La ripresa del socialismo in Europa. Le proposte di Boris Kagarlitsky

  1. Introduzione

Boris Kagarlitsky inizia il suo libro La lunga ritirata. Per la rinascita del socialismo in Europa difendendo l’idea che il socialismo mantenga la sua necessità di esistere perché sarebbe strettamente legato alle contraddizioni sociali generate dal capitalismo che fanno emergere la necessità di avere strategie diverse da quelle offerte dalle classi dominanti. Citando Werner Sombart, il socialismo finisce per essere un fenomeno speculare del capitalismo e di conseguenza ogni tentativo di seppellirlo è destinato al fallimento. Questo ci deve attrezzare nel nostro tentativo di ricostruzione del movimento socialista a livello internazionale a partire dalla situazione in cui ci troviamo, figlia di una brusca battuta di arresto iniziata alla fine degli anni ‘70 che ha dato vita ad una ritirata politica ancora in corso. Non si tratta solo di una regressione politica ma anche intellettuale poiché nel frattempo sono tornati di attualità temi ed argomenti un tempo superati, come nell’economia è il caso delle teorie neoclassiche. I socialisti hanno risposto a questa situazione in due modi: con un pragmatismo esageratamente concreto o con un delirante utopismo altamente moralistico. Contro quest’ultima deriva Kagarlitsky si scaglia con particolare veemenza sostenendo che le utopie servivano nella prima metà del XIX secolo perché i compiti concreti delle riforme e le strategie di lotta rivoluzionaria non erano ancora stati formulati, mentre oggi sono già perduti. Più i socialisti si sforzano di essere utopisti e meno restano socialisti. Il rischio è spostarsi dal regno del possibile e del necessario al regno dell’ideale e del desiderabile, mutando il loro ideale in un mito ideologico o in un principio morale. L’autore sostiene che bisogna comunque fare attenzione alle idee considerate utopiche dall’attuale ordine politico essendo normale l’opposizione ad esse da parte degli oppositori della trasformazione sociale. La polemica di Kagarlitsky è orientata non su coloro che si oppongono al cambiamento ma sui suoi sostenitori, i quali dovrebbero evitare di parlare di utopia. Indipendentemente dall’ostilità degli oppositori del marxismo, il pensiero di Karl Marx è scientifico e non utopistico. Pensare che sia una bella favola perché l’esperienza pratica ha smentito questa o quella previsione del Capitale per via di qualche imprecisione equivale a negare la scientificità della matematica o della fisica perché nei loro calcoli gli scienziati hanno commesso degli errori o hanno inserito nelle loro analisi dei dati imprecisi o non verificati. La scientificità del pensiero di Marx è data dal modo in cui le sue ipotesi sono state formulate. Le ipotesi possono essere smentite ma il metodo di pensiero no. Ciò che differenzia il socialismo scientifico di Marx ed Engels dall’utopismo è l’abbandono dei tentativi di costruire programmi di trasformazione della società a partire da concezioni soggettive del bene a favore di un metodo che non si basasse su una valutazione morale della realtà esistente o sulla sua critica in termini di interesse di classe ma sull’analisi delle dinamiche e delle contraddizioni dello sviluppo borghese. Il socialismo diventa qualcosa di necessario e possibile non perché nasce da una nostra volontà ma perché è lo stesso capitalismo a creare la necessità di una trasformazione che genererà una società qualitativamente nuova. In breve, le conclusioni a cui giunsero Marx ed Engels potevano essere sbagliate o non corrette in ogni dettaglio ma erano scientifiche perché basate sullo studio delle contraddizioni e delle dinamiche del capitalismo realmente esistente e quindi le loro analisi erano fondate su ciò che era oggettivamente necessario e possibile.

  1. Il confronto con la tradizione

La revisione critica di alcuni elementi critici della tradizione marxista inizia con la questione del rapporto tra rivoluzione e democrazia. Nel corso del XX secolo la sinistra ha spesso dovuto trovare ogni sorta di giustificazione per l’involuzione autoritaria di molti degli esperimenti socialisti che in alcune occasioni sono diventati dei regimi totalitari. Tuttavia la sinistra si è impegnata in molte occasioni in difesa della democrazia, giocando un ruolo centrale nella lotta per la libertà e nella formazione delle democrazie moderne. Questo porta l’autore ad indagare il rapporto tra socialismo e democrazia a partire dall’esperienza della Comune per smentire coloro che affermano che il socialismo sia la negazione della libertà ancor prima della democrazia. Seguendo le tesi del filosofo Boris Kapustin, emerge come i socialisti abbiano sempre difeso la democrazia pluralista, soprattutto durante la lotta per la conquista del suffragio uguale ed universale e un concetto fondamentale e scientifico come quello di dittatura del proletariato non ha mai voluto dire dittatura monopartitica, censura totale e inamovibilità del potere bensì la subordinazione dell’apparato statale alla volontà collettiva con lo scopo di proteggere il proletariato dal controllo della burocrazia. Queste sono le lezioni tratte da Marx dall’esperienza della Comune di Parigi. Essa era il modello della dittatura del proletariato basata su una democrazia multipartitica capace di rispettare la libertà di parola e di riunione assieme a tutte le norme giuridiche fondamentali ereditate dal precedente regime. Tutto ciò, ovviamente, senza dimenticare la necessaria difesa della rivoluzione dai suoi nemici. Questi temi dominano anche la riflessione di Lenin in Stato e rivoluzione che nel 1917, mentre era ricercato dagli agenti del governo provvisorio, studia i testi di Marx ed Engels sulla Comune di Parigi trovando molti paralleli con i Soviet russi del 1905 e 1917. Nella Comune Lenin trova realizzata la democrazia in generale mentre la Rivoluzione Russa si è avvicinata allo stesso principio in maniera più timida ma anche più generalizzata creando Soviet dei deputati operai, dei Deputati ferrovieri e dei Deputati contadini. Tuttavia non si trattava di una ricetta già scritta per le organizzazioni del potere proletario del futuro ma uno schema utile per analizzare come le rivoluzioni finiscono per scoprire e nella pratica risolvere il problema del potere. Secondo il marxista inglese Roger Simon, in Lenin c’era un legame meccanico tra economia e politica. Per il capitalismo la forma di Stato appropriata è la democrazia parlamentare mentre per il socialismo è la democrazia diretta basata sui consigli. Qui interviene la critica di Weber al marxismo secondo cui anche il socialismo non può fare a meno di funzionari e specialisti competenti, l’alternativa è sempre e solo tra burocrazia e dilettantismo. Il pragmatismo di Weber interviene a gamba tesa anche nelle necessità, man mano che il potere diventa più forte e specializzato, della separazione tra potere legislativo ed esecutivo. In definitiva per Kagarlitsky il problema dello Stato socialista, come veniva presentato dal marxismo dei primi del Novecento, non era nell’assenza di democrazia ma piuttosto in una prematura radicalità che potrebbe essere realizzata dall’utilizzo delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione per rafforzare le possibilità di una partecipazione dirette della masse.

