Istruzione e neoliberismo in La nuova scuola capitalista

Le trasformazioni che investono i sistemi educativi da circa quarant’anni a questa parte sono incomprensibili se isolate dalle evoluzioni economiche, sociali e politiche. Per coglierne la portata, è necessario iscriverle nel movimento d’insieme di una società sempre più plasmata dalle costrizioni della globalizzazione, dalla finanziarizzazione del capitalismo e dall’egemonia delle politiche neoliberali. Solo questo quadro generale permette di decifrare il cambiamento di forma della scuola, le nuove norme che la reggono e, in una parola, il suo nuovo ciclo storico. Questo passaggio obbedisce a un modello inedito che combina due aspetti complementari e sinergici: l’incorporazione economica che trasforma le istituzioni formative in vaste reti di imprese dedite alla produzione di capitale umano e la competizione sociale generalizzata, elevata a principio di regolazione interna del sistema stesso. Questa doppia subordinazione, al mercato del lavoro e alla logica del finanziamento privato, unita a una competizione intensificata tra classi e gruppi sociali, trasforma lo spazio scolastico nel terreno di dispiegamento molteplice della norma sociale propria del capitalismo contemporaneo, giustificando così la definizione di nuova scuola capitalista data da Christian Laval, Francis Vergne, Pierre Clément, Guy Dreux in La nuova scuola capitalista.

Questa mutazione si accompagna a un tangibile e voluto deterioramento materiale dell’istituzione. Il degrado attuale della scuola e dell’università, il saccheggio delle istituzioni di ricerca, sono il frutto di politiche deliberate. La distruzione di decine di migliaia di posti di lavoro, l’assenza di formazione per i nuovi insegnanti, la strategia della precarizzazione, la pauperizzazione accettata di ricercatori e docenti, sono tutti elementi di una realtà che mira a retribuire il meno possibile e a far lavorare il più possibile coloro che operano nell’economia della conoscenza. 

Le cosiddette riforme che hanno guidato questa trasformazione possiedono un carattere sistematico e un ritmo sorprendentemente rapido. Esse sono portatrici di nuove norme istituzionali che importano nel cuore dei sistemi educativi le costrizioni del capitalismo neoliberale. Queste riforme presentano un doppio volto: condividono con l’insieme dei servizi pubblici una metamorfosi di tipo manageriale, centrata sulla ricerca della “performance” e dell’aumento di “produttività” sotto la pressione della contrazione della spesa pubblica e della concorrenza globalizzata. In modo specifico, riconfigurano le istituzioni della conoscenza per adeguarle alle esigenze dell’economia della conoscenza. In questo paradigma la conoscenza viene concepita in modo puramente economico, come informazione redditizia, capitale accumulabile, soggetta a un ciclo perpetuo di innovazione e obsolescenza. La sua valore d’uso non è amato per sé ma solo in quanto supporto e veicolo del valore di scambio e del profitto, come già notava Marx a proposito della merce.

Questa riconcettualizzazione si traduce nell’imposizione alla conoscenza di una forma valore. Ciò non significa che ogni conoscenza diventi istantaneamente merce ma che le categorie con cui la si pensa, i dispositivi istituzionali e le norme pratiche che ne regolano la produzione e la diffusione sono ormai interamente subordinati all’obiettivo della valorizzazione economica. Questa norma si impone attraverso un vasto apparato di procedure di valutazione e tecniche di management, veri e propri succedanei del mercato all’interno dei servizi pubblici, che trattano la conoscenza come se fosse una merce. Tali procedure applicano sistematicamente un calcolo di costo-beneficio, sanzionano le attività non redditizie, promuovono quelle redditizie e allocano le risorse in funzione di risultati misurabili. Questo lavoro istituzionale di astrazione e normalizzazione che stacca le conoscenze particolari per attribuire loro un valore economico astratto modifica le condizioni effettive del lavoro educativo e scientifico e, per un effetto performativo, riorganizza l’intero campo della conoscenza sul modello del mercato. Affinché la conoscenza assuma la forma merce, le istituzioni che la producono devono a loro volta assumere la forma impresa. Tutte le riforme scolastiche e universitarie procedono, in misura più o meno esplicita, da questa “rivoluzione manageriale” dello Stato che rappresenta una delle evoluzioni maggiori degli ultimi decenni nei paesi capitalisti. La nuova forma della conoscenza si declina operativamente in due categorie guida: la competenza nell’insegnamento e l’innovazione nella ricerca. La competenza è diventata la categoria strategica che orienta la ristrutturazione dei contenuti, l’organizzazione dei percorsi, i sistemi di valutazione e il controllo del lavoro docente, con l’obiettivo esplicito di produrre abilità immediatamente spendibili nella vita professionale e sociale. L’innovazione è il criterio in base al quale la ricerca viene valutata, cioè solo nella misura in cui contribuisce all’efficacia competitiva delle imprese sui mercati nazionali e globali. Competenza e innovazione sono così i due volti complementari di una medesima riduzione, per astrazione, dell’attività formativa e intellettuale al suo solo valore economico di scambio: sul mercato del lavoro per la formazione, sul mercato dei brevetti per la ricerca.

La nuova scuola capitalista è anche il risultato combinato di strategie, lotte e logiche sociali che mobilitano gruppi sociali e corpi professionali. I sistemi educativi sono da sempre terreno di scontro per la riproduzione delle posizioni sociali privilegiate e le attuali riforme rinnovano profondamente i rapporti di potere all’interno del campo educativo, coinvolgendo in qualità di “attori” tanto i responsabili politici e l’alta amministrazione, quanto i gruppi professionali, i genitori e gli studenti. Le tendenze in corso non sono irreversibili ma per contrastarle efficacemente è necessario rifiutare sia l’illusione conservatrice del “nulla di nuovo” sia la rassegnazione fatalistica. Occorre invece comprendere le nuove regole del gioco come l’esito di politiche precise per potervi opporre, a propria volta, una risposta politica altrettanto consapevole e radicale, inventando pratiche che aprano orizzonti alternativi al dominio della norma capitalistica sulla conoscenza.

