1. Lefebvre e il diritto alla città
La riflessione sulla problematica urbana contemporanea non può che prendere le mosse, dice Henri Lefebvre nei suoi tomi sul diritto alla città, dal processo di industrializzazione, riconosciuto come la forza dinamica primaria che ha plasmato le trasformazioni sociali negli ultimi due secoli. Distinguendo tra elemento induttore ed elementi indotti, l’industrializzazione si configura come il motore primo mentre tra i fenomeni da essa scatenati si annoverano le questioni legate alla crescita e alla pianificazione, lo sviluppo della realtà urbana in sé, senza tralasciare l’importanza del tempo libero e delle problematiche culturali. Sebbene l’urbanizzazione e la problematica urbana figurino tra gli effetti indotti e non tra le cause, la preoccupazione che esse significano si è talmente accentuata da permettere di definire la realtà sociale che ci circonda come una vera e propria “società urbana”, una definizione che conserva un tratto capitale. Per comprendere appieno questa transizione è essenziale riconoscere un paradosso storico: la città esisteva ben prima dell’industrializzazione. Questa osservazione, solo apparentemente banale, ha implicazioni profonde. Le creazioni urbane più eminenti, le opere più “belle” della vita cittadina, dove la bellezza risiede proprio nel loro essere “opere” e non semplici prodotti, appartengono a epoche precedenti. Pensiamo alla città orientale, legata al modo di produzione asiatico e di carattere essenzialmente politico, alla città antica, greca e romana, associata al possesso di schiavi e infine alla città medievale, inserita in un contesto feudale ma in lotta contro di esso che senza perdere la sua dimensione politica divenne principalmente un centro di commercio, artigianato e attività bancaria, assorbendo quelle figure mercantili un tempo nomadi e emarginate. All’alba dell’industrializzazione e della nascita del capitalismo competitivo la città in Europa occidentale era già una realtà potente e consolidata. Dopo il declino dell’influenza romana essa riprese vigore grazie ai mercanti che elessero a propri centri i resti degli antichi nuclei urbani. Questi centri, a loro volta, funzionarono da acceleratori per un’economia di scambio. Attingendo al surplus agricolo sottratto ai signori feudali le città accumularono ricchezze, oggetti, tesori e capitali virtuali, grazie anche all’usura e al commercio. In questi luoghi prosperavano artigianati distinti dall’agricoltura, si sostenevano le comunità contadine e si accumulavano non solo ricchezze ma anche conoscenze, tecniche e opere d’arte. La città stessa era un’opera, un tratto che contrastava con la tendenza irreversibile verso la merce, il commercio e il valore di scambio. L’uso eminente della città, delle sue piazze e dei suoi monumenti, era la Festa, un consumo improduttivo e glorioso di ricchezze per il solo piacere e prestigio. Era una realtà complessa e contraddittoria poiché mentre i gruppi potenti investivano in modo improduttivo nelle città, il capitale bancario e commerciale rendeva la ricchezza mobile, creando reti di scambio. Con l’avvento di una borghesia imprenditoriale specifica, la ricchezza non fu più principalmente fondiaria e la società nel suo insieme tendeva a costituirsi come una rete di città, con una divisione del lavoro tecnica, sociale e politica, collegate da vie di comunicazione e relazioni commerciali. Questa divisione del lavoro interurbana non era abbastanza avanzata da porre fine a rivalità e competizioni, impedendo al sistema di stabilizzarsi. Ciò che si eresse su questa base fu lo Stato centralizzato e, come causa ed effetto di questa nuova centralità del potere, una città prevalse sulle altre: la capitale. All’interno di questo sistema ogni città tendeva a costituirsi come un sistema organico e autosufficiente, una comunità che manteneva un carattere corporativo. La vita comunitaria, con le sue assemblee, non eliminava la lotta di classe, anzi, i violenti contrasti tra ricchezza e povertà non impedivano l’attaccamento alla città né un contributo attivo alla sua bellezza. Le lotte politiche avevano come terreno e posta in gioco la città stessa e i gruppi rivali erano uniti da un amore per essa. I ricchi e potenti, sentendosi sempre minacciati, giustificavano