Un altro punto centrale nel rapporto tra democrazia e socialismo risiede nel nostro dovere di non accontentarci di difendere, nei momenti di crisi, le istituzioni liberali e la libertà borghese perché non solo non riusciremo ad ottenere una trasformazione della società ma neanche a difendere queste stesse libertà che finiranno per sgretolarsi sotto il peso delle contraddizioni sociali del capitalismo. La difesa della democrazia e delle sue istituzioni passa per la contemporanea presa di misure per una trasformazione radicale della società. Questo cambiamento o viene intrapreso da sinistra, dice Kagarlitsky, o verrà imposto da destra dalle forze della reazione in una forma tale da produrre una scenario disastroso per le future generazioni.

Per quanto riguarda il rapporto con la rivoluzione, in particolare soffermandosi sui bolscevichi e la figura di Lenin, Kagarlitsky è un sostenitore della tesi del giacobinismo di Lenin. Per l’autore non è solo una questione di continuità ideologica ma anche di somiglianza della situazione storica. I giacobini, ben più delle discussioni dottrinali di Kautsky sulla correttezza ideologica delle scelte dei bolscevichi alla luce della teoria marxista, fornivano un esempio pratico di cosa dovesse fare un regime rivoluzionario alle prese con la reazione cioè nessuna libertà per i nemici della libertà. Bisognava porre termine, nelle parole di Lenin, alla guerra della libertà contro la tirannia come fecero i giacobini nella Vandea. Questo si tradusse in Russia nella distruzione dell’ordine borghese e dei rapporti tradizionali preborghesi tipici di un capitalismo periferico come quello russo ma portò anche alla conclusione che il compito dei bolscevichi fosse completare la rivoluzione borghese che nel paese non aveva mai avuto luogo. Le circostanze difficili in cui dovettero operare giustificano anche la necessità di violare le libertà democratiche difese dagli stessi bolscevichi fino a poco tempo prima e l’instaurazione di una dittatura rivoluzionaria. Queste misure furono, secondo Trotsky, un atto di autodifesa imposto dalla guerra civile e non sempre così brutale perché la repressione era intervallata da tentativi di dialogo con gli avversari politici che non impedì l’esecuzione di massa di persone in realtà sostenitrici del regime rivoluzionario arrivando a limitare, contro ogni idea socialista, anche la libertà dei lavoratori russi. Kagarlitsky spiega questi fatti con la differenza tra i piani di Lenin espressi in Stato e rivoluzione e la situazione sul terreno che impose all’ordine del giorno non la lotta di classe bensì la sopravvivenza delle città, la fame, la ripresa della produzione e il salvataggio di un paese che rischiava di andare in rovina. Successivamente si sarebbe dovuto procedere con l’industrializzazione, l’eradicazione dell’analfabetismo e la costituzione di un forte esercito. Tutti compiti che qualsiasi governo in Russia avrebbe dovuto affrontare in una forma o in un’altra. Si tratta, sebbene fosse negli interessi del proletariato, di una dittatura rivoluzionaria con lo scopo di modernizzare un paese ancora largamente composto da contadini analfabeti e con una classe operaia embrionale che era la spina dorsale di un partito guidato da una élite colta. Tuttavia c’è una differenza con la Rivoluzione Francese molto importante. Il Terrore salvò la rivoluzione e non impedì l’affermazione di una repubblica democratica mentre la Rivoluzione d’Ottobre non riuscì ad impedire l’affermazione di un potere autoritario a causa delle condizioni storiche in cui la rivoluzione ebbe luogo. In Russia le cose sono andate diversamente per le diverse condizioni dello sviluppo sociale e l’evoluzione del Partito Bolscevico durante la guerra civile che progressivamente ha portato ad una fusione del partito con gli apparati statali tramite l’accentramento di sempre più potere nelle sue mani. Come dice Trotsky, le questioni politiche sono state sostituite da quelle di governance e, con il X Congresso, furono bandite le fazioni interne al partito come conseguenza di questa evoluzione. Questa doveva essere una situazione temporanea in attesa di tempi migliori ma così non fu e assieme a questo strangolamento della vita interna al partito vennero represse le altre organizzazioni di sinistra, soprattutto con la NEP che secondo Lenin offriva ampi spazi di manovra economica alla borghesia con il rischio di acquisire influenza politica tramite queste forze politiche e in questo modo venne giustificata la repressione degli avversari politici dei bolscevichi. In poche parole la liberalizzazione economica doveva essere scambiata con un più stretto controllo politico e da qui deriva anche la decisione presa sulle fazioni interne al partito. Inoltre in nessuno scritto precedente o successivo la presa del potere viene delineato lo schema del potere politico accentrato nelle mani di un partito unico. Questo esito deriva dagli eventi politici della guerra civile. Lenin era ben consapevole dei problemi derivanti da questa situazione ma non ha mai delineato cosa dovesse essere sul lungo periodo uno Stato socialista a causa dei problemi più immediati che doveva risolvere. Allo stesso tempo lamentava il problema della burocratizzazione dello Stato e del partito che sperava di poter affrontare grazie alle masse portare fuori dall’ignoranza e dall’analfabetismo per prendere in mano il proprio destino. Tuttavia non c’era alcuna soluzione politica e strategica all’orizzonte. Come sappiamo, Trotsky collega la nascita della burocrazia a problemi di distribuzione e non alla nascita di una nuova classe dominante all’interno di questi sistemi. Kagarlitsky aggiunge che tutte le rivoluzioni del XX secolo erano destinate a fallire perché il socialismo e la transizione verso un nuovo sistema matura solo nelle condizioni che permettono all’uomo di uscire dall’industrialismo classico. Tuttavia non erano premature visto che “la maturazione di nuovi rapporti di produzione e sociali non avviene in un solo momento, ‘subito’ o necessariamente ‘dopo’ che un certo sistema tecnologico ha raggiunto la sua maturità. La Storia non conosce processi lineari ordinati e strettamente sequenziali […]. Il XX secolo è stato un’epoca di prime rivoluzioni socialiste, così come il XV e il XVII secolo sono stati un’epoca di prime rivoluzioni borghesi, senza le quali non si sarebbero potute sviluppare le forme di società civile borghese che conosciamo. Queste forme hanno di fatto preceduto la Rivoluzione Industriale o si sono svolte sullo sfondo delle sue primissime manifestazioni, che hanno solo accennato alla sua portata futura. Le prime rivoluzioni socialiste, come le riforme socialdemocratiche, hanno dimostrato la possibilità di una partecipazione universale al governo senza creare le condizioni per la sua efficacia e senza trasformare il coinvolgimento popolare di masse nel processo decisionale da strumento di democratizzazione a canale di mobilità verticale nella formazione di una nuova burocrazia tratta dalle masse popolari”1.

