La figura di Mao Zedong è ineludibile nella storia del XX secolo, essendo stati i suoi scritti cruciali nell’influenzare la Cina moderna e l’intero panorama globale, rendendolo un nome universalmente riconosciuto. La Rivoluzione Comunista Cinese, che culminò con l’istituzione della Repubblica Popolare Cinese (RPC) nel 1949, fu un evento di portata storica con conseguenze durature, dato che il sistema politico derivato da essa non si è dissolto e continua a guidare la nazione più popolosa del mondo e la sua economia in rapida espansione in forme sempre nuove. È compito degli storici indagare il percorso di questa ascesa e le sue interrelazioni globali.
Il libro Maoism with Italian Characteristics. China’s Global Influence and the Italian Left, 1956–1976 di Marco Gabbas e Lorenzo M. Capisani si propone di analizzare l’influenza globale del maoismo focalizzandosi sulle sue fortune in Italia. Nonostante il nostro paese fosse una nazione occidentale industrializzata, alleata degli Stati Uniti e, dunque, lontana dalla categoria di Terzo Mondo a cui il maoismo era intrinsecamente orientato, l’ideologia trovò terreno fertile, specialmente nella sinistra e nei gruppi extraparlamentari, ispirando una reinterpretazione terzomondista delle carenze del capitalismo italiano e concetti come neocolonialismo. L’influenza sui movimenti italiani del ’68 stabilisce un parallelo con l’anelito di rinnovamento culturale del Movimento del 4 Maggio 1919 in Cina, un evento che segnò l’inizio dei movimenti di massa cinesi e l’esigenza di cambiamento sociale e politico, enfatizzando la volontà di trasformazione culturale, elemento comune al maoismo. L’immagine del comunismo cinese in Occidente fu rafforzata anche dall’antagonismo di Pechino verso l’Unione Sovietica, in particolare dopo eventi come la repressione della Primavera di Praga, anche se i movimenti maoisti occidentali ebbero motivazioni e obiettivi eterogenei e non conquistarono la maggioranza della sinistra. Il punto di partenza dell’indagine è fissato nel 1956, prima della Rivoluzione Culturale, a causa dei cambiamenti innescati dal XX Congresso del PCUS e dalla leadership di Krusciov, un periodo che favorì la percezione della RPC come un progetto politico alternativo, non solo esotico, portando alle prime traduzioni dei testi maoisti in Italia. Gli anni centrali del maoismo italiano si collocano tra il 1966 e il 1976, in coincidenza con la Grande Rivoluzione Culturale Proletaria cinese, periodo in cui l’ideologia raggiunse il suo culmine di popolarità e vide la nascita di partiti maoisti autonomi dal PCI. Sebbene esistano periodizzazioni alternative per la Rivoluzione Culturale, la ricerca si conclude nel 1976, anno cruciale per la storia cinese segnato dalla morte di Mao Zedong e Zhou Enlai e dalla caduta della Banda dei Quattro. Tale data sancisce l’inizio della transizione post-maoista in Cina e il lento declino dei partiti maoisti italiani che si sarebbero sciolti o confluiti in altre formazioni entro l’inizio degli anni ’80, seguendo la parabola del comunismo mondiale.
Il maoismo, come definito dai dizionari e dallo stesso Statuto del Partito Comunista Cinese (PCC) (sotto il nome di Pensiero di Mao Zedong [毛泽东思想]), è la dottrina che adatta le teorie marxiste-leniniste alla situazione socio-economica specifica della Cina semi-coloniale, un processo noto come sinizzazione del marxismo [马克思主义的中国化]. Elementi distintivi del pensiero maoista includono la rilevanza attribuita alla classe contadina, in contrasto con l’attenzione marxista sul proletariato industriale, e la discussione sulla necessità di mantenere la lotta di classe anche dopo la presa del potere, unendo la giustizia sociale all’autodeterminazione nazionale e alla modernizzazione. L’originalità del maoismo è stata dibattuta. Alcuni studiosi evidenziano la continuità con il modello leninista e concetti mutuati da Stalin mentre altri (come Li Zehou e Liu Zaifu) ne criticano gli esiti di disordine sociale, proponendo una modernizzazione più graduale. L’emergere della leadership di Mao a metà degli anni ’30, durante l’elaborazione di una prassi marxista adatta alla Cina, fu segnata da intense frizioni con il Comintern e con altri leader del PCC, sottolineando come il maoismo sia stato il risultato di visioni strategiche e pratiche divergenti. L’eredità di Mao e il rapporto tra maoismo e marxismo-Leninismo rimangono un tema centrale nella RPC contemporanea, influenzando idee e politiche che coinvolgono circa il 17% della popolazione mondiale.
1. L’arrivo del maoismo in Italia
Il XX Congresso del PCUS del 1956, con la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Krusciov nel “discorso segreto”, innescò una crisi profonda nel blocco comunista e mise in discussione l’egemonia ideologica sovietica. Questo evento influenzò direttamente le fondamenta della RPC che basava la sua politica sull’allineamento con l’URSS, sebbene Mao Zedong sostenesse che la scelta del modello sovietico fosse stata una necessità storica successiva al fallimento dei tentativi di modernizzazione ispirati all’Occidente. I leader cinesi, ignari del contenuto del discorso, reagirono minimizzando gli “errori” di Stalin come incidenti secondari rispetto al suo contributo al socialismo e difendendo l’esperienza storica dell’URSS, pur temendo che la critica a Stalin potesse portare a paragoni interni con la leadership incontrastata di Mao stesso. Il ridimensionamento del prestigio sovietico, inoltre, alimentò le ambizioni di Mao di assumere un ruolo guida nel movimento comunista globale. Anche il PCI in Italia affrontò la crisi con cautela. Il segretario Palmiro Togliatti, preoccupato per le ripercussioni elettorali e la potenziale instabilità, ritardò una risposta organica. Quando arrivò, la posizione del PCI cercò un difficile equilibrio: pur ammettendo gli errori di Stalin (come l’intensificazione della lotta di classe dopo la fondazione del socialismo), Togliatti riaffermò l’importanza storica dell’URSS ma promosse la via italiana al socialismo come un percorso autonomo. A livello internazionale Togliatti teorizzò il policentrismo, descrivendo il mondo comunista come un sistema in evoluzione verso un processo decisionale multilaterale senza un unico centro di comando, un concetto che mirava a preservare l’unità pur legittimando l’autonomia dei partiti nei Paesi capitalisti. Nonostante l’ostilità del governo italiano e le restrizioni del CoCom (poi rimosse nel 1958), l’immagine della RPC, vista come un successo rivoluzionario “giovane”, cominciò a circolare positivamente in Italia grazie anche al lavoro di associazioni come Centro Cina che favoriva gli scambi e la normalizzazione diplomatica e commerciale. Il lancio contemporaneo del Grande Balzo in Avanti, volto a una rapida e massiccia industrializzazione, alimentava un ottimismo che trovava riscontro anche in Italia, portando Centro Cina a potenziare le sue pubblicazioni con la rivista La Cina d’oggi. In questo contesto di fermento ideologico e di crescente interesse reciproco il PCI avviò i primi scambi ufficiali con il PCC. La visita di una delegazione guidata da Giancarlo Pajetta (aprile-maggio 1959) fu cruciale per approfondire la conoscenza della “via cinese”. Negli incontri con Peng Zhen e Chen Yi emerse la visione cinese dell’imperialismo statunitense come una “tigre di carta” strategicamente inoffensiva ma una “tigre di ferro” a livello tattico, la cui sconfitta richiedeva l’indebolimento della rete di influenza che la sosteneva, evitando scontri diretti. Pajetta, più prudente, sottolineò la necessità di un allentamento delle tensioni della Guerra Fredda per permettere ai Paesi socialisti di prosperare. Peng Zhen presentò inoltre una versione intransigente della Rivoluzione, sostenendo che la presa del potere fosse il prerequisito per ogni moderazione politica e descrisse la Campagna dei Cento Fiori come una manovra calcolata per smascherare e reprimere i “nemici di classe” e gli intellettuali critici. Le divergenze ideologiche più significative emersero sull’effettiva possibilità di una transizione pacifica al socialismo, un punto su cui Pajetta e Liu Shaoqi si confrontarono. La posizione più netta fu espressa da Mao Zedong a Pajetta che ribadì lo scetticismo sulla possibilità di evitare la lotta in ogni transizione di classe, invitando i comunisti a essere “ideologicamente ben preparati” ad affrontare il conflitto, nonostante la sua convinzione che non si sarebbe giunti a un’altra guerra mondiale. Simbolica fu anche la risposta sagace di Mao alla domanda di Pajetta sulla situazione dei cattolici nella RPC (posta in funzione della normalizzazione diplomatica), con cui il leader cinese rivendicò l’estensione della sovranità nazionale “fino al regno dei cieli”. Nonostante queste divergenze, i due partiti furono incentivati a trovare un accordo, anche momentaneo, per rafforzare l’unità in un’epoca in cui entrambi cercavano un ruolo di primo piano nel comunismo internazionale. L’incontro pose le basi per un rapporto più distintivo tra PCC e PCI, il cui interesse reciproco persisteva nonostante i primi segnali di frizione pubblica tra Cina e URSS (come la denuncia della cooperazione nucleare).
