionismo russo, e l’escalation di un conflitto che potrebbe diventare una Terza Guerra Mondiale.
Habermas delinea quindi una frattura generazionale. Da un lato ci sono coloro che hanno vissuto la Guerra Fredda e, pur nel solido impegno atlantista, vedevano nell’Ostpolitik un “vaccino” contro l’olocausto nucleare. Dall’altro, le generazioni successive, cresciute nell’era delle guerre umanitarie, che fondono un legittimo e compassionevole impegno per l’Ucraina con una percezione meno chiara dei rischi estremi di una guerra di logoramento contro una potenza nucleare. Critica aspramente la conversione di ex-pacifisti a una “crociata ucraina” che, attraverso una “confusione emotiva”, dipinge Putin come un nuovo Hitler e rifiuta i principi “realisti” delle relazioni internazionali in nome di un idealismo che sconfina nella temerarietà. Tuttavia la sua preoccupazione non si ferma qui. Habermas intravede un pericolo speculare, ovvero che il riarmo tedesco e l’abbandono dell’Ostpolitik possano favorire un rientro nella scena pubblica delle posizioni imperialiste e aggressive della destra storica tedesca, da sempre avversaria di quella politica e pronta a rivedere i “vincoli” della sconfitta del 1945. La sua è, dunque, una chiamata a una prudenza estrema e a un dibattito aperto e pluralista che sappia coniugare il sostegno all’Ucraina aggredita e il rispetto del diritto internazionale con il rifiuto di una militarizzazione delle relazioni internazionali che segnerebbe la fine delle democrazie pluraliste e deliberative a lui care.
La posizione di Habermas viene però presentata come decisamente minoritaria. La gran parte dell’intellighenzia europea si è schierata a favore di un intervento più deciso della NATO. A tal proposito Cedillo cita il giornalista e scrittore Paul Mason. La sua evoluzione è significativa. Parte dall’essere un autore attento alle tematiche post-operaiste e al post-capitalismo per poi approdare a una posizione che può essere definita “atlantismo rivoluzionario”. Già prima dell’invasione sosteneva che la NATO fosse un prezioso baluardo geopolitico contro la Russia, auspicando per l’Ucraina un futuro di democrazia stabile e trasparente. Dopo il 24 febbraio la sua retorica si è radicalizzata in un articolo dal titolo Ukraine: Outlines of a Marxist position dove bolla come stalinismo qualsiasi posizione critica verso la NATO o che ne individui le responsabilità nell’escalation del conflitto.
Mason articola la sua tesi su due piani. Il primo è la giusta qualifica della guerra russa come criminale invasione e della resistenza ucraina come legittima autodifesa. Il secondo, più controverso, è l’ammissione che, accanto alla dimensione interimperialista, esisterebbe uno scontro tra “due dittature capitaliste militarizzate” (Russia e Cina) e l'”Occidente liberal-democratico”. Per Mason le élite occidentali esprimono ancora un attaccamento allo stato di diritto, alla scienza e ai diritti umani universali. Da questa premessa trae la conclusione che i rivoluzionari e i socialisti debbano sostenere lo sforzo bellico della NATO, pur mantenendo l’opposizione alle politiche neoliberiste e autoritarie nei propri paesi. Si tratta di una posizione nel migliore dei casi ingenua. Mason, mentre invoca la solidarietà con la sinistra ucraina, non si è opposto con sufficiente vigore alla messa al bando di undici partiti di sinistra in Ucraina attuata dal governo Zelensky. La parabola di Mason si completa con l’allarme per l’affaticamento dell’opinione pubblica occidentale e con la sua personale crociata per espellere dal dibattito pubblico ogni voce dissidente, arrivando a collaborare, secondo quanto riportato da alcune inchieste, con agenzie di intelligence per diffamare media critici.
In Ucraina ci sono piccole minoranze di sinistra, come Sotsialnyi Rukh. Questo gruppo anticapitalista e anti-stalinista ha scelto di imbracciare le armi per resistere all’invasore, criticando ferocemente la sinistra occidentale accusata di incomprensione o di filo-russismo implicito. Attraverso le voci di attivisti come Taras Bilous emerge la teoria di una simmetria a specchio tra Est e Ovest: se per la sinistra antiliberale occidentale la NATO è il baluardo del capitalismo, per i paesi ex-sovietici l’egemone oppressivo è la Russia. Pertanto NATO e UE svolgono un ruolo di deterrenza e non di provocazione. Per Cedillo una simile forza politica si trova dentro una contraddizione disgregatrice poiché mentre i suoi membri combattono nelle Unità di Difesa Territoriale devono simultaneamente opporsi alle politiche neoliberiste del governo che sostengono, come la riforma del lavoro che, in piena guerra, ha precarizzato ulteriormente i lavoratori a vantaggio dei datori di lavoro. La lettera di protesta del leader Vitaliy Dudin a Zelensky è l’emblema di questo dramma: come conciliare l’indipendenza di classe e la lotta per i diritti dei lavoratori con la mobilitazione totale per uno Stato oligarchico e neoliberale, le cui forze armate sono ormai subordinate al comando della NATO? Cedillo sostiene che, in uno scenario del genere, ogni tentativo di lotta di classe emancipatrice è considerato sabotaggio, rendendo la proposta del Sotsialnyi Rukh una propaganda morale incapsulata che, suo malgrado, finisce per legittimare le macchine da guerra in campo.
All’estremo opposto dello schieramento ideologico c’è il neo-stalinismo zombie, quella corrente che, a causa di un antiatlantismo viscerale, vede nella Russia di Putin un polo di resistenza al “globalismo”. Questo campismo pro-russo metabolizza la sconfitta della Guerra Fredda e abbraccia una logica amico-nemico per cui qualsiasi indebolimento dell’egemone atlantico è un fatto positivo. Questa posizione non è monolitica. Va distinta dal Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR), ormai ridotto a un gruppo di pressione impotente e complice della politica di Putin, e dalle teorie più sofisticate del nazional-bolscevismo di Aleksandr Dugin. Dugin, teorico influente presso le cerchie del potere russo, sogna un’Unione degli Slavi Orientali che superi gli stati nazione e vede nella guerra in Ucraina uno scontro epocale contro un Occidente degenerato, un’anti-civiltà dominata da figure come Rothschild, Soros, Schwab, Bill Gates e Zuckerberg. La sua retorica cattura il desiderio reazionario e sovranista, in Occidente come in Russia, fornendo una cornice ideologica alla guerra.
L’alternativa per Cedillo sarebbe un pacifismo costituente e rivoluzionario. Rievoca l’esempio degli Industrial Workers of the World (IWW o wobblies) che si opposero con tutte le loro forze all’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917, pagando un prezzo altissimo in termini di repressione. Questo esempio storico serve a dimostrare l’incompatibilità tra l’indipendenza di classe e la sottomissione allo sforzo bellico di uno Stato capitalista, soprattutto in un contesto di legge marziale. L’internazionalismo di cui c’è bisogno, si argomenta, non può essere quello “deformato” della Guerra Fredda, né quello statocentrico dei cicli progressisti latinoamericani ma deve ispirarsi al transnazionalismo dei movimenti alter-globali e zapatisti, capaci di lottare per l’emancipazione senza schierarsi in massacri interimperialisti.
In un’epoca di guerra senza restrizioni, dove l’interoperabilità bellica si estende ai corpi-macchina connessi e il bellicismo investe la stessa soggettività, Cedillo contesta con forza l’idea di guerra giusta. Le uniche guerre che meritano questo aggettivo sono quelle per la sopravvivenza fisica di un popolo, come quelle del ghetto di Varsavia o del popolo curdo in Rojava. Tuttavia, anche in questi casi, è un’illusione pericolosa credere che da una guerra moderna possa scaturire una democrazia emancipatrice. La reductio ad Hitlerum praticata da entrambe le parti, cioè l’equiparazione sistematica dell’avversario al nazismo, non è solo propaganda irresponsabile ma il combustibile per profezie autoavveranti che spingono verso l’escalation. Interrompere questa spirale, distinguendo la criminalità dell’invasione russa da un inesistente piano di genocidio, è l’unico esercizio di responsabilità possibile. Il vero internazionalismo, in definitiva, deve lottare per la sopravvivenza senza farsi abbagliare dall’epica della guerra, consapevole che la vita emancipata inizia solo dove il frastuono delle armi tace.
La guerra in Ucraina si configura, allora, come la condensazione più esacerbata di violenza effettiva e potenziale in Europa, un epicentro da cui si irradia un regime di guerra con conseguenze globali, le cui dinamiche sono oscurate dalla propaganda di entrambi i schieramenti. La possibilità di resistere a questa deriva, e forse persino di contrattaccare, dipende dalla capacità di decodificare questa propaganda, il cui nucleo centrale consiste nel negare sistematicamente la possibilità di un cessate il fuoco e di una soluzione diplomatica, per quanto provvisoria. Gli Accordi di Minsk, sebbene violati e di fatto defunti, rappresentano una base necessaria e inevitabile per qualsiasi futuro accordo minimamente solido. Il problema è che il protrarsi temporale del conflitto agisce come un potente acceleratore di particelle. Ogni giorno che passa moltiplica i crimini di guerra, la devastazione del territorio ucraino e l’impatto globale sulle risorse energetiche e alimentari, fenomeni che a loro volta alimentano un circolo vizioso. Questa dinamica contribuisce a cristallizzare da un lato le passioni per la vendetta e la giustizia nel fronte ucraino, legate alla distruzione del paese e ai crimini subiti, e dall’altro il revanscismo in Russia, alimentato dalla percezione di un’ennesima umiliazione inflitta dal cosiddetto Occidente collettivo.