Per Boris Kagarlitsky una società socialista non può essere costruita in un solo tentativo ma è il risultato storico di una serie di tentativi, riforme o rivoluzioni capaci di sedimentare cambiamenti irreversibili sul lungo periodo, correggere errori commessi o uscire da situazioni di stallo.

  1. La vendetta del capitale

La terza parte del libro inizia analizzando le trasformazioni della nomenklatura sovietica in borghesia. Il termine nomenklatura entra nell’uso comune a seguito del successo del libro di Mikhail Voslensky Nomenklatura che penetrò illegalmente nel paese assieme a La nuova classe di Milovan Gilas. Si tratta di due libri anticomunisti che, facendo uso di categorie marxiste, analizzavano l’ascesa di una élite di partito e di Stato in URSS capace di trasformarsi in proprietaria collettiva dei mezzi di produzione e quindi sfruttatrice collettiva. Questa élite non mostrava spudoratamente i propri privilegi e il proprio stile di vita, per Kagarlitsky soffriva di un tormento collettivo di una coscienza sporca che la portava a nascondere costantemente la propria ricchezza, finendo per generare un meccanismo psicologico che poi ha favorito il passaggio di campo tra i restauratori del capitalismo e il successivo baccanale di consumi prestigiosi e dimostrativi tipico della borghesia post-sovietica. La degenerazione di questa élite, tuttavia, non risiede nei consumi ma nella struttura della società sovietica e nell’organizzazione delle istituzioni statali che ha portato ad avere una burocrazia con il monopolio del potere decisionale sottomesso, però, all’interesse dello sviluppo della società e non al proprio interesse di classe o individuale. A limitare il loro potere inoltre, c’era la forte interconnessione tra i vari gruppi di funzionari e corporazioni che impedivano di lavorare senza considerare gli interessi reciproci e quelli dello sviluppo economico generale. Inoltre c’era l’ideologia ufficiale capace di svolgere nella società sovietica la stessa funzione del diritto costituzionale nelle società capitaliste, cioè legittimare l’ordine esistente e allo stesso tempo restringere lo spazio di manovra dell’élite. Kagarlitsky non arriva a definire la nomenklatura un proprietario collettivo visto che il proprietario non era separato dal non proprietario, cioè la massa di comuni cittadini sovietici che tramite una serie di procedure burocratiche provavano a chiedere una costante attenzione verso i propri problemi e interessi e di conseguenza erano indirettamente coinvolti nel processo decisionale. Per l’autore il potere di questa nomenklatura venne minacciato negli anni ‘60 a seguito delle riforme di Kosygin con cui si è cercato di dare maggiore autonomia alle imprese, intese come una comunità industriale capace di autogovernarsi. Il decentramento della governance andava di pari passo con la democratizzazione politica con conseguenze politiche e sociali intollerabili per la nomenklatura e non a caso questo tentativo di riforma venne spazzato nello stesso periodo in cui venne repressa la Primavera di Praga. I fautori del cambiamento stavano incosapevolamete lavorando per una democrazia socialista libera dalla nomenklatura e dei politici di professione con il trasferimento delle questioni pratiche a strutture democratiche e a gruppi di professionisti tecnocratici, privando la vecchia burocrazia della residua sovranità economica e di conseguenza del potere politico che senza il primo termine faceva perdere forza al secondo e alle sue rigide regole. Al posto delle riforme ci fu, come scritto nel suo libro L’impero della periferia. Storia critica della Russia dalle origini a Putin, la trasformazione dell’URSS in un paese esportatore di materie prime con cui ricavare le risorse necessarie per comparare tecnologie e beni all’estero. Questo cambiamento favorì la proliferazione, tra gli anni ‘70 e gli anni ‘80, di ministeri e dipartimenti settoriali che erano espressione di lobby industriali in lotta tra loro per difendere, attraverso la corruzione e ogni possibile strumento amministrativo, la propria posizione. I bisogni non soddisfatti dall’economia pianificata, inoltre, favorivano la creazione di un mercato ombra che rendevano la scarsità una moneta capace di bilanciare gli interessi in assenza di un equivalente monetario universale. A metà degli anni ‘80 l’economia sovietica era pronta per una massiccia privatizzazione vista l’autosufficienza guadagnata in questo modo dalle imprese e la maggiore integrazione dell’URSS con l’economia mondiale. Restava da risolvere il problema dell’ideologia ma, come ci insegna Marx, fu l’evoluzione del sistema stesso a rendere possibile lo smantellamento di tutto l’apparato ideologico sovietico e in questo modo fu possibile realizzare il sogno collettivo e segreto della nomenklatura, ovvero, diventare borghesi. Le conseguenze furono la privatizzazione non solo del potere e della proprietà ma anche dello Stato. Si creò uno steccato sempre più ampio tra élite e società, alimentando acute contraddizioni sociali non presenti nei paesi capitalisticamente avanzati. Il costo da pagare per questa transizione fu la disintegrazione di quel sistema integrato di pianificazione e gestione e la conseguente divisione della proprietà portò alla dissoluzione della stessa URSS. A questo cambiamento non sopravvisse gran parte delle imprese e i nuovi proprietari si ritrovarono con strutture aventi un valore inferiore a quello inizialmente sperato. Emersero nuove componenti della classe dirigente che influenzarono il processo di transizione e riuscirono ad unirsi a quella del vecchio sistema. Ma uno dei più importanti punti di discontinuità rispetto al passato è senza dubbio il completo disinteresse per lo sviluppo e la modernizzazione del paese. Il capitalismo che è emerso assume immediatamente la sua forma neoliberale intrecciata con il dispotismo asiatico, guidato da un’élite attaccata al potere ma senza averne realmente bisogno in quanto tale. Si tratta di un paradosso ma per le élite russe il potere è solamente un mezzo tecnico per accedere a sempre più denaro, a quella che Kagarlitsky definisce una rendita corrotta che è l’essenza della governance russa. Contemporaneamente il capitale in Occidente attaccava il welfare state, cioè il benessere conquistato grazie alle lotte sociali e che aveva anche prodotto una nuova psicologia del consumo problematica per la volontà di resistenza dei lavoratori. L’autore giustamente sottolinea che il benessere nel capitalismo è continuamente sottoposto alle pressioni di quel mercato che crea anche opportunità per aumentarlo e senza una lotta politica ed economica ogni conquista è sempre reversibile. Le spese e i consumi collettivi non di mercato aveva alleggerito le spese delle famiglie consentendo di liberare risorse per consumi di mercato, garantendo sempre le condizioni di base per la riproduzione della società visto che il capitale non poteva fornirle automaticamente a causa della propria logica di accumulazione. Il risultato, come dice Paul Krugman, è che si venne a creare una classe media la cui esistenza non era dipendente dal mercato ma da politiche redistributive. Un fatto ovvio, dice l’autore, ma dimenticato da molti perché nella società borghese il successo e il benessere sono visti sempre come un premio per gli sforzi del singolo individuo. Alla fine degli anni ‘70 il capitale trasformò una parte della classe media in una propria alleata con la scusa di sollevarla dal peso della burocrazia senza intaccare la società dei consumi che si era creata grazie alle politiche keynesiane. Su queste basi si creò il consenso per il neoliberismo che sul lungo periodo, come dimostra la crisi del 2007-2008, era insostenibile. Lo smantellamento dello stato sociale era accompagnato dalla finanziarizzazione del capitalismo. La riduzione della spesa sociale pubblica per le famiglie ha portato al loro indebitamento per ottenere l’accesso a ciò che prima era gratuito o a basso costo. Allo stesso tempo la finanziarizzazione dell’economia ha creato nuovi posti di lavoro, incentivi alla crescita economica, tecnologie e la trasformazione in mercati di pezzi dello stato sociale creando nuove opportunità per l’accumulazione di capitale. Seguendo Bucharin, Kagarlitsky sostiene che il livello di consumo delle masse sia un momento della lotta di classe e che la crisi sia generata dalla contraddizione tra il crescente sviluppo della potenza produttiva del capitale e la base angusta su cui poggiano i rapporti di consumo. Le crisi sono state superate per mezzo di misure socialiste che hanno consentito al capitalismo di sopravvivere per tutto il XX secolo e smentire la previsione della necessità del socialismo di Marx, tesi che torna di attualità dal momento in cui il capitalismo ha rifiutato queste stampelle socialiste in assenza di un’alternativa di sistema, com’era l’URSS, capace di far digerire alla classe dominante qualsiasi compromesso con il lavoro.

