Paul Burkett in Marx and Nature: A Red and Green Perspective sostiene che l’approccio marxiano può essere utile nell’ecologia sociale per quattro motivi fondamentali che permettono di interpretare le relazioni tra società e natura attraverso una lente materialista e storicamente situata. Il primo è la specificazione materiale e sociale, la quale esige un’analisi che eviti tanto il determinismo naturalistico che vede le dinamiche sociali come predeterminate da leggi naturali immutabili, quanto il costruzionismo sociale radicale che trascura i vincoli materiali imposti dagli ecosistemi. Marx supera questa dicotomia analizzando la produzione e l’appropriazione del plusprodotto, ovvero l’eccedenza oltre quanto necessario alla riproduzione sociale, come un processo in cui le relazioni di classe, le condizioni materiali e le lotte storiche modellano il rapporto con la natura. Questo approccio spiega, ad esempio, come le crisi ecologiche nelle società precapitaliste, dai Maya alle civiltà mesopotamiche, siano spesso legate a modelli di estrazione del surplus che alterano gli equilibri ambientali. Allo stesso modo nel capitalismo la forma-merce e la logica del valore generano una sistematica svalutazione della natura, radicata nella contraddizione tra valore d’uso (la concretezza materiale dei beni) e valore di scambio (la loro astrazione monetaria), spingendo verso un’appropriazione predatoria delle risorse naturali. Il secondo è l’olismo relazionale che richiede una visione d’insieme che riconosca però le disuguaglianze strutturali nell’accesso e nel controllo della natura. Le relazioni uomo-ambiente non sono mai uniformi in quanto riflettono le divisioni di classe e le gerarchie sociali. Marx mostra come il capitalismo, con la sua separazione radicale dei lavoratori dai mezzi di produzione, istituisca un doppio sfruttamento, ovvero quello del lavoro umano e quello degli ecosistemi. Questa prospettiva evita le generalizzazioni che attribuiscono la crisi ecologica a un’astratta “civiltà industriale”, sottolineando invece il ruolo specifico dei rapporti sociali capitalistici. Come diceva Lucio Colletti, Marx rifiuta sia la riduzione della società a mere leggi naturali sia la dissoluzione idealistica della natura in pure categorie sociali. La sua dialettica è una “unità di elementi eterogenei”, una totalità contraddittoria che spiega sia le crisi ecologiche sia le possibilità di trasformazione. Questo approccio permette di comprendere, ad esempio, come la mercificazione della terra sotto il capitalismo trasformi gli ecosistemi in mere “condizioni di accumulazione”, separate dalle esigenze riproduttive delle comunità locali. Il terzo motivo è l’integrazione tra analisi qualitativa e quantitativa, la quale esige una valutazione congiunta delle caratteristiche specifiche degli ecosistemi e dei limiti materiali che pongono alla produzione umana. Le crisi ecologiche, oltre che dall’eccesso quantitativo di sfruttamento, derivano anche dalla disconnessione qualitativa tra i ritmi della natura e quelli dell’accumulazione capitalistica. Gary Snyder distingue tra “culture ecosistemiche”, integrate in un territorio specifico e vincolate ai suoi cicli naturali, e “culture della biosfera”, come il capitalismo globale, che sfruttano risorse su scala planetaria, spostandosi da un ecosistema all’altro una volta esaurite le risorse locali. Marx ed Engels vedono nella separazione città-campagna un esempio emblematico di questa frattura. Il capitalismo intensifica questa divisione, creando da un lato megalopoli iperproduttive e dall’altro campagne ridotte a mere riserve di materie prime, con effetti devastanti tanto sulla fertilità del suolo quanto sulla salute delle classi lavoratrici. La forma-merce, con la sua tendenza a omogeneizzare e quantificare ogni aspetto della natura, aggrava ulteriormente questa dinamica, trasformando foreste, fiumi e persino il clima in “fattori produttivi” soggetti alle leggi del mercato.
Infine abbiamo il potenziale pedagogico che sottolinea la necessità di un’ecologia sociale accessibile anche ai movimenti popolari affinché possano riconoscere le connessioni tra sfruttamento del lavoro e crisi ambientale. Marx dimostra, ad esempio, come la lotta per la riduzione della giornata lavorativa, una battaglia centrale per il movimento operaio dell’Ottocento, non sia solo una questione di salario o di condizioni lavorative ma anche di riappropriazione del tempo di vita sottratto sia ai lavoratori che agli ecosistemi. La sua analisi del valore smaschera il carattere predatorio del capitalismo che tratta sia il lavoro umano che la natura come “risorse” infinite, ignorandone i limiti riproduttivi. Questo approccio offre una base teorica per alleanze tra movimenti operai e ambientalisti, mostrando come la difesa dei beni comuni e la lotta per condizioni di lavoro dignitose siano due facce della stessa medaglia.
1. Il rapporto con il materialismo storico
Marx integra le condizioni naturali nella sua analisi materialista della storia. La ricchezza viene definita in termini di valori d’uso, ovvero tutto ciò che soddisfa bisogni umani, sia direttamente (come il cibo o l’abitazione) sia indirettamente (come le materie prime trasformate in mezzi di produzione). Questo concetto è centrale nella sua visione poiché, come sostiene nel Capitale, i valori d’uso costituiscono la sostanza di ogni ricchezza, qualunque sia la forma sociale che essa assume. La produzione materiale è dunque il fondamento della storia umana essendo la produzione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, un processo che deve ripetersi costantemente per garantire la sopravvivenza e quindi è il primo atto storico. Marx insiste sul fatto che la ricchezza non è creata dal lavoro in modo autonomo ma attraverso un’interazione dialettica con la natura. Citando l’economista William Petty sostiene che il lavoro è il padre della ricchezza materiale, la terra ne è la madre, evidenziando così la doppia origine del valore d’uso. Alcuni critici, come Carpenter, sostengono che Marx riduca la natura a mero strumento del lavoro ma questa interpretazione trascura elementi fondamentali della sua teoria. In realtà Marx vede il lavoro stesso come un processo in cui partecipano sia l’uomo sia la natura e riconosce che molte risorse utili, come i frutti spontanei o i minerali, sono oggetti di lavoro forniti immediatamente dalla natura, senza alcun intervento umano. Un aspetto cruciale è la distinzione tra lavoro e produzione. Il primo è un’attività umana cosciente, la seconda dipende anche da processi naturali indipendenti. Marx osserva che il metabolismo universale della natura esiste indipendentemente dal lavoro, il che significa che la Terra produce ricchezza anche senza l’intervento dell’uomo. Allo stesso tempo, però, il lavoro è necessario per appropriarsi di tali risorse e trasformarle in beni utili. Questo non implica che Marx ignori le ricchezze naturali non ancora sfruttate, al contrario egli include tra le forme di ricchezza anche la ricchezza naturale ancora inaccessibile, purché potenzialmente utilizzabile. Poi abbiamo il carattere sociale della produzione umana. A differenza degli animali l’uomo non agisce solo per istinto ma organizza il lavoro in forme storicamente determinate, sviluppando strumenti e tecniche sempre più complessi. Engels, in Dialettica della natura, spiega che è la nascita della società a spingere l’evoluzione umana verso forme di produzione più avanzate. Marx sottolinea che gli uomini non lavorano solo sulla natura ma anche gli uni sugli altri perché la produzione avviene sempre all’interno di rapporti sociali specifici che ne influenzano lo sviluppo. Questa prospettiva porta Marx a una visione socio-evolutiva in cui la storia umana si distacca progressivamente dai cicli naturali puri. Non si tratta di un distacco materiale, l’uomo rimane dipendente dalla natura, ma di una crescente autonomia determinata dai rapporti di produzione. Nei Grundrisse sostiene che non è l’unità tra l’umanità vivente e le condizioni inorganiche del suo metabolismo con la natura a richiedere una spiegazione storica ma piuttosto la separazione tra queste condizioni e l’esistenza attiva degli uomini. Questa separazione è alla base dello sfruttamento capitalistico, in cui le classi dominanti controllano le risorse naturali e le usano per estorcere pluslavoro. Alcuni critici, come Skirbekk, accusano Marx di trattare la natura come un fattore statico ma questa lettura è errata. Marx non nega l’evoluzione naturale ma evidenzia come il capitalismo abbia creato un sistema produttivo che ignora i limiti ecologici, portando a crisi ambientali.
Marx, contrariamente a quanto spesso gli viene criticato, attribuisce un ruolo fondamentale alla natura nella determinazione della produttività del lavoro, sia in termini trans-storici che all’interno del modo di produzione capitalistico. Egli afferma che la ricchezza materiale, intesa come insieme di valori d’uso, è sempre composta da elementi naturali modificati dal lavoro umano, sottolineando che i diversi valori d’uso contengono proporzioni molto diverse di lavoro e prodotti naturali ma il valore d’uso include sempre un elemento naturale. La produttività del lavoro, quindi, non può essere compresa senza considerare le condizioni fisiche che la vincolano, suddivise in due grandi categorie: la ricchezza naturale legata ai mezzi di sussistenza, come la fertilità del suolo o la disponibilità di risorse ittiche, e la ricchezza naturale negli strumenti di lavoro, come cascate, fiumi navigabili, legname o carbone. Mentre nelle società primitive la prima categoria è dominante, nelle fasi più avanzate dello sviluppo economico è la seconda a diventare decisiva. Marx precisa che la produttività è il risultato di un processo storico-sociale che abbraccia migliaia di anni. Questo approccio dialettico si riflette anche nella sua analisi del pluslavoro, il lavoro eccedente necessario per sostenere classi non produttive come capitalisti o proprietari terrieri. Perché esista un surplus devono verificarsi due condizioni. In primo luogo la natura deve fornire risorse sufficienti a permettere ai lavoratori di produrre più di quanto strettamente necessario alla loro sopravvivenza, in secondo luogo devono instaurarsi rapporti sociali che consentano a una minoranza di appropriarsi di questo surplus. Marx osserva che senza un certo grado di produttività del lavoro non c’è tempo superfluo disponibile per il lavoratore. Senza tale tempo superfluo non c’è pluslavoro e quindi né capitalisti, né schiavisti, né signori feudali.