1. Conoscenza e neoliberismo 

Nel neoliberismo lo Stato non si ritira di fronte alle forze del mercato ma va incontro ad una sua radicale ricomposizione attiva e intenzionale. Lo Stato neoliberale diventa l’agente primario per imporre la logica di mercato all’interno della sfera pubblica stessa, compresi i domini fondamentali della formazione e della ricerca scientifica. Questa trasformazione è guidata dall’imperativo della competitività globale, elevato a principio normativo supremo che riconfigura ogni aspetto dell’azione pubblica. Popolazioni, territori e istituzioni cessano di essere considerati nella loro dimensione sociale o politica per essere ridefiniti come “risorse” da ottimizzare nella guerra economica mondiale. Le tradizionali politiche sociali perdono la loro funzione redistributiva e di regolazione della domanda per convertirsi in strumenti di riduzione dei costi del lavoro e di aumento dell’occupabilità, sempre in nome dell’adattamento alla concorrenza globale. Il meccanismo operativo di questa rivoluzione è identificato nel New Public Management (NPM), presentato come una vera e propria tecnologia di potere. Il NPM si fonda su un’antropologia cinica che presume l’egoismo come unico motore dell’azione umana. Di conseguenza smantella sistematicamente i fondamenti etici e professionali del servizio pubblico sostituendoli con un sistema di comando basato sulla paura delle sanzioni e la sete di ricompense individuali. I suoi dispositivi cardine (obiettivi quantificati, valutazione individualizzata e permanente, autonomia contabile, retribuzione al merito, benchmarking) mirano esplicitamente a distruggere l’autonomia relativa e le culture professionali consolidate dei corpi pubblici giudicati come corporazioni poco produttive e refrattarie al cambiamento. La messa in concorrenza, sia tra istituzioni che tra utenti trasformati in clienti-consumatori, diventa la modalità principale per disciplinare gli agenti, spezzare le solidarietà collettive e imporre un controllo gerarchico più stringente e costante, mascherato da neutralità degli indicatori di performance. Questa ristrutturazione interna dello Stato si accompagna a un fondamentale processo di denazionalizzazione delle politiche pubbliche. Gli Stati nazionali sono i costruttori attivi della globalizzazione, integrando nelle loro legislazioni e nei loro obiettivi le “condizionalità” dettate dalle organizzazioni finanziarie internazionali, dalla Commissione Europea o dagli interessi degli oligopoli transnazionali. Il campo dell’istruzione superiore e della ricerca fornisce un esempio paradigmatico di questo processo. La costruzione dello Spazio Europeo dell’Istruzione (Processo di Bologna), l’omologazione dei curricoli, la diffusione globale di un lessico comune (eccellenza, performance, accountability) e la centralità di organismi come l’Ocse nella definizione delle agende riformatrici testimoniano la creazione di un nuovo spazio sovranazionale di elaborazione politica, dove le istituzioni nazionali agiscono sempre più in funzione di una logica globale che esse stesse contribuiscono a rafforzare.

L’applicazione concreta di questo modello in Francia nell’istruzione e nella ricerca viene analizzata in dettaglio come un’esemplificazione della strategia generale. Nella scuola le politiche di riduzione della spesa (soppressione di posti, smantellamento dei RASED, fine della formazione iniziale) fungono da meccanismo disciplinante per imporre una riorganizzazione manageriale del lavoro. Rapporti come quello Pochard delineano chiaramente il progetto: autonomia gestionale degli istituti (primarie EPEP, licei), valutazione delle scuole e degli insegnanti basata sui risultati quantificabili degli alunni, carriere individualizzate e retribuite al merito attraverso un sistema di “contratti-obiettivo”. La libertà pedagogica viene svuotata e sostituita da una “responsabilizzazione” vincolata a criteri di efficienza contabile. Nell’università la legge LRU del 2007 rappresenta un’accelerazione decisiva verso il modello “imprenditoriale”, concedendo una vasta autonomia finanziaria e gestionale, indebolendo la governance collegiale e inserendo gli atenei in una competizione feroce per i fondi (ANR, Grand Emprunt) e per i posti nelle classifiche internazionali. La ricerca pubblica viene riorientata secondo la logica del brevetto e del “ritorno sull’investimento”, con leggi che incentivano i partenariati pubblico-privato e la figura del “ricercatore-imprenditore” mentre agenzie come l’AERES concentrano il potere di valutazione e di allocazione delle risorse secondo criteri di “eccellenza” amministrativamente costruiti che favoriscono la concentrazione dei mezzi e la precarizzazione del lavoro scientifico.

La critica neoliberale alla burocrazia e al “welfarism” sviluppata dalla Scuola del Public Choice, importata in Francia da sociologi come Michel Crozier, ha preparato il terreno culturale, dipingendo i funzionari pubblici come una casta egoista e i professionisti come corporazioni conservatrici. Questa narrazione è diventata il senso comune delle élite politiche sia di destra che di sinistra, soprattutto dopo la crisi del modello fordista. La sinistra di governo, in particolare, ha svolto un ruolo ambiguo e cruciale nell’implementare queste riforme (LOLF, RGPP), spesso giustificandole come necessario “ammodernamento” per salvaguardare il pubblico dalla mercificazione, in un paradosso per cui il management privato viene presentato come il baluardo del settore pubblico. 