L’idea che la Cina potesse rappresentare un modello rivoluzionario alternativo a quello sovietico si diffondeva in Italia grazie alle trasmissioni in italiano di Radio Pechino dal 1960 che esaltavano la rivoluzione cinese come dinamica, priva delle rigidità burocratiche percepite nell’URSS e attiva nel supporto alle insurrezioni globali, in contrasto con la crescente istituzionalizzazione del PCI. La comunità italiana a Pechino si ingrandì e divenne una fonte cruciale di informazioni non propagandistiche per il PCI, guidata dal corrispondente Emilio Sarzi Amadè. Già in questa fase il PCI era consapevole delle tensioni latenti tra il PCC e il PCUS che si manifestavano in critiche velate e provocazioni simboliche, come la celebrazione del 90° anniversario di Lenin nell’aprile 1960, utilizzata dal PCC per riaffermare le proprie teorie e giustificare le politiche interne come il Grande Balzo in Avanti (nonostante Sarzi Amadè riportasse che la crisi agricola fosse dovuta a “gravi errori nella gestione economica generale” oltre che a disastri naturali). Il PCI mantenne inizialmente una posizione cauta, istruendo i suoi membri a “procedere con pazienza” ed evitare commenti diretti sulle maggiori controversie. Tuttavia la percezione della Cina tra gli italiani cambiò: se fino al 1959 Sarzi Amadè percepiva un clima di ottimismo e buone relazioni, nel 1960 notò una crescente non-cooperazione e restrizioni alla sua libertà di movimento e di informazione, probabilmente per nascondere gli esiti negativi delle politiche del Grande Balzo, anche se lui mantenne un giudizio “altamente positivo” sulla RPC. Questa cautela non era condivisa da tutti. Marisa Musu e Aldo Poeta lamentarono in una lettera riservata l’eccessiva “violenza verbale” e la ripetitività di slogan nei materiali cinesi, mettendo in discussione l’opportunità per il PCI di veicolare messaggi così “sconcertanti” tramite Radio Pechino che potevano generare confusione ideologica in Italia su questioni delicate come la guerra e la pace. All’interno della comunità italiana le posizioni si polarizzarono. Giuseppe Regis e Maria Arena erano ideologicamente più allineati al PCC e alla sua enfasi sulla linea rivoluzionaria, con Regis che percepiva il PCI come in rotta di collisione con la Cina e il pensiero di Mao come un supporto alle aspirazioni giovanili di cambiamento in Italia, creando attriti con Sarzi Amadè. L’ideologia influenzava anche i rapporti internazionali. Il PCC cercava un riavvicinamento diplomatico con l’Occidente ma respingeva la proposta di visita di Giuseppe Saragat (leader del PSDI, partito anticomunista) per non inimicarsi il PCI, pur mantenendo contatti con il PSI che si stava allontanando da Togliatti, in vista della possibilità di governi di centrosinistra. La prima palese esplosione delle tensioni si ebbe alla Conferenza di Bucarest (giugno 1960) dove il rappresentante del PCC Peng Zhen fu apertamente criticato da Krusciov ma la dichiarazione finale, pur riaffermando il manifesto del 1957, concesse la possibilità di raggiungere il socialismo con mezzi non pacifici, un segnale che il PCC considerò come un piccolo margine di manovra, continuando a insistere sulla natura aggressiva dell’imperialismo e affermando che “il vento dell’Est prevale sul vento dell’Ovest”. Il punto di non ritorno fu il ritiro degli esperti sovietici (luglio-agosto 1960) che sancì l’escalation della scissione, anche se gli italiani non la percepirono subito come irrevocabile. Le divergenze ideologiche culminarono nelle tensioni per l’organizzazione dell’anniversario del PCI (gennaio 1961). Regis e Arena, desiderosi di un evento marcatamente politico allineato con la linea dura del PCC, si scontrarono con Sarzi Amadè e gli altri che temevano le dispute ideologiche già viste con i comunisti francesi e spagnoli e optarono per un evento informale e cerimoniale. Regis e Arena cercarono di imporre la loro volontà negoziando direttamente con i cinesi ma furono costretti a desistere, non partecipando all’evento finale. Nonostante l’inasprimento il PCI continuò a inviare delegazioni, come quella guidata da M. Scalia (agosto-settembre 1961), per valutare i progressi economici notando il ritardo del Grande Balzo e le incomprensioni politiche, evidenziate dalla curiosa domanda cinese sull’esistenza di formazioni simili al Maquis in Italia nel 1961 che suggeriva una percezione della situazione italiana come pre-rivoluzionaria. La Seconda Riunione di Mosca (novembre 1960) confermò la spaccatura. La delegazione del PCC, guidata da Deng Xiaoping, ribadì che il disaccordo era possibile in un processo democratico e Luigi Longo, per il PCI, difese il PCUS pur sostenendo le vie nazionali al socialismo e rifiutando la proposta di un segretariato internazionale, cercando di mediare. Dopo Mosca, sebbene la propaganda cinese descrivesse i rapporti con l’URSS come paritari, le critiche a Krusciov persistevano, ad esempio mettendo in guardia contro le “insidiose” idee del nuovo presidente statunitense John Kennedy, insistendo sull’improbabilità di una pace a lungo termine, a dimostrazione che, sebbene i rapporti non fossero stati recisi, la differenza ideologica tra i partiti aveva reso la reciproca comprensione sempre più difficile.
Il Partito Socialista Italiano (PSI) si distingueva per un maggiore coinvolgimento con il mondo comunista rispetto alle altre formazioni socialdemocratiche europee e la sua posizione rispetto al nascente scisma sino-sovietico si rivelò inizialmente cauta e sfumata. Nonostante il segretario del PSI, Pietro Nenni, evitasse inizialmente di schierarsi, il partito successivamente si orientò verso una condanna del comportamento cinese, pur sforzandosi di comprenderne le ragioni sottostanti. Questa sfumatura non fu sufficiente per placare l’insoddisfazione di taluni dissidenti interni sia al PSI che al PCI, tra cui figure come Raniero Panzieri, i quali esprimevano il desiderio di una maggiore vicinanza ideale alla Cina maoista. L’atteggiamento del PSI verso la Cina di Mao merita un’attenta disamina che rivela come, nonostante il tentativo, rilevato dalla Scotti, di conquistare una propria autonomia ideologica e culturale dal PCI più forte, la presenza di diverse “sinistre” interne al PSI, come notava Agosti, rendesse il partito particolarmente sensibile e permeabile all’esperimento cinese. Attraverso la lente di Mondo Operaio, rivista ideologica del partito, emerge chiaramente l’impossibilità per il PSI di ignorare gli eventi cinesi, adottando, specialmente nelle prime fasi, una disponibilità alla comprensione non dissimile da quella del PCI che si estendeva a vari ambiti della vita cinese: dall’assetto economico alla politica estera, dalla cultura alla governance interna. Già prima della vittoria definitiva di Mao nel 1949 la stampa socialista manifestava un’attitudine sarcastica nei confronti della sconfitta nazionalista. Mondo Operaio riportava con un tono sferzante la fredda accoglienza riservata dalla Casa Bianca alla signora Chiang Kai-shek, ritenendo che gli Stati Uniti avessero ormai rinunciato alla vittoria nazionalista e sottolineando come i “Big Businessmen” americani fossero, in realtà, più propensi a stabilire relazioni economiche con la Cina comunista che stava per nascere. All’inizio del 1949, con l’avanzata comunista sempre più inarrestabile, Pietro Nenni espresse un ottimismo radicale riguardo alle potenzialità della Rivoluzione Cinese, arrivando a paragonare la vittoria di Nanchino a un evento epocale come la “vittoria sovietica a Stalingrado”. Nenni interpretava il successo di Mao come la comparsa di quattrocento milioni di uomini sulla scena della storia come artefici del proprio destino e come il “crollo dell’imperialismo americano ed europeo”, collocando l’evento cinese nella stessa scia delle rivoluzioni borghese del 1789 e bolscevica del 1917, segnando così l’inizio di una nuova era. Pochi giorni dopo, Antonio Borgoni, sulle stesse pagine, celebrò le dimissioni di Chiang Kai-shek, giustificando la rivoluzione cinese con il principio del “anello debole della catena”, ovvero la debolezza della borghesia cinese di fronte alla vastità di contadini e operai, vedendola come parte di una “grande guerra di liberazione” in Asia. Il processo di mitizzazione di Mao e l’attenzione alla cultura e all’organizzazione interna cinese furono subito evidenti. Nel settembre 1949 Mao fu definito “generale poeta” e alcuni suoi componimenti vennero pubblicati dall’Avanti!, contribuendo a diffondere un’immagine romantica all’interno della sinistra italiana. Tra il 1950 e il 1951 Mondo Operaio pubblicò in undici parti l’autobiografia di Mao raccontata a Edgar Snow, enfatizzando la sua statura intellettuale e il suo interesse per le arti. Questo focus culturale venne ribadito nel 1957 con la pubblicazione del testo di Mao sulle contraddizioni in seno al popolo e attraverso l’elogio del sistema educativo e culturale, come testimoniato dal discorso del Viceministro Chien Chun Fui che esaltava l’istruzione come strumento “al servizio del popolo”, impegnato nella lotta all’analfabetismo e nella diffusione dei principi del marxismo-leninismo, con il lavoro al centro della formazione. Anche il cinema cinese ricevette ampio plauso, con recensioni positive dei film presentati ai Festival di Karlowy Vary. L’entusiasmo per la nascente Repubblica Popolare Cinese si tradusse nella celebrazione di un nuovo governo che gestiva la transizione da un’economia colonialista a una collettivista e socialista, con articoli che sottolineavano i grandi progressi economici, come quello del 1954 di Andrea Dosio e di Fernando Montagnani nel 1956 che elogiava l’agricoltura collettivizzata. È significativo notare, tuttavia, che un articolo del 1962 di Gilbert Etienne, che aveva visitato la Cina durante il Grande Balzo in Avanti nel 1958, parlò apertamente di una “crisi alimentare realmente grave”, indicando che anche la stampa del PSI aveva contribuito a minimizzare o ignorare l’enorme carestia, forse per mancanza di informazioni accurate o per scelta editoriale. Nonostante l’apertura alla Cina il PSI manteneva un atteggiamento amichevole verso l’Unione Sovietica, come dimostra la pubblicazione nel 1949 del rapporto di Malenkov per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, in cui veniva lodata la vittoria cinese come conferma delle previsioni di Lenin e Stalin, portando a 800 milioni il numero di coloro che vivevano nel socialismo. Sul fronte della politica estera il PSI espresse posizioni marcatamente filo-cinesi, specialmente in merito ai conflitti in Corea e Vietnam e alle relazioni sino-americane. La rivista diede un giudizio positivo sull’iniziale atteggiamento britannico, più morbido di quello americano, prima di criticarne il dietrofront e il PSI si inorgogliva del proprio ruolo di interlocutore della RPC, come confermato da una lettera del 1955 di Zhou Enlai a Nenni sul riconoscimento dell’Italia, vista come il frutto dell’azione del partito “in difesa degli interessi italiani”. L’ascesa del comunismo cinese veniva inserita in un più ampio movimento di rivolta dei popoli “gialli e neri” contro il colonialismo, giungendo a un’aspra polemica che paragonava l’accresciuta influenza americana in Italia al regime di concessioni semi-coloniali nella Cina pre-rivoluzionaria dove, a seguito di una decisione della Corte di Cassazione sull’immunità della giustizia italiana nelle controversie di lavoro degli americani in Italia, si temeva che il “colonialismo, morto in Asia”, stesse risorgendo in Europa, con gli italiani a rischio di fare la parte di cinesi e africani.
Il progressivo deterioramento dei rapporti tra il PCC e i partiti comunisti filo-sovietici, in particolare il PCI, non fu un evento traumatico ma un lento declino le cui possibilità di ricomposizione, secondo alcuni, svanirono entro l’ottobre 1961. Nonostante i tentativi di contatto, i rapporti tra PCI e PCC furono compromessi dalla diffidenza e dall’acuirsi della tensione sino-sovietica che, evidente nelle crisi internazionali del 1962, si estese ai partiti allineati con Mosca. Eventi cruciali come la Crisi dei Missili di Cuba nell’ottobre 1962, che riaccese il timore di un conflitto nucleare, e l’inatteso appoggio di Mosca all’India nel conflitto sino-indiano, evidenziarono le divergenze strategiche. Mentre la leadership sovietica rompeva con l’Albania (alleata di Pechino) e riallacciava i legami con Belgrado, il PCC reagiva all’isolamento internazionale rafforzando la cooperazione con Tirana e intensificando la propria retorica anti-imperialista e anti-revisionista. Il Quotidiano del Popolo criticava la visione di “pace” americana, ma, indirettamente, accusava il leader sovietico Nikita Krusciov di aver accettato tali termini, giungendo quasi a dipingerlo come un controrivoluzionario. La gestione della crisi cubana da parte di Krusciov fu vista da Pechino come un cedimento alla paura nucleare, ribadendo la teoria di Mao Zedong secondo cui la bomba atomica non poteva essere un fattore decisivo nella lotta tra socialismo e capitalismo e che l’imperialismo era una “tigre di carta” (un concetto che Togliatti avrebbe poi apertamente criticato). La visione di Mao prospettava un’espansione sinergica globale di movimenti rivoluzionari che andasse oltre l’obsoleto schema bipolare della Guerra Fredda. In Italia Palmiro Togliatti e il PCI si concentrarono sulla politica interna, sfruttando la crisi cubana per presentarsi come una forza politica matura e responsabile, paladina della pace e della coesistenza pacifica, strategia che confluì nelle tesi del X Congresso del PCI (dicembre 1962). Il PCI, schierandosi con Mosca, difese Krusciov e la sua azione diplomatica, utilizzando l’occasione per sottolineare il proprio ruolo sociale e riformista in un’Italia in rapida trasformazione, ribadendo il rifiuto della rivoluzione armata.