  1. La crisi del neoliberismo

La Grande Recessione che ha colpito le economie capitaliste all’inizio del XXI secolo non è un caso isolato ma l’inizio di un periodo di forte instabilità impossibile da affrontare con le ricette politiche ed economiche tradizionali che hanno contribuito ad alimentare l’instabilità del sistema. Le misure contro la crisi, in combinazione con la compressione dei salari, hanno prodotto denaro in eccesso che non poteva essere impiegato in maniera redditizia nella produzione visto la mancanza di domanda. Il superamento di questa crisi non è stata accompagnata da riforme strutturali, anche limitate, e di conseguenza nessuna delle sue cause è stata eliminata. La crisi è stata estinta semplicemente pompando denaro nel sistema, abbassando i tassi di interesse dopo il 2008 e rendendo il credito per le imprese a buon mercato. Di conseguenza le contraddizioni si sono continuate ad accumulare e alla crisi globale si è sovrapposta, nel 2020, la pandemia del COVID-19 sulla cui analisi da parte dell’autore conviene stendere un velo pietoso. Oltre a sottovalutare la pericolosità del SARS-CoV-2 ritiene che le misure di restrizione adottate per farvi fronte fossero sproporzionate rispetto al danno prodotto dal virus. Noi in Italia dovremmo ormai sapere molto bene come in assenza del lockdown i nostri ospedali sarebbero andati incontro ad un collasso a causa del riempimento dei reparti di terapia intensiva da parte dei pazienti infetti dal virus, rischiando di ritrovarci in situazioni difficili che avrebbero comportato la necessità di scegliere tra i vari malati chi salvare e chi lasciare morire. Concordiamo, tuttavia, con l’autore quando afferma che la gestione della pandemia è stata complicata dai tagli al welfare con conseguente riduzione delle reti di sicurezza senza le quali non possiamo rispondere efficacemente a simili minacce. Il sistema sanitario, inoltre, si basava originariamente su criteri esterni al mercato ma il neoliberismo ha imposto un approccio basato sul cliente e sul mercato che ha prodotto conseguenze economiche, sociali, etiche e politiche disastrose. Purtroppo le analisi sbagliate sulle misure restrittive necessarie portano Kagarlitsky a delle ricostruzioni piuttosto fantasiose sui movimenti di protesta contro queste scelte politiche. Ad esempio quando descrive le lotte dei camionisti in Canada a inizio 2022 contro le misure per contrastare la pandemia sostiene che sarebbero stati mossi da problemi economici prodotti dalla crisi economica, la perdita di diritti sociali e il blocco della mobilità verticale. La sinistra non si è resa conto di tutto ciò, diversamente dai conservatori che hanno provato a sfruttare a loro favore una simile lotta. Questo perché la solidarietà di classe è vista dalla sinistra come qualcosa di moralmente repressivo ed antiquato e scommette che non ci sarebbe stata la stessa reazione se fosse stata una protesta in difesa di qualche minoranza oppressa che sia razziale, religiosa, sessuale o gastronomica. Per attaccare questa affermazione torna utile Laclau e il significante vuoto nel suo pensiero. Vuoto non significa casuale. Dietro queste proteste c’era semplicemente una concezione neoliberale della libertà ed è una gravissima ingenuità pensare che certe manifestazioni possano essere egemonizzate a destra o sinistra in base alla lucidità o tempestività dell’intervento politico di una forza politica. Queste persone stavano semplicemente lottando per il diritto di non vaccinarsi e di non rispettare le necessarie misure restrittive imposte da una pandemia per cui non eravamo preparati. Il libro si riprende molto bene quando analizza la guerra in Ucraina causata dal regime di Putin nel 2022. Per molto tempo ci eravamo tutti illusi in Europa che la guerra fosse un fenomeno confinato alla periferia del sistema-mondo capitalista senza finire per influenzare il centro. Il collasso del blocco sovietico, con la formazione di regimi periferici guidati da oligarchi, ha portato il capitalismo periferico a saldarsi all’Europa Orientale e quindi ha accorciato le distanze geografiche con il centro del capitalismo. La guerra, inoltre, non è scoppiata in maniera casuale ma è figlia di una fase in cui la riduzione delle spese per il welfare state si è associata ad una redistribuzione delle risorse a favore delle strutture di potere che Kagarlitsky, citando il sociologo William Robinson, definisce accumulazione militarizzata e accumulazione per repressione che si concretizza in un massiccio aumento delle spese militari e per le forze dell’ordine con la scusa di rispondere a minacce come il terrorismo e il separatismo. Questo fenomeno non è circoscritto alla sola Russia ma è una tendenza generale del capitalismo.