La fertilità del suolo, la disponibilità di risorse naturali e le condizioni climatiche giocano dunque un ruolo cruciale nel determinare la possibilità del surplus ma non ne spiegano la realizzazione concreta che dipende invece da fattori sociali. Ad esempio, Marx nota che le condizioni naturali favorevoli ci danno solo la possibilità mai la realtà del pluslavoro. Questo perché, sebbene in regioni con suolo fertile o clima favorevole il tempo di lavoro necessario alla sussistenza sia minore, lasciando più spazio al pluslavoro, l’effettiva estrazione di surplus dipende dall’organizzazione sociale della produzione e dai rapporti di classe.
Nel capitalismo questa dialettica tra natura e società si manifesta nel plusvalore, la forma storicamente specifica che il pluslavoro assume sotto il dominio del capitale. Marx riconosce che il plusvalore poggia su una base naturale poiché deriva dalla capacità del lavoro di produrre più di quanto necessario alla riproduzione della forza lavoro, una capacità che a sua volta dipende dalla produttività naturale, come la fertilità del suolo. Il plusvalore non è un fenomeno puramente naturale ma è reso possibile solo da un preciso contesto storico-sociale, in cui la forza lavoro è trasformata in merce e il capitale impone una relazione coercitiva che costringe i lavoratori a produrre oltre i loro bisogni immediati.
Una critica significativa a Marx è avanzata da Benton, il quale sostiene che la sua analisi del processo lavorativo trascura il ruolo delle condizioni naturali “non manipolabili”, come i cicli biologici in agricoltura, assimilandole indebitamente alla categoria degli “strumenti di lavoro”. Benton argomenta che Marx privilegia un modello “trasformativo” del lavoro, in cui l’uomo modifica attivamente la materia prima, trascurando i processi “eco-regolatori”, come l’agricoltura, in cui il lavoro umano si limita a ottimizzare condizioni ambientali preesistenti Questa critica pecca di parzialità poiché Marx, già nel primo volume del Capitale, distingue tra strumenti di lavoro in senso stretto (come i macchinari) e condizioni naturali più ampie, come la terra, che fornisce il locus standi al lavoratore. Inoltre Marx non riduce mai la produzione al solo processo lavorativo ma riconosce esplicitamente che in settori come l’agricoltura o la vinificazione il tempo di produzione supera il tempo di lavoro effettivo a causa di processi naturali indipendenti dall’intervento umano. La distinzione tra lavoro e produzione è infatti centrale nell’impianto marxiano: se il lavoro è un’attività umana finalizzata alla creazione di valori d’uso, la produzione include anche processi naturali che sfuggono al controllo immediato del lavoratore. Questo permette a Marx di analizzare settori eco-regolati senza ridurli a mere estensioni del lavoro umano. Ad esempio, nel secondo volume del Capitale, egli esamina casi in cui il capitale funziona nel processo produttivo senza partecipare al processo lavorativo, come nella maturazione del grano o nell’invecchiamento del vino, dove il prodotto è soggetto a trasformazioni chimiche o biologiche autonome. Burkett, indagando la doppia natura del lavoro e della forza lavoro in Marx, mostra come questi concetti rappresentino un punto di sintesi tra la dimensione naturale e sociale dell’esistenza umana. Partendo dalla definizione della forza lavoro come l’insieme delle capacità fisiche e mentali che esistono nella corporeità, nella personalità vivente di un essere umano Marx sottolinea come questa sia fondamentalmente una forza naturale, soggetta alle stesse leggi biologiche che governano qualsiasi organismo. Necessita di riproduzione, rigenerazione attraverso il sonno, alimentazione adeguata e un certo livello di benessere per mantenersi. Questa natura biologica della forza lavoro implica che il lavoratore deve ricevere i mezzi di sussistenza necessari per il suo mantenimento e la sua riproduzione, dove per mezzi di sussistenza non si intendono solo i beni strettamente necessari alla sopravvivenza fisica ma tutto ciò che permette di preservare il suo stato normale di individuo lavoratore, includendo quindi anche il tempo libero essenziale per il recupero delle energie. Marx insiste sul fatto che il capitalismo tende sistematicamente a violare questi limiti naturali, spingendo i lavoratori verso condizioni che rappresentano una vera e propria “degenerazione della razza operaia”. Quando il sistema riduce il salario al “minimo fisico” e allunga la giornata lavorativa fino all’esaurimento completo delle energie, crea una situazione in cui il sonno ristoratore si riduce a tante ore di torpore quante ne sono assolutamente necessarie per rivitalizzare un organismo completamente esausto. Parallelamente alla sua natura biologica il lavoro possiede una dimensione profondamente sociale. Marx evidenzia come la forza produttiva del lavoro dipenda in modo cruciale dall’organizzazione sociale, citando ad esempio il caso degli Stati Uniti, dove l’energia della popolazione e la capacità di sfruttare le risorse industriali su larga scala hanno permesso uno sviluppo economico senza precedenti. In particolare nei periodi di crisi organica del sistema, quando le forze produttive sviluppate nella società esistente non possono più coesistere con i rapporti di produzione esistenti, la classe operaia stessa diventa la principale forza produttiva, nel senso che la sua azione rivoluzionaria può aprire la strada a nuovi rapporti di produzione più avanzati. La socialità del lavoro si manifesta soprattutto attraverso la divisione del lavoro. Ogni attività lavorativa individuale acquista significato solo in relazione all’intero sistema produttivo. Il lavoro deve produrre anche valori d’uso sociali. Questo aspetto porta Marx a criticare la visione astratta del lavoro tipica dell’economia politica classica che tende a ignorare come la stessa nozione di valore d’uso sia storicamente determinata e vari in base ai rapporti sociali di produzione dominanti.
Un ulteriore livello di analisi riguarda il modo in cui i rapporti di produzione plasmano la stessa soggettività dei lavoratori. Nel processo produttivo cambiano, infatti, anche i produttori stessi, in quanto sviluppano nuove qualità in se stessi, nuovi bisogni e nuovi linguaggi. Questo processo di trasformazione storica della soggettività operaia avviene anche attraverso istituzioni come la famiglia che gioca un ruolo cruciale nella riproduzione della forza lavoro, determinando quel livello tradizionale di vita che include certi bisogni derivanti dalle condizioni sociali in cui le persone sono collocate e cresciute. La sintesi più profonda di questa analisi si trova nella concezione marxiana dell’evoluzione umana, dove il lavoro appare come il fattore chiave che ha permesso il passaggio dalla natura alla cultura. Il lavoro ha creato l’uomo stesso, nel senso che è attraverso l’attività lavorativa che i nostri antenati pre-umani hanno sviluppato quelle capacità cognitive e sociali che caratterizzano la specie homo sapiens. Per Marx la forza lavoro appare come il prodotto di un lungo processo storico in cui fattori naturali e sociali si intrecciano in modo indissolubile e infine prospetta la possibilità di una società futura in cui questa doppia natura del lavoro possa esprimersi pienamente, superando le contraddizioni del capitalismo. In questa società, l’individuo pienamente sviluppato, per il quale le diverse funzioni sociali che svolge non sono che altrettanti modi di dare libero sfogo alle sue forze naturali e acquisite, potrebbe realizzare un rapporto armonioso sia con la natura che con gli altri esseri umani.