Con il neoliberismo si tende a subordinare le attività scientifiche ed educative alla logica della valorizzazione e dell’accumulazione del capitale, in un processo che definisce un vero e proprio regime neoliberale della conoscenza. I fattori determinanti di questa subordinazione sono l’universalizzazione della norma della concorrenza e il ruolo centrale dell’innovazione nella guerra economica globale. La competizione tra Stati, economie e imprese spinge verso una messa sul mercato della conoscenza, percepita come un vantaggio comparativo strategico. Questa incorporazione sempre più spinta delle istituzioni della conoscenza nel processo di valorizzazione del capitale assoggetta l’intero campo intellettuale ed educativo alla logica del valore. Assistiamo dagli anni ‘70 a una commercializzazione estesa dei “prodotti cognitivi”, anche nel settore pubblico, resa possibile dalla loro codifica ed etichettatura attraverso strumenti che fanno progressivamente prevalere il loro valore economico monetizzabile su tutte le altre dimensioni. La costruzione giuridica e politica di questa predominanza del valore di scambio tende a trasformare le conoscenze prodotte o insegnate in merci nel senso stretto del termine. Un aspetto meno evidente ma altrettanto cruciale è l’estensione della logica di mercato al di fuori del mercato stesso, mediante l’imposizione di tecniche concorrenziali e dispositivi di pressione manageriale all’interno del settore pubblico. Ciò dà vita a “quasi-mercati”, mercati senza vere merci, caratterizzati da un finanziamento ancora largamente pubblico per progetti valutati in base alla loro utilità economica o politica, da una regolazione competitiva e dalla copia del modello organizzativo dell’impresa privata. Nel dominio della conoscenza il movimento è quindi duplice: da una parte la messa al servizio del capitale dell’apparato scientifico statale, dall’altra la trasformazione secondo norme manageriali del funzionamento interno della ricerca. Il grande “mercato delle idee” caro al neoliberismo è l’effetto globale di una serie di misure, internazionali e nazionali, che strutturano la produzione e la circolazione della conoscenza come risorsa strategica e informazione negoziabile, trasformando università e istituzioni di ricerca in imprese. Queste tendenze, sebbene non ancora completamente compiute e disomogenee nel loro dispiegamento storico, delineano un movimento di fondo che trasforma le condizioni di produzione e insegnamento del sapere. L’estensione del capitalismo al campo della conoscenza, grazie all’universalizzazione della norma concorrenziale, non ha effetti solo nelle imprese capitaliste o nelle scuole private ma rimodella profondamente tutte le strutture pubbliche di ricerca e insegnamento legate alla produzione del sapere e alla formazione del capitale umano, iniziando a intaccare il cuore stesso del lavoro scientifico. Le condizioni che determinano la produzione di conoscenze differiscono radicalmente tra un regime di accumulazione fordista, sostenuto dallo Stato, e l’attuale regime a dominante finanziaria. Il principio supremo del ritorno sull’investimento modifica i criteri di validazione dei lavori, le qualità attese dai ricercatori, le loro modalità di reclutamento e promozione, i loro statuti e la gerarchia delle remunerazioni e dei profitti simbolici. Questi imperativi si traducono in forme istituzionali e dispositivi di controllo che caratterizzano un regime storico e sociale specifico: il regime neoliberale della conoscenza. Esso costituisce un sistema originale di norme che altera profondamente le condizioni della ricerca e dell’insegnamento e cambia persino il significato della conoscenza. Questa tende infatti a essere considerata principalmente come un fattore di “creazione di valore”, in diretto contatto con investitori alla ricerca di “prodotti” ad alta redditività. La conoscenza ha sempre meno a che vedere con una finalità di verità su oggetti e domini specifici, è sempre meno articolata a una teoria scientifica che non sia un pragmatismo utilitarista. Soprattutto la pratica effettiva della ricerca indotta dai dispositivi neoliberali rompe con l’ethos della scienza mertoniano, fondato su universalismo, gestione della conoscenza come bene comune, disinteresse, integrità morale e scetticismo organizzato.

Secondo gli economisti della conoscenza si sta passando progressivamente a un modello unico “trainato” dal mercato (market-driven model). L’antico modello idealtipico, quello della scienza aperta analizzato da Merton, si basava su un lavoro scientifico autonomo i cui risultati, ampiamente diffusi, andavano ad accrescere un patrimonio comune. I ricercatori erano incentivati da riconoscimenti simbolici e avanzamenti di carriera, spesso indipendenti dai ricavi diretti delle applicazioni, e la diffusione della conoscenza trovava il suo luogo privilegiato nell’università. Questo modello viene soppiantato da un modello di scienza chiusa che mutua le sue forme dalla ricerca privata. Esso si fonda sulla detenzione di un diritto privativo su una conoscenza, protetta da brevetto, di cui l’investitore vuole trarre il massimo profitto grazie al monopolio tecnologico. La diffusione dei risultati avviene attraverso il mercato della conoscenza e gli incentivi alla scoperta sono essenzialmente finanziari, sul modello del “ricercatore-imprenditore”. La pressione all’innovazione e l’intensificazione della concorrenza globale hanno rafforzato lo sviluppo di questo diritto privativo sulle conoscenze, rimodellando la conoscenza stessa e trasformando profondamente il rapporto tra investitore e scienziato, rendendo il ricercatore sempre più dipendente dai possessori di capitale. La finanza plasma così il nuovo mondo della conoscenza, inaugurando un nuovo regime.

Se è vero che il sapere non è mai stato completamente autonomo dalla società e dall’economia, alcune condizioni storiche hanno creato una certa distanza istituzionale, sociale e morale tra la logica di produzione delle conoscenze e gli altri poteri sociali, religiosi, politici o economici. Questa distanza, favorita dall’emergere degli Stati sovrani e dal declino dell’egemonia religiosa, ha permesso il dispiegamento della scienza moderna come sapere speculativo. La professionalizzazione dell’attività scientifica a partire dal XIX secolo ha ulteriormente precisato i confini della scienza come attività specifica. Tra il 1850 e il 1950 si sono gettate le basi del modello di ricerca pubblica, consolidatosi nel periodo fordista successivo alla Seconda Guerra Mondiale. In questo modello l’autonomia relativa della scienza era garantita da uno Stato che, per ragioni sia ideologiche che strategiche, le permetteva di obbedire a una temporalità propria e di mantenere una distanza dagli interessi economici immediati. La stabilità professionale, statuti definiti e regole di carriera assicuravano l’indipendenza economica necessaria per la ricerca di lungo periodo. Lo Stato, in un’ottica keynesiana, si faceva carico del tempo lungo della ricerca fondamentale, fungendo da agente principale di una produzione scientifica realizzata in grandi organismi secondo un modello insieme burocratico e collegiale. Era il garante di un’alleanza strategica tra la sua potenza e l’autonomia scientifica, sostenendo una professione regolata, dotata di un ethos specifico e di una rappresentazione progressista del proprio ruolo per il miglioramento della condizione umana, come teorizzato da Jean Perrin in Francia o Vannevar Bush negli USA. In questa congiuntura la ricerca poté svilupparsi in una relativa indipendenza dalla pressione economica del mercato e dalla coercizione politica diretta, permettendo una vita intellettuale relativamente protetta e una ricerca largamente autodeterminata, nonostante i limiti propri di ogni corporazione professionale. Il modello fordista istituzionalizzava una separazione e una successione lineare tra scienza (che scopre) e tecnica (che applica). È proprio questa separazione che viene messa in discussione con l’avvento del capitalismo globale e finanziario dagli anni ‘80. La ricerca pubblica è stata obbligata ad allinearsi alle norme della concorrenza che implicano insicurezza professionale, mobilità massima e stretta dipendenza dagli investitori e a rispondere alla domanda del mercato che ora “trascina” la ricerca verso le innovazioni più redditizie.