Per evitare che il rifiuto della guerra rimanga intrappolato nell’impotenza di una pura argomentazione giuridica, nella paralisi etica indotta dai sensi di colpa o nella paura di essere tacciati di putinismo, è necessario scavare fino alla radice della situazione. Ciò implica comprendere l’altissima probabilità di questa invasione a partire da un’analisi spregiudicata della natura e della dinamica dei principali attori coinvolti, adottando una prospettiva di lungo periodo che colga i punti di svolta storici. Sebbene la storia e la geografia siano fattori esplicativi cruciali, esiste una causa principale nell’Ucraina contemporanea ancora più determinante: la sua povertà endemica. Già nel 2018 il paese era il più povero d’Europa in termini di reddito pro capite e di indici di sviluppo umano delle Nazioni Unite. Questa condizione di enorme disuguaglianza non è attribuibile a una mancanza di risorse naturali o a un basso livello di sviluppo tecnico e umano della popolazione ma è intrinsecamente legata alla natura di classe del processo d’indipendenza seguito alla dissoluzione dell’URSS nel 1991. Come ha sottolineato l’esperto Mark Galeotti, all’Ucraina spetta il “dubbio onore” di aver avuto élite politiche persino peggiori di quelle russe durante il processo brutale di uscita dal cosiddetto socialismo reale.
Il paese divenne così un laboratorio per una forma estrema di capitalismo politico, un concetto weberiano che indica l’uso dell’imperium, del potere di comando statale, per imporre con la forza le condizioni necessarie al capitalismo, in una disputa con altre forze sociali. Tuttavia il capitalismo politico imposto nell’ex blocco sovietico si distaccò dal modello weberiano, applicato in un’epoca in cui le istituzioni di Bretton Woods, FMI e Banca Mondiale, avevano ormai abbandonato i postulati keynesiani per abbracciare le formule di aggiustamento strutturale già sperimentate in America Latina. Queste politiche si tradussero in un immenso trasferimento di ricchezza dalle casse pubbliche alle élite locali e in una sistematica fuga di capitali. L’applicazione della stessa terapia in Europa dell’Est ebbe in Polonia, con Jeffrey Sachs, un relativo successo proprio perché era il paese meno socialista del blocco. Lo stesso Sachs, in un bilancio del 1994, spiegò che mentre lo smantellamento della pianificazione centrale poteva avvenire in giorni, la costruzione delle nuove istituzioni del capitalismo moderno, come un sistema giudiziario indipendente e un diritto commerciale, avrebbe richiesto anni. È quindi profondamente ironico che il Jeffrey Sachs del 2022 attribuisca l’invasione russa a un progetto trentennale dei neoconservatori americani, come se proiettasse su di loro gli effetti di quarant’anni ininterrotti di shock capitalista.
L’applicazione della shock therapy in Ucraina si è tradotta in un esperimento biopolitico devastante. Già una delle repubbliche più povere dell’URSS e segnata dal disastro di Chernobyl del 1986, l’Ucraina visse un tracollo demografico: tra il 1991 e il 2014 la popolazione crollò da 52 a 45 milioni di persone (fino a circa 41 milioni nel 2021) a causa dell’emigrazione, del crollo della natalità e di un aumento della mortalità che fece regredire l’aspettativa di vita, tornata ai livelli del 1988 solo nel 2013. I prestiti internazionali non servirono allo sviluppo ma a creare una classe oligarchica in un contesto di corruzione “costituente” e stratosferica, stimata ai livelli dei paesi più corrotti al mondo. I membri della vecchia nomenklatura, grazie alle loro posizioni di direttori di aziende pubbliche o di responsabilità politiche, furono in grado di appropriarsi criminalmente degli asset privatizzati attraverso circuiti corruttivi che svalutavano artificiosamente i beni, rendendoli poco attraenti per il capitalismo popolare”che era il nobile obiettivo dei programmi di Sachs. Sotto la presidenza di Leonid Kuchma (1994-2004), considerato il padre fondatore dell’oligarchia ucraina, un nuovo prestito del FMI di 360 milioni di dollari finanziò un ulteriore attacco alla protezione sociale, con l’eliminazione di aiuti non contributivi e dei controlli sui prezzi dei beni di prima necessità, nonché l’avvio della privatizzazione delle terre fertili delle Terre Nere (Chernozem). Le conseguenze macroeconomiche furono un’inflazione del 400% e un crollo del Pil del 46% rispetto al 1990.
Il sociologo ucraino Demid Chernenko delinea tre criteri per analizzare questi gruppi oligarchici: sono i principali proprietari privati del paese, il loro potere si basa sulla fusione tra proprietà e rappresentanza politica (ogni gruppo ha almeno un rappresentante in parlamento o governo) e controllano due o più business coordinati. Sotto questi parametri si identificano almeno 35 gruppi, dominanti in settori come quello minerario, metalmeccanico, alimentare ed energetico. La dialettica politica ucraina è quindi un riflesso diretto degli scontri tra queste fazioni. La storia di Rinat Akhmetov e del suo Partito delle Regioni o la complessa parabola di Yulia Timoshenko, la “principessa del gas”, dimostrano l’impossibilità di ridurre la politica ucraina a uno scontro manicheo tra pro-occidentali e filo-russi. Il Partito delle Regioni, pur clientelare, non poteva rinunciare a fare affari con tutti gli interessi nel paese, cercando un equilibrio con UE, NATO e Russia. Allo stesso modo la persecuzione giudiziaria di Timoshenko fu il risultato di una coalizione trasversale di oligarchi rivali, guidata da Yanukovich in collaborazione con il suo ex alleato della Rivoluzione Arancione, Viktor Yushchenko, e non di una divisione ideologica. La cosiddetta guerra del gas del 2009, con le sue ripercussioni in Europa, fu motivata più dagli interessi della famiglia Yushchenko nella compagnia di stato Naftogaz che da orientamenti geopolitici.
Il politologo ucraniano Volodymyr Ishchenko interpreta le tre rivoluzioni ucraine (la Rivoluzione sul Granito del 1990, la Rivoluzione Arancione del 2004 e l’Euromaidan del 2014) come rivoluzioni inconseguenti: rivolte popolari sistematicamente catturate da forze esterne ai partecipanti. Nell’Euromaidan due blocchi di capitalisti politici si contesero il potere, da un lato una coalizione eterogenea che includeva l’oligarca Petro Poroshenko, ONG occidentali come il National Endowment for Democracy e Open Society, la coalizione di destra Alzati, Ucraina e il partito nazionalista Svoboda, dall’altro il presidente Viktor Yanukovich e il suo Partito delle Regioni. La grande vittoria del neobanderismo non fu elettorale ma egemonica perché riuscì a permeare il discorso politico dell’intero blocco vincitore, cooptando governo ed esercito sotto Poroshenko. Il fallimento del primo Accordo di Minsk nel 2014 non fece che rafforzzare questo aspetto, concedendo ampia libertà d’azione all’estrema destra nazionalista, i cui attacchi contro attivisti di sinistra, femministi, rom e persone LGTBIQ+ divennero una costante, in uno scenario in cui l’estrema destra divenne un elemento trasversale a entrambi i lati del conflitto civile.
Per comprendere le mosse della Russia Cedillo propone una lettura storico-strutturale attraverso la lente del sistema-mondo. Gli studiosi Georgi Derluguian e Immanuel Wallerstein sostengono la tesi della Russia come Stato semiperiferico, un’entità che storicamente ha occupato una posizione intermedia, con elementi sia del centro che della periferia. I suoi tentativi di raggiungere il centro del sistema-mondo sono stati caratterizzati da strategie di modernizzazione dispotiche e iperattive, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande fino a Stalin, volte a compensare la mancanza di risorse capitalistiche con un incremento della coercizione, basato sull’espropriazione violenta dei contadini. Anche la Rivoluzione del 1917 viene interpretata come un ultimo radicale tentativo di raggiungere questo obiettivo, guidato da un’alleanza tra l’intellighenzia tecnico-scientifica emarginata e la classe operaia. Figure come Sergej Witte, alla fine dell’era zarista, incarnarono l’ultimo grande tentativo di modernizzazione “dall’alto” attraverso le ferrovie (come la Transiberiana), il gold standard e riforme agrarie ma il tentativo fallì per le insormontabili contraddizioni di classe.
Il caso delle officine Putilov di San Pietroburgo è esemplare di queste contraddizioni. Questo complesso industriale, cuore della produzione di macchinari e armamenti, fu anche l’epicentro del movimento operaio e il terreno di sperimentazione del socialismo di polizia, un tentativo di controllare il malcontento creando sindacati filo-governativi. La figura ambigua del pope Georgij Gapon, inizialmente collaboratore della polizia e poi leader carismatico della protesta popolare che culminò nella Domenica di Sangue del 1905, segna il fallimento di questa strategia e l’inizio della fine per lo zarismo. La sua successiva deriva, che lo portò a negoziare con il conte Witte e a scrivere una Lettera in cui metteva in guardia i lavoratori dal seguire la “dottrina del tedesco Marx” esaltando invece il loro “senso comune pratico”, mostra tutta l’impossibilità di domare la nascente forza sociale operaia senza concedere riforme democratiche sostanziali. Il due marzo 1917 furono proprio le officine Putilov, cuore dello sforzo bellico, a dare il via allo sciopero generale che avrebbe abbattuto l’impero.
Con l’URSS la vecchia entità panrussa riuscì infine ad accedere al centro del sistema-mondo, sebbene per un breve periodo e a un costo umano immane. Dopo Stalin il “disgelo” di Krusciov e la successiva riforma economica Kosygin/Liberman del 1965 rappresentarono gli ultimi seri tentativi di riforma interna. Krusciov promosse un timido New Deal sovietico, con la costruzione massiccia di alloggi popolari, l’incorporazione massiccia delle donne nel lavoro e una maggiore attenzione ai beni di consumo e all’agricoltura, il tutto inquadrato nella dottrina della coesistenza pacifica. La riforma del 1965, di stampo tecnocratico e cibernetico, mirava a introdurre criteri di redditività e un sistema di prezzi di produzione nelle imprese, decentrando parzialmente le decisioni ai direttori e affidando il monitoraggio in tempo reale a computer centrali. Questo tentativo fallì a causa delle rigidità strutturali del sistema, degli enormi investimenti militari e, soprattutto, dell’incapacità di superare la governance clientelare della nomenklatura, per cui la veridicità delle informazioni sui prezzi presupponeva un controllo sulla forza lavoro che il sistema non poteva più esercitare. La vittoria del cosiddetto socialismo sviluppato o socialismo reale segnò la fine di ogni speranza riformista e gettò le basi per quella stessa struttura di potere che, negli anni ’90, avrebbe pilotato la transizione al capitalismo oligarchico, portando al potere Vladimir Putin e perpetuando, in una nuova forma, la secolare dinamica della Russia semiperiferica nel suo conflittuale e ossessivo rapporto con il centro del sistema-mondo.