Il conflitto in Ucraina appare inizialmente come tragicomico disaccordo sulla Storia, oppure sullo status della lingua russa in Ucraina o la divisione dei fedeli tra Chiesa ortodossa di Mosca e di Kiev ma in realtà nasconde un conflitto tra interessi corporativi ed economici. Questo elemento centrale spiega anche l’asprezza dei conflitti culturali e le soluzioni ideologiche proposte. Lo scontro per il controllo dei resti dell’apparato produttivo e infrastrutturale sovietico tra la classe dirigente dei due paesi, per il controllo del mercato del grano e i tentativi del capitale russo e occidentale per prendere possesso dei settori più redditizi dell’economia ucraina, sempre a corto di investimenti, hanno generato lo spazio per gli scontri che poi sarebbero diventati bellici. Inizialmente il conflitto, nonostante la crisi del sistema politico ucraino del 2014 con un violento cambio di potere a Kiev, la rivolta del Sud-Est del paese, l’occupazione russa della Crimea e l’appoggio russo alle Repubbliche popolari del Donbass per contenere le rivolte popolari contro il governo di Kiev ed evitare che diventassero una rivoluzione sociale, non è degenerato in una guerra aperta. Il conflitto vero e proprio è scoppiato per una crisi interna della Russia, aggravatasi molto velocemente, e al suo legame con la crisi del sistema globale del neoliberismo in cui il paese è integrato. Non a caso la guerra coincide con un momento caratterizzato dalle tensioni per la riunificazione di Taiwan al resto della Cina, dalle rivolte popolari in Iran e in Kazakistan oltre a tutta una serie di conflitti locali in diversi angoli del pianeta. La natura periferica della Russia è stata plasticamente dimostrata dalla seconda settimana di guerra, quando l’Occidente ha espulso il paese dal sistema mondiale della logistica e dei legami economici. Ciò ha portato all’impossibilità di garantire la propria riproduzione e la propria efficacia nei combattimenti senza le interazioni con il mercato mondiale. Facendo un paragone con il 1914 e la situazione attuale, Kagarlitsky sostiene che sullo sfondo di questi conflitti troviamo una crisi economica crescente, un’escalation dei conflitti sociali e la mancanza di un programma di riforme sociali da parte delle classi dirigenti. La reazione dei governi conservatori davanti all’accumulo di tutti questi problemi è aggressiva e si sviluppa tramite azioni politico-militari con l’intento di ottenere non solo la stabilità politica interna ma anche le risorse necessarie al ripristino dell’equilibrio socio-economico attraverso l’esportazione, tipica della logica imperialista, dei problemi all’esterno. In questo modo le classi dirigenti degli Stati in guerra non fanno altro che aumentare le disparità sociali ed economiche rispetto al punto di partenza. Un altro elemento da sottolineare in questa complicata situazione attraverso questo confronto è l’emergere di un socialismo militare. Durante la Prima guerra mondiale la Germania, e a ruota tutti gli altri paesi, hanno seguito la strada della centralizzazione gestionale, della pianificazione e del razionamento. Anche nella Russia del 2022 si è seguito questo indirizzo, mettendo in discussione la proprietà privata e mettendo nelle condizioni tutte le parti in conflitto di muoversi attraverso nazionalizzazioni e confische o minacce di simili azioni. Per esempio l’Ucraina ha nazionalizzato le aziende legate al capitale russo mentre in Europa lo stop all’importazione del gas russo ha portato ad una maggiore ingerenza dello Stato nel mercato energetico, pensiamo all’acquisto comune in Europa di gas ed altre risorse proprio come è avvenuto con i vaccini durante la pandemia. L’acquisto centralizzato, dice Kagarlitsky, porta con sé anche la distribuzione pianificata centralmente. In definitiva c’è stato uno sviluppo oggettivo che ha favorito l’introduzione di una serie di misure tipiche della pianificazione socialista. Il socialismo di guerra è costretto a muoversi dentro uno scenario globale contraddistinto da massicce interruzioni o rotture delle relazioni economiche e delle catene di approvvigionamento. Questo è stato possibile perché lo sviluppo socio-economico è entrato in una crisi sistemica. Ad esempio, l’aumento molto rapido dei prezzi oppure la carenza di materie prime e componenti per l’industria sono iniziate prima del conflitto russo-ucraino. Le interruzioni alla produzione per questi motivi sono iniziate già nell’estate del 2021 e il conflitto ha solo aggravato questa situazione. Per la Russia si sono aggiunte anche le sanzioni occidentali che hanno fatto riportare in auge nozioni teoriche mercantiliste dell’autosufficienza economica lette anche in ottica marxista riprendendo la tesi di Samir Amin sul delinking, ovvero una situazioni economica contraddistinta dalla capacità di un paese di ridurre al minimo le esportazioni di capitali e dallo sviluppo trainato dall’accumulazione interna basata sulla nazionalizzazione delle grandi imprese. Il caso russo è leggermente diverso perché si tratta di garantire l’autosufficienza economica tramite l’autarchia, ovvero l’interruzione dei legami tecnologici, produttivi e culturali con il mondo esterno con il risultato di essere tornati a produrre beni con gli standard di quaranta/cinquant’anni fa perché impossibilitati ad utilizzare modelli più avanzati a causa delle sanzioni che impediscono l’importazione delle principali componenti moderne per la produzione di beni. Si tratta di quella che Branko Milanovic definisce sostituzione tecnologicamente regressiva delle importazioni producendo arcaizzazione della produzione, dequalificazione della forza lavoro e una maggiore dipendenza dal mercato mondiale nella prossima fase di sviluppo. Da un altro punto di vista, dice Kagarlitsky, la guerra ha aperto alla possibilità di accelerare determinati cambiamenti difficili da realizzare. Per esempio l’abbandono del petrolio e del gas russo possono favorire una ristrutturazione energetica con conseguente diffusione di nuove tecnologie per riavviare il ciclo di accumulazione in senso ecologico.