Durante questo congresso Togliatti abbandonò ogni cautela e attaccò pubblicamente il PCC, definendo irragionevole il conflitto sino-indiano e criticando aspramente la teoria della “tigre di carta”. Togliatti sostenne la coesistenza pacifica come una competizione in grado di modificare lo status quo a favore del socialismo, difendendo la negoziazione come lo strumento per evitare l’olocausto nucleare. Il delegato cinese, Zhao Yimin, pur riconoscendo la tradizione rivoluzionaria italiana, espresse in un discorso polemico le “divergenze” su questioni fondamentali, insistendo sulla necessità, per qualsiasi rivoluzione, di seguire l’unica via storica del marxismo-leninismo, della dittatura del proletariato e della Rivoluzione d’Ottobre, rifiutando implicitamente la linea riformista italiana e la presenza degli osservatori jugoslavi al Congresso. Lo scontro raggiunse l’apice con l’editoriale del Quotidiano del Popolo del 31 dicembre 1962, intitolato Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi, tradotto e diffuso ampiamente a livello internazionale per creare un’alternativa ideologica alla linea togliattiana. L’articolo esortava a una posizione più aggressiva contro l’imperialismo e criticava l’idea che la coesistenza pacifica fosse la via principale. Togliatti rispose su Rinascita nel febbraio 1963 difendendo la possibilità di ottenere cambiamenti radicali in Italia per via democratica, senza la necessità di una guerra civile, accusando le tesi cinesi di essere confuse e visionarie. Questa posizione colpì la dirigenza del PCC, portando alla rapida preparazione di un secondo articolo, Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi, pubblicato nel marzo 1963. Il secondo articolo criticava la linea politica di Togliatti come disastrosa per la coesione comunista e per i rapporti tra lavoratori e padroni. A questo punto il PCI scelse di chiudere il dibattito pubblico. Il secondo articolo cinese fu pubblicato solo su un bollettino a bassa tiratura e Togliatti interruppe gli editoriali sul tema per concentrarsi sulla campagna elettorale. Commentatori interni come Giuseppe Boffa giunsero alla conclusione che i cinesi avessero ormai superato la linea rossa uscendo di fatto dal campo comunista, un’accusa che elevò la controversia a uno scisma ideologico. La diffusione internazionale del dibattito, proprio mentre Togliatti cercava un difficile ponte con il mondo cattolico, fornì una piattaforma cruciale per il successivo sviluppo del maoismo italiano, offrendo ai militanti una chiara alternativa alla via riformista e parlamentare del PCI.
Il progressivo deterioramento dei rapporti sino-sovietici fu seguito con attenzione anche dai socialisti. Mondo Operaio riportò inizialmente le allusioni di Mao al XX Congresso del PCUS e a fine 1959 Luciano Vasconi segnalò i primi seri disaccordi su questioni di tattica e l’atteggiamento più aggressivo della Cina nel mondo coloniale. Fu Pietro Nenni stesso a commentare nel 1960 la crescente discordia, propendendo per una posizione di non allineamento che auspicava la pace. Solo a fine 1963 Luciano Vasconi prese una posizione netta, condannando le posizioni cinesi per la sottovalutazione del rischio bellico ma al contempo criticando la mancanza di chiarezza e coraggio del PCI, il cui documento sul tema risultava ambiguo, pur riconoscendo implicitamente che il primato sovietico non era un valore eterno e condannando gli “insulti, anatemi, accuse di tradimento che i compagni cinesi per primi” avevano lanciato. Vasconi tornò sulla questione nel 1964, esprimendo la sua opinione personale, individuando nel “residui di stalinismo” di Krusciov la causa del suo atteggiamento verso la Cina e criticando la sua teoria della “società del benessere” mutuata dall’Occidente e auspicando che il PSI non criticasse il possibilismo del PCI ma che si lavorasse per “recuperare” la Cina alla coesistenza, sperando che il dibattito potesse rompere il carattere monolitico del comunismo. L’analisi dell’atteggiamento del PSI non sarebbe completa senza considerare la figura di Raniero Panzieri, intellettuale legato al partito e fondatore dei Quaderni rossi, il cui interesse per la Cina è attestato sia negli scritti pubblici che nel suo diario privato. Sebbene non vi sia prova che Panzieri abbia tratto le sue idee sul controllo operaio direttamente da Mao, la sua visita in Cina nel 1955 con la delegazione di Nenni fu illuminante. Nelle sue Note di un viaggio in Cina su Mondo Operaio Panzieri lodò la semplicità di Zhou Enlai e l’erudizione di Mao che aveva paragonato la storia del movimento operaio italiano alla Rivoluzione Cinese e ammirò la modernità architettonica di Pechino in armonia con l’antico, così come l’apertura al pubblico di luoghi storici come la Città Proibita, simboli di una libertà trovata nella cultura e nella bellezza messe a disposizione del popolo. Il suo diario privato rivela una forte critica all’atteggiamento di Nenni, giudicato indifferente e più preoccupato di fare da “ambasciatore del governo italiano” che essere un leader socialista. Panzieri descrisse la “magra impressione” e il “disdegno evidente” suscitati in Zhou e Mao dalle argomentazioni di Nenni sul mancato riconoscimento italiano e concluse che Nenni aveva finito per sembrare un utile idiota ai leader cinesi mentre lui stesso profetizzava che in Cina si stava preparando “una rivoluzione per il mondo con gioia”. Questo dissenso, intensificatosi nella prima metà degli anni ’60, fu il catalizzatore degli esperimenti politico-editoriali filo-cinesi (Quaderni piacentini ad esempio) che rappresentarono l’embrione del maoismo italiano. L’influenza maoista, sebbene non abbia prodotto organizzazioni di massa rilevanti, ebbe un impatto organico e molecolare su tutta la sinistra extra-parlamentare (Lotta Continua, Avanguardia Operaia), su riviste semi-accademiche (la versione italiana di Monthly Review) e politiche (Il manifesto), intrecciandosi con l’anti-autoritarismo del movimento studentesco e, come osservato da Gabbas, contribuendo alla diffusione della violenza politica di sinistra, fino alle Brigate Rosse.
Il dissenso interno al PCI trovò espressione nell’Associazione Italia-Cina, fondata nel gennaio 1963, che fornì una piattaforma ai militanti scontenti per spingere il partito verso le posizioni cinesi o, in ultima analisi, per formare una fazione. Questa associazione, che ricevette il supporto del PCC, contestò la linea riformista del PCI vedendola come un fallimento nel portare avanti la lotta di classe e ribadendo l’essenzialità della rivoluzione armata. Le Edizioni Oriente, fondate da Giuseppe Regis nel giugno 1963, si posero come strumento per diffondere la conoscenza e i documenti della Cina rivoluzionaria. La morte di Togliatti nell’agosto 1964 non cambiò la situazione. Il suo Memoriale di Yalta confermò la sua convinzione sulla necessità di una governance del campo comunista basata sul consenso e propose riunioni preliminari per aree geografiche per contrastare l’iniziativa cinese nel Terzo Mondo. La Cina, pur rifiutando l’idea di una conferenza internazionale plenaria che avrebbe sanzionato la rottura, si disse d’accordo con l’opportunità di incontri preparatori ma solo a condizione che Krusciov fosse estromesso dalla leadership. Il PCC espresse il suo disappunto pubblicando un pamphlet contro le osservazioni del leader italiano ma lasciò aperta la porta al dibattito, in linea con il suo tentativo di porsi come alternativa globale. Nonostante il PCI, con la successione di Luigi Longo, continuasse a criticare le posizioni cinesi come “dogmatiche” e a liquidare i gruppi maoisti italiani come insignificanti, non giunse mai a una “scomunica” ufficiale. La politica di attenzione del PCI continuò, alimentata anche dalla necessità di interpretare la nuova realtà internazionale dopo l’esplosione della bomba atomica cinese. L’incontro di una delegazione delle Edizioni Oriente con Mao Zedong nel maggio 1964, ampiamente pubblicizzato, fu un forte messaggio politico, rafforzando i maoisti italiani nel loro obiettivo di cambiare il PCI dall’interno.
I primi esperimenti politico-editoriali in Italia a dedicare attenzione alla Cina furono, secondo lo storico Roberto Niccolai, i due periodici Quaderni rossi e Quaderni piacentini. I Quaderni rossi, fondati nel 1961 da Raniero Panzieri, ospitarono gli articoli della sinologa Edoarda Masi che, pur simpatizzando per il comunismo, analizzava con rigore e sofisticazione le posizioni cinesi, le loro interpretazioni occidentali e le lezioni teoriche del comunismo in Cina. L’intellettuale Vittorio Rieser ricordò che i Quaderni rossi furono il primo gruppo di sinistra in Italia a fare riferimento a Mao, in un contesto in cui il mondo a sinistra del PCI era prevalentemente trotskista e anti-cinese. I Quaderni piacentini, nati nel 1962, ospitarono la polemica di Franco Fortini, il quale, nel suo articolo Le chinois, ça s’apprend, criticò l’ignoranza prevalente sulla Cina e la mancanza di volontà di conoscere meglio questa realtà distante. Il concetto fondamentale per comprendere queste prime correnti è quello di revisionismo, inteso come un allontanamento dai principi del marxismo-leninismo da parte del PCI e dell’Unione Sovietica, e visto come un tradimento da combattere. I marxisti-leninisti italiani furono coloro che ruppero con il PCI “revisionista” e cominciarono a organizzarsi in formazioni alternative.
La prima pubblicazione m-l considerata da Gabbas e Capisani è Viva il Leninismo (1962-1963) i cui autori, ex membri del PCI, appoggiarono apertamente il PCC, stigmatizzando il “revisionismo moderno” e attaccando il governo italiano. Essi vedevano la scissione sino-sovietica come un conflitto di classe, schierandosi con la Cina, baluardo nelle lotte anti-coloniali, contro l’URSS, criticata per il suo “sciovinismo da grande potenza” e le sue posizioni che risalivano a errori commessi sin dai tempi di Stalin. Il periodico Edizioni Oriente (pubblicato dall’omonima casa editrice) diffuse ampiamente documenti tradotti del PCC, focalizzati sulla scissione sino-sovietica. Tali documenti ne facevano risalire l’origine al XX Congresso del PCUS, legandola al giudizio negativo su Stalin e alla presunta connivenza con l’imperialismo americano. Questi testi esprimevano la posizione cinese secondo cui la preparazione alla guerra e una forte posizione anti-imperialista fossero la migliore strategia per la pace, vedendo persino la bomba atomica cinese come un passo verso l’eliminazione globale delle armi nucleari. Dal gruppo Edizioni Oriente nacque nel febbraio 1963 la rivista teorica Vento dell’est, curata da personalità come Mireille de Gouville e Mario Geymonat. Questa rivista, per la quale fu organizzato un congresso per delinearne le linee fondamentali nel giugno 1964, si differenziava per la pubblicazione di saggi e ricerche, traducendo importanti scritti di Mao Zedong e applicando il marxismo-leninismo a discipline scientifiche e sociali. La storia del marxismo-leninismo italiano, tuttavia, per Niccolai inizia con il mensile Nuova unità, apparso per la prima volta nel marzo 1964. Il titolo, che richiamava l’organo di stampa del PCI, intendeva segnalare un legame con la tradizione comunista (Antonio Gramsci) ma una rottura con il PCI “revisionista” dell’epoca. Il giornale, diretto da Ugo Duse da Padova con Mario Geymonat come vicedirettore, fu un tentativo di fusione di diverse tendenze, un’operazione che non fu affatto agevole tanto che Geymonat fu presto sostituito da Arturo Balestri. Dopo liti interne Duse lasciò e fondò un’altra pubblicazione, Il Comunista, e la direzione di Nuova unità passò a Vincenzo Misefari, ex parlamentare del PCI. Sin dal primo numero Nuova unità espresse un’ammirazione incondizionata per la Cina e l’Albania, viste come vittime del “ricatto economico” sovietico, e un disprezzo per “il traditore Tito”. Il giornale si rallegrò per l’estromissione di Krusciov nel 1964 e pubblicò articoli in difesa della politica cinese, tra cui la militarizzazione di massa e la condanna dell’imperialismo americano, assimilato al nazi-fascismo. Il Centro Lenin di Milano, anch’esso legato a Edizioni Oriente e a Mario Geymonat, e la redazione di Viva Il Leninismo a Padova, nata da una pubblicazione dell’Associazione Italia-Cina del 1962, sono considerati due degli epicentri iniziali che diedero il via alla trasformazione dei primi gruppi maoisti in veri e propri partiti. L’impegno per l’organizzazione sfociò, intorno al marzo 1966, nella fondazione della Federazione Marxista-Leninista d’Italia (FMLI) con l’obiettivo di creare un vero partito e con diramazioni segnalate in una trentina di località sparse per la penisola (come Milano, Torino, Genova, Roma, Palermo, Venezia, Padova e Napoli). Queste organizzazioni si distinsero per l’esaltazione del maoismo e per una dura opposizione al PCI, accusato di esercitare un ruolo di “tutela” sulla classe operaia e di “vuoto democraticismo”. L’obiettivo maoista era quello di riscattare le masse dal controllo del vecchio partito, fornendo una via alternativa per la società italiana e sfidando il dualismo politico tra PCI e Democrazia Cristiana. La stampa nazionale reagì spesso negativamente, dipingendo i maoisti come estremisti violenti, ex stalinisti camuffati o persino potenziali terroristi, spesso descrivendoli come gruppi sparuti con lo scopo di isolarli e screditarli agli occhi dell’opinione pubblica. Sebbene la loro nascita non creasse problemi immediati alla reputazione del PCI tra i lavoratori, essa rappresentava una sfida allo status quo. Nonostante venissero considerati inefficaci e irrilevanti, i primi gruppi maoisti riuscirono nel loro intento culturale perché grazie alla traduzione, alla stampa e alla contestualizzazione dei testi, il maoismo divenne noto e accessibile al popolo italiano, diffondendosi come un fenomeno endemico a tutti i livelli sociali e politici, preparando il terreno per l’attuazione pratica degli insegnamenti di Mao e l’emergere di nuove entità e attivisti nel panorama politico italiano, la cui influenza si farà sentire in particolare con il movimento del ‘68.