La ridefinizione della conoscenza come bene privatizzabile e capitale poggia su un mutamento teorico significativo. Una concezione utilitarista classica, riattivata ma trasformata, non guarda più alla conoscenza in termini di utilità sociale generale ma come informazione mercificabile e capitale remunerativo. Il cambiamento teorico cruciale si deve in larga parte a Friedrich Hayek, il quale nel 1945 affermò che il problema economico fondamentale è un problema di conoscenza. Per Hayek la conoscenza economicamente pertinente non è quella scientifica generale ma quella pratica, locale e dispersa posseduta dagli individui, la cui condivisione libera ne distruggerebbe il valore di vantaggio competitivo. Questo postula la natura essenzialmente privata ed economica della conoscenza. Il discorso dominante, associando queste tesi a quelle schumpeteriane sull’innovazione, considera oggi la conoscenza come uno stock di informazioni generatore di surplus e, quindi, come una forma di capitale immateriale. In un’economia dove la competizione oligopolistica si gioca sull’innovazione e il valore di borsa delle imprese dipende sempre più dai loro “attivi immateriali” (competenze, brevetti, marchi), la conoscenza diventa la materia prima più preziosa. Questa corsa ai profitti derivanti da rendite tecnologiche è al centro della concorrenza globale e detta la sua logica alla trasformazione dell’università e della ricerca pubblica. Il nuovo capitalismo neoliberale è caratterizzato da una frenesia di appropriazione privata, specialmente nei campi della biologia, dell’informatica e dei media, attuata attraverso tre processi congiunti: l’estensione dei domini di appropriazione (ad esempio geni, software), il rafforzamento dei diritti di proprietà (estensione della durata, restrizione dell’uso) e l’inasprimento delle sanzioni. La finanziarizzazione delle conoscenze richiede una precisa codifica dei domini brevettabili e l’imposizione di nuove enclosures che limitano l’accesso alle risorse di sapere. Con gli accordi ADPIC del 1994, sotto l’egida dell’OMC, le industrie della proprietà intellettuale hanno creato un vero mercato mondiale dei diritti di proprietà sulla conoscenza.

Un aspetto notevole di questa tendenza è l’estensione dell’appropriazione privata agli elementi “generici” delle conoscenze, non solo alle loro applicazioni, sottraendo così beni comuni della conoscenza alla comunità scientifica. La direttiva europea del 1998 sulla brevettabilità del vivente, che permette di brevettare sequenze geniche isolate, ne è un esempio eclatante. Conoscere diventa sinonimo di possedere. Ciò ha effetti ambivalenti perché stimola gli investimenti in R&S proteggendone i risultati ma frena la diffusione della conoscenza e quindi l’innovazione stessa, accaparrata dai grandi oligopoli. Il brevetto premia ormai l’investitore e la sua estensione obbedisce a una logica finanziaria, non scientifica, in netta contraddizione con l’ethos comunista della scienza descritto da Merton. Questa appropriazione apre la via a una mercificazione generalizzata del patrimonio intellettuale e scientifico, confondendo deliberatamente scoperta e invenzione e considerando l’intera natura come una riserva biologica sfruttabile.

La nuova fase del capitalismo, a partire dalla fine degli anni ‘70, è caratterizzata dalla congiunzione tra il ruolo crescente della finanza e quello della conoscenza. Questa unione non è casuale: entrambe sono aspetti di un unico processo di immaterializzazione della produzione in cui il capitale immateriale (competenze, R&S, brevetti, marchi) prende un peso crescente rispetto al capitale fisico. La finanza si è sviluppata anche a causa di questo nuovo regime concorrenziale e della crescita del peso dell’immateriale nel valore delle imprese. La conoscenza viene concepita e gestita come un capitale perché, in questa logica, è ciò che produce denaro. Solo la finanza, attraverso il mercato, può dare un valore a questo immateriale, selezionando e validando economicamente le innovazioni pertinenti. Ne consegue che la finanza è al cuore dell’economia della conoscenza. Questa logica si impone attraverso dispositivi istituzionali che rendono la ricerca sempre più dipendente dai bisogni delle imprese: finanziamenti a progetto, valutazione frequente, precarizzazione, variabilità delle équipe, contributi finanziari diretti delle imprese. L’obiettivo è orientare la ricerca verso finalità mercantili e trasformare la natura stessa del lavoro scientifico.

Questa trasformazione culmina nella definizione di una tecnoscienza neoliberale. La ricerca, pilotata da contratti a breve termine e programmata per obiettivi, si trasforma in un’attività che deve rispondere alle ingiunzioni di corto periodo del mercato e a direttive politiche che ne dettano cammino e finalità. La novità del regime neoliberale sta nei dispositivi che permettono alla logica della redditività di dirigere l’attività scientifica in due modi: i capitali investiti devono essere direttamente remunerati dalla commercializzazione e i prodotti della conoscenza saranno fonte di profitto solo se aumenteranno i tassi di redditività aziendali. La finanza plasma così direttamente il mondo concettuale, orientando la ricerca verso applicazioni remunerative. L’investimento in ricerca diventa analogo a un prodotto finanziario derivato, il costo per mantenere aperta un’opzione. Ciò ha conseguenze dirette sul contenuto delle ricerche. Il privilegio accordato alle applicazioni descrive solo in parte l’effetto. Lo stile imprenditoriale penetra nel mondo della conoscenza, come nella ricerca biomedica. La ricerca si allinea alle norme dell’universo finanziario e concorrenziale, subordinandosi al modello della tecnoscienza neoliberale dove l’aumento di produttività e redditività tende a dettare in anticipo i percorsi e i risultati. 