La decadenza dell’Unione Sovietica e la successiva, traumatica transizione alla Russia post-sovietica non possono essere comprese appieno se non attraverso un’analisi dell’economia politica della corruzione, del cinismo e della doppia morale che permeò i comportamenti dell’élite. La corruzione su vasta scala che caratterizzerà la famiglia El’cin negli anni ’90 non fu un fenomeno improvviso, bensì l’eredità diretta e lo sviluppo della corruzione “minore” che fiorì sotto i sedici anni di segreteria di Leonid Brežnev. Il sistema sovietico riuscì a sostenersi nonostante questo sabotaggio interno grazie a un fattore chiave: fino agli anni ’80 la paralisi e l’apatia sociale furono compensate dagli enormi introiti fiscali provenienti dall’esportazione di combustibili fossili. Questo afflusso di petrodollari, un tratto che da allora non abbandonerà mai l’economia dell’URSS e poi degli Stati successori, finanziò una lunga e morbida decadenza, un lento scivolamento verso una posizione semiperiferica che, fatta eccezione per le minoranze politiche della dissidenza e della sfera clandestina dei samizdat, avvenne in un clima di generale indifferenza.
Come sottolineano Derluguian e Wallerstein, questa rendita energetica prolungò l’immobilismo del sistema. Più dannosa dell’arretratezza tecnologica era l’erosione dell’etica del lavoro e il conseguente stagnare della produttività che paradossalmente scaturivano dalla vittoria tacita dei lavoratori sovietici nella lotta di classe contro i loro dirigenti burocratici, sintetizzata nel cinico adagio “loro fingono di pagarci e noi fingiamo di lavorare”. Queste concessioni della nomenklatura ai lavoratori erano dettate dal timore di un’alleanza politica tra intelligencija e proletariato, un fantasma reso reale dal movimento Solidarność in Polonia nel 1980. Di fronte a questa prospettiva i circoli dell’intelligencija dissidente si rivolsero alle due ideologie più radicalmente opposte al comunismo ufficiale: il nazionalismo e l’individualismo di mercato neoliberale che paradossalmente erano le ideologie dominanti a livello mondiale e offrirono alla nomenklatura una via di salvezza per trasformarsi, dopo il 1989, da funzionari comunisti in magnati capitalisti e governanti di nuove entità nazionali.
Lo shock petrolifero del 1973 fu una benedizione per la nomenklatura brežneviana poiché permise di pagare le importazioni di cereali, necessarie nonostante l’immenso settore agroalimentare sovietico, e di mascherare la crescente inefficienza della pianificazione centralizzata. In questo periodo conobbe un enorme sviluppo la seconda economia o economia in ombra, un vasto e articolato sistema di attività illegali che sfruttava le disfunzioni dell’economia pianificata. Essa includeva il saccheggio e la rivendita di stock aziendali, il fenomeno dei “lavoratori fantasma”, mercati di baratto per correggere gli squilibri regionali, il commercio di beni di consumo occidentali e persino imprese illegali che producevano beni scarsi usando risorse pubbliche. Quando Gorbačëv avviò la Perestrojka nel 1985 la legalizzazione di molte di queste attività dimostrò il loro volume e la loro importanza. Ciò che non poté legalizzare, tuttavia, fu la corruzione diffusa tra la nomenklatura del partito che divenne la base per la successiva ricomposizione oligarchica del potere dopo il 1991.
L’aspetto più torbido del tardo brežnevismo fu proprio la corsa dell’élite all’accumulo illegale di beni e proprietà, andando oltre i già consolidati privilegi legali. Figure come Aleksandr Jakovlev denunciarono successivamente i massicci casi di corruzione, tra cui spicca il “caso del pesce”, in cui l’impresa statale Okeany fu usata per riciclare capitali e trasferirli in banche occidentali, un scandalo che portò alla condanna a morte del viceministro della Pesca, Vladimir Rytov, e rivelò una vasta rete corruttiva a Sochi. Il KGB, guidato da Jurij Andropov, avviò un’ampia repressione che portò all’arresto di migliaia di funzionari. Un altro scandalo di portata epocale fu il “caso del cotone” in Uzbekistan, dove per anni i dirigenti del partito, incluso il segretario Šarof Rašidov, manipolarono i registri di produzione per sottrarre ingenti somme di denaro pubblico. Questo sistema di corruzione, noto come “mafia uzbeka”, non solo devastò l’economia ma causò anche un disastro ambientale senza precedenti, ovvero il prosciugamento del Mare d’Aral, reso uno dei luoghi più tossici del pianeta a causa dell’uso intensivo di pesticidi e fertilizzanti.
Andropov, resosi conto della portata della decomposizione del sistema, avviò, durante il suo breve mandato, campagne anti-assenteismo e anti-alcolismo mentre preparava una nuova generazione di riformatori, tra cui Gorbačëv. Tuttavia quando quest’ultimo annunciò la Perestrojka nel 1987 la situazione era ormai compromessa. Una congiuntura letale si era abbattuta sull’URSS: il crollo del prezzo del petrolio, il costo devastante della guerra in Afghanistan e il disastro di Černobyl’ nel 1986. In questo contesto è difficile stabilire se la Perestrojka accelerò o attenuò un crollo ormai inevitabile. La transizione che seguì non fu un destino ineluttabile ma il frutto di una contingenza precisa, cioè la convergenza tra una nomenklatura eticamente in bancarotta, desiderosa di convertire il proprio potere in proprietà privata, e un Occidente dominato da un neoliberismo aggressivo. A differenza dei paesi dell’Europa dell’Est, dove la nomenklatura fu spazzata via, in Russia essa riuscì a riciclarsi, guidando personalmente la transizione, in quello che Boris Kagarlitsky definisce un processo di “restaurazione” che riconciliò le nuove élite nate dalla Rivoluzione d’Ottobre con la classe dominante globale.
La speranza di Gorbačëv in una transizione morbida e in un Piano Marshall per l’ex-URSS fu spazzata via dall’autosabotaggio della nomenklatura riformatrice e dall’avvento della shock therapy di El’cin. Sotto la guida di Egor Gajdar e Anatolij Čubajs fu attuata una liberalizzazione dei prezzi che generò iperinflazione e miseria, seguita da una massiccia privatizzazione delle proprietà statali tramite un sistema di voucher. Questi voucher, distribuiti alla popolazione, furono concepiti non per creare un capitalismo popolare ma come uno strumento socio-psicologico che, a causa della loro volatilità, finirono per essere acquistati a prezzi irrisori dagli ex-manager e da avventurieri finanziari, dando vita alla prima ondata di oligarchi.
Il colpo di grazia finale fu il programma “prestiti in cambio di azioni” tra il 1995 e il 1996. Con El’cin in caduta libera nei sondaggi e sull’orlo di una sconfitta elettorale contro il Partito Comunista, un gruppo di oligarchi, i “sette banchieri” (semibankirščina), propose di vendere le azioni delle compagnie strategiche (petrolio, gas, metalli) a prezzi stracciati in cambio di prestiti allo stato e di un sostegno mediatico e finanziario alla campagna di El’cin. Questo patto scellerato consegnò il cuore dell’economia russa a una manciata di magnati e assicurò la rielezione di El’cin ma portò il paese sull’orlo del baratro, culminando nella sospensione dei pagamenti del 1998. In questo periodo la classe oligarchica si comportò come un’amministrazione coloniale sulla propria madrepatria, celebrando pubblicamente il saccheggio in nome della libertà.
Il caos generato dal regime el’ciniano creò le condizioni per l’ascesa dei siloviki, gli uomini dei servizi di sicurezza, incarnati alla perfezione da Vladimir Putin, ex-colonnello del KGB. Il suo insediamento fu segnato da eventi oscuri, come gli attentati negli appartamenti del 1999, le cui dinamiche rimangono opache e per cui l’ex-agente Aleksandr Litvinenko avrebbe successivamente accusato lo stesso Putin, che giustificarono una dura guerra in Cecenia e gli conferirono l’immagine di uomo forte e risoluto. Come nota Kagarlitsky, l’ascesa dei siloviki fu necessaria per disciplinare gli oligarchi e salvare il sistema oligarchico stesso. Chi, come Boris Berezovskij, si oppose, fu schiacciato, chi accettò le nuove regole, come Roman Abramovič, poté prosperare.
Il regime di Putin, pur dichiaratamente anticomunista, ha assorbito strategicamente simboli dell’era sovietica come la vittoria nella Grande Guerra Patriottica per legittimarsi, costruendo un capitalismo di Stato semiperiferico fondato sull’esportazione di materie prime e su un nazionalismo autoritario. La crisi finanziaria del 2007-2008, le proteste del 2011-2013 e, soprattutto, l’Euromaidan ucraino del 2014, segnarono l’inizio della fine per questo modello. Di fronte al declino strategico del modello energetico tradizionale e alla minaccia di un’ulteriore espansione della NATO il regime ha imboccato una via sempre più aggressiva. Come si chiedevano già Derluguian e Wallerstein nel 2014, la motivazione principale del revanscismo di Putin è il rifiuto popolare di una Russia periferica. Dopo l’invasione su larga scala del 2022 la questione si è intrecciata inestricabilmente con il caos sistemico globale, lasciando aperta la fondamentale questione di una via d’uscita non catastrofica, nella quale i movimenti antisistemici appaiono, al momento, tragicamente assenti.