2. Natura e capitalismo
Marx parte da un presupposto fondamentale, cioè che ogni sistema sociale, per esistere e riprodursi, deve necessariamente mediare il rapporto tra lavoro umano e appropriazione/trasformazione della natura. Ciò che distingue radicalmente il capitalismo dalle formazioni sociali precedenti è la completa riconfigurazione di questo rapporto attraverso un duplice movimento storico, la separazione violenta e sistematica dei produttori diretti dai loro mezzi di sussistenza tradizionali (in particolare dalla terra) e la riconversione di queste condizioni di produzione in merci accessibili solo attraverso il mercato. Questa “grande trasformazione” che Marx documenta minuziosamente nel cosiddetto processo di accumulazione originaria rappresenta una rivoluzione totale nel modo in cui la società umana si relaziona con il proprio ambiente naturale. Nelle formazioni precapitalistiche, infatti, il lavoro umano rimaneva organicamente legato a specifiche condizioni naturali. Il contadino medievale, il servo della gleba, persino lo schiavo antico mantenevano un rapporto immediato (seppur mediato da rapporti di dominio) con la terra come “corpo inorganico” della comunità. In tali contesti la produzione era essenzialmente regolata da bisogni sociali determinati e da limiti ecologici ben precisi, con la sfera dello scambio mercantile confinata ai surplus oltre il necessario consumo immediato. Il capitalismo rompe definitivamente questa unità organica attraverso quella che Marx definisce la “doppia libertà” del lavoratore moderno: libero dalla terra e dai vincoli servili ma anche libero da qualsiasi accesso autonomo ai mezzi di produzione. Questo apparente paradosso storico costituisce la premessa indispensabile per la generalizzazione della produzione di merci, dove lo stesso lavoro vivo diventa merce, la merce forza lavoro. È precisamente questa trasformazione radicale che permette al valore di scambio (la forma sociale specificamente capitalistica della ricchezza) di subordinare completamente il valore d’uso (la dimensione concreta, materiale della produzione). Tutto ciò ha delle conseguenze notevoli nel rapporto società-natura. Il capitalismo sviluppa le forze produttive a livelli inediti nella storia umana, la separazione dei produttori dalle condizioni immediate di produzione permette una mobilità del lavoro e una riconfigurazione dei processi produttivi impossibili nelle società tradizionali. Marx sottolinea come questa “liberazione” dai vincoli naturali immediati permetta al capitale di esplorare tutta la natura per scoprire nuove proprietà utili delle cose, di sviluppare lo scambio universale dei prodotti di tutti i climi e paesi e di creare continuamente nuovi bisogni attraverso l’innovazione tecnologica. Tuttavia, e qui emerge la profonda contraddizione del sistema, questa apparente emancipazione dalla natura si rivela in realtà una forma più intensa e sistematica di dominio distruttivo. Le società precapitalistiche, pur nella loro arretratezza tecnologica, mantenevano un rapporto di relativo equilibrio con i propri ecosistemi perché la produzione era finalizzata al soddisfacimento di bisogni determinati, il capitalismo trasforma sia il lavoro che la natura in mere “variabili dipendenti” del processo di valorizzazione. La natura cessa di essere un contesto organico di vita per diventare un insieme di “fattori di produzione” astratti, valutati esclusivamente in base alla loro capacità di generare profitto. Il concetto marxiano di sussunzione reale del lavoro sotto il capitale si estende così alla sfera naturale. Non si tratta più solo di appropriazione di risorse ma di una completa riconfigurazione dei processi naturali stessi in funzione delle esigenze dell’accumulazione. L’agricoltura industriale, l’estrazione mineraria su larga scala, la riconversione di interi ecosistemi in “fattorie” per la produzione di materie prime, tutti questi fenomeni che Marx analizza con straordinaria anticipazione, dimostrano come il capitalismo riplasma la natura radicalmente secondo la propria logica interna. Questa analisi rivela la fondamentale antinomia ecologica del capitalismo. Il sistema sviluppa come mai prima d’ora le conoscenze scientifiche e le capacità tecniche per un uso razionale delle risorse naturali ma la sua dinamica interna basata sulla concorrenza, sull’accumulazione illimitata e sulla priorità assoluta del valore di scambio sul valore d’uso trasforma questo potenziale in uno strumento di depredazione sistematica. La crisi ecologica diventa l’esito necessario di una forma di produzione che tratta aria, acqua, suolo e forza lavoro umana come mere “condizioni esterne” da sfruttare fino all’esaurimento.
Partendo dal presupposto materialista secondo cui la società umana si riproduce attraverso un continuo scambio metabolico con la natura, Marx dimostra come il capitale, per autovalorizzarsi, debba necessariamente appropriarsi sia della forza lavoro umana che delle risorse naturali, trasformando entrambe in merci e mezzi di accumulazione. Il processo storico di dissoluzione dell’originaria unione tra il lavoratore e i suoi mezzi di produzione costituisce il fondamento su cui si erge l’intero edificio capitalistico. Questa separazione, lungi dall’essere un mero fatto giuridico, rappresenta una frattura metabolica che permette al capitale di riprodurre su scala sempre più ampia il rapporto sociale capitalistico con da un lato una classe di capitalisti in continua concentrazione, dall’altro una massa crescente di proletari. Tale riproduzione avviene attraverso l’appropriazione estensiva di nuovi territori e risorse naturali e lo sfruttamento intensivo delle forze produttive attraverso il progresso tecnologico. La specificità del modo di produzione capitalistico emerge con chiarezza nel confronto con le formazioni sociali precedenti. Le società precapitalistiche erano vincolate a ecosistemi locali e a risorse naturali particolari, il capitalismo dimostra una straordinaria capacità di trascendere questi limiti geografici e biologici. Questa apparente “liberazione” dai vincoli naturali non deriva da una qualche superiorità tecnologica intrinseca ma dalla peculiare natura del rapporto sociale capitalistico che, separando il produttore dalle condizioni oggettive della produzione, permette una mobilitazione più flessibile ed efficiente delle risorse naturali su scala globale. Questa indipendenza relativa dai limiti naturali nasconde una contraddizione fondamentale perché mentre il capitalismo sviluppa le forze produttive a un livello mai visto prima nella storia umana, permettendo di superare i vincoli imposti dalla scarsità locale di risorse, questa stessa dinamica espansiva conduce a una crisi ecologica di portata planetaria. Marx anticipa con sorprendente lucidità quello che oggi chiameremmo il problema dei limiti planetari, mostrando come l’accumulazione capitalistica, spinta dalla sua logica interna, finisca per estendere la frontiera dello sfruttamento fino a comprendere l’intera biosfera, minacciando così le stesse condizioni materiali che rendono possibile la riproduzione del capitale. La questione dell’appropriazione gratuita delle risorse naturali da parte del capitale merita un’analisi particolarmente approfondita. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni critici come Georgescu-Roegen o Carpenter, Marx non considera affatto la natura come una risorsa infinita e priva di valore. La sua teoria del valore, lungi dall’essere una negazione dell’importanza delle condizioni naturali, rappresenta piuttosto una critica radicale al modo specificamente capitalistico di appropriazione e valorizzazione della natura. Quando Marx parla di dono gratuito della natura al capitale non sta affermando che queste risorse siano infinite o prive di importanza sociale ma sta mettendo in luce come, nel quadro dei rapporti di produzione capitalistici, le risorse naturali non prodotte da lavoro umano vengano incorporate nel processo produttivo senza che venga riconosciuto alcun equivalente in valore. Questa appropriazione gratuita opera su molteplici livelli. Abbiamo le risorse naturali in senso stretto, cioè terre fertili, giacimenti minerari, corsi d’acqua, foreste, e il capitale che si appropria gratuitamente di forze sociali come la cooperazione, la divisione del lavoro, il progresso scientifico e tecnologico. Particolarmente significativo è il caso della scienza che Marx definisce come una forza produttiva generale del lavoro sociale nei Grundrisse. Il sapere scientifico, pur non essendo prodotto come merce nel senso capitalistico del termine, viene sistematicamente incorporato nel processo produttivo, aumentando la produttività del lavoro senza che ciò comporti un aumento proporzionale dei costi per il capitale. L’analisi marxiana dell’appropriazione gratuita rivela una contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico poiché lo sviluppo delle forze produttive raggiunge un livello tale da rendere possibile, per la prima volta nella storia, la soddisfazione dei bisogni umani su scala universale ma questa potenzialità viene sistematicamente negata dalla logica del profitto e dell’accumulazione. Le stesse forze che potrebbero liberare l’umanità dal bisogno, la scienza, la tecnologia, l’organizzazione sociale del lavoro, si trasformano in strumenti di dominio e sfruttamento.
La crisi ecologica contemporanea rappresenta l’ultima e più drammatica manifestazione di questa contraddizione. Il capitalismo mentre sviluppa le capacità tecniche per un rapporto più razionale con la natura mina le basi stesse della riproduzione sociale attraverso lo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. La soluzione a questa contraddizione non può essere trovata all’interno del sistema capitalistico, essa richiede una trasformazione radicale dei rapporti di produzione. Solo superando la logica del profitto e dell’accumulazione per l’accumulazione sarà possibile stabilire un nuovo metabolismo sociale tra uomo e natura, fondato sul controllo democratico dei produttori associati sulle condizioni della loro esistenza materiale.
Il capitalismo ha istituito un regime di produzione in cui l’appropriazione e trasformazione della natura avvengono secondo le sole esigenze della valorizzazione del capitale, svincolate da qualsiasi vincolo ecologico o sociale. La forma merce, con la sua dialettica interna tra valore d’uso e valore di scambio, rappresenta il punto di partenza per comprendere come il capitalismo operi una doppia riduzione, ovvero il lavoro concreto viene astratto in tempo di lavoro socialmente necessario e la natura viene ridotta a mero substrato passivo del processo produttivo, a “fattore esterno” privo di valore autonomo. Burkett esamina le specifiche forme attraverso cui il valore si manifesta, merce, denaro, capitale, e le loro implicazioni ecologiche. Il denaro, in quanto equivalente generale, rappresenta il momento culminante di questa astrazione. Esso non solo omogeneizza qualitativamente tutte le merci ma trasforma la ricchezza concreta in una pura quantità numerica, cancellando ogni traccia della sua origine materiale e delle relazioni ecologiche che la rendono possibile. Questo processo di astrazione si traduce storicamente in una serie di pratiche produttive che manifestano una crescente contraddizione con i ritmi e le logiche dei sistemi naturali. L’agricoltura industriale, analizzata sia da Marx che da autori successivi come Rachel Carson, rappresenta forse l’esempio più lampante di questa contraddizione. L’impulso capitalistico alla massimizzazione dei rendimenti nel breve periodo porta a un sistematico depauperamento della fertilità del suolo, alla rottura dei cicli biogeochimici e alla semplificazione degli agroecosistemi, con conseguenze spesso irreversibili. La teoria della rendita sviluppata da Marx offre un ulteriore fondamentale strumento per comprendere le aporie del rapporto capitalistico con la natura. Se da un lato il capitalismo tende a considerare le risorse naturali come “gratuite”, dall’altro la scarsità assoluta o relativa di alcune di esse (terre fertili, giacimenti minerari, fonti energetiche) dà luogo a meccanismi di rendita che rappresentano altrettanti tentativi di mediazione tra la logica astratta del valore e la concretezza dei vincoli naturali. Queste mediazioni rimangono interne alla logica del capitale e non modificano la sostanza del problema, le rendite redistribuiscono il plusvalore ma non alterano la dinamica fondamentale dell’accumulazione che continua a basarsi sull’appropriazione non compensata delle risorse naturali e sulla loro trasformazione in merci.