i loro privilegi spendendo fastosamente per abbellimenti e festività. Questo paradosso è fondamentale: società molto oppressive furono anche straordinariamente creative nella produzione di opere. In seguito la produzione di prodotti sostituì la produzione di opere e le relazioni sociali ad esse legate mentre la capacità creativa sembrò dissolversi, riducendosi a un “fare” e a una “creatività” miniaturizzata. Ciò convalida una tesi cruciale: la città e la realtà urbana sono legate al valore d’uso mentre il valore di scambio e la generalizzazione delle merci portata dall’industrializzazione tendono a distruggerla, subordinando ciò che era un rifugio del valore d’uso. Il passaggio al capitalismo industriale e competitivo fu accompagnato da una gigantesca crisi. L’industria nascente tendeva a stabilirsi fuori dalle città, non per una legge assoluta ma per una molteplicità di circostanze, come la vicinanza a fonti di energia, materie prime e bacini di manodopera. La città preindustriale accelerò il processo, fungendo da mercato, fonte di capitale, residenza delle élite e serbatoio di lavoro. Come spiegato da Marx, le concentrazioni urbane accompagnarono la concentrazione del capitale e l’industria finì per produrre i propri centri urbani, dalle piccole agglomerazioni alle conurbazioni gigantesche. Questo processo si rivela in tutta la sua complessità quando si riflette sulla distinzione tra induttore e indotti. L’industria può fare a meno della città antica ma così facendo costituisce agglomerati in cui le caratteristiche urbane si deteriorano, come visibile in Nord America. Laddove esisteva una rete preesistente di città, l’industria la assale, se ne appropria e la rimodella secondo le sue esigenze, attaccando e devastando i nuclei antichi. Ci troviamo così di fronte a un processo duplice e inscindibile ma conflittuale: industrializzazione e urbanizzazione, crescita e sviluppo, produzione economica e vita sociale, uniti ma in violento scontro.
Questo processo dialettico, lungi dall’essersi concluso, provoca ancora oggi situazioni problematiche. A Venezia la popolazione attiva abbandona la città per l’agglomerato industriale di Mestre, dice Lefebvre. Ad Atene un’industrializzazione massiccia ha attirato masse di contadini, creando un’agglomerazione mostruosa e informe dove i monumenti antichi sono diventati mere attrazioni per il consumo turistico mentre una rete speculativa fragile e pericolosa domina l’economia. In Francia città come Grenoble sono state sommerse dall’industrializzazione mentre altre, come Tolosa, si sono estese con poca industrializzazione. Questo modello si ripete nelle città dell’America Latina e dell’Africa, circondate da baraccopoli popolate da contadini sradicati da strutture agrarie in dissoluzione. Un processo indotto di “implosione-esplosione” è in atto. Il fenomeno urbano si estende su gran parte del territorio delle nazioni industriali, formando megalopoli transnazionali, mentre le concentrazioni urbane diventano gigantesche e i vecchi nuclei si deteriorano o esplodono, con i centri urbani spesso abbandonati ai poveri o trasformati in uffici. Il tessuto urbano che ne risulta è più di una semplice maglia morfologica. Esso è il supporto di un “modo di vita” urbano, più o meno degradato, che penetra nelle campagne, portando con sé un sistema di oggetti (acqua, elettricità, automobili, televisione) e un sistema di valori come il tempo libero cittadino, la moda, una razionalità preoccupata per la sicurezza. I giovani sono i principali agenti di questa assimilazione. All’interno di questa maglia sopravvivono isole di ruralità “pura”, spesso aree povere e spopolate. I nuclei urbani si trasformano, diventando prodotti di consumo di alta qualità per turisti e pendolari, “consumo del luogo” dove il valore di scambio domina, pur conservando spazi di valore d’uso. L’immagine del centro commerciale è solo una versione impoverita del vecchio nucleo polivalente. La vera creazione corrispondente alla nostra epoca è il centro decisionale, una nuova centralità del potere. La crisi della città è dunque teorica e pratica: il concetto di città si sta trasformando, il nucleo urbano si spacca ma persiste e il suo regno sembra finire, a meno che non si riaffermi proprio come centro di potere.