2. La scuola neoliberale 

La trasformazione neoliberale della scuola è un processo inscindibile dalla mutazione del rapporto capitale-lavoro, il cui obiettivo ultimo è la produzione di nuove soggettività funzionali all’accumulazione capitalistica nell’epoca dell’economia della conoscenza. Il capitalismo cognitivo genera una combinazione di controllo taylorista e sfruttamento delle risorse interiori, configurando paradossi come l’autonomia controllata. Il lavoratore neoliberale è chiamato a mobilitare iniziativa, adattabilità e flessibilità in situazioni complesse ma sempre entro i confini degli imperativi di performance e valorizzazione definiti dall’impresa. Questa logica riguarda persino i lavori meno qualificati nel terziario per i quali è richiesto un minimo di competenze di base e relazionali, codificate nel concetto di occupabilità. La vera posta in gioco è la cattura, da parte del capitale, delle produzioni sociali e culturali tradizionalmente garantite dal welfare state per plasmare gli stili di vita e trasformare lo Stato sociale in uno Stato manageriale. La scuola è quindi ristrutturata attorno al paradigma della formazione permanente e della professionalizzazione che sfumano i confini tra educazione e lavoro. Il concetto polisemico di competenza diventa il cardine di questa riforma, funzionando da ponte tra i due mondi: si chiede a studenti e lavoratori di sviluppare e dimostrare un portafoglio di abilità trasferibili (problem-solving, spirito d’iniziativa, flessibilità), soggette a una valutazione permanente. Questo modello risponde a una circolarità perfetta con il nuovo mondo produttivo, dove il controllo diretto e taylorista è stato sostituito da un più sottile controllo per obiettivi/risultati. Ai salariati viene concessa un’autonomia apparente sui mezzi di produzione ma sono sottoposti a una tirannia impersonale e a distanza degli obiettivi, delle valutazioni continue e della pressione della concorrenza e della clientela. Devono così mobilitare risorse cognitive e affettive per raggiungere mete spesso contraddittorie in un regime di cooperazione forzata che genera sofferenza e patologie, spesso psicologizzate per mascherare le responsabilità oggettive dell’organizzazione. Il culmine di questo governo delle soggettività è l’estensione della valutazione del lavoratore dal “sapere” ai “saper fare” e “saper essere”, spingendolo a diventare imprenditore di se stesso, responsabile in solitudine della propria occupabilità e della gestione dei rischi professionali. Il nuovo soggetto capitalista è l’uomo-impresa la cui etica dell’autosuperamento permanente invade tutti i tempi e le sfere della vita.

La formazione tradizionale, la quale forniva una qualifica e un diploma riconoscibili corrispondenti a un mestiere, viene smantellata. La nuova professionalizzazione non mira a formare per un mestiere ma a sviluppare comportamenti normalizzati e competenze trasversali per un’organizzazione flessibile. Si tratta di una vera fabbricazione di soggettività docili e adattabili. Le istituzioni educative, sempre più gestite come aziende e guidate da “manager della formazione”, diventano esse stesse produttrici di capitale umano. Questo processo è guidato e accelerato dalle politiche europee (come il sistema dei crediti ECVET) e si materializza in corsi come le licenze professionali, il cui curriculum è spesso un assemblaggio eterogeneo di micro-competenze legate a profili di posti specifici, frammentando il sapere disciplinare in nome dell’utilità immediata. Il modello pedagogico egemone diventa l’alternanza, basato sul postulato che l’impresa sia di per sé il luogo formativo per eccellenza. Il suo sviluppo, specialmente nell’apprendistato, è più limitato di quanto il consenso politico suggerisca, a causa della resistenza delle imprese e riproduce spesso le disuguaglianze sociali. Il prolungamento più estremo e parossistico di questa logica è lo stage, ormai sistema per disciplinare la nuova manodopera. Gli stagisti sono spesso impiegati in mansioni equivalenti a quelle di un dipendente ma gratuitamente o a bassissimo costo. Così si crea un esercito di riserva che deprime il mercato del lavoro e impone un’inarrestabile corsa all’accumulo di esperienza. Lo stage diventa un rito di iniziazione alla precarietà, un’esperienza di dipendenza radicale che normalizza il lavoro gratuito e interiorizza l’idea che il salario sia quasi un atto di generosità offerto dal padrone.

La destrutturazione finale passa per lo svuotamento del valore del diploma che forniva un margine di autonomia negoziale al lavoratore. La sua sostituzione con un “portafoglio di competenze” sempre revisionabile aumenta la dipendenza dal capitale. La trasformazione della scuola è così l’esatto corrispettivo educativo del più ampio “processo di destabilizzazione della condizione salariale” descritto da Robert Castel. 

La persistenza di un’analisi critica dell’istruzione ancorata ai modelli degli anni ‘60 e ‘70 risulta oggi inadeguata di fronte alla trasformazione radicale del sistema scolastico operata dalle politiche neoliberali. Queste hanno progressivamente eroso l’etica del servizio pubblico weberiana, svuotando il repubblicanesimo della sua forza egemonica e trasformandolo in una giustificazione stanca per un ordine sempre più plasmato dalla concorrenza. L’inerzia teorica deriva dall’accecamento verso le nuove modalità di riproduzione sociale nell’epoca della massificazione scolastica, le quali non sostituiscono ma metabolizzano e rafforzano i vecchi meccanismi basati sulle disuguaglianze di capitale culturale trasmesso in famiglia, inserendoli in una cornice di mercato.

Nell’antico regime burocratico l’istituzione emetteva un verdetto precoce e categorico sul valore scolastico degli alunni, separandoli in filiere socialmente opposte. Con l’unificazione formale del sistema e la massificazione il meccanismo si sposta all’interno dell’insegnamento comune, nella scuola primaria e media, basandosi su una triplice logica: la differenziazione sociale degli istituti, la distinzione più fine dei percorsi e il ricorso crescente all’istruzione privata e al mercato parallelo del sostegno personalizzato. La struttura sociale degli istituti è così sempre più determinata dalle strategie di distinzione delle famiglie in grado di scegliere. La concorrenza diventa sia il modo di regolazione del sistema che un fattore di riproduzione sociale. Questa logica competitiva, presentata come soluzione universale per ridurre i costi e aumentare la produttività, è il frutto di una costruzione politica che istituzionalizza la concorrenza, creando “quasi-mercati” scolastici. I suoi sostenitori, ispirati da teorici come Milton Friedman, ne attendevano gli stessi effetti virtuosi previsti in economia: una maggiore efficienza tramite la pressione della “clientela”, l’innovazione degli istituti costretti a competere e una maggiore responsabilizzazione delle famiglie, eventualmente supportate da voucher per garantire l’accesso. Il bilancio empirico, suffragato da ricerche internazionali e nazionali e persino da rapporti dell’ispettorato francese, smentisce queste aspettative. L’unico “guadagno di efficienza” accertato è quello della riproduzione sociale, ottenuto attraverso una segregazione scolastica accentuata per origine sociale ed etnica.