Marx riconosce pienamente il ruolo fondamentale della natura nella creazione di valore d’uso che costituisce la base materiale imprescindibile per l’esistenza stessa del valore di scambio. Questo emerge chiaramente da passaggi chiave del Capitale dove Marx afferma che nulla può avere valore di scambio senza essere un valore d’uso, specificando però che mentre il valore d’uso è il “portatore” del valore di scambio, non ne è la “causa”. La natura, in questa prospettiva, pur non determinando la grandezza quantitativa del valore (che dipende esclusivamente dal tempo di lavoro socialmente necessario), ne rappresenta comunque una condizione necessaria e imprescindibile. Questo approccio dialettico permette a Marx di analizzare contemporaneamente sia la specificità storica del valore come relazione sociale capitalistica, sia il suo radicamento nelle condizioni materiali della produzione, che includono inevitabilmente i processi naturali. Per Burkett questa duplice dimensione viene spesso trascurata dai critici che tendono a proiettare sul pensiero marxiano una presunta contrapposizione tra dimensione sociale e dimensione naturale. Burkett si concentra in modo particolarmente dettagliato sulle contraddizioni teoriche in cui incorrono quegli autori che tentano di attribuire direttamente “valore” alla natura, prescindendo dalla mediazione del lavoro umano. Viene preso in esame il caso paradigmatico di Gunnar Skirbekk, il quale sviluppa la nozione di plusvalore estrattivo, sostenendo che lo sfruttamento delle risorse naturali genererebbe un surplus di valore indipendente dal lavoro umano. Secondo Skirbekk nei processi produttivi estrattivi (come l’estrazione mineraria o petrolifera), la natura trasferirebbe valore direttamente ai prodotti, creando quello che egli definisce un surplus estrattivo che si manifesterebbe in maggiori profitti e redditi monetari per i capitalisti e i lavoratori coinvolti in tali settori. Burkett smonta meticolosamente questa tesi mostrando come Skirbekk finisca inevitabilmente per confondere valore con valore di scambio, arrivando alla paradossale conclusione che lo sfruttamento della natura si manifesterebbe contemporaneamente attraverso due meccanismi contraddittori, un sottoprezzo delle risorse naturali (per i settori che le utilizzano come input produttivi) e un sovraprezzo (per i settori estrattivi stessi). Questa contraddizione insanabile deriva dall’incapacità di distinguere tra creazione di valore (che per Marx avviene esclusivamente nel processo produttivo attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo) e redistribuzione del valore già esistente attraverso meccanismi come la rendita differenziale che Marx analizza compiutamente nel terzo libro del Capitale. Skirbekk, nel tentativo di attribuire valore alla natura, finisce per ricadere nell’errore di considerare lo scambio ineguale come fonte di valore, un’idea che Marx aveva già ampiamente confutato nel primo libro del Capitale, dimostrando come nello scambio non si crei valore ma si ridistribuisce semplicemente il valore già esistente. Burkett analizza le posizioni anche di David Orton e Geoffrey Carpenter, i quali ripropongono in varie forme l’accusa secondo cui Marx negherebbe valore alla natura non trasformata dal lavoro umano. Queste critiche si basano su una fondamentale confusione tra valore e valore d’uso, ignorando che per Marx la natura possiede un’importanza fondamentale come fonte di valore d’uso, anche quando non è stata trasformata dal lavoro umano. A questo proposito viene citato e analizzato in profondità un passaggio particolarmente illuminante del terzo libro del Capitale in cui Marx osserva che se un bene naturale potesse essere ottenuto senza lavoro non avrebbe valore di scambio ma conserverebbe la sua utilità come valore d’uso. Burkett afferma che Carpenter commette l’errore di citare Marx in modo selettivo e decontestualizzato, estrapolando la frase secondo cui il materiale puramente naturale in cui non è oggettivato lavoro umano non ha valore senza considerare che Marx si riferisce specificamente al valore in senso capitalistico, non alla ricchezza materiale in senso generale. Viene inoltre sottolineato come Marx includa nella sua concezione del lavoro necessario a realizzare la ricchezza naturale anche attività di appropriazione primaria (come la raccolta, la caccia, la pesca) e perfino funzioni biologiche fondamentali come la respirazione o la vista, soprattutto quando si considera la produzione di ricchezza in senso lato e non solo il lavoro produttivo di valore in senso capitalistico. Particolare attenzione viene dedicata alla critica apparentemente più sofisticata avanzata da Ted Benton, secondo cui la teoria del valore marxiana escluderebbe le condizioni naturali dalla determinazione del valore, riducendo tutto a mere relazioni sociali. Per Burkett questa interpretazione è infondata, infatti Marx analizza esplicitamente l’impatto della scarsità naturale sulla produttività del lavoro e quindi sulla grandezza del valore. Quando una risorsa naturale diventa più scarsa o si degrada diminuisce la produttività del lavoro che la utilizza, il che significa che aumenta il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre le stesse merci, determinando così un aumento del loro valore. Questo meccanismo viene esemplificato attraverso l’analisi marxiana delle crisi agricole, dove cattivi raccolti (cioè una diminuita fertilità naturale) portano a un aumento del valore dei prodotti agricoli. Benton, nel suo tentativo di contrapporre valore e condizioni naturali, finisce per creare una dicotomia artificiale che non trova riscontro nell’analisi concreta di Marx, il quale considera invece il valore come un’unità contraddittoria di forma sociale (valore di scambio) e contenuto materiale (valore d’uso). Questa critica è ulteriormente approfondita facendo riferimento a lavori precedenti dell’autore dove viene dimostrato come la presunta “smaterializzazione” della teoria del valore operata da Benton lo porti a una concezione impoverita dello stesso valore d’uso che finisce per essere ridotto a una mera categoria capitalistica anziché essere colto nella sua duplice dimensione storica e trans-storica.
Il capitalismo, secondo l’analisi marxiana, genera due forme distinte ma interconnesse di crisi ambientali. Ci sono le crisi nell’accumulazione capitalistica legate alla carenza di materie prime e una crisi più generale nella qualità dello sviluppo umano e sociale causata dalla rottura dei cicli metabolici tra uomo e natura. La prima forma di crisi emerge quando le esigenze materiali del capitale entrano in collisione con i limiti naturali della produzione di risorse, particolarmente evidente nel settore agricolo dove i tempi biologici contrastano con l’accelerazione imposta dalla produzione industriale. Marx sottolinea come le uniche vere crisi generali del capitalismo siano quelle originate da carenze nei prodotti agricoli fondamentali, sia come mezzi di sussistenza per i lavoratori che come materie prime industriali, dove eventi come cattivi raccolti possono innescare spirali di rialzo dei prezzi che destabilizzano l’intero sistema produttivo. Questa dinamica viene esacerbata dalla tendenza del capitalismo a sviluppare la produzione industriale e manifatturiera a ritmi molto più rapidi rispetto alla capacità della natura di rigenerare le risorse organiche, creando uno squilibrio strutturale tra domanda e offerta di materie prime. La seconda forma di crisi, più sistemica, deriva dalla divisione capitalistica tra città e campagna che altera profondamente i flussi di materia ed energia, interrompendo quel metabolismo naturale che in precedenza garantiva un relativo equilibrio. La concentrazione industriale nelle aree urbane, combinata con lo sfruttamento intensivo delle campagne come serbatoio di risorse, produce un doppio effetto distruttivo. Il primo è privare i suoli dei nutrienti che un tempo venivano restituiti attraverso i cicli organici, il secondo è inquinare massicciamente l’ambiente urbano con rifiuti e scarti di produzione. Questo processo viene analizzato da Marx ed Engels come una contraddizione fondamentale del capitalismo che da un lato ha bisogno di concentrare produzione e forza lavoro per massimizzare l’efficienza, dall’altro finisce per minare le stesse basi naturali su cui poggia il processo produttivo. La logica capitalistica tratta la natura come una risorsa infinita e gratuita, ignorando completamente i suoi tempi di rigenerazione e le interconnessioni ecologiche, riducendo tutto a meri fattori di produzione misurabili in termini di valore di scambio. Questa visione miope si manifesta nell’accelerazione costante del flusso di risorse che attraversa il sistema produttivo a causa della necessità di aumentare la produttività del lavoro e il volume della produzione. Marx osserva come, nonostante le singole imprese cerchino di minimizzare gli sprechi per ragioni di efficienza competitiva, il sistema nel suo complesso generi una quantità crescente di rifiuti e sottoprodotti, molti dei quali non riciclabili economicamente e quindi abbandonati nell’ambiente. Anche quando sviluppa settori come il riciclo o la gestione dei rifiuti, il capitalismo lo fa in un’ottica di profitto immediato, senza risolvere le cause strutturali dell’inquinamento e spesso aggravando ulteriormente il problema attraverso nuovi consumi di energia e materia prima. La contraddizione tra tempi naturali e tempi del capitale emerge con particolare chiarezza nelle fluttuazioni speculative dei mercati delle materie prime, dove periodi di carenza e accumulo speculativo si alternano a fasi di sovrapproduzione e crollo dei prezzi, creando un’ulteriore fonte di instabilità sistemica. Questa dinamica viene esacerbata dal sistema creditizio che fornisce liquidità per le operazioni speculative ma amplifica gli effetti delle crisi quando i prezzi crollano e i debiti non possono essere ripagati.