5. Il problema delle guerre culturali?

Un altro grande problema del libro sono le critiche di Boris Kagarlitsky alle guerre culturali. L’autore sostiene che il confronto tra valori tradizionali e moderni, con tutta l’enfasi posta sulle questioni dell’identità, della razza e del genere come fattori di divisione tra le persone, ha messo in secondo piano la contraddizione tra capitale e lavoro e i problemi legati ad essa, per esempio la disoccupazione e la diseguaglianza sociale. Questo esito è prodotto di una strategia delle classi dominanti che, davanti ad una crisi crescente, sono intenzionate a dirottare l’energia delle proteste verso le cosiddette guerre culturali che non toccano mai le fondamenta economiche della società, spingendo gruppi di lavoratori a farsi la guerra a vicenda. La logica che guida questi conflitti è la trasformazione di disaccordi personali secondari in grandi questioni politiche. Una simile operazione nasce negli anni ‘60 con l’ideologia della sinistra radicale che era orientata ad ampliare sempre di più la sfera del politico, compresa quella personale. In questo modo poterono infiltrarsi dalla porta di servizio nella politica senza entrare in grandi lotte in cui sarebbero stati irrilevanti politicamente ma allo stesso tempo potevano sfidare le forze sociali tradizionali a rispondere a partire da discussioni su cui non avevano una posizione sviluppata, dimostrandosi deboli nel dibattito pubblico contemporaneo. Il successo di simili battaglie, però, è da ricondurre alla benevolenza delle classi dominanti nei confronti di una possibile cooptazione della sinistra radicale nel sistema e, attraverso l’allargamento della sfera politica, sono riusciti a diluire la politica facendogli perdere il suo vero contenuto, ovvero la lotta tra classi per il potere o l’influenza su di esso. Per quanto riguarda il problema delle minoranze, Kagarlitsky sostiene che bisogna tutelare i loro diritti, essendo parte integrante dell’ordine democratico moderno, ma ciò che è in gioco non è la loro acquisizione di privilegi speciali o vantaggi ma il loro diritto a rimanere con la maggioranza. Di conseguenza la discriminazione positiva che piace alla sinistra liberale sarebbe in antitesi con la democrazia e, assieme alle riforme neoliberali, è uno degli strumenti della sua distruzione. Il problema, quindi, non sono le minoranze in sé ma le politiche neoliberali che le utilizzano per frammentare la società trasformando i cittadini in minoranze in competizione tra loro per ricevere privilegi e attenzione. Una simile frammentazione è difficile da unificare, anche se seguiamo il principio dell’intersezionalità delle lotte, cioè la combinazione di più agende di diverse identità. Per l’autore è impossibile creare un insieme organico a partire da parti così diverse, senza concentrarsi su ciò che hanno in comune per superare le differenze. Con la politica dell’identità è possibile solo costruire coalizioni ma non un programma sul lungo periodo per trasformare la società che non è un obiettivo della politica dell’intersezionalità poiché il suo scopo è rendere più confortevole la vita dentro il sistema a specifici gruppi. Per criticare queste affermazioni, in particolare le analisi di Kagarlitsky delle politiche dell’identità e la loro origine, conviene riprendere l’ultimo libro di John Holloway La speranza in un tempo senza speranza. Se pensiamo alle lotte più importanti del 2020 ci verranno sicuramente in mente Black Lives Matter negli USA e le lotte delle donne con le loro manifestazioni per l’otto marzo. Non sembra esserci un concetto unificatore con, per esempio, le lotte ambientalisti o dei lavoratori. Quel ruolo dovrebbe essere ricoperto dal concetto di capitale su cui Holloway insiste ma che al massimo è un punto di riferimento unificante molto vago espresso in concetti come patriarcato capitalista o razzismo capitalista nei conflitti citati all’inizio. Dobbiamo insistere sul concetto di capitale per identificare il nome dei problemi che dobbiamo affrontare perché alimenta la speranza di poter costruire una società senza oppressioni. Noi sperimentiamo una moltitudine di oppressioni che rovinano le nostre vite. Sono oppressioni a cui noi resistiamo. Si tratta dell’oppressione delle donne, dei neri, dei gay, dei trans, degli stranieri, delle persone mentalmente e fisicamente diverse… Non sembra esserci una fine in questa ragnatela di oppressione che ci intrappola. Il capitale serve a suggerire un’unità tra tutte le forme di oppressione che significa unità delle lotte perché dirette contro la stessa totalità delle relazioni sociali. Per riprendere una metafora zapatista, oppressioni come il sessismo e il razzismo sono teste di un’unica idra il cui corpo è il capitale. Tuttavia non siamo sicuri che questo corpo sia veramente il capitale perché avvolto dalla nebbia e ne possiamo scorgere i contorni solo con la riflessione. Allora cosa spinge Holloway a prendere come concetto unificatore il capitale? La risposta è nel tema dell’identità e nel modo in cui essa è generata dalla merce. Tutte le oppressioni, come quella delle donne, dei gay o dei neri, si basano su disciminazioni di particolari identità. Davanti all’oppressione, allora, può esserci una risposta identitaria che trabocca i limiti dell’identità ma allo stesso tempo rischia di portare a termine il suo traboccamento e si stabilizza imponendo una nuova identità oppure una risposta anti-identitaria. Quest’ultima è un disadattamento, uno straripamento. Possiamo essere donne, gay. indigeni ma siamo anche più di questo. Non rientriamo in nessuna categoria perché siamo un movimento in divenire. Le teste dell’idra zapatista, di conseguenza, possono essere intese come delle forzature del divenire in esserci. In altre parole esse sono processi di identificazione come nazionalismo, sessismo e razzismo, generati dal motore centrale avvolto dalla nebbia identificabile nello scambio di merci. La ricchezza viene intrappolata nella forma merce e genera un mondo identitario. Per Holloway la ricchezza è costretta ad adattarsi alla merce mentre il nostro divenire è costretto all’interno degli esseri. Le nostre lotte finiscono per essere indirizzate spesso contro le sole teste dell’idra, senza traboccare e attaccare il processo che genera le identità. Allora, come nel mito, la testa mozzata viene sostituita da altre teste. L’autore non intende stabilire una gerarchia delle lotte ma vuole avvertirci del pericolo di rimanere rinchiusi nelle definizioni imposte dall’attacco, finendo per riprodurre un’identificazione alterata. Dietro questi processi di oppressione, per Holloway, in definitiva c’è la tessitura logica del capitale.