L’analisi di Cedillo della guerra in Ucraina è svolta con un preciso posizionamento metodologico. Rifiuta decisamente un approccio oggettivista o statocentrico, proponendo invece di addentrarsi nella “nebbia della guerra” attraverso la lente del materialismo della soggettività sociale, politica, psichica ed ecologica. Questo implica che, per una comprensione autentica del conflitto, non è sufficiente analizzare i processi, gli eventi e le dinamiche degli Stati, delle imprese e dei blocchi regionali. È imprescindibile dare uguale, se non maggiore, rilevanza alle lotte, alle resistenze e ai contropoteri emancipatori che tentano di ritagliarsi uno spazio in una congiuntura storica sempre più portatrice di orrore. In questa prospettiva l’etica del “no alla guerra” si traduce in un pensiero non campista che preserva l’indipendenza di criterio e si impegna in una pratica politica che sfrutta gli interstizi e le fessure permesse dalla mobilitazione totale della guerra nella sfera pubblica, un spazio altrimenti dominato dalla propaganda bellica. Cedillo sostiene che una vera comprensione del conflitto ucraino, delle sue dimensioni intrecciate e delle sue probabili conseguenze sugli ordini politici europei e globali, nonché sugli effetti sulle soggettività politiche e micropolitiche, richiede un percorso storico, geografico e concettuale attraverso le complesse relazioni tra guerra, capitalismo, Stati, imperialismi, fascismi e quelle macchine che producono desiderio, narrazioni e delirio e che attraversano l’intero campo sociale.
Per tracciare questa panoramica è necessario ricordare che un’etica è un modo del pensiero e che un modo del pensiero è a sua volta una problematizzazione singolare della pratica politica. È questo il faro che deve guidare l’analisi della guerra scatenata dall’invasione russa dell’Ucraina. Comprendere le cause profonde, dirette e indirette, nel tempo e nello spazio, di questo conflitto mondiale è l’unica strada per agire collettivamente in modo efficace, sia per contribuire a forzare un cessate il fuoco, sia per trovare una soluzione transnazionale emancipatrice al corso catastrofico che la storia mondiale ha intrapreso. Questa comprensione permetterà di esporre le chiavi e le implicazioni principali dell’escalation militarista del sistema-mondo a partire dalla congiuntura dell’economia politica ed ecosistemica della globalizzazione capitalista, per poi affrontare le alternative non utopiche alla guerra, alla dittatura, alla devastazione ecologica e al fascismo crescenti. Cedillo riconosce la difficoltà di questo compito in un contesto in cui l’informazione è soggetta a una censura primaria degli Stati Maggiori, a una censura secondaria delle corporations mediatiche e all’eco distorto dei social network. Nonostante ciò è necessario un lavoro critico di smontaggio e confutazione delle narrazioni egemoniche.
Cedillo contesta la cornice interpretativa più comune, condivisa sia da chi condanna Putin come autoritario e la Russia come regime filonazista, sia da chi difende l’invasione come operazione di denazificazione e risposta all’avanzata della NATO. Entrambe le posizioni, infatti, condividono l’idea che questa guerra abbia elementi di continuità con la Seconda Guerra Mondiale. Al contrario, Cedillo propone un accostamento audace e, a suo avviso, più calzante: la guerra in Ucraina ha più affinità, nonostante differenze insormontabili, con il quadro politico e militare della Prima Guerra Mondiale. Le ragioni di questa vicinanza risiedono in condizioni simili nel contesto europeo: lo scontro tra imperi, il ruolo degli Stati pivot in disputa e l’utilizzo strumentale di minoranze e nazioni senza Stato come casus belli. In entrambi i momenti storici, inoltre, si verifica un salto evolutivo nello sviluppo tecnologico delle macchine da guerra, con il conflitto ucraino che presenta tutte le caratteristiche di una guerra senza restrizioni, ibrida, non lineare e cyberguerra.
Il fatto fondamentale che avvicina i due conflitti e, simultaneamente, li allontana dalla Seconda Guerra Mondiale, è che mentre la Prima Guerra Mondiale creò le condizioni affinché germogliassero gli affetti e i linguaggi della rivoluzione conservatrice e dei fascismi degli anni ’20 e ’30, allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale il fascismo aveva già conquistato, con la complicità delle oligarchie industriali e finanziarie, il centro di gravità e la struttura politica e militare di diversi Stati, attraverso i quali scatenò il suo progetto genocida. Nella guerra attuale in Ucraina non ci sono Stati fascisti in lizza, bensì formazioni imperialiste ultraconservatrici e ultranazionaliste (nel caso del blocco russo) ed egemoni antagonisti nel sistema-mondo (Cina vs Stati Uniti). Le loro dispute, retoriche e logiche, proprio come nella Prima Guerra Mondiale, stanno generando il quadro e i processi politici e soggettivi che renderanno nuovamente fattibili e probabili varianti fasciste come forme di governo e di comando. Basta osservare il peso, sia narrativo che politico e militare, che elementi fascisti, coloniali e patriarcali stanno acquisendo tanto nel campo russo che in quello ucraino ma anche nella narrativa del regime di guerra europeo, man mano che la situazione si aggrava.
Affinché il fascismo cristallizzi come soggettività e movimento, analogamente al periodo tra le due guerre, necessita di almeno sei matrici generative e/o trasformative che gli forniscano consistenza operativa: a) l’esperienza fondatrice della guerra, b) il pathos della nazione come comunità di destino, c) il casus belli del tradimento e della pugnalata alle spalle da parte del nemico interno, d) l’antagonismo verso la lotta di classe e di genere, intesa come cospirazione contro l’unità della nazione, ovvero anticomunismo, misoginia e transfobia, e) il pathos vendicativo e sradicato della soggettività del reduce e, ultimo ma non meno importante, f) una relazione specifica con le macchine di guerra come vettori di distruzione e morte. Il punto di vista di Cedillo è che, con la guerra in Ucraina, si stia concimando il terreno per lo sviluppo e il rafforzamento di nuove varianti fasciste a partire da nuove combinazioni di queste sei matrici fondamentali.
Questa pericolosa deriva è resa possibile, in parte, dalla natura intrinseca del capitalismo che non è un mero meccanismo di estrazione di plusvalore attraverso lo sfruttamento del lavoro. Esso va ben oltre il sistema di accumulazione poiché la sua principale fonte di ricchezza è l’insieme di relazioni che si danno nelle moltitudini del lavoro vivo e negli ecosistemi umani. A partire dalla lunga crisi iniziata negli anni ’70 l’incapacità del capitale di riprodurre i tassi di profitto ha spinto i centri di gravità verso un momento populista di destra in Europa, tendenzialmente oscillante verso l’autoritarismo e persino il fascismo. La politica di guerra in Ucraina, con l’attivazione di un conflitto tra formazioni imperialiste, nazioni e Stati pivot, fa parte di questo stesso schema. L’Ucraina, una zona storicamente cerniera del sistema eurasiatico, ha vissuto, senza esagerazioni, una guerra civile insistente, di alta e bassa intensità, con brevi pause, durante tutto il XX secolo e l’inizio del XXI. Pertanto il conflitto attuale si comprende solo alla luce della genealogia locale ed europea dei movimenti reazionari, autoritari, stalinisti e fascisti, dei regimi dittatoriali, delle frontiere arbitrarie, degli eserciti e delle guerre passate. È un territorio devastato dal capitalismo, dalla guerra, dal fascismo, dall’antisemitismo e dallo stalinismo dove il dispositivo bellico contiene sempre un elemento di guerra sessuale, in cui le truppe sono motivate dall’impunità per esercitare violenza sessuale contro donne e minoranze di genere. La guerra, infatti, non si limita a distruggere vite, ecosistemi, redditi e diritti ma si abbatte sempre con ferocia particolare sulla libertà, la sicurezza e i diritti del proletariato sessuale e di genere che è sempre la carne da cannone, la cui città e biotopi vengono distrutti e che viene mobilitata per lo sforzo produttivo bellico. In Ucraina entrambi gli schieramenti militari operano con l’aspettativa di riscuotere un salario libidinale/sadico sul nemico catturato e sulla popolazione civile.
Alla luce di questa cruda realtà gli allineamenti a favore dell’uno o dell’altro campo nello spazio politico europeo sono un errore tragico, legato alla mancanza di strumenti teorici per comprendere il conflitto nelle sue molteplici dimensioni e funeste conseguenze e al carattere di mobilitazione totale e di polizia del pensiero che un conflitto dai chiari tratti di conflagrazione mondiale inevitabilmente assume.
L’analisi si sposta poi sul momento populista in Europa. La crisi finanziaria del 2007-2008, catalizzata dal fallimento di Lehman Brothers, si è rapidamente trasformata in una crisi generale di solvibilità, gestita attraverso il regime di austerità e la colpevolizzazione insidiosa della forza lavoro, accusata di aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Questo tempo di depressione ed espiazione ha generato enormi tensioni politiche, soprattutto nei paesi più deboli dell’eurozona, e ha innescato un processo di decomposizione del sistema europeo che oggi assume la forma di un regime di guerra, puntando alla costruzione di forme di governo continentale centralizzate nel controllo dell’energia, della politica estera e del riarmo, cancellando temporaneamente gli obiettivi ambientali. Contrariamente alla narrazione eurocentrica che vede nelle crisi un motore di integrazione politica, Cedillo osserva una grande mutazione di congiuntura in Europa: l’opportunità politica del periodo 2008-2014 ha assunto ovunque un senso di rivoluzione conservatrice. L’asse oligarchie neoliberali/popolo, efficace fino al 2014, è stato sostituito da un nuovo asse che oppone élites cosmopolite degenerate e popolazioni straniere a comunità nazionali in pericolo. Ciò ha provocato dislocazioni politiche nelle destre unificate, facendo rivivere nazionalismi storici, razzismi coloniali, autoritarismi e anticomunismi del secolo scorso, le cui conseguenze, la guerra in Ucraina tra le altre, sono oggi sotto gli occhi di tutti.