2. Il maoismo in Lotta Continua
Lotta Continua ha sviluppato una forte, seppur non dogmatica, relazione con il maoismo e la Rivoluzione Culturale cinese, assimilando e rielaborando concetti fondamentali per definire la propria strategia rivoluzionaria in un contesto di capitalismo avanzato. LC abbracciò il concetto maoista di lotta prolungata, sostenendo che la rivoluzione italiana dovesse essere un processo violento e di lunga durata, in contrasto con la strategia insurrezionale. Questa prospettiva, chiaramente espressa da Adriano Sofri, si rifaceva al saggio di Mao Sulla guerra di lunga durata e sottolineava la necessità di applicare una strategia militare a fasi prolungate anche in Italia. Fu adottato anche il concetto di lotta tra due linee, interpretato come la contrapposizione tra una via “proletaria e comunista” che libera la creatività delle masse e una linea “borghese e revisionista” che le disarma, un’idea specifica e centrale della Rivoluzione Culturale cinese che LC intendeva utilizzare per criticare e orientare il dibattito all’interno del PCI. Il movimento manifestò disprezzo per l’intellettualismo accademico e la conoscenza libresca in quanto separata dalle masse, citando Mao per denunciare gli intellettuali professionisti. Questo atteggiamento rifletteva l’idea che i proletari dovessero trasformarsi attraverso la pratica. Il maoismo fornì anche il concetto di inchiesta sociale intesa come un’azione non delegata all’organizzazione ma svolta dalle masse stesse, la cui esperienza doveva fornire i criteri per distinguere amici da nemici, isolando i padroni, gli sfruttatori e i loro agenti attraverso una denuncia pubblica e una chiara demarcazione tra le parti. Questa pratica era strettamente legata alla linea di massa che doveva essere applicata rigorosamente anche al problema della forza, riconoscendo il ruolo attivo del proletariato nell’amministrazione della società. LC vide nella Rivoluzione Cinese un modello di successo basato sull’autonomia della direzione politica da centri internazionali (Comintern/Cominform) e schemi prestabiliti, rivendicando la “superiorità della politica sull’economia”. Questa autonomia, e il rifiuto del PCC di costituirsi come centro di una nuova Internazionale, vennero interpretati come elementi cruciali per il progresso della rivoluzione mondiale. Coerentemente con questo approccio, LC si schierò apertamente con la Cina nella disputa sino-sovietica accusando l’URSS di revisionismo e successivamente di socialimperialismo (in particolare dopo il 1968), vedendo la Rivoluzione Culturale come una lotta contro la restaurazione capitalista. Sebbene LC si trovasse in sintonia con la Cina anche sul piano internazionale, come nel credere alla versione cinese del riavvicinamento agli USA (che presentava Nixon come un emissario venuto a patti con la Cina), mantenne un atteggiamento critico verso le deviazioni ideologiche e il rischio di terzomondismo nell’importazione astratta del maoismo in Italia. Il movimento era convinto di aver saputo cogliere il “senso essenziale delle posizioni cinesi sulla lotta di classe come fattore permanente”. Un altro aspetto fondamentale fu la rielaborazione dei concetti di guerra popolare e basi rosse per il contesto italiano. LC riconobbe che, a differenza della Cina, non era possibile sottrarre aree al controllo militare nemico ma l’obiettivo era creare un “contesto politico e organizzativo a partire dal quale si sviluppasse la lotta armata”, una vera e propria “base di appoggio della lotta armata” che riducesse il potere borghese alla sola occupazione militare. Questa interpretazione creativa e non letterale dimostra l’inevitabilità della violenza come elemento necessario per il cambiamento politico secondo LC. Dopo la morte di Mao nel 1976 Adriano Sofri, nelle sue osservazioni conclusive al congresso che sancì la dissoluzione di LC, sentì il bisogno di inquadrare la situazione del movimento in ottica maoista. Notò che, sebbene il tentativo di costruire un partito marxista-leninista fosse fallito e nonostante le perplessità sulle scelte di politica estera cinese, il pensiero di Mao aveva acquisito maggiore influenza in virtù del suo “carattere critico e antidogmatico” e del suo “soverchiante carattere soggettivo” che si contrapponeva all’economicismo stalinista e al “realismo oggettivo”. Sofri lo considerò un metodo che favoriva l’abitudine alla critica, sostenendo che per superare la crisi di coscienza e la perdita di fede nel futuro della rivoluzione bisognasse “tornare alla pratica, alla lotta di classe, alle sue contraddizioni”.
Similmente ad altre formazioni dell’estrema sinistra italiana dell’epoca, anche LC istituì una propria scuola quadri il cui materiale didattico riveste un’importanza fondamentale per l’analisi delle sue specifiche caratteristiche ideologiche. I temi centrali affrontati in queste scuole includevano il pensiero classico comunista attraverso le figure di Marx, Lenin e Mao, affiancati da approfondimenti sul modello cinese e sulla politica estera di Pechino. In particolare LC riteneva che i contributi di Mao Zedong all’economia politica fossero degni di uno studio serio e che la formazione teorica, definita come lo “studio del marxismo-leninismo”, dovesse essere prioritariamente sviluppata e diffusa “soprattutto tra gli operai”. L’organizzazione manifestava una forte convinzione che l’attività culturale e teorica potesse acquisire una reale utilità solo nel momento in cui si incontrava e si fondeva con l'”esperienza di lotta pratica”. Questo monito rifletteva chiaramente il disprezzo maoista per l’erudizione fine a sé stessa e il carattere libresco della conoscenza. Tale primato della pratica era confermato dai commenti emersi al Congresso di LC del 1976, dove si sottolineava che persino le discussioni sul pensiero di Mao, sebbene considerate importanti, non erano altro che un’applicazione specifica della formazione di base acquisita tramite la militanza attiva e concreta nelle fabbriche e si notava che i lavoratori apprezzavano Mao perché “parla come un operaio”. L’importanza culturale e organizzativa attribuita a Mao era evidenziata dal fatto che un suo aforisma figurava come intestazione del documento istitutivo del Comitato Rivoluzionario per la Cultura di LC, stabilendo che “cultura e arte” dovessero essere parte integrante del meccanismo rivoluzionario, da utilizzare come “potente arma per unire ed educare il popolo” e per “colpire e annientare il nemico”. La formazione dei quadri prevedeva un’analisi dettagliata della “prospettiva del comunismo” nell’ambito dell’esperienza cinese, concentrandosi in modo specifico sulle principali fasi della Rivoluzione Cinese e sulle soluzioni politiche adottate, e il pensiero di Mao veniva studiato anche in associazione a Stalin per quanto concerneva la questione nazionale. Gli insegnamenti maoisti erano ritenuti essenziali per comprendere lo sviluppo dei movimenti operai internazionali e LC li utilizzava per confutare la tesi di una semplice identità tra “essere sociale e coscienza”, richiamando il famoso concetto maoista di contraddizione. Per quanto riguardava la politica estera cinese, essa doveva essere esaminata alla luce dei principi maoisti sulla relazione tra rivoluzione nazionale e rivoluzione socialista, sebbene LC avanzasse dubbi sul fatto che gli strumenti di analisi maoista potessero risultare “insufficienti” per interpretare le complesse trasformazioni dell’imperialismo e della struttura di classe in regioni come il Medio Oriente e l’America Latina e i loro rapporti con l’imperialismo statunitense o sovietico. LC condivideva in parte la critica dei comunisti cinesi al totale ripudio di Stalin operato da Krusciov, sebbene criticasse lo stalinismo di alcune formazioni studentesche che, pur professando fedeltà al Pensiero di Mao, ne negavano la sostanza ignorando la cruciale dottrina della “continuità della lotta di classe anche dopo la vittoria della rivoluzione”. Il pensiero di Mao sul Partito e sullo “stile di lavoro”, inclusi i temi del rapporto partito-masse, della deviazione del lavoro, dell’inchiesta e del binomio teoria-pratica, era oggetto di studio approfondito. LC si poneva in netta e violenta opposizione al revisionismo, sia in generale sia nella sua manifestazione moderna (secondo la definizione maoista) specificamente pericolosa nel contesto italiano, identificando i suoi leader in figure come Togliatti e Berlinguer. Per combattere questo nemico era necessario studiarlo e LC proponeva l’applicazione dello stesso sforzo analitico che Marx aveva dedicato al capitalismo, Lenin all’imperialismo e Mao al “nuovo problema delle contraddizioni antagonistiche di classe nella fase di costruzione del socialismo”. L’organizzazione radicalizzò la sua critica all’URSS, considerandola come un’entità in cui era stato restaurato il capitalismo attraverso una riappropriazione formale della proprietà borghese e definiva il socialimperialismo sovietico come un rovesciamento controrivoluzionario del leninismo e un nemico del proletariato quasi al pari degli Stati Uniti, il nemico principale. LC rigettava categoricamente la coesistenza pacifica e si ispirava alla Rivoluzione Cinese per la sua strategia rivoluzionaria in Italia, suggerendo che i comunisti italiani avrebbero dovuto rivolgere le armi contro la Democrazia Cristiana dopo la Resistenza, proprio come i comunisti cinesi avevano fatto contro il Guomindang dopo la sconfitta del Giappone. Il giornale Lotta Continua celebrava l’anniversario della Rivoluzione Cinese, esaltando i risultati ottenuti in termini di lotta alla fame e all’analfabetismo ma soprattutto la Rivoluzione Culturale, vista come la fase in cui la lotta di classe non viene soffocata ma potenziata. LC importò slogan e concetti cinesi, arrivando a invocare una “rivoluzione culturale nelle fabbriche italiane” e utilizzando la tattica cinese dei tazebao. L’organizzazione non celava la necessità della violenza per la conquista del potere, adottando la prospettiva di Mao secondo cui la borghesia andava indebolita progressivamente fino a rendere inevitabile l’insurrezione armata e la guerra civile. La sua ala militare, i Proletari in Divisa, si prefiggeva la creazione di un esercito rivoluzionario ispirato all’Esercito Popolare di Liberazione Cinese, basato sul principio che il “Partito comanda il fucile” e sostenendo che la strategia militare cinese potesse essere applicata in parte anche in Europa, una conclusione rafforzata dall’attenzione alle dichiarazioni dell’IRA che citavano la guerriglia di Mao. Infine LC rielaborò il concetto maoista delle zone rosse, interpretandole come strutture territoriali e sociali da costruire con mezzi militari e l’uso di giornali murali, quali basi per la successiva “fase della lotta armata” e la costituzione di “comuni del popolo”, considerate la massima espressione delle possibilità creative delle masse e uno strumento per il rovesciamento del sistema.