L’agglomerazione industriale e demografica nei centri urbani e la parallela industrializzazione dell’agricoltura determina sia la riduzione dell’autosufficienza delle economie rurali sia il loro progressivo spopolamento. Questa doppia trasformazione produce quella che Marx definisce una circolazione sociale della materia che risulta ambientalmente insostenibile e direttamente nociva per la salute umana, come documentato in modo particolarmente vivido nell’opera di Engels La situazione della classe operaia in Inghilterra del 1845. Le città industriali capitaliste generano un flusso crescente di materia ed energia che si manifesta con l’aumento della produttività del lavoro industriale, il quale si traduce necessariamente in livelli sempre più elevati di consumo di materiali e energia, requisito fondamentale per la produzione e vendita redditizia delle merci. Questo processo viene ulteriormente accelerato dallo stesso fenomeno dell’agglomerazione urbana, che di per sé potenzia la produttività industriale. Una parte significativa di questo flusso materiale assume la forma di quelli che Marx definisce escrementi del consumo, comprendendo sia i prodotti del metabolismo umano sia i residui materiali derivanti dall’uso dei beni di consumo. Engels e Marx descrivono con precisione gli effetti devastanti che questi rifiuti urbani producono sulla salute delle classi lavoratrici, costrette a vivere in quartieri privi delle più elementari condizioni igieniche, dimostrando come all’accumulazione di capitale corrisponda necessariamente un’accumulazione di miseria. La loro analisi si inserisce in una critica più ampia alla circolazione della materia determinata dalla divisione capitalistica tra agricoltura e industria urbana. Essi dimostrano come il problema dei rifiuti urbani cresca in proporzione diretta con l’impoverimento della fertilità del suolo poiché le concentrazioni industriali urbane interrompono il tradizionale ciclo di riciclo dei nutrienti attraverso il terreno agricolo. Come Marx osserva nel primo libro del Capitale, la produzione capitalistica, concentrando la popolazione in grandi centri e determinando un predominio sempre maggiore della popolazione urbana, disturba il ricambio organico tra uomo e suolo impedendo il ritorno al suolo degli elementi che l’uomo consuma come cibo e vestiario. Viola in questo modo le condizioni necessarie alla fertilità permanente del suolo. Con questa azione essa distrugge contemporaneamente la salute degli operai urbani e la vita intellettuale dei lavoratori rurali. Questa analisi dimostra come Marx considerasse gli effetti ambientali del capitalismo in una prospettiva olistica, comprendente sia le aree agricole che quelle urbane, contrariamente a chi sostiene che la sua critica ecologica si limitasse esclusivamente all’agricoltura. Nel terzo libro del Capitale Marx ribadisce questa connessione tra concentrazione urbano-industriale e declino della fertilità del suolo, osservando come la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola a un minimo costantemente decrescente e la contrappone a una popolazione industriale sempre più numerosa e ammassata nelle grandi città. Crea così le condizioni che provocano una rottura irrimediabile nel legame sociale prescritto dalle leggi naturali della vita. Ne risulta uno sperpero delle energie del suolo. In questo stesso volume Marx lamenta lo spreco su larga scala delle potenziali materie prime agricole derivante da questa rottura con le leggi naturali della vita, in particolare il mancato riciclo degli “escrementi del consumo” che sono di massima importanza per l’agricoltura. L’antitesi capitalistica tra città industriale e campagna agricola crea quindi un circuito di circolazione materiale che corrode la qualità delle condizioni naturali per lo sviluppo umano in generale, violando quello che il chimico agricolo Justus von Liebig definiva il principio secondo cui l’uomo deve restituire alla terra ciò che da essa riceve. Tuttavia, come nota Engels, non sono solo le città in sé, e in particolare le grandi metropoli, a impedire il rispetto di questo principio ma anche l’industrializzazione dell’agricoltura stessa che devasta la ricchezza naturale del suolo attraverso modalità complementari ma distinte rispetto agli effetti dei rifiuti urbani. Sotto la spinta della competizione per il profitto la tecnologia agricola viene trasformata attraverso l’uso di macchine e altri input forniti dall’industria urbana, accelerando così l’esaurimento del suolo parallelamente all’intensificarsi dello sfruttamento della forza lavoro agricola, che, a causa della distruzione delle industrie rurali non agricole, viene impiegata prevalentemente in modo stagionale. Nel terzo volume del Capitale Marx sintetizza gli effetti combinati dell’agricoltura e dell’industria capitalistica sulla forza lavoro e sulle sue condizioni naturali. La grande industria e la grande agricoltura meccanizzata agiscono di concerto. Se in origine si distinguono per il fatto che la prima devasta e distrugge soprattutto la forza lavoro, dunque la forza naturale dell’uomo, mentre la seconda saccheggia e distrugge più direttamente la forza naturale del suolo, nel corso ulteriore dello sviluppo esse finiscono per unirsi, in quanto il sistema industriale delle campagne rende fiacchi anche i lavoratori mentre industria e commercio forniscono all’agricoltura i mezzi per esaurire il suolo. Questa concezione della crisi ambientale capitalistica implica l’intera organizzazione spaziale e tecnologica della produzione capitalistica e rappresenta il culmine dell’analisi marxiana dell’accumulazione capitalistica in agricoltura e industria urbana. Il quadro teorico di Marx risulta inoltre in grado di incorporare tre questioni cruciali per qualsiasi analisi realistica della crisi ambientale contemporanea: l’uso di materiali sintetici non biodegradabili, la portata globale della crisi ecologica e gli effetti dell’aumento del flusso energetico derivante dalla produzione umana in relazione alla seconda legge della termodinamica. Sebbene Marx non potesse essere consapevole dello sviluppo su larga scala e dello smaltimento nell’ambiente di materiali sintetici non facilmente assimilabili dai processi ecologici esistenti, fenomeno prevalentemente successivo alla Seconda Guerra Mondiale, questi si inseriscono perfettamente nella sua analisi della tendenza del capitale a dividere e semplificare lavoro e natura ignorando le interconnessioni ecologiche necessarie per la riproduzione della ricchezza naturale. Allo stesso tempo, i materiali sintetici rappresentano un sintomo dell’indifferenza fondamentale del valore rispetto al tipo di valori d’uso in cui si oggettiva, purché siano vendibili. Nel loro insieme lo spreco e l’insalubrità della circolazione capitalistica di materia sia sintetica che organica all’interno e tra città e campagna manifestano chiaramente le caratteristiche anti-ecologiche del valore e del capitale rivelate dall’analisi marxiana. Per quanto riguarda la portata globale delle perturbazioni ecologiche, sebbene Marx ed Engels siano talvolta ambigui sull’esatta dimensione spaziale delle loro analisi, è chiaro che le dinamiche fondamentali dell’antitesi città-campagna si applicano non solo a singole regioni e nazioni ma su scala globale. Questo emerge chiaramente dall’analisi marxiana dell’espansione della produzione capitalistica di materie prime, stimolata dalla carenza ciclica di materiali e dall’aumento dei prezzi, nonché dallo sviluppo del mercato mondiale e della divisione internazionale del lavoro. Per quanto riguarda la questione energetica e termodinamica, l’analisi marxiana del crescente flusso di materiale del capitale incorpora esplicitamente l’uso di combustibili e altri materiali accessori. Combinata con il riconoscimento marxiano dell’illimitatezza dell’accumulazione monetaria come fine della produzione, questa analisi aiuta a comprendere la tendenza del capitalismo a convertire quantità crescenti di energia in forme meno organizzate e più entropiche, ignorando sia la limitata offerta terrestre di risorse energetiche non rinnovabili sia la sua limitata capacità di assorbire entropia senza gravi sconvolgimenti climatici e biosferici. Juan Martínez-Alier ha messo in dubbio che la critica marxiana dell’economia politica fornisca un’effettiva comprensione dell’insostenibile trattamento capitalistico delle risorse energetiche, citando come prova principale quella che definisce la “reazione negativa” di Engels al tentativo di Sergei Podolinsky nel 1880 di introdurre l’ecologia energetica umana nell’economia marxista. Un esame più attento della corrispondenza tra Engels e Marx rivela un quadro più sfumato. Engels osserva infatti che l’individuo lavoratore non è solo un stabilizzatore del presente ma anche, e in misura molto maggiore, uno sperperatore del passato, del calore solare accumulato sotto forma di combustibili fossili e foreste, e si lamenta di quello che abbiamo fatto sperperando le nostre riserve di energia, il nostro carbone, i nostri minerali, le nostre foreste… Questa consapevolezza del problema energetico contraddice l’interpretazione di una semplice “reazione negativa” alla questione termodinamica. Ciò che preoccupa Engels non è l’introduzione dell’ecologia energetica nella critica marxista ma il tentativo di Podolinsky di esprimere le condizioni economiche in termini di misure fisiche in modo meccanicistico, senza considerare le specifiche forme sociali della produzione capitalistica. L’approccio di Marx ed Engels alla questione energetica e termodinamica non nega affatto i limiti naturali della produzione capitalistica ma li analizza nel contesto delle relazioni sociali capitalistiche, offrendo così una comprensione più profonda e dialettica della crisi ecologica contemporanea e delle sue radici nel modo di produzione capitalistico.