Cedillo contesta poi le ricorrenti previsioni sulla fine del neoliberismo o del capitalismo stesso, a seguito della crisi del 2007-2008, della pandemia e ora della guerra. Il successo fondamentale del neoliberismo risiede nella distruzione del movimento operaio industriale e nella sua egemonia politica sulle classi subalterne, nonché nella riduzione della domanda sociale all’individuo proprietario e desiderante e alla famiglia tradizionale. Senza nuovi movimenti operai, proletari e contadini, il neoliberismo non può morire e tantomeno il capitalismo. Il capitalismo, infatti, non è definito dalla distruzione di culture e barriere, ma è una macchina astratta che integra vari piani di dominazione attraverso operazioni di scrittura, calcolo, equivalenze monetarie e appropriazione di mutazioni tecniche. È un meccanismo per generare rendita e profitto dallo sfruttamento della cooperazione sociale e della simbiosi ecologica. Esso si serve proprio di crisi e guerre per risolvere i suoi blocchi e lanciare nuovi regimi di accumulazione. La sua assiomatica essenziale, basata sui diritti di proprietà e sulle funzioni multiformi del denaro, è conservatrice ma è in grado di modificarsi per affrontare la lotta di classe. Il capitalismo si definisce per la sua capacità di decodificare e poi ricodificare flussi di ogni tipo (materiali, energetici, semiotici, biologici) e di stabilire equivalenze tra sistemi di valore e regimi di potere, in un processo di integrazione e computazione che, seguendo Félix Guattari, viene definito l’integrale del capitale. Questo potere di calcolo, un tempo riservato alle élite, oggi è sempre più delegato ad algoritmi e sistemi di intelligenza artificiale che condizionano le decisioni politiche. Un assioma fondamentale, spesso dimenticato, è la presenza costante di una forma Stato che definisce la “società civile” attraverso inclusioni ed esclusioni. Il capitale è una civiltà che territorializza e colonizza corpi, spazi e tempi, mentre nel campo sociale si creano incessantemente linee di fuga, di desiderio e di rivoluzione che tentano di sfuggire a questo controllo. Il capitalismo le affronta riterritorializzando il desiderio in formazioni patriarcali, nazionali o, appunto, fasciste.
Cedillo sviluppa anche la nozione del filo macchinico, il legame indissolubile tra la storia del capitale e l’evoluzione delle macchine che sono caratterizzate dalla loro capacità di tagliare e trasformare flussi. Le macchine di guerra si distinguono per la loro funzione distruttiva. Esse presentano una genealogia nomade che storicamente le ha opposte agli Stati, i quali però se ne sono appropriati. La Prima Guerra Mondiale rappresentò un punto di svolta qualitativo nella meccanizzazione della battaglia, con l’introduzione di armi che crearono un’esperienza traumatica e alienante senza precedenti, come notò Walter Benjamin, il quale osservò che i reduci tornavano muti dal fronte, più poveri di esperienza comunicabile. Questa stessa esperienza fu reinterpretata da pensatori come Ernst Jünger che vi vide l’opportunità per una rinnovata spiritualità guerriera, traducendo la figura bolscevica del lavoratore in quella del lavoratore tedesco, nazional-rivoluzionario, in opposizione sia al lavoratore sovietico che a quello della democrazia liberale.
Per Cedillo il fascismo non è una semplice reazione di classe ma un buco nero che cattura le linee di fuga sociali e le trasforma in linee di abolizione e di morte. Il fascismo sfugge a definizioni utili per altre formazioni politiche perché opera come un fenomeno del desiderio, legato alla pulsione di annichilimento del nemico e al godimento sadico della violenza, offrendo una soluzione alla frustrazione e alla repressione della vita desiderante. Per accedere al potere il fascismo si presenta come un fornitore di soluzioni per le élite conservatrici che inizialmente non ne colgono la natura autodistruttiva, finalizzata a fondere lo Stato con la macchina da guerra fino alla devastazione completa, come dimostrato dalla “guerra totale” proclamata da Goebbels dopo Stalingrado, quando la sconfitta era ormai chiara e la logica divenne quella della terra bruciata.
Come abbiamo già detto, esistono sei matrici generative del fascismo storico che ne spiegano la formazione e le trasformazioni. La prima è l’Erlebnis, l’esperienza vissuta e traumatica della trincea che forgiò una nuova soggettività. Esso è un mutismo interiore, un trauma che, come descritto da Ernst Jünger in Nelle tempeste d’acciaio, diventa il punto di partenza per la trasformazione del soldato in un combattente meccanizzato, rigenerato spiritualmente dalla violenza e dalla vicinanza alla morte. La seconda matrice è la nazione intesa come comunità di destino, un concetto che Otto Bauer definì come “esperienza condivisa dello stesso destino”. Questa idea, centrale nel pensiero di Carl Schmitt, attinge al romanticismo tedesco e concepisce la nazione come un’entità esistenziale che nasce nel pericolo e nella decisione sovrana sulla distinzione amico/nemico. Il leader (Führer, Caudillo, Duce) non è eletto ma emerge come incarnazione della volontà popolare, la sua parola è legge. In Spagna José Antonio Primo de Rivera la declinò come “unidad de destino en lo universal”. La terza matrice è il manicheismo metafisico della “pugnalata alla schiena” (Dolchstoßlegende), la narrazione paranoica del tradimento interno da parte di un corpo estraneo alla nazione (ebrei, bolscevichi, massoni) che ha impedito la vittoria. Questo mito fu centrale in Germania ma ha i suoi equivalenti in Italia, con la classe politica traditrice che ha svenduto la vittoria della Grande guerra, e in Spagna, con la Repubblica vista come una cospirazione antinazionale. La quarta matrice è l’antagonismo assoluto con la lotta di classe internazionalista del marxismo. Contro l’idea marxiana che “gli operai non hanno patria”, il fascismo propone un socialismo nazionale o razziale che superi la lotta di classe in nome dell’unità organica della comunità popolare. La quinta matrice è la figura soggettiva dell’ex-combattente, un deterritorializzato che, reduce dal trauma bellico, trova nella milizia fascista uno scopo, una rigenerazione e una comunità di destino. Questi “uomini piccoli” frustrati, nell’analisi di Wilhelm Reich, trovano nel fascismo una via di sfogo per i loro istinti sadici repressi, sotto la copertura del patriottismo. La sesta e più cruciale matrice è il rapporto simbiotico con le macchine da guerra. Queste non sono solo tecnologia ma assemblaggi di umani e tecnologie che producono affetti specifici come l’ebbrezza della battaglia o la fascinazione per la morte. Questi affetti, che l’autore rintraccia tanto nel cupo fatalismo della canzone legionaria spagnola “Soy un novio de la muerte” quanto nell’analisi heideggeriana dell’Esser-per-la-morte (l’essere-per-la-morte come possibilità più propria del Dasein), rappresentano il nucleo della soggettivazione guerriera e della spinta all’autodistruzione. È la passione per l’annientamento di cui parlano Deleuze e Guattari.
Queste matrici generano diverse varianti risultanti. Il fascismo tedesco, con il suo nucleo nazional-rivoluzionario e il suo antisemitismo computazionale, si nutrì dell’humus della rivoluzione conservatrice. Quello spagnolo, imperniato sulla triade Cattolicesimo-Patria-Impero, fu meno biologista e più incline, come nelle teorie psichiatriche di Antonio Vallejo Nájer, alla “rieducazione” dei prigionieri marxisti, considerati più malati ideologici che inferiori biologici. Quello italiano fu performativo e totalitario, focalizzato sulla costruzione di un piccolo impero, sull’unificazione linguistica e sulle grandi opere, per poi incorporare l’antisemitismo con le leggi razziali del 1938. A queste si aggiungono varianti minori come il nazional-bolscevismo, un ibrido che cercò di conciliare comunismo e reazione nazionale, oppure il fascismo ucraino, incarnato da organizzazioni come l’OUN di Stepan Bandera, collaborazionista e coinvolta nel genocidio degli ebrei ucraini, i cui Dieci comandamenti del nazionalista ucraniano rivelano una matrice chiaramente fascista.
Cedillo analizza anche i neofascismi contemporanei e il tecnofascismo. Dopo il 1945 il fascismo fu integrato in funzione antisovietica nell’assiomatica capitalista occidentale. Oggi i nuovi fascismi non sono fascismi eterni ma organismi sincretici e modulari che operano in rete con una velocità di propagazione senza precedenti. Sfruttano il crowdsourcing e l’architettura delle piattaforme digitali per una fascistizzazione dell’infosfera, penetrando nella soggettività attraverso meme, videogiochi e algoritmi in un processo di servitù macchinica che trasforma il cervello in un capitale fisso umano. La loro legittimazione poggia sul consenso anticomunista costitutivo delle democrazie liberali che viene ora riattivato in una nuova domanda politica accettabile basata sul privilegio coloniale, il razzismo e il risentimento di piccoli proprietari, classi medie impoverite e settori del mondo del lavoro minacciati dalla globalizzazione. La parossistica ossessione anticomunista in assenza di un comunismo egemonico si spiega, in ultima analisi, come un delirio paranoico del polo reazionario dell’inconscio che “sente l’odore” del comunismo in ogni forma di desiderio e di vita che sfugge al controllo, in ogni divenire nomade, femminista, migrante o queer, percepito come una minaccia esistenziale da annientare. In questa prospettiva il fascismo si rivela come una componente strutturale e sempre presente della soggettività capitalista contemporanea, un virus pronto a cristallizzarsi in forme nuove e letali di fronte alle crisi del presente, dalla guerra in Ucraina al collasso climatico.
La pace costituente
La sequenza di eventi globali a partire dal 2008, dalla crisi finanziaria all’attuale conflitto nel cuore dell’Europa, ha reso obsoleto e persino pericoloso l’uso superficiale dell’aforisma di Marx sulla ripetizione della storia. Siamo di fronte a una combinazione letale di crisi sistemica del capitalismo globalizzato, governi neoliberisti, una deriva autoritaria, rivolte fallite e violente controrivolte, l’emergenza climatica e guerre che coinvolgono direttamente le due maggiori potenze nucleari. Questo cortocircuito storico ci costringe a pensare che il XXI secolo stia replicando il precedente ma in una forma nuova e distorta, come una ripetizione che non è una semplice copia, bensì l’annuncio di un ecosistema globale complesso e inedito, battezzato come Capitalocene.
Prima di qualsiasi proposta politica è però necessario comprendere a fondo il contesto economico, sociale e psichico dell’Unione Europea pre-bellica, un panorama plasmato dalla precarizzazione delle relazioni lavorative e dall’erosione di quei diritti che, nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, erano vincolati al lavoro salariato stabile. Per decifrare politicamente questo fenomeno, che nel Sud Europa è stato definito precarietà e ha addirittura generato il concetto di precariato come nuova configurazione di classe, è essenziale seguire l’analisi di Isabell Lorey, la quale scompone il precario in tre dimensioni distinte ma interconnesse: la precarietà come obiettivo deliberato e risultato delle politiche neoliberiste sul lavoro e sul mercato, la condizione precaria, intesa come dato ontologico universale di finitezza, contingenza e interdipendenza degli esseri umani e, infine, la precarizzazione come tecnica di governo attiva che utilizza questa vulnerabilità per controllare le forme di vita delle popolazioni.