La massificazione ha infatti reso la posta in gioco scolastica enorme per fasce sempre più ampie di popolazione, intensificando la lotta interna per i titoli migliori in un contesto di crisi occupazionale. Le nuove classi medie, la cui ascesa è legata al diploma, hanno aumentato gli investimenti educativi e razionalizzato le strategie per evitare il declassamento dei figli. La paura ha contagiato anche settori delle classi popolari desiderosi di evitare una retrocessione. Ne risulta una trasformazione profonda. La scuola “unica” opera una selezione al suo interno tra filiere nobili e plebee, tra istituti borghesi e popolari. Il sintomo maggiore è il massiccio e crescente fenomeno dell’aggiramento della carte scolaire attraverso deroghe nel pubblico e ricorso al privato. I dati, ad esempio su Lille, mostrano come queste strategie, pur riguardando tutti i gruppi, siano appannaggio soprattutto delle classi superiori. Il privato funziona meno come scelta ideologica e più come soluzione provvisoria o come via di fuga da scuole percepite come pericolose e mal frequentate.

La progressiva demolizione della carte scolaire ha solo favorito una tendenza preesistente. La giustificazione ufficiale della libertà di scelta, dell’uguaglianza delle chances e della diversità maschera una realtà di polarizzazione. Le ricerche comparative dell’Ocse confermano che l’ampliamento della scelta accentua sistematicamente le differenze tra istituti, creando scuole d’élite da un lato e scuole-ghetto dall’altro, con una polarizzazione sociale ed etnica. Il “mercato nero” della scuola, fatto di strategie familiari complesse (ad esempio le false residenze) e di tatticie difensive degli istituti (la creazione di “buone classi”), si sviluppa in assenza di una politica volta a favorire un riequilibrio, configurando un liberalismo per omissione. Il mercato scolastico è peculiare perché impone la competizione a tutti, trasformando la “libera” scelta in un obbligo di giocare con regole sfavorevoli per chi ha meno risorse. Essa favorisce chi dispone delle migliori leve economiche, sociali, culturali e relazionali, aggiungendo un nuovo potente meccanismo di differenziazione ai classici determinanti della riproduzione. Le famiglie non sono tutte uguali di fronte alla scelta: la sociologia distingue tra “choosers” privilegiati e abili, semi-abili e disconnessi, quest’ultimi reclutati quasi esclusivamente nella classe operaia. Le strategie sono plurime, ponderate da fattori come la distanza geografica o la ricerca non solo di evitare i “cattivi” elementi ma di accedere a un ambiente stimolante. Contrariamente alle attese neoliberali, la logica concorrenziale non produce una diversificazione dell’offerta che soddisfi ogni nicchia di consumatori, né una differenziazione pedagogica democratica. Conduce piuttosto a una selezione sempre più dura nelle “buone scuole” e a una gerarchizzazione accentuata degli istituti. La segregazione scolastica riflette e produce segregazione residenziale, influenzando il mercato immobiliare poiché l’offerta scolastica è più ricca nelle zone borghesi e la scelta della scuola diventa un motivo di acquisto abitativo. I presupposti dei sostenitori della libera scelta, che la ritengono basata su criteri scolastici razionali supportati da indicatori di “valore aggiunto”, sono sociologicamente ingenui. Le ricerche, come quelle di Ballion o Ben Ayed, mostrano che le famiglie scelgono prevalentemente in base alla “buona frequentazione” sociale dell’istituto, alla ricerca di un ambiente protetto e omogeneo, dove i figli possano stare con pari socialmente simili o superiori. Per le classi superiori persiste una logica di performance ma per molte altre, comprese le fasce popolari, prevale una logica di protezione dalla violenza simbolica e sociale. È quindi un mercato strano in cui sono i “consumatori” stessi, con il loro capitale sociale, a determinare il valore dell’istituto, in una logica di club selettivo. Questo doppio fenomeno di auto-selezione e allontanamento dalle categorie indesiderate produce omogeneizzazione sociale degli ambienti scolastici. La massificazione diviene così segregativa. Le condotte di evitamento separano progressivamente i giovani delle classi più povere, spesso d’origine immigrata, da quelli dei gruppi più favoriti. Si innesca un ingranaggio infernale per cui l’evitamento accentua la polarizzazione e ne è al tempo stesso l’effetto, portando alla formazione di ghetti scolastici, come già previsto da Ballion negli anni ‘90. La concorrenza permette la messa in opera del posizionamento bourdesiano, una lotta strategica di tutte le famiglie, comprese quelle già nei quartieri chic, per appropriarsi dei beni scolastici rari. Si può parlare di un mercato segmentato, con un mercato centrale della “buona scuola” (logica dell’eccellenza) e un mercato periferico (logica della protezione) che funziona come un potente leva di riproduzione, rafforzando la trasmissione del capitale culturale per gli uni e nuocendo agli apprendimenti degli altri. Le conseguenze di questa polarizzazione sono chiare: la segregazione ha un effetto di composizione negativo. Raggruppare gli studenti più deboli insieme li indebolisce ulteriormente mentre raggruppare i forti li rafforza. Ciò avviene perché nelle scuole peggiori gli insegnanti, per sopravvivenza, adattano al ribasso contenuti, ritmi e aspettative mentre sono più generosi nelle valutazioni. La segregazione è quindi un vantaggio aggiuntivo per i già avvantaggiati e un handicap in più per gli svantaggiati. Le comparazioni internazionali (PISA) mostrano che nei sistemi con maggiore libertà di scelta l’influenza del milieu d’origine sui risultati è maggiore mentre la scuola comune la attenua. Studi in Francia confermano che i dipartimenti con più mixitè sociale hanno una riuscita media migliore di quelli polarizzati e che nella concorrenza perdono tutti, in media, poiché anche i figli di operai e di dirigenti ottengono risultati migliori nei contesti meno segregati. Non esiste una “mano invisibile” che trasformi gli interessi individuali in bene collettivo. Il mercato garantisce invece una riproduzione sociale protetta per le classi agiate.