Burkett sviluppa anche una riflessione sulla giornata lavorativa in relazione alla crisi ecologica attraverso un parallelo concettuale tra lo sfruttamento della forza lavoro umana e quello delle risorse naturali sotto il capitalismo. Partendo dall’osservazione di I.I. Rubin sull’assenza di relazioni permanenti tra i possessori dei diversi fattori produttivi nella società capitalistica, Burkett dimostra come questa instabilità strutturale caratterizzi tanto i rapporti di produzione quanto il metabolismo società-natura. Il capitalismo, nella sua logica immanente di accumulazione monetaria, tratta sia la forza lavoro che le condizioni naturali come mere variabili dipendenti dalla redditività, soggette a continui processi di riconfigurazione, estensione o abbandono in base alle esigenze competitive, senza alcuna considerazione intrinseca per criteri di sostenibilità sociale o ecologica. Marx sviluppa questo parallelismo analitico mostrando come il capitale affronti limiti simili nello sfruttamento del lavoro umano e della natura. In entrambi i casi si tratta di limiti elastici, determinati sia da caratteristiche materiali invarianti (le esigenze fisiologiche della riproduzione della forza lavoro, i cicli rigenerativi degli ecosistemi) sia da fattori socialmente costruiti (le lotte operaie, le normative ambientali). La peculiare “elasticità” di questi confini permette al capitale di spingerli costantemente oltre le soglie fisiologiche e ecologiche sostenibili, in un processo che Marx descrive come “furto” delle energie vitali, sia umane che naturali. L’analisi della giornata lavorativa diventa così paradigmatica per comprendere la dinamica più generale dello sfruttamento capitalistico della natura. Nell’esame della giornata lavorativa Marx individua una contraddizione fondamentale poiché mentre il capitale tende a massimizzare il tempo di lavoro per estrarre plusvalore assoluto, ciò avviene a spese della stessa forza lavoro che viene fisicamente e mentalmente depauperata. Burkett ricostruisce minuziosamente come Marx concettualizzi questo processo attraverso diversi livelli analitici. In primo luogo, il capitale manipola le necessità sociali dei lavoratori (il tempo per l’istruzione, la vita familiare, lo sviluppo personale) comprimendole ai minimi termini storici. In secondo luogo sfrutta la plasticità dei bisogni fisiologici, prolungando la giornata lavorativa fino al punto di provocare l’esaurimento prematuro e la morte della stessa forza lavoro. Terzo, ridefinisce radicalmente le stesse categorie temporali (giorno/notte) e generazionali (infanzia/età adulta) per giustificare pratiche estrattive sempre più intensive. Particolarmente illuminante è l’analisi del lavoro minorile, dove Marx mostra come il capitale non solo sfrutti le caratteristiche fisiche dei bambini (maggior flessibilità articolare, minore resistenza alla disciplina) ma ridefini antropologicamente cosa costituisca un “lavoratore adulto”, arrivando a considerare l’infanzia come termine già a 10-11 anni. La meccanizzazione gioca un ruolo ambiguo perché riduce la necessità di forza muscolare aprendo spazio al lavoro infantile ma richiede nuove forme di addestramento che creano ulteriori contraddizioni. L’impiego di intere famiglie (donne e bambini) permette al capitale di distribuire il valore della forza lavoro maschile su più individui, intensificando lo sfruttamento attraverso la moltiplicazione delle ore lavorate e contemporaneamente distruggendo la vita domestica tradizionale, sostituita da un aumento dei consumi mercantilizzati. Burkett sviluppa poi il parallelo ecologico mostrando come Marx stesso abbia esplicitamente collegato lo sfruttamento della forza lavoro a quello della terra. In entrambi i casi il capitale opera una anticipazione del futuro che consiste nel consumo presente di risorse non rinnovabili su scala storica. Così come il suolo viene privato della sua fertilità con l’uso intensivo di fertilizzanti (Marx cita emblematicamente il guano), la forza lavoro viene “bruciata” in tempi rapidi attraverso turni estenuanti. Entrambi i processi sono resi possibili dalla capacità del capitale di spostarsi continuamente su nuovi terreni vergini (geograficamente o socialmente) quando ha esaurito le risorse locali, creando l’illusione di un’apparente indipendenza dai limiti naturali.
3. Il comunismo e la natura
Gli ecologisti accusano di Marx di aver abbracciato una visione prometeica o produttivista della storia, ereditata dalla tradizione illuminista, che concepisce il progresso umano come un processo di dominio sulla natura, finalizzato all’espansione illimitata della produzione e del consumo. Secondo questa interpretazione Marx avrebbe celebrato il capitalismo per il suo sviluppo delle forze produttive, vedendo in esso una tappa necessaria verso il comunismo, inteso come una società caratterizzata da abbondanza materiale, riduzione del tempo di lavoro e emancipazione dal regno della necessità. Autori come Andrew McLaughlin sostengono che Marx, concentrandosi esclusivamente sulla liberazione dell’uomo attraverso il controllo razionale della produzione, non avrebbe riconosciuto alcun interesse per la liberazione della natura dal dominio umano, riflettendo così una fiducia acritica nel progresso industriale tipica dell’ideologia ottocentesca. Enzo Mingione aggiunge che Marx, pur denunciando le ingiustizie del capitalismo, lo considerava una fase storica inevitabile per lo sviluppo delle forze produttive, senza interrogarsi adeguatamente sul rapporto tra uomo e natura. Ted Benton insiste sul fatto che Marx, influenzato dall’ottimismo industrialista del suo tempo, avrebbe ignorato i limiti naturali dello sviluppo produttivo, presupponendo che l’emancipazione umana dipendesse dalla capacità di superare ogni barriera naturale attraverso l’innovazione tecnologica. Lewis Feuer arriva a sostenere che Marx ed Engels, fiduciosi nella dialettica storica, non avrebbero mai seriamente contemplato l’ipotesi che la tecnologia moderna potesse destabilizzare gli equilibri ambientali della civiltà industriale.
Questa lettura prometeica sembra trovare conferma in alcune affermazioni di Marx, come quando nel Capitale definisce lo sviluppo delle forze produttive come il “compito storico” del capitale che crea inconsapevolmente le premesse materiali per un modo di produzione superiore. Per Burkett siamo davanti ad un’interpretazione unilaterale e fuorviante poiché trascura la complessità della dialettica marxiana. Marx non concepisce il progresso capitalistico come un semplice aumento quantitativo della produzione e del consumo, né come un trionfo dell’uomo sulla natura, bensì come un processo contraddittorio che, pur generando alienazione e sfruttamento, crea le condizioni materiali per una forma di sviluppo umano più universale e meno vincolata dalle limitazioni delle società precapitalistiche. Marx non ritiene che la ricchezza si possa ridurre alla mera accumulazione di beni materiali e non a caso include anche le condizioni naturali e sociali che permettono il pieno dispiegamento delle potenzialità umane. Il capitalismo, distruggendo le forme di produzione locali e parcellizzate, come la piccola proprietà contadina o l’artigianato, socializza il lavoro e allarga le relazioni umane su scala globale, preparando così il terreno per un’organizzazione razionale della produzione in cui gli individui, liberati dalla schiavitù del lavoro salariato, possano svilupparsi in modo più libero e consapevole. Questa potenzialità progressiva del capitalismo si realizza in forma alienata e antagonista. Marx sottolinea che, sotto il dominio del capitale, le forze produttive, inclusi i saperi scientifici e le risorse naturali, appaiono come potenze estranee e ostili ai lavoratori, strumentalizzate per accrescere lo sfruttamento anziché per emancipare l’umanità. Nei Grundrisse osserva che il capitale tratta sia le forze produttive che i rapporti sociali come semplici mezzi per la sua autovalorizzazione, distorcendone la funzione. L’alienazione dei lavoratori dalle condizioni di produzione assume anche una dimensione ecologica visto che le risorse naturali, anziché essere gestite in modo sostenibile e democratico, vengono saccheggiate in nome del profitto immediato, come nota Engels criticando la miopia del capitalismo che ignora gli effetti a lungo termine dello sfruttamento ambientale. La prospettiva di Marx sul comunismo implica una radicale riorganizzazione dei processi produttivi e dei rapporti sociali. In La guerra civile in Francia parla esplicitamente della necessità di una “nuova organizzazione della produzione” che liberi il lavoro associato dal carattere di classe imposto dal capitale e stabilisca un rapporto più armonioso tra società e natura. Questo processo richiederà “lunghe lotte” e una trasformazione sia delle strutture materiali che della coscienza umana, smentendo così l’idea che Marx vedesse nel comunismo un semplice prolungamento del produttivismo capitalista.