L’analisi di LC sulla politica estera e sull’ideologia della Cina Popolare era profondamente radicata nella necessità di mantenere un’autonomia rivoluzionaria rispetto a Pechino. Il movimento ribadiva con forza di non essere una “filiale italiana della Cina” e che le proprie politiche nascevano dal contesto nazionale italiano, pur riconoscendo l’esperienza cinese come il tentativo più significativo di costruzione comunista del secolo. Questo senso di autonomia li autorizzava a esprimere apertamente disaccordo con i “compagni cinesi”, come fecero in merito al riconoscimento diplomatico occidentale della RPC e all’invio di fiori da parte di Mao al funerale di De Gaulle nel 1970. Se da un lato l’apertura diplomatica era giudicata una mossa necessaria e normale per spezzare l’accerchiamento imperialista (respingendo l’accusa di “tradimento” come infantile), dall’altro il gesto verso De Gaulle suscitò forte perplessità poiché, pur potendo essere interpretato come omaggio a un amico della Cina e a un combattente antifascista, cadeva proprio mentre De Gaulle reprimeva la sinistra francese, sollevando il timore che un atto diplomatico potesse avere effetti controrivoluzionari indiretti. LC notò con favore che Pechino non sostenesse più finanziariamente specifici gruppi marxisti-leninisti all’estero ma criticò la mancanza di chiarezza cinese sulla questione palestinese e la scarsità di aiuti ai movimenti di liberazione mondiale. Il punto di maggiore attrito e crisi fu la notizia della visita di Nixon in Cina nel 1971. La gravità dell’evento risiedeva nel fatto che Nixon era percepito come il simbolo vivente dell’oppressione imperialista e la mossa fu vista come un potenziale duro colpo negativo per la sinistra americana e per la lotta globale. LC si oppose alla convinzione cinese che le contraddizioni tra stati imperialisti fossero più importanti delle contraddizioni tra proletariato e borghesia all’interno di ogni stato, un errore strategico, secondo LC, in un’epoca di forte crescita dei movimenti operai in Occidente. Sebbene LC cercasse di interpretare la mossa come una tattica di guerriglia per attirare il nemico in una “palude” diplomatica, persistevano i dubbi sull’efficacia di una strategia che sembrava accantonare il principio dei “due, tre, molti Vietnam” e il timore che le avanguardie rivoluzionarie potessero essere sacrificate. LC continuò comunque a considerare la Rivoluzione Culturale l’episodio di lotta di classe più ricco di indicazioni del dopoguerra, pur giudicando l’analisi cinese sullo stalinismo ancora debole. A partire dal 1973, con la tregua in Vietnam, LC espresse crescente preoccupazione per la virata cinese verso la distensione, vedendo la Cina sempre più concentrata sui propri interessi nazionali e sul considerare l’URSS come il nemico principale. Il giornale sottolineò con disappunto che leader americani come Kissinger venissero trattati come amici. Sebbene in un primo momento LC tentasse di minimizzare i colloqui sino-americani come un tentativo diplomatico fallimentare degli USA, la critica si fece più acuta, culminando nel 1976 con l’indignazione espressa dai militanti siciliani di LC che denunciarono la svolta a destra cinese, il sostegno a movimenti controrivoluzionari in Angola e l’apertura alla “penetrazione dei beni di consumo capitalistici” (esemplificata dagli affari con Agnelli), concludendo che la politica cinese stava oggettivamente creando “spazio” per il revisionismo sovietico. I viaggi in Cina dei membri di LC funsero da verifica empirica, rafforzando la necessità di un approccio autonomo. I resoconti (come quello del 1973 che confrontava il “paradiso della politica” cinese con la povertà in India e Turchia) celebravano l’assenza di violenza pubblica e l’uguaglianza sociale. Gli stessi viaggiatori criticavano l’atteggiamento “assurdo” dei gruppi marxisti-leninisti italiani che ripetevano dogmaticamente le formule cinesi, insistendo sulla necessità di non mitizzare l’esperienza cinese ma di estrarne solo gli aspetti generali e applicabili in Italia.
La morte di Lin Biao nel 1971 per LC fu una questione spinosa affrontata per la prima volta nel febbraio 1972 con una dichiarazione di incapacità di emettere un giudizio definitivo a causa delle spiegazioni mancanti. Soltanto nell’agosto 1972 il giornale tornò sull’argomento e, pur riconoscendo che la confusione e l’oscurità dominavano, ritenne suo dovere affermare che tali dinamiche nella politica cinese assomigliavano in modo sconfortante a “sommosse di palazzo”. LC espresse un forte scetticismo riguardo le accuse mosse contro Lin Biao, sostenendo che epiteti come ambizioso e traditore richiamassero alla mente intrighi per il potere nella Russia di Stalin, se non addirittura alla corte degli zar, nonostante il giornale notasse che il silenzio governava spesso a lungo su eventi critici della politica cinese. Il destino di Lin Biao era inestricabilmente connesso a quello della Rivoluzione Culturale. Di conseguenza sorse spontaneamente il dubbio sulla sua sconfitta, portando LC a interrogarsi retoricamente su “Cosa è rimasto della Rivoluzione Culturale?”. La domanda suggerisce che già nell’agosto 1972 LC considerasse la Rivoluzione Culturale come conclusa, pur rifiutando di definirla sconfitta, basandosi sull’argomento che il destino di un individuo potesse non coincidere necessariamente con quello di un evento politico. LC si sentiva ragionevolmente certa che il prestigio e il potere di Mao Zedong all’interno del PCC fossero ancora solidi, giustificando la crescente rarità delle sue dichiarazioni con l’età avanzata del leader che all’epoca aveva 79 anni. Il progressivo disincanto si fece più esplicito nell’ottobre 1972, quando LC pubblicò un intervento che definiva il maoismo come un’illusione del 1969 “su una classe operaia vergine, una lavagna bianca dove si può scrivere qualsiasi cosa”, sottintendendo che, nel 1969, “l’anno degli operai” italiano in contrapposizione al “1968 degli studenti”, la classe operaia italiana fosse ancora immatura e influenzabile dalle mode. A ulteriore conferma nel settembre 1973 Lotta Continua parlava ormai costantemente della Rivoluzione Culturale al passato in occasione delle riflessioni sul X Congresso del PCC, definendo apertamente l’esistenza di un periodo “dopo-Rivoluzione Culturale”, un’espressione che suonava deludente per i lettori occidentali ma che il giornale accettava come una realtà. LC sottolineò come il Congresso fosse stato insolitamente breve, una constatazione interpretata come l’occasione per sancire ufficialmente un cambiamento politico già in atto. Una funzione simile fu attribuita anche al Congresso Nazionale del Popolo tenutosi nel gennaio 1975 che promulgò una nuova costituzione. Nonostante questa presa d’atto del cambiamento, il 26 dicembre 1973 Lotta Continua celebrò l’80° compleanno di Mao evitando resoconti agiografici in linea con l’ostilità del leader al culto della personalità ma porgendogli l’augurio di una “lunga vita” per continuare a guidare il popolo e contribuire alla rivoluzione a livello globale. Agli inizi del 1974 il giornale si occupò della violenta reazione della stampa cinese al documentario di Michelangelo Antonioni sulla Cina, esprimendo sorpresa per la veemenza verbale, pur concordando sul fatto che la pellicola non desse sufficiente risalto agli aspetti politici. LC giunse alla conclusione che gli attacchi virulenti contro Antonioni fossero in realtà diretti contro ogni forma simile di espressione sulla Cina. Nel dicembre 1974 Lotta Continua riportò la notizia, annunciata dal giornale cinese Bandiera Rossa, che la Rivoluzione Culturale si era conclusa ufficialmente il 5 dicembre, fornendo così un punto finale alternativo a quelli classici del 1969 o 1976 (morte di Mao) sebbene la confusione continuasse dato che nel marzo 1976 LC pubblicò un altro articolo di Bandiera Rossa che sosteneva invece la necessità di continuare la Rivoluzione Culturale. La scomparsa del Primo Ministro Zhou Enlai il 10 gennaio 1976 fu annunciata con grande rispetto. Pur non godendo della stessa popolarità di Mao tra i militanti di LC, il giornale lo omaggiò come un “grande rivoluzionario proletario” e “eminente dirigente,” attribuendogli il merito di essere stato un “grande e paziente costruttore del posto che la Cina oggi occupa nel mondo” e notando la sua fedeltà di lunga data a Mao. La decisione di non ammettere delegazioni straniere al funerale fu letta dal giornale con un significato sentimentale, come se un diplomatico che aveva passato decenni a trattare con gli stranieri volesse congedarsi soltanto in mezzo al suo popolo. Lotta Continua riportava campagne di agitazione anche nel 1975 e 1976. Questi “sprazzi” di post-Rivoluzione Culturale, sebbene di portata minore, lasciavano comunque perplessi gli ammiratori europei a causa della serie di cambiamenti politici contraddittori (da posizioni “di sinistra” a denuncia di Lin Biao come traditore e ritorno a nuovi cambiamenti). Il giornale non poté fare a meno di notare come l’ennesima “campagna anti-destra” all’inizio del 1976 presentasse “elementi rituali e contorti” e la nomina a Primo Ministro di Hua Guofeng al posto dell’atteso Deng Xiaoping fu un’ulteriore sorpresa. Il giornale sosteneva che il fermento in corso fosse una sorta di continuazione sottile della Rivoluzione Culturale, una “rivoluzione ininterrotta” condotta dalle masse, pur non risparmiando critiche al fatto che i cinesi si concentrassero troppo sugli “aspetti interni della costruzione del socialismo” e che la politica internazionale fosse ridotta a una campagna “quasi esclusiva” contro il socialimperialismo sovietico. Queste note del 1976 dimostrano come Lotta Continua avesse colto l’orientamento della Cina a contrapporsi all’URSS, anche se il giornale interpretava il comportamento cinese in termini ideologici. L’ennesimo sconquasso cinese fu annunciato l’11 marzo 1976, quando Mao criticò Deng Xiaoping affermando che “il popolo non è d’accordo con coloro che rimettono nuovamente in questione i risultati della Rivoluzione Culturale”. In tale contesto fu criticato lo slogan di Deng secondo cui “non importa se il gatto è nero o bianco, l’importante è che acchiappi i topi,” visto come prova della sua incapacità di distinguere tra socialismo e capitalismo. Lotta Continua rispose con una sua parafrasi nel marzo 1976, asserendo che “il gatto è rosso e deve prendere i topi”, sottolineando l’importanza cruciale dell’essere “rosso” (ideologicamente puro) al di là di ogni altra cosa. Il 6 aprile 1976 Lotta Continua riportò gli scontri in Piazza Tiananmen avvenuti in nome di Zhou Enlai, descrivendo la manifestazione di decine di migliaia di persone e la conseguente protesta contro la rimozione degli omaggi, culminata nel rovesciamento di alcune auto e l’incendio di un edificio. Le fonti ufficiali cinesi avevano descritto le proteste come “di natura reazionaria, controrivoluzionaria e ostile al Presidente Mao” ma Lotta Continua si dimostrò scettica, credendo che gli incidenti fossero stati creati “artificialmente” nell’ambito del culto degli antenati e “esagerati e drammatizzati” dalla stampa internazionale per rappresentarli come una “dimostrazione popolare anti-Mao”. Due giorni dopo, l’8 aprile, il giornale annunciò con soddisfazione la “pronta epurazione” di Deng Xiaoping. Infine, il 10 settembre 1976, Lotta Continua diede notizia della morte del Presidente Mao, definendolo come “una delle più grandi, se non la più grande, figure del movimento operaio internazionale”, un uomo che aveva esercitato un’influenza profonda sui popoli di tutto il mondo e i cui insegnamenti erano considerati una “riserva inesauribile” di idee e strumenti per trasformare la realtà.