Occorre distinguere tra mercatizzazione, ovvero l’introduzione di meccanismi di mercato e concorrenza all’interno del sistema educativo, e la vera e propria commoditizzazione che trasforma il sapere in una merce standardizzata. Sebbene non coincidenti i due fenomeni sono profondamente collegati. Lo spirito concorrenziale che governa oggi le istituzioni scolastiche e universitarie crea un terreno estremamente fertile per la mercificazione. Quando i processi sociali ed economici conferiscono alla conoscenza una forma di valore è inevitabile che discorsi, dispositivi e pratiche spingano verso la trasformazione dell’educazione in un vasto campo di potenziale mercificazione e le istituzioni in veri e propri siti di accumulazione del capitale. Quest’ultime si metamorfosano in imprese il cui scopo fondamentale è generare profitto per i proprietari del capitale. Una volta che l’educazione viene giuridicamente configurata come un servizio prodotto da un’impresa identificabile e acquistabile da un beneficiario individuale, essa diventa a tutti gli effetti una “merce” come un’altra. Il processo di mercificazione poggia su presupposti precisi: non può esserci accumulazione di capitale senza merci da vendere e non si vendono merci senza clienti solventi e disposti all’acquisto. Il fatto che l’educazione sia diventata una merce in senso stretto dipende, in primo luogo, dal suo essere una componente cruciale del valore della forza lavoro. Acquistare un prodotto educativo significa cercare di accrescere, o essere costretti dalla concorrenza sul mercato del lavoro ad accrescere, il proprio valore come “merce” lavorativa. Si investe in istruzione per “vendere sé stessi” meglio. Il sistema educativo riesce tanto più facilmente in questa operazione quanto più gli individui stessi sono indotti a vivere la propria esistenza in termini mercantili. Ciò che è nuovo e spiega le attuali trasformazioni è il generale innalzamento del livello culturale richiesto alla popolazione attiva in un contesto di disoccupazione strutturale e precarietà. L’educazione diventa una merce proprio perché si afferma come condizione indispensabile per l’accesso all’impiego e alle posizioni meglio retribuite. La crescente competizione per il lavoro è il motore principale di questa trasformazione. Ogni sacrificio finanziario viene accettato pur di ottenere l’essenziale, un lavoro e un reddito. La diffusione del calcolo economico costi-benefici nelle scelte educative è l’effetto diretto delle mutate regole del mercato del lavoro e della condizione salariale.

Poiché la conoscenza è incarnata nelle persone, le logiche concorrenziali hanno rafforzato anche la mercificazione degli stessi luoghi di insegnamento che rilasciano titoli ricercati, i quali possono essere scambiati con tasse di iscrizione sempre più elevate. In misura crescente, specialmente a livello universitario, i sistemi d’istruzione diventano imprese private specializzate nella produzione di capitale umano che verrà a sua volta rivenduto alle imprese produttrici di beni e servizi. Queste “imprese universitarie”, particolarmente visibili nei campi operativi come il marketing, la finanza o l’informatica, sono pienamente integrate nella produzione di una forza lavoro adatta alle esigenze del capitalismo contemporaneo. La vendita del servizio d’insegnamento si intreccia così alla cessione a pagamento di un’etichetta simbolica, un “marchio” che garantisce prestigio e valore di mercato al titolo, legittimando rette esorbitanti. La privatizzazione della spesa educativa, le dinamiche competitive nel mondo del lavoro e la concorrenza tra atenei aprono la strada alla trasformazione degli istituti superiori in imprese che applicano la logica gestionale capitalista. Interi segmenti dell’istruzione sono pronti a diventare terreno di accumulazione capitalistica. Un vero e proprio capitalismo universitario si è sviluppato, rendendo la conoscenza un bene mercantile protetto da diritti di proprietà intellettuale rafforzati e governato dalla logica dei marchi. Come dimostrano ricercatori come Sheila Slaughter e Gary Rhoades, anche le università pubbliche o non-profit hanno progressivamente adottato comportamenti orientati al mercato, ricercando contratti redditizi, studenti solventi e aree di insegnamento a maggior rendimento, integrandosi così in reti finanziarie globali che alimentano l’economia della conoscenza.

La privatizzazione progressiva della spesa educativa, sebbene abbia radici teoriche antiche (si pensa ai limiti posti da Adam Smith a una piena mercificazione per evitare un sotto-investimento sociale dannoso), non trova oggi ostacoli assoluti nella dottrina economica dominante. Quest’ultima sostiene che lo Stato debba finanziare solo ciò che i privati non sono in grado o non vogliono pagare per mancanza di mezzi o razionalità, preservando però il più possibile le virtù del mercato all’interno delle istituzioni pubbliche. In una situazione di acuta concorrenza per l’impiego, le famiglie sono sempre più disposte a sostenere direttamente i costi dell’istruzione, specialmente quando l’influenza del diploma sulle traiettorie professionali rimane decisiva. Il principio regolatore diventa quello dell’utilizzatore-pagatore, applicando la logica del capitale umano: a beneficio privato corrisponde spesa privata. La questione pratica si sposta quindi sulla solvibilità delle famiglie, risolta attraverso la finanziarizzazione degli studi, ovvero il ricorso al debito bancario. Questo meccanismo trascina strati sociali sempre più ampi, al di là delle élite tradizionali, a partecipare volontariamente alla privatizzazione della spesa, costruendo un autentico mercato scolastico reso solvibile dall’indebitamento. La strategia neoliberale consiste proprio nel strutturare politicamente situazioni competitive che costringono gli individui a comportarsi come consumatori-calcolatori rivali.

L’iperselezione in filiere come medicina, ingegneria o negli IEP alimenta inoltre un fiorente mercato parallelo di preparazione privata: stage intensivi, coaching personalizzato, corsi online. La competizione su scala globale spinge ulteriormente in questa direzione, con le università che cercano di attrarre studenti stranieri (spesso soggetti a rette più alte) e di migliorare il proprio posizionamento nelle classifiche internazionali, innescando un circolo vizioso per cui più risorse si hanno, meglio si è classificati, più si possono alzare le tasse. 