Il rapporto tra capitalismo, scienza e natura viene analizzato da Burkett attraverso una prospettiva marxiana che evidenzia come, storicamente, il capitale non crea la scienza ma piuttosto la sfrutta, appropriandosene per il processo produttivo. Marx sottolinea che è proprio il modo di produzione capitalistico a porre per la prima volta le scienze naturali al servizio diretto della produzione in modo sistematico e routinario, integrandole come elemento chiave nello sviluppo delle forze produttive. Questo sfruttamento della scienza da parte del capitale è parte di un più ampio sistema di industriosità universale che implica l’utilizzo della scienza stessa, così come di tutte le qualità fisiche e mentali, per creare un apparato di sfruttamento generalizzato sia delle risorse naturali che delle capacità umane. Il capitale, attraverso questa appropriazione, abbatte ogni barriera che limita lo sviluppo delle forze produttive, l’espansione dei bisogni e lo scambio di energie naturali e intellettuali, aprendo così possibilità inedite per forme di sviluppo umano meno vincolate da limitazioni tradizionali o geografiche. Sebbene il capitalismo incoraggi lo sviluppo scientifico “fino al suo punto più alto”, ciò avviene solo in quanto la conoscenza si rende indipendente dal lavoro diretto, entrando al servizio esclusivo dell’accumulazione capitalistica. Questa separazione tra sapere scientifico e lavoro manuale, inizialmente funzionale al capitale, rappresenta al contempo una condizione necessaria per lo sviluppo autonomo della scienza che però si trasforma in un potere alieno rispetto ai lavoratori. Con l’avvento della meccanizzazione il sapere si oggettivizza nelle macchine che si ergono di fronte all’operaio come una forza estranea e dominante, riducendo il lavoro vivo a mero strumento del capitale. Marx osserva come, mentre una ristretta classe di lavoratori specializzati trae vantaggio da questo processo, la maggioranza della forza lavoro viene dequalificata, privata di ogni sviluppo intellettuale e professionale, relegata a mansioni ripetitive e prive di creatività. La scienza, anziché essere uno strumento di emancipazione collettiva, diventa così un mezzo di oppressione, incorporata nel capitale fisso e contrapposta al lavoratore in forma di macchinario. La natura è invece oggetto di un approccio strumentale da parte del capitalismo. Essa è ridotta a mero oggetto di sfruttamento per la produzione di merci. Marx nota come, sotto il dominio del capitale, la natura perda ogni autonomia, diventando puramente un mezzo per soddisfare bisogni umani immediati, sia come oggetto di consumo che come mezzo di produzione. Questo sfruttamento, guidato dalla logica quantitativa dell’accumulazione monetaria, ignora le interconnessioni ecologiche e i limiti di adattamento degli ecosistemi, portando a quelle che Engels definisce “vittorie apparenti” sull’ambiente, seguite da conseguenze impreviste e spesso disastrose. Engels mette in guardia contro l’illusione di un dominio assoluto sulla natura, osservando che per ogni vittoria, la natura si vendica poiché gli effetti secondari e terziari delle manipolazioni umane spesso annullano i benefici iniziali. La scienza capitalistica, orientata alla risoluzione di problemi pratici immediati e alla massimizzazione del profitto, trascura le complesse relazioni ecologiche, producendo conoscenze frammentarie e potenzialmente dannose. Allo stesso tempo, il capitalismo, con la sua espansione globale e l’intensificazione dello sfruttamento delle risorse naturali, genera paradossalmente le condizioni per una coscienza ecologica più avanzata. La crescente socializzazione della produzione e l’interdipendenza tra uomo e natura, sebbene mediate dalla logica del mercato, pongono le basi per una comprensione più olistica dei sistemi naturali. Marx ed Engels intravedono la possibilità di un superamento dell’antagonismo uomo-natura ma solo attraverso una trasformazione radicale del modo di produzione. Finché la scienza rimane subordinata al capitale, la sua capacità di promuovere uno sviluppo sostenibile rimarrà limitata. Solo in una società post-capitalistica, dove i produttori controllano democraticamente le condizioni del loro lavoro, la scienza potrà diventare una forza di emancipazione, riconciliando l’umanità con la natura. Passando al consumo sotto il capitalismo, Burkett attacca l’interpretazione prometeica che attribuisce a Marx una visione acritica del consumismo di massa. Sebbene il capitalismo abbia storicamente ampliato la sfera dei bisogni e delle possibilità di consumo, lo ha fatto in modo contraddittorio. Esso libera i lavoratori dai vincoli tradizionali, permettendo loro di accedere a una più ampia gamma di beni e servizi ma impone limiti qualitativi e quantitativi dettati dallo sfruttamento salariale. Marx critica aspramente la degradazione dei consumi operai, costretti a beni di scarsa qualità e a bisogni artificiali, creati dal capitale per sostenere la domanda. La mercificazione dei bisogni trasforma i desideri umani in appetiti indotti mentre l’alienazione nel lavoro si ripercuote sul tempo libero, riducendo la vita degli operai a una mera sopravvivenza fisica. Engels descrive con toni drammatici la condizione del proletariato industriale, privato del contatto con la natura e di ogni sviluppo intellettuale. L’alienazione del lavoro si riflette in un consumo distorto, dove persino i bisogni più elementari, come l’aria pulita, diventano privilegi inaccessibili.
Bisogna ora affrontare la crisi ecologica e ambientale all’interno dell’analisi marxiana dei limiti storici del capitalismo, dimostrando come questi limiti non si esauriscano nelle tradizionali tendenze alla sovraccumulazione e alla caduta del saggio di profitto ma siano invece espressione di una crisi più profonda delle relazioni capitalistiche stesse, intesa come culmine storico della contraddizione fondamentale tra produzione finalizzata al profitto e produzione orientata ai bisogni umani. Questa contraddizione, che Marx individua come il “vero limite” del capitalismo, si manifesta in molteplici forme, tra cui le crisi cicliche ma anche nello sfruttamento intensivo del lavoro, nello spreco di risorse e, non da ultimo, nella devastazione ambientale. Sebbene Marx non abbia esplicitamente collegato le crisi ecologiche alla crisi storica del capitalismo, un’assenza che Foster spiega con il fatto che Marx, ottimista riguardo alla rivoluzione, riteneva che il capitalismo sarebbe stato abbattuto molto prima che i problemi ambientali da lui osservati potessero diventare realmente critici, Burkett dimostra come le tendenze alla crisi ecologica siano non solo coerenti con la sua analisi ma la arricchiscano considerevolmente. Questo approccio permette di integrare le questioni ambientali nella prospettiva marxiana della transizione al comunismo e di confutare le interpretazioni riduttive, come quella proposta da Weisskopf, che considerano la teoria marxiana delle crisi irrilevante per comprendere i problemi ecologici contemporanei, incluso il rischio di un collasso biosferico. Weisskopf, infatti, riduce la crisi capitalistica a un mero meccanismo interno all’accumulazione, relegando le condizioni naturali e sociali della produzione a fattori esterni, arrivando a definire le preoccupazioni ambientali come più ricardiane che marxiane e quelle sociali come essenzialmente polanyiane, escludendo così la possibilità che la teoria marxiana possa offrire strumenti per analizzare le contraddizioni del capitalismo contemporaneo. Questa visione trascura completamente la prospettiva marxiana di una crisi generalizzata del sistema che non si limita alle fluttuazioni economiche ma investe l’intera struttura sociale e produttiva. La contraddizione fondamentale del capitalismo, secondo Marx, risiede nell’antitesi tra lo sviluppo delle forze produttive sociali e la loro subordinazione alla logica del profitto privato. Già a partire dai Manoscritti economico-filosofici del 1844, Marx sottolinea come, sotto il capitalismo, il lavoratore sia alienato dal prodotto del suo lavoro e anche dalle condizioni stesse della produzione che gli si presentano come poteri estranei e ostili, controllati dal capitale anziché dalla collettività. Questa alienazione si estende anche alla natura che viene trasformata in un mero strumento di valorizzazione, perdendo la sua funzione di base materiale per la riproduzione sociale. Nei Grundrisse e nel Capitale Marx approfondisce questa dinamica, mostrando come il capitale, nel suo incessante bisogno di espandersi, tenda a sfruttare e degradare sia il lavoratore che l’ambiente naturale, trattandoli come semplici mezzi per l’accumulazione.
Le crisi economiche, come quelle legate alla caduta tendenziale del saggio di profitto, non sono dunque la causa ultima delle contraddizioni del capitalismo ma solo una loro manifestazione superficiale. Marx le descrive come l’invito più esplicito a superare il capitalismo poiché rivelano come la logica del profitto entri in conflitto con lo sviluppo delle forze produttive e con le esigenze della riproduzione sociale. Le risposte del capitale a queste crisi, come l’aumento dello sfruttamento, la compressione dei salari o la distruzione controllata di risorse, non fanno che approfondire la contraddizione, dimostrando che il sistema può sopravvivere solo a spese del benessere collettivo e dell’equilibrio ecologico.
Un aspetto cruciale dell’analisi è il ruolo delle lotte sociali ed ecologiche nel contesto di queste crisi. Marx vede nei conflitti di classe, comprese le resistenze contro lo sfruttamento ambientale, una spinta potenziale verso un superamento del capitalismo. Affinché queste lotte abbiano successo è necessario che i lavoratori riconoscano nelle crisi i sintomi di un limite strutturale del sistema, spingendosi così a immaginare un nuovo modello di produzione, basato sul controllo democratico delle condizioni di produzione, compresa la relazione con la natura.