3. Avanguardia Operaia
Avanguardia Operaia si auto-identificava come un’organizzazione teoricamente fondata su marxismo, leninismo e maoismo, considerando esplicitamente Pechino come il “centro della rivoluzione proletaria” e la Cina come l'”unico baluardo di potenza della rivoluzione mondiale”. L’organizzazione celebrava la Rivoluzione Cinese e, in particolare, la Rivoluzione Culturale Proletaria, reputata il terzo grande evento rivoluzionario dopo la Comune di Parigi e la Rivoluzione d’Ottobre, per aver sconfitto le tendenze borghesi e rafforzato la dittatura del proletariato. Il linguaggio adottato da AO era chiaramente maoista, includendo l’uso del termine revisionismo per condannare avversari come l’URSS, accusata di socialimperialismo sciovinista grande-russo e di perpetuare lo stalinismo.
AO intendeva trarre dall’esperienza cinese lezioni pratiche per la costruzione del partito rivoluzionario in Italia, specialmente riguardo alla lotta contro la “nuova borghesia burocratica”. In una risoluzione del 1973, pur ribadendo un giudizio “complessivamente positivo” su Mao, l’organizzazione criticava le “relazioni di fiducia” che la Cina talvolta mostrava verso l’URSS. AO vedeva lo scisma sino-sovietico come una contraddizione inevitabile tra i rapporti di classe nei due paesi e giunse alla conclusione che la Rivoluzione Culturale, pienamente autentica e da sostenere, rappresentasse l’opposto dello stalinismo e della costruzione del socialismo in un solo paese. L’analisi di AO si spingeva a legittimare il successo del PCC anche grazie alla sua autonomia sostanziale dalla Terza Internazionale e dalla leadership sovietica, evidenziando il ruolo di Mao e il successo rivoluzionario, avvenuto anche in presenza di un presunto sabotaggio sovietico. Il contrasto con l’URSS emerse con il Grande Balzo in Avanti, dove il disaccordo riguardava anche la politica educativa e l’accusa mossa dalla Cina ai revisionisti di nascondere “obiettivi espansionistici” sotto la politica di aiuto.
La Rivoluzione Culturale era esaltata come una “corretta interpretazione della teoria marxista della rivoluzione permanente”, un tentativo di far crescere la forza creatrice della classe operaia e una “lotta di classe su vasta scala” che si manifestava anche nelle epurazioni dei quadri di partito sotto il controllo delle masse. AO notò che la fase si concluse con un compromesso (IX Congresso PCC) che limitò alcune “posizioni di ultra-sinistra” (come la Comune di Shanghai).
Un punto di forte perplessità e critica per AO fu la svolta di politica estera cinese del 1971, in particolare l’invito all'”aguzzino Nixon”. La rivista Avanguardia operaia temeva che questo riavvicinamento al nemico (l’imperialismo USA, sebbene considerato una “tigre di carta”) potesse minare i principi internazionalisti e servire a creare un mondo multipolare contrario agli interessi del proletariato. AO criticò duramente la contraddittorietà di una politica che contemporaneamente sosteneva la rivoluzione globale e si legava a paesi non allineati o persino imperialisti. Pur riconoscendo la mossa come una necessità contro l'”accerchiamento dell’URSS” e un’abile mossa diplomatica, AO la considerava una rinuncia alla “dimensione internazionalista” del movimento comunista. L’organizzazione si oppose a quelle forze di sinistra che approvavano acriticamente la mossa cinese per via di una fede stalinista nel “socialismo in un solo paese”.
La critica più radicale venne espressa in occasione della morte di Lin Biao nel 1971. AO dichiarò la versione ufficiale dei fatti “assolutamente inattendibile”, definendola una “favola allegorica” che sollevava preoccupazioni sui “metodi di lotta politica” ai massimi livelli del PCC. Nonostante le riserve sulla politica estera, che accusava la Cina di riporre “eccessiva fiducia nella borghesia” del Terzo Mondo e di non avere “relazioni autentiche con le organizzazioni marxiste-leniniste” occidentali, AO mantenne un giudizio complessivamente positivo e ribadì che difendere la Cina dagli attacchi del revisionismo era un compito fondamentale, concludendo che, vista la sua parziale “infezione dallo stalinismo”, i rivoluzionari dovevano comunque “contare sulle proprie forze”.
L’organo di stampa di AO, Il quotidiano dei lavoratori, si schierò inequivocabilmente con la Cina durante la scissione sino-sovietica, definendo il leader sovietico Brežnev il “leader del revisionismo mondiale” già alla fine del 1974. Questa posizione si tradusse in una critica bifronte, sebbene asimmetrica, contro le due superpotenze. Verso gli Stati Uniti, il quotidiano notò con acutezza che i duri attacchi cinesi alla politica americana in Medio Oriente e Indocina, avvenuti durante la visita di Henry Kissinger a Pechino, non erano casuali ma costituivano un “avvertimento” preciso sui limiti della diplomazia. La visita si svolgeva in un’atmosfera “fredda” e Kissinger difficilmente avrebbe ottenuto grandi risultati. AO, pur riconoscendo l’inizio dei colloqui sino-americani, era certa che non significassero una capitolazione all’imperialismo USA e usava un linguaggio sarcastico contro i leader americani, Nixon era definito il “gangster Nixon”. Il giornale si allineava alla posizione cinese che tendeva a rappresentare in modo negativo sia l’URSS che gli USA, accusandoli entrambi, ad esempio, di essere responsabili della “crisi alimentare mondiale”.
Tra il 1975 e il 1976 la linea si radicalizzò e la Cina, seguita dal quotidiano, dichiarò che il socialimperialismo revisionista sovietico rappresentava un pericolo addirittura superiore all’imperialismo americano, denunciando la “frenetica preparazione della guerra” di Mosca e un “pericolo russo” per l’Italia, dove l’URSS mirava a trasformare il Mediterraneo in un suo mare interno. Le accuse all’URSS divennero estreme e dettagliate: dallo sfruttamento delle donne sovietiche e il legame con Israele, alle carenze di pane, fino alla presunta rivalutazione della religione in Unione Sovietica. Il culmine fu il rapporto dell’agenzia Nuova Cina, ripreso dal quotidiano, che denunciava l’esistenza di mille campi di concentramento sovietici, dove oltre un milione di persone erano detenute, paragonando esplicitamente le tattiche di tortura, fame e provocazione di risse interne ai lager nazisti.
La rinnovata attenzione anti-sovietica fu evidente nella controversa visita di Nixon in Cina nel febbraio 1976. Sebbene il quotidiano riportasse il discorso di Hua Guofeng che definiva l’imperialismo mascherato da socialismo come il principale “focolaio di guerra”, arrivando a paragonare l’URSS alla Germania nazista, AO espresse chiare perplessità, criticando l’eccessiva rilevanza data a un Nixon ormai disprezzato e cacciato dalla Casa Bianca. Il giornale suggeriva che la Cina stesse perdendo credibilità per un guadagno nullo, utilizzando i reazionari occidentali contro Mosca. Questa confusione diplomatica fu aggravata dal duro e inspiegabile attacco cinese contro l’indipendenza dell’Angola, presumibilmente a causa del sostegno sovietico ad MPLA. Il quotidiano notava anche il sostegno cinese alle lotte palestinesi, la strategia di Deng Xiaoping di coltivare buone relazioni con la Francia e il sostegno all’unificazione europea.
A livello ideologico AO si definiva un’organizzazione marxista-leninista ma si distingueva dalle correnti dogmatiche. Il giornale espresse una critica corrosiva al trotskismo, che considerava ridotto a un sistema di dogmi incapace di comprendere la Rivoluzione Culturale Cinese e il ruolo della Cina nel mondo. AO riteneva che l’interpretazione trotskista dell’URSS come stato operaio degenerato fosse scorretta e che i trotskisti e i bordighisti (come Lotta Comunista) negassero il carattere proletario della rivoluzione in Cina, definendo queste posizioni “teoricamente aberranti” e simili allo stalinismo. AO accettava i contributi teorici di Mao e Trotsky ma valorizzava il maoismo in quanto teoria derivante da un vasto movimento di massa e capace di “svilupparsi creativamente”, a differenza del trotskismo, considerato un contributo personale di Trotsky mai verificato nella pratica. Il maoismo ispirò direttamente la politica culturale di AO, ad esempio, nel criticare l’idea borghese di scuola in favore di un sistema che ponesse la scienza al servizio dei lavoratori. Nonostante le critiche al trotskismo, AO si trovò a doversi difendere dalle accuse di essere essa stessa trotskista mosse da gruppi rivali come MLS, il quale sosteneva che AO sminuisse il pericolo del socialimperialismo.