Negli ultimi trent’anni la demolizione del sistema di sicurezza sociale per le maggioranze nei paesi UE ha rivelato l’estrema fragilità su cui poggiavano le società del benessere, costruite attorno alla figura egemonica del lavoratore maschio, bianco, eterosessuale e urbano. La sconfitta di questo baricentro sociale, operata dalla controrivoluzione neoliberista degli anni ’70 e ’80, ha trascinato con sé il movimento operaio organizzato e l’intero sistema di sicurezza ad esso associato. Il limite della critica e della sociologia radicale è stata proprio l’unidimensionalità con cui ha letto questa trasformazione, una visione restrittiva che attribuisce tutta l’iniziativa a un capitale sovrano e onnipotente che concede e ritira diritti a suo piacimento. Lorey, insieme a Judith Butler, smonta questa illusione: la fine di quella sicurezza patriarcale non fa che svelare che essa era un effetto ottico, simile a una lente gravitazionale in astrofisica, capace di deviare e distorcere la percezione. Quella sicurezza, garantita dal capofamiglia era in realtà una forma di “sicurezza senza libertà” che occultava lo sfondo di insicurezza esistenziale coestensivo alla vita umana stessa, alla finitezza dei corpi. Nessuna sovranità può eliminare questo fondamento di precarietà ontologica, che Lorey chiama Prekärsein. Da questa prospettiva il compromesso fordista non fu altro che un classico contratto sociale tra poteri diseguali, un accordo squilibrato tra capitale e movimento operaio ufficiale per garantire sicurezza solo alla figura centrale di quel modo di produzione mentre tutte le altre figure sociali (donne, bambini, migranti, anziani e altri soggetti subalterni) potevano accedervi solo in modo derivato, degradato e, appunto, subalterno.
In questo quadro di lungo periodo l’uscita relativa dalla mobilitazione totale pandemica ha spalancato le porte a una paralisi catastrofica della dinamica politica e sociale in UE e nel mondo mentre le disuguaglianze, a tutti i livelli, non facevano che aggravarsi. Sia nella gestione della pandemia che nella successiva “ripresa” la causa principale delle disuguaglianze crescenti risiede nella stessa matrice fondamentale: la risposta alla crisi sanitaria avrebbe dovuto comportare l’interruzione della mobilitazione totale capitalista, cioè l’obbligo di lavorare e vivere sotto il suo comando per sopravvivere, e l’istituzione di un reddito garantito universale. Entrambe le cose non sono avvenute. Oggi la cosiddetta “ripresa economica”, in realtà una nuova fase di accumulazione del capitale, avanza ignorando deliberatamente i devastanti effetti psico-fisici che la gestione capitalista della pandemia ha avuto sulla forza lavoro e trascura l’assoluta necessità di una decarbonizzazione massiccia dell’attività umana e della produzione. Retoriche verdi a parte, le statistiche mostrano un aumento assoluto e relativo del consumo di combustibili fossili, un trend che si intensifica man mano che “ripresa” e regime di accumulazione di guerra si fondono in un unico processo.
La questione energetica si rivela così il concentrato di tutta la politica e l’economia contemporanee. Intrinsecamente legata alla storia coloniale ed estrattiva del capitalismo e alle sue gerarchie sociali, l’energia è il campo in cui si condensa l’antagonismo irrimediabile tra il biopotere fossile capitalista e le forze costitutive di un modo di produzione del comune, ridotte a semplici presupposti sfigurati e sfruttati della riproduzione della vita.
Insicurezza esistenziale, precarietà indotta e minaccia nucleare, l’inasprirsi dello scontro tra i blocchi regionali del capitalismo globale ci pongono di fronte al ricatto della paura e a una narrazione manichea che impone di schierarsi o con l’Occidente “globalista” o con la cosiddetta resistenza antimperialista. Il fatto che le conseguenze della guerra giungano al centro dell’Europa, ricordandoci che questo è lo stato normale delle cose in decine di altri conflitti nel mondo, dovrebbe aiutarci a rifiutare questo ricatto e a vedere la situazione con lucidità.
Le illusioni sul “ritorno dello Stato” e sulla “fine del neoliberismo” acquisiscono nuovi e sinistri significati quando si innestano nelle narrazioni dominanti del nascente regime di accumulazione di guerra. Le classi subalterne si trovano ad affrontare tre principali manovre di cattura: il “patto di redditi” promosso dalla Commissione Europea, sostenuto da tetti ai prezzi dell’energia, la fissazione di un tetto agli extraprofitti delle corporazioni energetiche e una “transizione verde” in cui lo Stato assume un ruolo preponderante nella fissazione dei prezzi, nella pianificazione indicativa e negli investimenti pubblico-privati. Queste sono manovre di cattura proprio perché neutralizzano le lotte di classe e partono dall’obbedienza alla metamorfosi imperialista del sistema euroatlantico sotto il regime di guerra.
La natura ambivalente della Commissione Europea, organismo tecnocratico e al tempo stesso operatore fondamentale di una governance capitalista, è qui sotto pressione. Deve ora conciliare il “sogno europeo” con la mobilitazione totale per la guerra, tentando di evitare il collasso della coesione sociale minacciato dalla recessione, dall’inflazione non salariale, dai razionamenti energetici, dall’aumento dei tassi di interesse, dall’incremento delle spese militari e dal crollo dell’indipendenza diplomatica europea a favore della NATO. È plausibile che questa volta la governance europea non riesca a gestire adeguatamente gli interessi contrastanti dei 27 Stati membri, le cui capacità di sostenere lo sforzo bellico e i cui rischi di esplosione sociale sono profondamente divergenti.
Intanto la coalizione ordoliberale al potere nei bastioni finanziari dell’UE (rentier, speculatori, banche ombra e mercantilisti tedeschi, olandesi e italiani) sta reagendo all’aumento dei tassi della Fed con la stessa medicina: puntellando i titoli di stato tedeschi e olandesi, deprimendo i fattori inflazionistici e scatenando una recessione che stroncherà sul nascere ogni rivendicazione salariale. Questo crea una contraddizione stridente tra due possibili regimi di guerra, uno che cerca di conciliare l’impegno atlantico, il riarmo, la coesione sociale e una transizione verde a medio termine (pur ricorrendo temporaneamente ai fossili) e un altro, di stampo ordoliberale puro, che vuole conciliare l’atlantismo con un’offensiva frontale contro la coesione sociale, subordinando gli aspetti sociali e ambientali del NextGenerationEU al “risanamento fiscale”. Quest’ultimo modello, tuttavia, fatica a immaginare come mantenere una rete di protezione sociale minima quando i pilastri stessi del modello tedesco (l’euro forte, il lavoro a basso costo e l’energia russa a buon mercato) sono saltati con la guerra in Ucraina. La Germania, locomotiva europea, vive la sua peggior crisi dalla riunificazione, con divisioni trasversali che attraversano tutto l’arco politico e un malessere sociale che alimenta l’ascesa dell’estrema destra di AfD, soprattutto nei Länder orientali.
In questa nuova stretta neoliberista i tesori pubblici fungono da garante ultimo per i mercati in un’architettura finanziaria che, come dimostrò la crisi del 2007-2008, scarica il costo delle crisi sulle casse pubbliche. La pandemia ha rappresentato un’ulteriore brutale recessione in un quadro di espansione monetaria, costringendo al ritorno di un “attivismo fiscale” dei governi. Questo ritorno è politicamente insostenibile senza un quadro chiaro che subordini la finanza agli obiettivi pubblici poiché i parametri degli interventi delle banche centrali rimangono opachi e guidati dalla creazione privata di credito, alimentando le proteste di chi vede in questo un pericoloso ritorno al predominio della spesa pubblica.
Nonostante tutto ciò la retorica ufficiale della Commissione Europea, incarnata dalla presidente von der Leyen, continua a dipingere come sinergici lo sforzo bellico “civilizzatorio” e il Green Deal europeo, collegando piani come il REPowerEU alla ricostruzione di un’Ucraina “libera, prospera e verde”. In questo discorso la transizione verde, identificata con la democrazia, si scontra con la dipendenza dalla Cina per le materie prime critiche, come litio e terre rare, dipingendo un nuovo scenario di competizione geopolitica globale, in cui l’Africa torna a essere un terreno di contesa neocoloniale per l’accaparramento delle risorse.
Per Cedillo il Green New Deal (GND) si rivela, allora, un’illusione drammaticamente perniciosa. Un confronto storico con il New Deal rooseveltiano è fuorviante per tre ragioni fondamentali: in primo luogo manca la minaccia letale e l’alternativa sistemica rappresentata storicamente dall’URSS e da un movimento operaio forte e radicato, in secondo luogo i tassi di crescita, il quadro demografico e l’architettura finanziaria del fordismo sono incomparabili con la stagnazione e l’eccesso di offerta che caratterizzano le economie odierne e infine lo Stato keynesiano-fordista, dotato di relativa autonomia fiscale, non esiste più nell’Europa di Maastricht. Oggi lo Stato nel GND è essenzialmente un’agenzia di legittimazione per una nuova accumulazione originaria di capitale che distribuisce fondi a imprese e corporazioni attraverso partenariati pubblico-privato.
Il problema centrale è un trilemma irrisolvibile tra decarbonizzazione, crescita capitalista (accumulazione) e crescita e sicurezza delle rendite da lavoro. Un GND autentico, che volesse combinare un aumento sostanziale della domanda aggregata (tramite salari e redditi più alti) con forti incentivi al consumo verde, genererebbe inevitabilmente una compressione dei profitti e dell’accumulazione finanziaria. Aggiungendo a questo trilemma i costi estrattivi, geopolitici e sociali legati all’approvvigionamento di minerali e terre rare necessari per le tecnologie verdi, le contraddizioni esplodono. L’aporia fatale del GND è la sua cancellazione del conflitto di classe. È del tutto inverosimile che il capitalismo globale, nella sua attuale configurazione di potere finanziario concentrato, accetti volontariamente la più grande pressione fiscale della storia sui rendimenti del capitale e sui patrimoni, indebolendo il proprio potere di classe in nome di uno Stato sociale riequilibrato. Il GND è dunque impossibile perché, a differenza del suo predecessore storico, elude completamente la questione degli antagonismi e delle lotte necessarie per imporre una simile trasformazione, illudendosi che lo Stato, ormai totalmente integrato nella logica finanziaria, possa essere l’attore di una transizione pacifica e equa verso un capitalismo verde, un’ipotesi che il regime di guerra in atto ha ormai sepolto definitivamente.