6. Da dove ripartire?

Per Boris Kagarlitsky il principio chiave della democrazia non risiede nella libertà individuale ma nella limitazione, da parte della volontà collettiva della società, della libertà delle élite. Le libertà politiche permettono l’espressione della volontà collettiva, la sua formazione e il suo consolidamento. La borghesia non ha mai avuto bisogno della democrazia. Il suo interesse sociale si riduce allo Stato di diritto con tribunali indipendenti, informazioni affidabili, garanzie contrattuali, regole chiare, una burocrazia responsabile e prevedibile e la protezione della proprietà. Questi obiettivi possono tranquillamente essere raggiunti in un regime autoritario come la Cina o Singapore alla fine del XX secolo. Questo giustifica i tentativi della borghesia, nel XIX secolo, di resistere all’espansione dei diritti elettorali attraverso ogni forma di qualificazione oppure cercando un legame tra la cittadinanza e il possesso di una certa quantità di proprietà. Lo spazio di libertà democratica portato con sé dallo stato di diritto, tuttavia, ha aperto alla prospettiva di una lotta, poi vittoriosa, per il suffragio universale. Alla fine del XX secolo la borghesia si trova davanti ad un dilemma, cioè come diminuire il controllo pubblico sulle imprese senza cancellare le istituzioni democratiche e il suffragio universale. La soluzione trovata è stata trasformare le questioni economiche attraverso la liberalizzazione del mercato o rendendole un dibattito per specialisti inaccessibile al grande pubblico.

“Paradossalmente, la fine del XX secolo non è stata solo un’epoca di proliferazione senza precedenti delle istituzioni democratiche formali nel mondo (pluralismo dei partiti, elezioni, alternanza del potere), ma anche un’epoca di diffusa emarginazione di queste procedure dalla sfera del dibattito pubblico. Non sorprende che l’inizio del secolo successivo sia stato ovunque un’epoca di alienazione senza precedenti tra Stato e società, generando, da un lato, disordini di massa, proteste e conflitti in Paesi che si dichiaravano democrazie modello e, dall’altro, non solo in Russia, ma anche in molti altri Paesi, una recrudescenza dell’autoritarismo”2.

In questo stesso periodo i partiti di sinistra si sono trasformati in macchine elettorali interessate solo ai voti, oppure sono finiti in derive extraparlamentari vittime di autocompiacimento settario e ostile alle elezioni, senza indicare una vera alternativa. La lotta elettorale, invece, storicamente ha avuto un doppio significato per le forze di sinistra. Il primo è la formazione e il consolidamento di una maggioranza pubblica intorno ad una strategia di cambiamento della società. Il secondo significato riguarda la possibilità di conquistare una maggioranza e vincere le elezioni all’interno di un percorso per prendere il potere. Dimenticando questi elementi, i processi elettorali sono diventati dei semplici processi autonomi e autosufficienti. In momenti di calma e prosperità questa strategia porta ad un generale spostamento delle forze politiche verso il centro, favorendo l’integrazione della sinistra nel sistema borghese che dovrebbe modificare. Nei tempi di crisi l’elettorato centrista diminuisce facendo spostare ancora più a destra le forze di sinistra alla ricerca dell’elettorato centrista ormai scomparso. Questo produce cocenti sconfitte che aprono lo spazio ad altre forze, radicali e di alternativa. Se questo spazio non viene riempito da sinistra, finisce per essere occupato da destra. Questa è la situazione che stiamo attualmente vivendo. Forze politiche che trovavano la loro legittimità nella consueta fedeltà degli elettori e nelle nicchie di potere occupate nel sistema, si stanno indebolendo e iniziano a crollare. Siamo in una fase di crisi che coincide con un meccanismo di riconfigurazione politica ma allo stesso tempo questo processo sta avvenendo più rapidamente rispetto alla formazione di nuove forze politiche. In questo modo si sono create situazioni incerte e pericolose che rendono attraente la violenza rispetto ai meccanismi politici abituali. Il degrado dell’alternativa di sinistra ha trascinato con sé anche le istituzioni democratiche liberali schiacciate tra procedure burocratiche e populismo. Boris Kagarlitsky allora invita, per salvare il loro contenuto democratico originario, alla mobilitazione di massa per salvare la democrazia e sfidare le istituzioni fatiscenti del parlamentarismo. Questo però è solo uno dei molti problemi del capitalismo che iniziano a moltiplicarsi e che possono, tradizionalmente, essere affrontati in due modi: con le riforme o con la rivoluzione. Ripartendo però da Rosa Luxemburg, è possibile andare oltre questa facile dicotomia. Ricollegandoci al problema precedente, lo smantellamento dei diritti sociali ha minato le fondamenta della democrazia moderna e questo porta alla necessità di riscoprire e difendere le libertà democratiche conquistate, pensando che fossero irreversibili, faticosamente nel XX secolo.

“Rosa Luxemburg, considerando il rapporto tra democrazia e riforme sociali, ha dimostrato che sono proprio le libertà civili a far nascere la speranza di trasformare lo Stato in uno strumento della volontà della maggioranza. Secondo la teorica polacca la democrazia avvicina lo Stato alla società (e addirittura ‘sviluppa lo Stato nella società’), e serve ‘da molla propulsiva del movimento socialista’. Tuttavia, la democrazia trasferisce la contraddizione all’interno dello Stato, che si trasforma in un’arena per la lotta di varie forze di classe. Le vecchie classi dominanti possono vincere questa lotta solo limitando, riducendo o emarginando la partecipazione dei cittadini alla politica. Ecco perché la svolta verso il neoliberismo e lo smantellamento dello Stato sociale ha rappresentato allo stesso tempo un periodo di arretramento palese o nascosto della democrazia anche nei Paesi più liberi e avanzati”3.

Ne consegue che il compito della sinistra è cambiare la natura dello Stato stesso, tramite una trasformazione radicale. Ciò non avviene spontaneamente e ogni volta che lo Stato intensifica il suo intervento nell’economia, le contraddizioni vengono amplificate. Rosa Luxemburg sostiene che il potere, ogni volta che la politica entra in contrasto con lo sviluppo sociale, finisce per perdere il carattere di rappresentante di tutta la società per diventare uno Stato di classe. La fine del XX secolo ha dimostrato la validità di una simile dialettica visto che le riforme politiche e sociali sono state il prerequisito della reazione neoliberale. Le riforme, quindi, non sono in contraddizione con la rivoluzione. La loro efficacia genera le condizioni per uno scontro radicale di interesse. In quest’ottica la difesa della democrazia significa conservare anche le sue basi sociali. Qualsiasi programma che riduce la lotta per la libertà alla sola difesa delle procedure e dei diritti formali della tradizione liberale, nel XXI è votato al fallimento perché non sono sufficienti nemmeno per la loro riproduzione. Kagarlitsky dice che lo sconvolgimento sociale e democratico sono inscindibili.