Avanguardia Operaia fondava la sua formazione elementare di base sull’acquisizione degli elementi essenziali del marxismo-leninismo, utilizzando testi autoprodotti e considerando classici fondamentali diversi scritti di Mao Zedong, tra cui Sulla contraddizione, Sulla pratica e Sulla Nuova Democrazia, oltre a un opuscolo sulla Rivoluzione Cinese e documenti interni che affrontavano il socialimperialismo e la natura di classe del potere in Cina, con l’esplicita necessità di studiare “il partito in Mao”. Questi insegnamenti erano cruciali per la scuola quadri di AO, dove si utilizzavano opere come Contro il liberalismo e Rettificare lo stile di lavoro nel partito per definire l’efficienza politica e si consigliavano Sulla dittatura democratica popolare e Sulla giusta soluzione delle contraddizioni in seno al popolo per il concetto di rivoluzione ininterrotta, affiancando a questi testi di base anche i libri sulla Cina di Edgar Snow. La Cina maoista era oggetto di discussioni pubbliche nelle riunioni di gruppo, tanto che già all’inizio del 1972 tutte le cellule di AO avevano tenuto almeno due ampie discussioni sulla Rivoluzione Cinese. Parallelamente AO riteneva indispensabile lo studio del “partito revisionista” PCI, producendo l’opuscolo Il Revisionismo del PCI e integrando la formazione con opere di storici come Spriano e Galli, oltre al libro molto popolare allora Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria. Il marxismo-leninismo era così centrale da portare AO, all’inizio del 1972, a voler fondare un’organizzazione nazionale basata su di esso e sulla “corretta linea di massa”, un termine maoista. AO manteneva una posizione critica verso gli altri gruppi maoisti, definendo il PCd’I (m-l) un “gruppo dogmatico” e criticando Servire il Popolo (che vedeva come espressione del radicalismo piccolo borghese e sottoproletario, addirittura simile ai “movimenti fascisti della prima ora” con il rischio di una “lunga marcia verso il fascismo”) mentre stigmatizzava Lotta Continua per una lettura dogmatica del maoismo che non teneva conto delle differenze tra Italia e Cina e poneva la politica “all’ultimo posto”. La rivista Avanguardia operaia denunciava l’adorazione “feticista e anti-materialista” del pensiero di Mao da parte dei marxisti-leninisti italiani, notandone la forte frammentazione e criticava anche la Cina per le sue iniziali “deficienze” nell’analisi delle origini del revisionismo sovietico, ritenendo che il PCd’I (m-l) si limitasse a “agitare il ritratto di Mao senza abbandonare quello di Stalin”. Le critiche a Servire il Popolo si concentravano sul suo populismo che poneva il “popolo” al di sopra delle classi e esaltava la conoscenza diretta a scapito di quella indiretta, vedendone i membri come borghesi che cercavano di risolvere i loro complessi di classe attraverso la “proletarizzazione” esteriore e un programma rivoluzionario percepito come generico e massimalista, concludendo che Servire il Popolo estraeva dalla Rivoluzione Culturale solo gli aspetti folkloristici. In generale AO criticava la “canonizzazione del maoismo” e il dogmatismo dei gruppi che sostituivano il “mito dell’URSS” con una “visione mitica della Cina” senza coglierne i processi interni, imputando questa tendenza al fatto che la sinistra italiana era composta essenzialmente da intellettuali e studenti. La rivista teorica di AO, fin dal primo numero del 1969, pur apprezzando la Rivoluzione Culturale e la sua elaborazione teorica (vedendo l’URSS come un paese imperialista al pari degli USA), denunciava i “gruppi pseudo-maoisti” che riciclavano lo stalinismo e ribadiva l’importanza del contributo cinese alla teoria e alla pratica rivoluzionaria in contrasto con revisionismo e dogmatismo. Il giornale metteva in guardia contro il “feticismo di organizzazione” e la canonizzazione dei leader, rivendicando una linea di continuità tra la Rivoluzione d’Ottobre e la Rivoluzione Culturale Cinese ma sostenendo che il successo del PCC era dovuto a un pensiero e un’azione indipendenti dalla leadership sovietica e dalla Terza Internazionale, con una saggia interpretazione del fronte popolare in cui il PCC aveva mantenuto l’autonomia, e lodava la critica cinese al revisionismo, vedendo la Rivoluzione Culturale come la “prima realizzazione pratica e su larga scala dell’alternativa rivoluzionaria posta da Lenin” contro le tendenze economiciste. A metà del 1970 AO vedeva la “strategia maoista della rivoluzione ininterrotta” concretizzarsi e svilupparsi nella situazione indocinese, grazie agli insegnamenti cinesi sul legame tra rivoluzione nazionale-democratica e socialista, sui fronti uniti e sulla coesistenza pacifica.
Per quanto riguarda i rapporti con il PCI, a metà del 1970 AO criticò apertamente il partito accusandolo di cercare una posizione ambigua tra l’internazionalismo proletario e il socialimperialismo sovietico per porsi alla guida dei partiti comunisti revisionisti europei, un’azione ritenuta insidiosa che finiva per intrecciare il PCI nelle contraddizioni inter-imperialistiche. Il PCI fu biasimato per aver negato il ruolo controrivoluzionario oggettivo dell’URSS in Asia e per aver spinto per una inattuabile unità sino-sovietica, ignorando che la divergenza ideologica, tra la strategia cinese della guerra popolare prolungata e quella sovietica della coesistenza pacifica, rendeva tale unità impossibile. Tuttavia AO mantenne un approccio critico anche verso la Cina, sostenendo che la restaurazione capitalista in URSS fosse avvenuta già sotto lo stalinismo (a causa del suo rifiuto dell’estinzione dello stato e della teoria del socialismo in un solo paese) e non solo dopo il XX Congresso, come ritenevano i cinesi.
L’orientamento filo-cinese di AO si manifestò pienamente con il lancio del Quotidiano dei lavoratori nel 1974, un giornale che si ispirò esplicitamente agli insegnamenti di Mao Zedong, sin dalla sua fondazione. Il quotidiano seguì in modo entusiasta la vita cinese, promuovendo la cultura e gli aspetti sociali progressisti, come la figura dei “medici scalzi”, e lodando iniziative culturali insolite, come l’episodio del fumetto Diabolik ambientato in Cina, interpretato come un segnale di un nascente “discorso di classe sul furto e la proprietà privata”. In campo ideologico AO sostenne la tesi maoista della non-neutralità della scienza, polemizzando con i filosofi del PCI. Il quotidiano trattò approfonditamente gli eventi politici interni, celebrando la nuova Costituzione cinese come continuazione della Rivoluzione Culturale e dedicando grande spazio alla lotta politica contro i deviazionisti.
In particolare, tra il 1975 e il 1976, il quotidiano riportò l’escalation della campagna dei tazebao contro Deng Xiaoping (inizialmente non nominato ma chiaramente identificato come il “leader che ha imboccato la via capitalista”), accusandolo di economicismo e paragonandolo a figure revisioniste come Krusciov. Gli scontri di Piazza Tiananmen, avvenuti dopo la morte di Zhou Enlai furono interpretati come una manifestazione violenta della lotta tra le due linee. La destituzione di Deng nell’aprile 1976 fu annunciata come un trionfo rivoluzionario, seguito da “immense manifestazioni di gioia” e dal sostegno per il nuovo astro nascente, Hua Guofeng. Il quotidiano diede inoltre ampio risalto alla salute di Mao e alla sua incapacità di ricevere ospiti stranieri nel giugno 1976, culminando con il titolo in prima pagina del 10 settembre che annunciava la morte del Grande Timoniere, riconosciuto da AO come l’unico “punto di riferimento” globale per il movimento rivoluzionario dell’epoca.
Questa profonda aderenza ideologica permette di concludere che l’influenza del maoismo su AO fu predominante, persino superiore a quella del trotskismo. AO riteneva il contributo maoista, basato su sconvolgimenti di portata mondiale come la Rivoluzione Culturale, indispensabile per comprendere le contraddizioni del mondo e definire una strategia rivoluzionaria globale. L’organizzazione si configura quindi come una formazione sincretica ed eclettica che elaborò i diversi contributi teorici in una sintesi originale, smentendo l’etichetta riduttiva di organizzazione puramente trotskista.
4. Il maoismo nel movimento studentesco italiano
Il Movimento Studentesco (MS) dell’Università di Milano emerse come una componente di spicco della sinistra extra-parlamentare milanese post-1968, in particolare a fianco di Avanguardia Operaia, tanto da essere definito il “movimento studentesco per eccellenza”. Fondato, secondo Niccolai, alla fine dell’ottobre 1969 da Mario Capanna con l’obiettivo di creare un’organizzazione studentesca basata sul marxismo, il suo orizzonte ideologico si espanse rapidamente verso il marxismo-leninismo-Pensiero di Mao Zedong. L’ideologia del MS si radicava nella convinzione che la Rivoluzione Culturale Cinese e la Rivoluzione del Nuova Democrazia, considerate alla pari della Rivoluzione d’Ottobre, avessero inaugurato una nuova era nelle rivoluzioni, fornendo la base teorica per la rivoluzione ritenuta necessaria in Italia e per la vittoria del proletariato attraverso le pratiche della guerra popolare, un concetto che doveva però essere applicato “creativamente” alla realtà italiana.
Il MS si considerava parte delle “masse popolari” e mirava a introdurre il Pensiero di Mao, visto come una vera e propria scienza e la sintesi del progresso cognitivo umano, nel mondo dell’istruzione, lottando per il diritto allo studio e insistendo sull’indispensabile legame tra teoria e pratica. L’ispirazione maoista spingeva il MS a promuovere la mobilitazione degli studenti e degli intellettuali perché si integrassero con le masse lavoratrici. Il Movimento si poneva in forte opposizione al PCI, accusato di aver tradito la Resistenza e di non aver compreso il potenziale rivoluzionario della classe operaia, e criticava anche aspramente altri gruppi della sinistra extra-parlamentare, come Lotta Comunista (definito “anti-maoista”) e Avanguardia Operaia (accusato di sincretismo tra rivoluzione permanente trotskista e rivoluzione ininterrotta maoista).
Riguardo alla politica estera cinese nei primi anni ’70, il MS la interpretò come una vittoria cinese e una sconfitta americana, in particolare in occasione della visita di Nixon in Cina. Il MS sosteneva che gli Stati Uniti fossero stati costretti a riconoscere la realtà del socialismo e a fare concessioni mentre la Cina non aveva arretrato sui punti chiave. Questa politica estera fu vista come un’azione che metteva in crisi la divisione del mondo tra le due superpotenze, rafforzando la Cina come baluardo del socialismo mondiale, e forniva un aiuto concreto alla sinistra americana, sfatando l’immagine del “pericolo giallo”. Il Movimento rigettava le critiche, inclusa quella de Il manifesto, che vedevano nella mossa cinese una politica diplomatica borghese, ribadendo che la Cina stava aiutando disinteressatamente i popoli oppressi e che il suo ruolo era solo di guida e supporto poiché la rivoluzione non poteva essere esportata.
L’analisi dei movimenti studenteschi italiani tra il 1968 e il 1976 fu profondamente influenzata dal maoismo, il quale funse da lente sia per l’auto-analisi studentesca che per la pianificazione della lotta politica e culturale. Il Comitato di Lotta della Facoltà di Ingegneria di Milano, riflettendo sulla composizione degli studenti, adottò la conclusione di Mao secondo cui la maggioranza ricadeva nella piccola borghesia, ritenendo il corpo studentesco non omogeneo ma analizzabile in termini generali. Gli studenti di Elettronica, in particolare, trovarono ispirazione nella Rivoluzione Culturale cinese, criticando il sistema scolastico italiano come “astratto” e “meritocratico” con un carico di studio “bestiale”, contrapponendolo a un modello socialista dove la conoscenza non era separata dalla pratica. Questa influenza maoista si manifestò nella convinzione di dover “mettere la politica al primo posto” e nel considerare la Rivoluzione Culturale il modello per combattere la “scuola borghese retriva”, proponendo persino di inviare mezzo milione di studenti nelle campagne per unire “lavoro manuale e un diffuso lavoro politico” per formare la coscienza di classe tra i contadini, benché questa visione fosse spesso idealizzata e romanticizzata, tanto da spingere altri gruppi (studenti-insegnanti nel 1968) a mettere in guardia contro i “fideismi” e i rischi di “nichilismo culturale” o un esagerato culto di Mao. Il MS promosse il concetto di scienza al servizio del popolo tramite la sua “appropriazione da parte del popolo lavoratore”, vedendo nella Cina un esempio di “movimento di massa per la sperimentazione scientifica” e mirando a guadagnare egemonia culturale trasformando la “teoria in una forza rivoluzionaria materiale”, come evidenziato anche dagli studenti di Medicina che auspicavano una “medicina al servizio del popolo” con “cliniche popolari” e prevenzione sociale. L’orientamento filocinese era visibile negli slogan di piazza e nella strategia di alleanza con i professori democratici, in linea con l’indicazione di Mao sulla rieducazione degli intellettuali della vecchia cultura, culminata in un evento del 1974 a Milano per celebrare la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, con la partecipazione di un rappresentante diplomatico e di cinque professori universitari di discipline umanistiche e scientifiche, a sottolineare la portata storica, filosofica e medica della Rivoluzione Cinese.