La sequenza ininterrotta di eventi globali, dalla pandemia alla guerra in Ucraina, fino agli eventi climatici estremi dell’estate 2022, come la siccità in Europa, il caldo estremo in India, Pakistan e Cina e le inondazioni senza precedenti in Pakistan, ha agito da potente catalizzatore, riaccendendo e radicalizzando un dibattito di lunga data. Da un lato si colloca il cosiddetto collassismo che considera ormai inevitabile un collasso socio-ecologico, e dall’altro le posizioni che, in vario modo, confidano nel GND, capace di mitigare il riscaldamento globale e ritardare l’insorgenza dei principali tipping point mobilitando poteri pubblici e società civile per ridurre l’impatto di conseguenze ormai ineluttabili.
All’interno dello stesso campo collassista europeo, peraltro, si manifesta una tensione interna tra due anime distinte. La prima ritiene ancora possibile una risposta statale e politica agli effetti del cambiamento climatico, fondata su un principio di decrescita generalizzata, ipotesi sostenuta anche dall’aumento dei prezzi degli idrocarburi dovuto al picco del petrolio e dall’impossibilità materiale delle energie alternative di soddisfare la domanda. La seconda anima, più radicale, considera ormai tardiva qualsiasi azione di mitigazione e individua come priorità assoluta l’adattamento delle popolazioni umane alle conseguenze del riscaldamento globale. Questa seconda proposta implicherebbe una scommessa sull’organizzazione collettiva della vita e della produzione in società non capitalistiche e a basso consumo energetico, caratterizzate da realtà non metropolitane, scambi prevalentemente locali, reti di trasporto meno dense e decelerate e una profonda dedigitalizzazione della produzione e della vita sociale, con internet ridotto all’essenziale per la comunicazione scientifica, commerciale e personale.
Esiste tuttavia un’area di intersezione, una zona grigia, tra le opzioni statocentriche del GND e un certo collassismo che continua ad affermare che “rimane poco margine ma si è ancora in tempo per evitare il peggio”. In questa intersezione, però, non vi è spazio per l’indipendenza della lotta di classe rispetto alla direzione dello Stato, vi si può invece scorgere il potenziale per forme di autoritarismo più o meno “socialista” che cercherebbero una legittimazione basata su un “compromesso” tra sicurezza, decrescita e sopravvivenza. La guerra in Ucraina, in questo senso, ha rappresentato un brusco bagno di realtà non solo per chi punta su un GND tra classi e generazioni ma in particolare per le varianti ecosocialiste della transizione, le quali si basano su una direzione statale per la redistribuzione della ricchezza, la democratizzazione della produzione della vita umana e il suo sostentamento e la decrescita della produzione di merci. Nelle condizioni di un regime di guerra l’unico esito immaginabile è un tetro socialismo di guerra che non potrebbe che fondarsi sulla repressione della lotta di classe e sulla mobilizzazione totale e segregatrice della forza lavoro, rivelando l’incompatibilità di fondo tra questo socialismo, inteso come gestione statale della produzione di merci e dei mercati dei capitali, e l’emancipazione delle classi subalterne.
Anche la proposta socialista forse più divulgata, quella della MMT che lega la recuperata sovranità monetaria a programmi di lavoro garantito e transizione ecosociale, presenta secondo Cedillo due problemi macroscopici: l’illusione che la sovranità monetaria di uno o pochi paesi possa cambiare le regole dei mercati dei capitali attraverso l’emissione monetaria e il protezionismo e la pretesa che generalizzare la relazione salariale a tutta la popolazione attiva sia compatibile con l’attuale composizione di classe multinazionale, razzializzata e di genere delle forze lavoro, nonché con la loro libertà e la rottura con lo sviluppo capitalista.
Il cuore del problema risiede nel fatto che, per la prima volta, la metrica del valore di scambio capitalista e la metrica dei valori d’uso ecosistemici sono del tutto incommensurabili. Capitale e lavoro vivo si sono definitivamente svincolati da ogni compatibilità o dialettica progressiva. Il capitale, come integrale delle formazioni di potere, si trova in questa fase critica del Capitalocene ad affrontare una sfida inaudita: esso deve operare in contesto di crescente aumento delle spese militari, deve gestire la sua incapacità di soddisfare le aspettative di vita, salute e sicurezza della maggioranza dell’umanità, deve confrontarsi con la realtà dell’esaurimento della disponibilità a basso costo di energia, materie prime e cibo, quindi con i costi di riproduzione delle forze lavoro, e deve cercare la sua riproduzione allargata in un’ecologia in cui la finitezza e la scarsità sono al centro della scena.
La politica in tutto il mondo è ormai dominata da transizioni di fase, situazioni critiche e salti qualitativi, non più da incrementi lineari. Dentro un contesto ecologico di ipercomplessità, un intreccio di termodinamica della biosfera, antagonismi sociali e sofferenza psichica, la politica realistica non si misura con la retorica delle correlazioni di forza ma con la forza soggettiva delle ipotesi sulla probabilità che un evento si verifichi. Poiché siamo “osservatori partecipanti” di questo contesto, le nostre credenze e la nostra agency entrano in gioco in modo immanente, modificando le probabilità in campo, in un processo simile a una probabilità bayesiana soggettiva applicata all’azione politica.
Si tende spesso a oggettivare e naturalizzare queste ecologie complesse, separandole e considerando l’azione umana come un’influenza esterna. Al contrario, esiste un rizoma di linee trasversali che unisce le ecologie sociale, ambientale e psichica. Alla luce di questa complessità non lineare, non ha più senso una scelta netta tra riformismo verde e rivoluzione collassista. Ciò che invece mantiene un senso cruciale è privilegiare le lotte di classe attorno alla riproduzione e alla libertà delle forze del lavoro vivo e della società subalterna, senza farsi distogliere dall’urgenza climatica. È essenziale, ad esempio, imparare dalla lezione dei Gilet Gialli, le cui esplosioni sociali sono probabili e che una sinistra verde istituzionale sarebbe incapace di raccogliere, rischiando anzi di apparire come un movimento reazionario.
Oggi il comunismo è definito come il progetto di costituzione del comune, inteso come modo di produzione e riproduzione della vita delle singolarità transindividuali che nascono dalla cooperazione. Non è una dottrina fissa (una Setzung) ma un continuo ripensamento e una traduzione ( Umsetzung e Übersetzung) che lo distingue dalla politica di partito e da ogni estremismo volontaristico. Il comunismo è una “maledizione” costante della storia contemporanea, il significante dominante che il potere borghese, democratico o fascista ha sempre combattuto. Esso è anche una nozione comune, costruita dall’esperienza e dall’immaginazione di milioni di esseri umani che si rende visibile a ogni attualizzazione. Dopo la rivolta mondiale del 1968 il comunismo diventa una questione non solo di interesse di classe ma anche di desiderio e come tale è irrappresentabile da qualsiasi partito. Lo spettro del comunismo si incarna laddove le lotte di classe superano una soglia di potenza cooperativa, odio per lo sfruttamento e desiderio di liberazione. Il problema principale non è la mancanza di un soggetto rivoluzionario ma la mancanza di corpi per questo comunismo, corpi che possono essere prodotti solo nella pratica delle lotte, dei divenire e delle istituzioni del contropotere.
Cedillo ribadisce con forza che né il collassismo né il GND hanno la capacità di afferrare i vettori determinanti della dinamica politica perché si basano sull’illusione di poter ricostruire il patto sociale fordista o di far tornare uno Stato forte che pianifichi la decrescita. Ciò conferma che, anche in questa fase del Capitalocene, la lotta di classe rimane il motore della storia. Questo principio è anche un criterio epistemologico che estende l’assioma di Fourier-Engels, secondo cui il grado di libertà delle donne è l’indicatore del progresso sociale, a tutte le classi subalterne del globo: i progressi sociali e i cambiamenti emancipatori si operano in ragione dell’avanzamento dei subalterni verso la liberazione. Con subalterni si intendono in senso preciso le lavoratrici povere, razzializzate, il precariato, le minoranze di genere, i popoli indigeni, i contadini senza terra e le nazioni oppresse. La lotta di classe non è solo un fattore economico astratto ma una produzione di soggettività, capacità, istituzioni, narrazioni e universi incorporali di valore-affetto. Considerando l’intollerabilità del presente e la composizione tecnologica delle forze lavoro, la cui cooperazione è ormai immediatamente biopolitica, è necessario partire da questa composizione per immaginare una politica altra.
Il capitalismo finirà solo quando le classi sfruttate, attraverso le loro lotte e macchine da guerra, riusciranno a ridurlo a una soglia critica di inconsistenza, in cui i suoi linguaggi di equivalenza generale e i suoi poteri non riescono più a integrare e capitalizzare la potenza della cooperazione. Non sarà un momento messianico ma una serie di transizioni di fase. Per Cedillo il capitalismo è in un certo senso “eterno” per la sua massima astrazione e riemergerà ovunque la cooperazione senza comando sia incapace di inventare soluzioni istituzionali ai problemi di sicurezza e libertà. Le catastrofi climatiche, da sole, non lo elimineranno. Anzi, come mostrano gli “olocausti dell’era vittoriana” studiati da Mike Davis, le catastrofi sono spesso un’opportunità per il capitale di imporre patti di sopravvivenza autoritari. Allo stesso modo le fantasie tecnofasciste di Elon Musk o del transumanesimo di Silicon Valley vanno prese sul serio come motori di rinnovamento dello spirito capitalista che punta a colonizzare persino lo spazio per garantirsi un futuro.