La crisi storica del capitalismo secondo Marx non può essere ridotta a semplici crisi cicliche di accumulazione o a problemi di caduta del saggio di profitto, come invece suggerito da interpretazioni riduttive come quella di Weisskopf. Marx concepisce la crisi storica come il culmine della contraddizione fondamentale del capitalismo: l’alienazione della produzione dai bisogni reali dei produttori. Anche in assenza di crisi di redditività il capitalismo può entrare in crisi storica quando le misure per ripristinare la profittabilità privata, come l’aumento dello sfruttamento, la precarizzazione o la privatizzazione dei beni comuni, entrano in conflitto sempre più marcato con la capacità del sistema di soddisfare i bisogni umani. Questo conflitto si acuisce perché il capitalismo, pur avendo sviluppato le forze produttive su scala sociale, le sottomette alla logica dell’accumulazione monetaria competitiva, creando una forma di socializzazione distorta e alienata. Fondamentale in tutto ciò è la progressiva socializzazione della produzione sotto il capitalismo. Marx sottolinea come questa socializzazione assuma un carattere contraddittorio. La produzione diventa un processo collettivo e interdipendente ma il suo controllo rimane nelle mani di una classe capitalistica che tratta mezzi e prodotti sociali come proprietà privata. Engels nell’Anti-Dühring descrive efficacemente questa contraddizione: i mezzi di produzione diventano sociali nella loro essenza ma vengono ancora appropriati privatamente come ai tempi della produzione artigianale. Questa tensione tra produzione sociale e appropriazione privata si manifesta in un crescente squilibrio tra chi contribuisce alla ricchezza sociale e chi ne trae beneficio. Marx evidenzia come il capitale finanziario e le società per azioni rappresentino forme in cui questa contraddizione diventa particolarmente evidente, con la proprietà che va assumendo un carattere sempre più parassitario. La seconda dimensione fondamentale è l’inadeguatezza crescente del valore (misurato in tempo di lavoro astratto) come misura della ricchezza reale. Con l’avanzare della socializzazione la ricchezza dipende sempre meno dal lavoro immediato e sempre più dall’applicazione di conoscenze scientifiche e dall’organizzazione sociale del lavoro. Marx nei Grundrisse osserva come il furto del tempo di lavoro altrui diventi una base miserabile rispetto alle nuove potenzialità create dalla grande industria. Il capitalismo sviluppa così forze produttive che rendono obsoleto il suo stesso fondamento, lo sfruttamento del lavoro salariato, ma non può superare questo limite senza negare se stesso. La terza dimensione è l’incompatibilità tra lo sfruttamento di classe e le potenzialità di sviluppo umano. Marx nota che in una società avanzata la vera “pietra angolare” della ricchezza diventa l’appropriazione della propria forza produttiva generale, la comprensione della natura e il dominio su di essa in virtù della sua presenza come corpo sociale. Il progresso dipende ormai dallo sviluppo delle capacità umane in senso universale, non dall’estorsione di pluslavoro. Tuttavia il capitalismo tratta i lavoratori come semplici mezzi per l’accumulazione, limitando e distorcendo questo sviluppo.
Burkett critica la teoria delle “due contraddizioni” di O’Connor perché separa artificialmente le crisi di realizzo dalle crisi ambientali mentre l’analisi marxiana mostra come entrambe derivino dall’alienazione capitalista delle condizioni di produzione. Inoltre il capitale dimostra una notevole capacità di trarre profitto dalle stesse crisi che genera, come dimostra lo sviluppo di settori come il riciclo, la bonifica o la sicurezza privata, il che mostra come la crisi ambientale non minacci necessariamente la redditività del sistema, pur compromettendone la sostenibilità umana ed ecologica. Il capitalismo, sviluppando un metabolismo sempre più intensivo con la natura, crea problemi che richiederebbero soluzioni collettive e pianificate che invece vengono affrontati attraverso ulteriori processi di mercificazione e privatizzazione. Gli accordi come il NAFTA e il GATT, con le loro clausole sulla privatizzazione della conoscenza e sulla mercificazione della natura, rappresentano esempi paradigmatici di questa dinamica.
Burkett, pensando alla transizione verso il comunismo, critica la tradizionale visione industrialista della rivoluzione presente in alcuni scritti di Marx ed Engels. Questa prospettiva, che identifica nel proletariato industriale, concentrato nei settori produttivi chiave come manifattura, miniere e agricoltura capitalistica, il soggetto rivoluzionario per eccellenza viene messa in discussione attraverso una critica ecologica. Non esiste alcuna garanzia che una classe operaia formatasi all’interno del sistema capitalistico, abituata a concepire la natura come mera risorsa produttiva, possa sviluppare una relazione qualitativamente diversa con l’ambiente una volta al potere e secondariamente la profonda alienazione del proletariato dalle condizioni di produzione, descritta da Marx nei Grundrisse come condizione di “povertà assoluta” dove i lavoratori sono completamente separati dai mezzi di produzione e ridotti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere, solleva seri interrogativi sulla sua effettiva capacità di guidare una trasformazione ecologicamente sostenibile. Questa contraddizione emerge con particolare chiarezza nel Capitale, dove Marx descrive come il sistema capitalistico educhi i lavoratori a percepire le condizioni esistenti come “leggi naturali”, incluse le modalità di sfruttamento delle risorse ambientali.
Per superare queste limitazioni Burkett propone una rilettura più dialettica del pensiero marxiano, focalizzandosi sulla fondamentale tensione tra valore d’uso e valore di scambio che attraversa l’intero sistema capitalistico. Mentre per il capitale sia la forza lavoro che la natura rappresentano semplicemente mezzi per l’accumulazione astratta di valore, per i lavoratori il salario è essenzialmente uno strumento per ottenere beni d’uso necessari alla sopravvivenza e allo sviluppo umano. Questa contraddizione strutturale, analizzata da Marx nel terzo libro del Capitale come conflitto tra “produzione per il profitto” e “produzione per il bisogno”, genera una dinamica conflittuale permanente. Il capitale cerca costantemente di intensificare lo sfruttamento sia della forza lavoro che delle risorse naturali mentre i lavoratori sono spinti a lottare per migliori condizioni salariali e per la difesa dell’ambiente in cui vivono e lavorano. La contraddizione si acuisce con lo sviluppo del capitalismo che da una parte socializza la produzione (rendendo sempre più evidenti le interconnessioni tra processi produttivi, riproduzione sociale e basi naturali) ma dall’altra mantiene un sistema di appropriazione privata che impedisce una gestione razionale e democratica delle risorse.
Burkett parla anche del ruolo della competizione capitalistica nel frammentare la classe operaia e nel contrapporre lavoratori di diverse regioni o settori in una corsa al ribasso sulle condizioni di lavoro e sulle tutele ambientali. Questa stessa competizione genera una contraddittoria tendenza all’associazione operaia poiché i lavoratori sono costretti a unirsi in sindacati e movimenti per difendere salari, condizioni lavorative e servizi pubblici. Tutte queste organizzazioni sono inizialmente limitate a obiettivi economici immediati ma contengono in nuce la possibilità di svilupparsi in un movimento politico più ampio capace di sfidare l’intero sistema capitalistico, come emerge dagli scritti di Marx e Engels per l’Associazione Internazionale dei Lavoratori. Questa dinamica associativa non riguarda solo il proletariato industriale tradizionale ma si estende a tutti i settori della produzione sociale, compresi quelli (come istruzione, sanità e trasporti) che sono cruciali per la riproduzione della forza lavoro ma spesso esclusi dalle analisi tradizionali. Grazie alla crescente socializzazione della produzione sotto il capitalismo, settori un tempo marginali diventano centrali per l’accumulazione capitalistica (attraverso processi di privatizzazione e mercificazione) mentre questa stessa centralità li trasforma in terreni di conflitto cruciali per le lotte operaie e sociali. Queste contraddizioni si manifestano nelle lotte contemporanee per la difesa dei servizi pubblici, dove spesso si creano alleanze inedite tra lavoratori del settore, utenti e movimenti ambientalisti. Particolarmente rilevante è il caso delle cosiddette “fabbriche diffuse” del settore dei servizi, dove la produzione di valore avviene attraverso processi cooperativi che trascendono i tradizionali confini della fabbrica creando nuove potenzialità per forme di organizzazione e lotta che prefigurano modelli di gestione democratica e collettiva. La questione ambientale emerge come terreno privilegiato per osservare queste dinamiche. I movimenti per la giustizia ambientale spesso riescono ad unire lotte operaie, rivendicazioni indigene e battaglie delle comunità marginalizzate contro l’inquinamento industriale, configurandosi come laboratori di nuove forme di organizzazione che superano le tradizionali divisioni tra lotte economiche e ambientali.
Il cuore del progetto comunista è la riunificazione dei produttori con le condizioni della produzione, superando la separazione capitalistica attraverso una nuova forma di proprietà comune che non è né statale né privatistica ma si configura come un usufrutto collettivo responsabile. Marx, nel Capitale, paragona la proprietà privata della terra alla schiavitù, sostenendo che nessuna società può pretendere di “possedere” la natura ma deve piuttosto agire come custode per le generazioni future, migliorando anziché degradando l’ambiente. Un esempio concreto di questa visione è la proposta di superare la dicotomia città-campagna che Marx ed Engels considerano una contraddizione ecologica fondamentale del capitalismo, responsabile dello spreco di nutrienti nel suolo, dell’inquinamento urbano e della rottura dei cicli metabolici. Engels descrive questa riconciliazione come una necessità fisiologica per la salute pubblica, immaginando una distribuzione territoriale razionale delle attività produttive che reintegra agricoltura e industria in un unico sistema circolare. Marx, nei Grundrisse, aggiunge che la vera ricchezza comunista non risiede nell’accumulo di merci ma nell’espansione del tempo libero e nello sviluppo multilaterale delle capacità umane, il che riduce strutturalmente la pressione sulle risorse naturali. La gestione delle risorse nel comunismo si basa su un approccio precauzionale che riconosce i limiti della conoscenza umana sugli ecosistemi. Marx, analizzando l’agricoltura, sottolinea la necessità di costituire riserve per far fronte a eventi naturali imprevedibili, dimostrando una consapevolezza dei rischi ambientali che anticipa il moderno principio di precauzione. Burkett smonta l’equivoco secondo cui Marx ridurrebbe la natura a mero strumento produttivo. La sua concezione del valore d’uso include dimensioni estetiche, culturali e scientifiche, non solo economiche. La ricchezza comunista è definita in termini qualitativi, benessere umano, equilibrio ecologico, tempo libero, e non nella crescita quantitativa del PIL. Il capitalismo tratta l’ambiente come una merce da sfruttare, il comunismo lo riconosce come fondamento materiale della vita collettiva, oggetto di cura e responsabilità condivisa. La sostenibilità è un elemento costitutivo di una società liberata dall’alienazione.