L’evoluzione del MS nel Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS) nel 1976 mantenne intatto l’attaccamento al maoismo, ponendolo come base ideologica del partito e definendo la Cina come “guida dei rivoluzionari di tutto il mondo”, lodando la sua superiorità economica e sostenendone la politica estera anti-socialimperialista contro l’URSS. Il MLS considerava la Rivoluzione Culturale il “punto più alto e avanzato” dello sviluppo ideologico internazionale, cruciale per la lotta culturale, per il padroneggiamento della conoscenza da parte delle masse e per la realizzazione di una “nuova umanità” di “fraterna laboriosità”, integrando il pensiero di Mao con quello di Antonio Gramsci per la lotta ideologica.
Gabbas e Capisani analizzano l’influenza del maoismo anche in altre città universitarie. A Bologna gli studenti parlavano di “guerriglia nelle istituzioni” e di “lunga marcia” per negare il ruolo sociale dello studente e costruire un potere alternativo tramite l’espropriazione dell’istituzione, conducendo inchieste socio-economiche (come nel quartiere Bolognina) per unire teoria e pratica in linea con gli insegnamenti di Mao. A Torino il movimento trovò “totale sintonia” con le critiche cinesi al “sapere libresco” e alla selezione sociale, adottando frasi di Mao sull’importanza della “pratica sociale” e dell’inchiesta, valorizzando la Cina come paese del Terzo Mondo e vedendo nel “processo di rivoluzione culturale” la condizione preliminare per la rivoluzione politica ed economica. Anche a Trento l’influenza era tangibile. L’attivista Marianella Pirzio Biroli Sclavi vedeva nella Rivoluzione Culturale una corrispondenza con l’andare in fabbrica e discutere con gli operai. Infine il documento di Mauro Rostagno e Renato Curcio del 1968, sebbene influenzato “miticamente” da Mao, Guevara e Luxemburg, elaborò un approccio che adottava esplicitamente il concetto maoista di “pratica sociale” (lotta di classe, lotta per la produzione e sperimentazione scientifica) per acquisire conoscenza, invocando la necessità di una forte organizzazione per la lotta prolungata e spingendosi a teorizzare che la “struttura diventa visibile così com’è attraverso il processo di rottura della sovrastruttura”, invitando i marxisti ortodossi scettici a leggere Mao e proponendo una “campagna di rettifica” interna per correggere gli errori del movimento, sul modello del PCC, al fine di evitare attacchi personali e “curare la malattia per salvare il paziente”.
Il fermento studentesco che scosse l’Italia intorno al 1968 non vide attivi solo gli universitari ma anche i liceali. Un gruppo di studenti milanesi, denominato Iniziativa Comunista, si ispirò al pensiero di Mao Zedong che sosteneva che l’impegno rivoluzionario degli intellettuali dovesse concretizzarsi nell’unione con le masse lavoratrici. Nel febbraio 1972 il collettivo pubblicò un documento in cui affrontava l’obiettivo di inserire il movimento studentesco liceale nella più ampia lotta delle masse popolari, ribadendo però che la classe operaia doveva sempre mantenere il ruolo di guida, gestendo ogni cosa, in linea con un popolare slogan della Rivoluzione Culturale. Secondo Iniziativa Comunista il carattere politico del movimento studentesco si manifestava nella grande disponibilità di quadri studenteschi e intellettuali a rinunciare al proprio ruolo di intellettuali borghesi per mettersi al “servizio del popolo”.
Tra gli anni ’60 e ’70 il movimento studentesco italiano fu fortemente anti-autoritario e trasse grande ispirazione dal maoismo che forniva anche una spinta alla democratizzazione dell’istruzione e alla lotta al classismo. Il successo del maoismo fu probabilmente amplificato dalla vaghezza di slogan come “Ribellarsi è giusto!” che lasciavano ampia libertà di scelta su cosa e chi contestare. Si arrivò al punto che alcuni partecipanti ammisero di manifestare gridando “Viva Marx! Viva Lenin! Viva Mao Zedong!” senza conoscerli. Gli studenti maoisti non desideravano solo un’università più democratica ma erano apertamente contro la selezione e la meritocrazia, in linea anche con critiche preesistenti come quelle contenute in Lettera a una professoressa di Don Lorenzo Milani.
5. Quale eredità?
Il maoismo in Italia non é stato un fenomeno marginale. La sua influenza si manifestò attraverso la diffusione di idee e slogan semplici che rimasero noti anche al di fuori dei circoli politici più impegnati. Nonostante i singoli gruppi maoisti potessero sembrare minoritari, un’ottica più ampia rivela l’impatto significativo dell’onda globale del maoismo sulla sinistra radicale italiana, stimolando dibattiti sull’interpretazione e l’applicazione della filosofia politica maoista al contesto italiano. Le idee maoiste non furono solo un’infatuazione o un esotismo di breve durata, furono continuamente adottate, rielaborate e usate come fonte di ispirazione da attivisti e intellettuali, come testimoniato dalle attività di enti come Edizioni Oriente e l’Associazione Italia-Cina. L’impegno nella traduzione dei concetti maoisti nella realtà socio-economica italiana fu un processo continuo che confermò la profondità del fenomeno, paragonabile all’interesse che la Rivoluzione d’Ottobre suscitò a livello globale. Questa complessità rese il maoismo italiano più di una semplice moda. La prospettiva cinese su socialismo e modernità divenne nota e dibattuta anche al di fuori dei circoli strettamente maoisti, ponendo interrogativi che andavano oltre il marxismo-leninismo tradizionale, come la necessità di un paese egemone e il ruolo della “unità nella diversità” nel contesto della Guerra Fredda. Pertanto la piccolezza dei partiti pro-Cina non è un pretesto per ignorare il fenomeno, la cui diffusione fu possibile grazie a ragioni qualitative legate alla novità delle questioni poste dalla prospettiva del PCC. Il maoismo italiano è stato molto eterogeneo. I suoi sostenitori provenivano da esperienze diverse e persino organizzazioni considerate trotskiste, come Avanguardia Operaia, subirono una forte influenza maoista, tanto da ritenere Mao più rilevante di Trotsky, suggerendo una necessità di rivalutare la presunta netta distinzione tra trotskisti e maoisti. Questa diversità nell’approccio al pensiero di Mao Zedong contribuì alla frammentazione del movimento. Gabbas e Capisani criticano l’eccessiva semplificazione che identifica il maoismo italiano solo con il partito Servire il Popolo e il suo leader, Aldo Brandirali, il quale in seguito si spostò a destra, un aneddoto spesso usato per liquidare i maoisti come estremisti opportunisti. Si sostiene che questa associazione esclusiva sia un mito apologetico e auto-assolutorio, poiché esempi simili di cambiamenti di fazione si trovano anche in altri movimenti politici. I gruppi maoisti italiani condividevano l’idea che il centro della rivoluzione proletaria globale si fosse spostato dall’Unione Sovietica alla Repubblica Popolare Cinese. Per molti la Cina rappresentava un faro di diversità all’interno della sinistra, non un semplice sostituto egemonico dell’URSS, ma un punto di riferimento culturale e l’esperimento più avanzato nella costruzione di una società diversa. Sebbene il PCC desiderasse un’influenza più forte e mirasse a riorientare il PCI, i maoisti italiani finirono per seguire un percorso indipendente, fallendo nel tentativo di alterare la traiettoria del PCI. Un altro tratto comune fu la convinzione del primato della politica sull’economia, un’enfasi sull’integrità e la libertà di decisione politica che, nella percezione, contrastava con la crescente “indulgenza” del blocco sovietico negli affari commerciali con l’Occidente. Il pensiero di Mao arrivò in Italia in una congiuntura storica particolare, offrendosi come un’alternativa al socialismo rappresentato dai gruppi dirigenti di Togliatti e Krusciov. Il maoismo nacque come una forma di dissenso interno al movimento comunista italiano, riuscendo, nel suo apogeo, a influenzare organizzazioni come Lotta Continua e Avanguardia Operaia che, pur collocandosi nello stesso ambiente culturale del PCI, miravano a sostituirlo attraverso l’elaborazione di un’ideologia marxista-leninista più vicina allo spirito rivoluzionario originale e l’adozione di nuovi modi di coinvolgimento delle masse. Questo contesto si inseriva nelle profonde trasformazioni sociali italiane degli anni ’60 che alimentarono il movimento del ’68, caratterizzato da una maggiore attenzione ai giovani e dal desiderio di cambiare lo status sociale attraverso l’istruzione. L’influenza cinese sugli studenti del ’68 è riconosciuta, sebbene senza un diretto coordinamento internazionale. Gabbas e Capisani respingono la tesi della rapida sconfitta del maoismo italiano, vedendola come un’interpretazione semplicistica che ricorre alla categoria di fallimento, simile al “mito apologetico” criticato da Domenico Losurdo per l’implosione dell’URSS. La popolarità di Mao in Italia raggiunse il culmine nel secondo biennio rosso (1968-1969) e declinò lentamente a causa di tre fattori principali: l’inevitabile dissoluzione dei miti, il riavvicinamento cinese agli Stati Uniti (soprattutto con l’incontro con Nixon), visto come un tradimento dell’antimperialismo radicale che aveva reso la Cina il faro anti-sovietico per la sinistra italiana e l’affare Lin Biao, la cui morte e successiva demonizzazione minarono la percezione di Mao come leader che conduceva la lotta politica in modo “aperto e democratico”. Nonostante la mancanza di intellettuali italiani di spicco a livello internazionale come in Francia (dove figure come Foucault, Sartre e Badiou furono influenzate dal maoismo), il maoismo italiano riuscì ad essere fermento intellettuale vivace e a diffondere le idee di Mao anche tra coloro che volevano solo rimanere aggiornati. L’influenza a lungo termine della Rivoluzione Cinese in Italia è incarnata dal filosofo della storia Domenico Losurdo, il quale sostenne che la svolta a favore delle riforme di mercato della Cina di Deng Xiaoping continuasse a rappresentare un’alternativa all’imperialismo occidentale.
Il declino del maoismo in Italia a partire dagli anni ’70 si è risolto in una quasi totale scomparsa, con l’eccezione di pochi, marginali gruppi settari che ne mantengono viva l’ispirazione ufficiale, come il Partito Marxista-Leninista Italiano (PMLI) e i Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo (CARC), questi ultimi fondati nel 1992, oltre al (nuovo) Partito Comunista Italiano del 1999. La loro persistenza offre uno spunto di riflessione sul destino del comunismo italiano, da confrontare con l’evoluzione del PCI. La fine del maoismo italiano non fu dovuta a una mera passiva imitazione di Pechino. Al contrario, i maoisti italiani si dissociarono dalla Repubblica Popolare Cinese quando essa virò verso il revisionismo con le riforme di Deng Xiaoping, dimostrando una propria autonomia, sebbene paradossalmente l’incapacità o la riluttanza ad adattarsi a tale cambiamento globale ne abbia causato la scomparsa, confinandoli al ruolo di sottocultura dissidente. La crisi del maoismo è parte di una più ampia crisi della sinistra italiana del XX secolo, inclusa la sua ala istituzionale. L’eredità duratura del maoismo italiano è identificata nel dissenso come fenomeno storico e culturale: una prospettiva indipendente e critica volta a preservare i fondamentali della sinistra, in particolare l’attenzione al lavoro. Il dissenso è essenziale per la vitalità di un partito, fungendo da serbatoio di idee e consentendo l’adattamento, un aspetto che, se il PCI avesse gestito meglio l’inquietudine maoista, avrebbe potuto forse aiutarlo a connettersi meglio con i movimenti del ’68.