Cedillo sposta l’analisi sulla globalizzazione, sostenendo, con Klein e Pettis, che le guerre commerciali sono in realtà guerre di classe. Gli squilibri commerciali globali non sono conflitti tra nazioni ma tra banchieri e detentori di attivi finanziari da un lato e le famiglie comuni dall’altro. Il sistema, centrato sul dollaro e su Wall Street, funziona come una valvola di sicurezza per le élite di paesi con surplus come Cina e Germania, permettendo loro di comprimere i salari e lo stato sociale interno, sapendo di poter sempre esportare la propria produzione eccedente e investire i profitti in asset sicuri negli Stati Uniti. Questo spiega i processi di indebitamento e le crisi finanziarie. Il caso cinese è esemplare. Il suo modello di crescita, basato su investimenti improduttivi in edilizia e credito, è minacciato sia dalla corruzione e dalle rivalità interne al Partito Comunista Cinese, sia dal contropotere delle classi lavoratrici che si esprime in scioperi, nel rifiuto del lavoro (il fenomeno tang ping) e in proteste ambientali e contro le banche.
Applicando questo quadro al problema del GND si arriva a un punto di blocco insormontabile: senza una democrazia espansiva, politica, sociale, economica e transnazionale, non può esserci una vera transizione. E senza le lotte delle classi subalterne non può esserci democrazia reale ma se queste lotte si sviluppano, tendono inevitabilmente a sovvertire gli equilibri di potere e la struttura di dominio dei regimi capitalisti. In un contesto di regime di guerra l’equazione del GND diventa irrisolvibile. Non esiste una lotta di classe “dall’alto” che metta in discussione lo Stato e le sue gerarchie. La lotta di classe “dal basso”, con la sua esplosione di desideri, autorganizzazione e creazione di contropoteri, conduce al blocco della dialettica riformista e sconvolge completamente le compatibilità dello sviluppo capitalistico.
Il regime di guerra, inoltre, non può costituire il quadro propizio per la transizione ecosociale. Cedillo smonta questa illusione con forza, argomentando che la guerra, al contrario, funziona come un potente acceleratore di processi di soggettivazione, organizzazione e azione di tipo fascista. In tale contesto, viene affermato con decisione, la democrazia diventa impossibile e, di conseguenza, viene meno anche ogni possibilità di una autentica trasformazione ecologica del capitalismo. La guerra non è la soluzione ma l’ostacolo fondamentale.
L’analisi prosegue esaminando le misure concrete adottate nell’ambito di questo regime di guerra, come la fissazione di prezzi massimi per l’energia, il risparmio energetico forzato e le tasse sugli extraprofitti delle compagnie energetiche. Cedillo mette in guardia da ogni ingenuità: la reazione prevedibile delle corporazioni fossili, strettamente alleate con le destre suprematiste globali e con regimi autoritari come quelli dell’OPEC, non sarà quella di arretrare ma di intensificare i loro progetti di conquista del potere statale e di egemonia sul sistema finanziario globale. Emerge così una contraddizione insanabile all’interno del blocco capitalista globale. Si incrementano la pressione fiscale, il debito per infrastrutture energetiche, le spese militari e gli aiuti sociali di emergenza mentre si impone una stretta creditizia e un ritorno all’austerità. Questa contraddizione riflette divisioni tra diverse componenti delle élite, i cui interessi divergono nella costruzione di blocchi organici con le classi medie domestiche e globali, e i cui capitali sono peraltro iper-concentrati.
Cedillo condanna come una terribile e pericolosa illusione il tentativo di conciliare il sostegno al regime di guerra euroatlantico con la lotta antifascista e la battaglia contro il cambiamento climatico. Le retoriche che paragonano Putin a Hitler e dipingono lo scontro come una guerra della civiltà occidentale servono a mascherare una verità più cruda: le élite capitaliste globali sono disposte a correre il rischio calcolato di eventi climatici estremi e di uno sterminio da guerra tra blocchi pur di non intaccare le radici della disuguaglianza brutale nella distribuzione della ricchezza e nella proprietà dei mezzi di produzione. La contraddizione fondamentale del sistema-mondo, che Cedillo individua come il vero motore del conflitto, è invece la contraddizione di classe che attraversa il Sud e il Nord Globale, operando sia all’interno del Nord che nel Sud che vive dentro il Nord oltre al Nord che vive nel Sud.
La guerra e il regime di guerra sono la negazione diretta della lotta di classe delle classi subalterne. Il fascismo fossile costruisce una base di massa ampia tra i lavoratori dell’industria fossile, i trasporti, il turismo estrattivo e la piccola agricoltura, veicolando narrative identitarie, patriarcali e razziste che dipingono la transizione verde come un progetto di classi medie urbane multiculturali e anti-famiglia tradizionale. Contemporaneamente il neoliberalismo cosiddetto centrista e progressista reprime con durezza e criminalizzazione quelle stesse mobilitazioni, come dimostrato emblematicamente dalla violenza estrema del governo Macron contro i Gilet Gialli in Francia. Entrambi questi progetti, sebbene in competizione, convergono nella segregazione sociale delle forze lavoro migranti e postcoloniali. Le politiche sociali del neoliberalismo progressista sono del tutto insufficienti in un contesto di recessione indotta, ma, in assenza di una politica indipendente delle classi subalterne creano il terreno fertile per l’espansione del consenso elettorale e sociale alle destre suprematiste.
Le illusioni sul GND e sulla decrescita crollano definitivamente se si adotta il punto di vista dei paesi più poveri del mondo. Solo un GND globale che esiga un nuovo regime macrofinanziario con l’intervento sui mercati globali, un nuovo Bretton Woods che penalizzi la rendita parassitaria e la fine del ruolo del Tesoro USA e di Wall Street come rifugio del risparmio globale potrebbe porre il problema dell’adattamento climatico in termini di giustizia globale. Un accordo del genere è però del tutto inimmaginabile in un regime di guerra che, al contrario, riproduce nel continente africano, come in passato, i conflitti coloniali per l’egemonia su risorse sempre più scarse. Il rifiuto opposto dai governi e dall’opinione pubblica del Sud Globale alla politica bellica della NATO e dell’UE nella guerra ucraina è rivelatore della spaccatura tra Nord e Sud globale e della percezione di queste operazioni come una nuova forma di colonialismo.
Di fronte a questo blocco storico Cedillo individua un’unica via d’uscita: andare oltre il modo di produzione capitalista, verso un modo di produzione del comune. Questo non equivale semplicemente alla gestione democratica dei beni comuni naturali ma rappresenta una riconfigurazione totale delle relazioni ecosistemiche di produzione e sostentamento della vita. Si fonda su una cooperazione senza comando tra le forze singolari del lavoro vivo, manuale, affettivo e cognitivo, e ha come finalità la produzione della vita stessa e la sua sostenibilità ecosistemica. In questo modo mercati e valori vengono sottoposti a un processo di eterogeneizzazione e moltiplicazione, spezzando l’egemonia del valore di scambio come equivalente del lavoro astratto sfruttato.
La costituzione di questo modo di produzione è inseparabile da una riappropriazione dei mezzi di produzione, calcolo, programmazione e pianificazione, nonché della ricchezza materiale e immateriale espropriata dalle oligarchie capitaliste transnazionali. Esso si fonda sull’intelligenza sociale generale, il general intellect, che Marx già individuava come forza produttiva immediata e supera definitivamente l’idea che il tempo di lavoro individuale sia la misura della ricchezza. Il comune, che già esiste nei cicli ecologici e nelle reti di cooperazione sociale, è oggi sfruttato, inquinato e minacciato di annichilimento. Produrlo e autogovernarlo richiede la costituzione non volontaristica di sistemi-rete di contropoteri, istituzioni del comune che includano dispositivi di contropotere di comando. Questo progetto si distingue nettamente dalle strategie ecosocialiste che mirano a prendere il potere dello Stato, rivelatesi fallimentari.
Il saggio introduce poi il concetto cruciale di transecologie, criticando un approccio puramente psichiatrico al malessere generato dalla guerra, dalla recessione e dagli eventi climatici. Gli ecosistemi sociale, mentale e ambientale non sono separati ma formano un unico rizoma di processi trasversali. La guerra è un processo transecologico che introduce attrattori di implosione, violenza e fascistizzazione. Contro di essa l’ecologismo non può limitarsi a una sensibilizzazione catastrofista ma deve farsi esso stesso pratica transecologica. Un esempio luminoso è la campagna #Insorgiamo degli operai dell’ex GKN di Campi Bisenzio che hanno realizzato un’assemblea permanente in fabbrica e, insieme ad attivisti climatici, hanno problematizzato la transizione ecologica da un punto di vista di classe, immaginando un polo pubblico della mobilità sostenibile e praticando un’ecologia del comune che costruisce un politico che prima non esisteva.
In questo “Capitalocene anno zero” la sinistra europea è profondamente scissa, divisa tra un campismo sterile e l’illusione di poter conciliare un “appoggio critico” alla NATO con un’agenda verde e sociale. Di fronte al discorso sempre più esplicito di von der Leyen che parla di una “guerra per la nostra energia, la nostra economia, i nostri valori e il nostro futuro”, ogni ambiguità è destinata a tradursi in una bancarotta etica e politica. La risposta realista non può che essere la costruzione di un sistema-rete di contropoteri che agisca nei sindacati sociali, nei centri sociali, nelle lotte per la casa, nei movimenti femministi e antirazzisti il cui obiettivo strategico è il sabotaggio sociale della guerra e l’imposizione di una pace costituente. Questa pace non è una semplice tregua ma un grande atto multitudinario di disobbedienza legato a un progetto di società senza guerra e senza sfruttamento.
Pietra angolare di questa convergenza è la rivendicazione di un reddito di base universale e incondizionato insieme alla riconquista di servizi pubblici universali e gratuiti. La strategia è quella dell’esodo inteso come sottrazione attiva e costruzione di istituzioni alternative del comune, capaci di riappropriarsi anche della produzione e distribuzione di energia rinnovabile in modo autonomo e democratico. In un’epoca di eventi climatici estremi, l’esodo ha anche una dimensione spaziale e di trasformazione radicale del rapporto tra città e campagna. La sfida, in definitiva, è credere nel mondo e suscitare, attraverso l’azione collettiva, la possibilità di un divenire comune, alimentando un ottimismo della ragione comune che, nella grande incertezza del Capitalocene, rappresenta l’arma principale contro il nichilismo e la disperazione indotti dal regime di guerra.