Queste trasformazioni materiali sono accompagnate e legittimate da un mutamento del discorso dominante sull’educazione, interamente imperniato sulla teoria del capitale umano, resa popolare da Gary Becker. Secondo questa visione ogni spesa in istruzione è un investimento individuale finalizzato ad accrescere il proprio stock di conoscenze e competenze, fonte di futuri redditi più alti e vantaggi personali. La scuola e l’università diventano così delle imprese specializzate nella produzione di tale capitale. Questo slittamento da una prospettiva macro (l’educazione come fattore di crescita collettiva) a una micro (l’educazione come investimento privato) ha avuto implicazioni decisive perché ha legittimato il disimpegno finanziario dello Stato dall’istruzione superiore argomentando che, essendo i benefici principalmente individuali, i costi devono essere sostenuti dai diretti interessati. Calcoli economici, come quelli promossi dalla Banca Mondiale, hanno cercato di dimostrare che il rendimento privato dell’istruzione superiore supera quello sociale, nonostante l’ammissione della difficoltà, se non dell’impossibilità, di misurare le esternalità positive della cultura e della ricerca per l’intera società. Ciò che conta, nel nuovo discorso economico, è solo ciò che è misurabile in termini monetari. Su questa base teorica si è creato un consenso trasversale (da economisti neoliberali a certi intellettuali di sinistra) a favore dell’aumento delle tasse universitarie. L’argomentazione “redistributiva” sostiene che, poiché i laureati beneficiano di salari più alti, la gratuità costituirebbe un trasferimento ingiusto dai contribuenti meno istruiti verso i più istruiti. Questa visione ultra-utilitaristica che riduce il valore dell’educazione al solo guadagno monetario futuro rappresenta una rottura storica con l’ideale di un sapere come bene comune e come realizzazione personale, un ideale che in passato motivava molti a intraprendere carriere nella ricerca o nell’insegnamento pubblico nonostante retribuzioni inferiori. La predominanza del discorso del capitale umano riflette quindi una più ampia “finanziarizzazione della vita stessa”, in cui ogni scelta viene valutata in termini di costi e benefici finanziari.

Nel quadro della nuova scuola capitalista l’orientamento ha assunto una centralità strategica, subordinando la trasmissione delle conoscenze e diventando l’asse portante di una riforma neoliberale che mira ad allineare interamente il sistema educativo alle esigenze flessibili del mercato del lavoro. Questo ribaltamento delle priorità rimodella il processo educativo sul modello del processo produttivo, trasformando l’azione pedagogica, il lavoro degli insegnanti e l’organizzazione istituzionale stessa. Il concetto stesso di orientamento, quale si era costruito nel secondo dopoguerra attorno a un’idea educativa e riflessiva basata sulla conoscenza di sé, dei mestieri e delle formazioni, viene totalmente stravolto. Al suo posto si impone l’imperativo dell’orientamento attivo che obbliga lo studente a vivere l’intera scolarità come una continua accumulazione di competenze e una costruzione precoce di un progetto personale e professionale. Questo meccanismo non vuole solo razionalizzare le scelte o ridurre l’insuccesso scolastico, il suo scopo più profondo è indurre una mutazione soggettiva in insegnanti e alunni, fabbricando una soggettività mercantile. L’individuo è chiamato a interiorizzare, fin dai banchi di scuola, la necessità di considerarsi e di “vendere sé stesso” come una merce sul mercato del lavoro. Questa vendita di sé, sintetizzata nel concetto di occupabilità, richiede un lavoro istituzionale permanente di formazione e manutenzione delle proprie competenze, sotto la diretta responsabilità dell’individuo messo contemporaneamente sottopressione dal mercato.

La ridefinizione dell’orientamento è totale e segue le direttive europee che lo configurano come un servizio per aiutare i cittadini a gestire le proprie carriere in ogni fase della vita. La logica neoliberale dell’attivazione e della responsabilizzazione dei comportamenti trova qui il suo perfetto equivalente scolastico. L’orientamento lungo l’intero arco della propria vita è basato sull’empowerment dell’individuo. Questo cambio di prospettiva è strettamente intrecciato all’adozione della logica delle competenze chiave definite dall’UE e dall’Ocse che diventano il quadro di riferimento per ogni attività di orientamento. L’obiettivo non è più aprire un ventaglio di possibilità o favorire l’invenzione di sé ma predeterminare il fine: l’inserimento ottimale nell’economia concorrenziale. Ne consegue una penetrazione sempre più massiccia del mondo dell’impresa nella scuola, legittimata dalla necessità di esternalizzare servizi ritenuti troppo vasti per la sola istituzione scolastica. Il vocabolario del consulting aziendale e i modelli manageriali vengono importati, spingendo verso l’idea dello studente come “imprenditore di sé stesso”, mentre l’autocontrollo e l’autovalutazione allineano il governo di sé agli obiettivi di occupazione.

La svolta, preparata da tempo nelle raccomandazioni europee (a partire dal Memorandum del 2001 e dalla risoluzione del Consiglio del 2008 che enuclea competenze come “imparare a imparare” e “imprenditoriale”), è stata applicata in Francia con un certo ritardo ma in modo metodologico a partire soprattutto dal 2009. La riforma del liceo ispirata dal rapporto Descoings e le misure del Plan jeunes di Sarkozy hanno confermato l’orientamento come “colonna vertebrale” del sistema, introducendo strumenti fondamentali come il “livret de compétences”. Questo libretto, sperimentato in collaborazione con l’Alto Commissariato per la Gioventù, mira a valorizzare, oltre alle esperienze scolastiche, ogni esperienza extrascolastica (associativa, sportiva, culturale) e i contatti con il mondo professionale (stage, incontri), diventando una sorta di fascicolo che testimonia la conversione soggettiva dello studente alla logica della mercificazione di sé. La legge sull’orientamento e la formazione professionale, estesa alla formazione iniziale, crea un quadro giuridico unico che confonde volutamente i confini tra scuola e mondo del lavoro. Questa riorganizzazione promuove un individualismo radicale che ignora volutamente le determinazioni sociali dei percorsi scolastici messe in luce dalla sociologia, per attribuire esclusivamente al singolo, al suo merito e alla sua capacità di strategia, la responsabilità del proprio destino. Nella scuola che orienta tutti diventano orientatori ma il peso maggiore ricade sugli insegnanti, trasformati in tutor e coach senza una formazione specifica, il cui nuovo compito è determinare il “percorso scolastico ottimale” per ogni alunno in base agli sbocchi professionali, avvicinando i contenuti didattici al mondo dell’impresa e facendo intervenire in classe rappresentanti delle Camere di Commercio. La missione tradizionale di trasmissione dei saperi viene così relativizzata e subordinata a un obiettivo utilitaristico, in piena coerenza con l’agenda di Lisbona per un’economia della conoscenza competitiva. Anche l’organizzazione dell’insegnamento ne risente, con la modularizzazione dei percorsi che frammenta i saperi in unità capitalizzabili, trattandoli come oggetti da accumulare e contabilizzare in una logica di puro credito formativo.

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