A questo punto delinea un programma di transizione con l’intento di creare una nuova logica di sviluppo grazie alla quale creare nuove regole e istituzioni per cambiare il sistema. Il problema della transizione è rintracciabile all’interno delle opere di Marx ed Engels e Kagarlitsky si concentra in particolare sulle proposte del Manifesto del Partito Comunista dove troviamo misure che non portano all’abolizione completa dei rapporti di mercato, del denaro o dell’impresa privata. L’obiettivo è creare nuove istituzioni economiche funzionali al mutamento della logica generale della riproduzione sociale e le relazioni tra la persone. Ciò produrrà altri cambiamenti che Marx ed Engels si rifiutano in linea di principio di prevedere, essendo un prodotto del naturale sviluppo democratico. La rivoluzione, intaccando la supremazia della borghesia, genera la possibilità di relazioni socialiste che potrà prendere corpo unicamente con il coinvolgimento della società tutta nella gestione degli affari non solo politici ma anche culturali, economici e sociali. Il programma della transizione di oggi può essere delineato a partire dai dibattiti successivi alla risoluzione dei problemi del capitalismo fatti emergere dalla crisi del 2007-2008. Ad esempio, i nuovi bisogni collettivi emersi in questi anni hanno bisogno, per essere soddisfatti assieme alla risoluzione del problema della riproduzione sociale, di andare oltre il mercato verso una gestione pubblica di molti settori dell’economia come i trasporti, l’energia, la fornitura di risorse di base necessarie per l’esistenza della stessa economia o l’acqua. La questione si lega al problema della pianificazione democratica che per Kagarlitsky deve diventare il compito principale delle istituzioni rappresentative e dello Stato per impedire alla democrazia di estinguersi, diventando una facciata obsoleta del totalitarismo delle imprese. Il concetto di pianificazione affonda le sue radici nelle tesi di Keynes e Oskar Lange sulla socializzazione degli investimenti come unico mezzo per garantire la piena occupazione oggi. Ovviamente non si tratta di replicare la pianificazione sovietica, infatti l’autore sostiene che le autorità di pianificazione devono essere responsabili nei confronti della società e dei suoi rappresentanti eletti democraticamente. Un esempio di quale forma possa prendere un simile processo viene dal bilancio partecipativo che ha preso piede in Brasile grazie ai governi PT oppure nella stessa Russia, dove Sergey Levchenko, governatore comunista della regione di Irkutsk, adottò una forma di pianificazione quinquennale sotto il suo mandato che si alimentava della raccolta di domande e proposte emerse a livello comunale. L’amministrazione regionale si consultava con sindacati, deputati e cittadini per valutare quali desideri fossero realizzabili e quali no. In questo modo le prestazioni economiche della regione migliorarono enormemente. Ci fu un aumento dei salari, una crescita della produzione industriale e agricola superiore agli indicatori nazionali e dei risultati finanziari notevoli. Il governo federale ha bloccato questo processo, imponendo le dimissioni anticipate del governatore rosso.

Questo dibattito si lega al sostegno di Kagarlitsky al Green New Deal, un progetto sostenuto inizialmente con grande entusiasmo da parte della sinistra europea e americana, anche moderata, ma che ha subito una netta battuta di arresto con l’invasione russa dell’Ucraina. Dopo la guerra si è preferito puntare sulle commesse militari per rilanciare l’economia, dando sfogo ad un classico keynesismo militare che crea posti di lavoro tramite la produzione di armi. Nonostante ciò, la questione ecologica non può essere indefinitamente aggirata. L’imboschimento per eliminare i gas serra dall’atmosfera o lo sviluppo del trasporto pubblico possono creare molti più posti di lavoro dell’industria bellica aiutando la lotta contro il cambiamento climatico. Questo è anche un invito alla sinistra a non rinunciare allo sviluppo perché le esigenze oggettive dell’umanità non sono una limitazione delle attività umane ma un loro riorientamento verso altri obiettivi di crescita in contrasto con gli interessi del capitale. Bisogna creare nuove condizioni per il progresso economico e ciò è possibile solo tramite un settore pubblico controllato dalle comunità locali per ripristinare e proteggere l’ambiente naturale, urbano e culturale. Kagarlitsky però non è uno statalista vecchio stampo e sostiene anche le esperienze di autogestioni delle fabbriche integrate all’interno di istituzioni democratiche e la pianificazione democratica per ovviare ad uno dei problemi che queste esperienze hanno storicamente posto, ovvero l’assenza di meccanismi per la formazione e l’attuazione di una strategia a lungo termine per l’economia coinvolgendo tutta la comunità intorno alla fabbrica, non solo i lavoratori. Per raggiungere simili obiettivi è necessario trasformare il potenziale di cambiamento in un processo di trasformazione sociale che comporta azioni funzionali ad unire e mobilitare le forze oggettivamente interessate al cambiamento. Questo processo deve tenere conto di due fattori. Il primo è la smobilitazione politica, culturale ed emotiva delle masse indispensabili per il dominio di classe ma che rischia di venire meno nei momenti di crisi. Il secondo elemento riguarda l’eterogeneità della composizione sociale dei lavoratori che produce l’impossibilità di poter fare affidamento su un’unica forza politica monolitica con una comune ideologia unitaria. In una società eterogenea l’unità politica si traduce in una coalizione di forze in lotta per imporre come corretto il proprio punto di vista e la propria strategia, cosa che non nega l’esistenza di metodi più corretti di altri per lottare. Una volta unite queste forze resta da definire l’obiettivo finale. Per Kagarlitsky il socialismo è il ripristino della socialità minacciata dalla logica della competizione del mercato che ha assunto una forma radicale con il neoliberismo. Bisogna unire la società tramite la partecipazione alla costruzione di una nuova economia e di un processo decisionale comune a più livelli.

  1. Boris Kagarlitsky, La lunga ritirata. Per la rinascita del socialismo in Europa, Castelvecchi, Roma 2024, pp.81-82 ↩︎
  2. Ivi, p.249 ↩︎
  3. Ivi, p.264 ↩︎

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