Questa visione drammatica non è però un processo naturale e senza volizione. Le classi dominanti intervennero attivamente. A Parigi, a metà Ottocento, la borghesia conquistò la capitale sostituendo la bellezza aristocratica con la bruttezza borghese e la ricerca del guadagno, leggibile nelle strade del Marais. Questo è il paradosso storico che parzialmente sfuggì a Marx. La borghesia “progressista”, pur muovendosi verso la democrazia, sostituì l’oppressione con lo sfruttamento e l’opera con il prodotto. Dopo il 1848 la vita urbana di Parigi raggiunse la sua massima intensità, una democrazia urbana fatta di incontri e confronti ma questa minacciava i privilegi della nuova classe dirigente che la soffocò. Il Barone Haussmann, con i suoi sventramenti, agì per “pettinare Parigi con le mitragliatrici”, sostituendo quartieri vivi con vuoti che gridavano la gloria e la violenza dello Stato. La Comune del 1871 fu, in parte, il tentativo di riconquistare questo “appartenere” alla città.
La strategia di classe si articolò poi in una manovra più vasta e con risultati più duraturi. Alla fine del XIX secolo notabili e ideologi scoprirono la nozione di “habitat”, isolando la funzione abitativa dal complesso organismo urbano. Il loro obiettivo, spesso animato da intenti filantropici di moralizzare la classe operaia, era di coinvolgerla in una gerarchia fondata sulla proprietà, distogliendola dalla sua identità produttrice. Nacque così la banlieue pavillonaire, una periferia deurbanizzante e deurbanizzata, una “urbanizzazione deurbanizzante”. Dopo la Seconda Guerra Mondiale la crisi degli alloggi spinse lo Stato a farsi carico direttamente della costruzione, dando inizio all’era dei grands ensembles e delle nuove città. Qui la razionalità burocratica portò all’estremo il concetto di habitat, escludendo completamente la nozione plastica di “abitare”. L’habitat divenne un puro carico di vincoli, un modo di vivere completamente programmato. L’ordine urbano si era così decomposto in due settori opposti e speculari, cioè le case unifamiliari e i grandi complessi residenziali. Questa opposizione costituisce un sistema di significati: gli abitanti dei grands ensembles si definiscono in negativo rispetto al resto degli abitanti e viceversa. La coscienza della città e dell’opera si è offuscata fino a scomparire, lasciando un vuoto enorme.
L’analisi di Lefebvre distingue tre periodi: il primo, in cui l’industria assalta e devasta la realtà urbana preesistente, il secondo, in cui l’urbanizzazione si generalizza e la società urbana si afferma come realtà socio-economica, rivelando il pericolo della mancanza di una centralità organizzata e il terzo in cui si tenta di restituire una centralità, forse sostituendo le vecchie centralità con un centro decisionale. Da questa distruzione nasce o rinasce un “pensiero urbano” che segue un “urbanesimo senza pensiero”. Di fronte al caos generato emerge un razionalismo operativo, una ragione analitica e organizzativa che cerca di imporre coerenza ma la cui finalità è in realtà decisa strategicamente e giustificata ideologicamente. All’interno di questo pensiero pianificatorio si identificano diverse tendenze: l’urbanistica degli umanisti, nostalgica e legata a modelli agrari che sfocia in formalismo o estetismo, l’urbanistica scientista degli amministratori che a volte è tecnocratica e mitizza le reti di comunicazione, a volte aspira a una sintesi multidisciplinare e l’urbanistica dei promotori immobiliari che vende pianificazione come valore di scambio, promettendo un “modo di vivere” felice e programmato attraverso la pubblicità. La convergenza di questi progetti verso una strategia globale e un sistema totalitario di pianificazione, con centri decisionali che concentrano il potere e periferie disperse e controllate, comporta i pericoli maggiori per una dominazione perfetta e raffinata, sebbene nuove contraddizioni possano sorgere proprio da questi progetti, impedendo forse questa convergenza irrimediabile.
L’obiettivo di Lefebvre in seguito si sposta sulla critica della possibilità di una “filosofia della città”, restituendo all’intero edificio filosofico il suo ruolo storico, cioè quello di un progetto di sintesi e totalità che la filosofia, di per sé, non è in grado di portare a compimento. Il legame tra il pensiero filosofico e la vita urbana non è periferico bensì costitutivo. I filosofi non hanno semplicemente vissuto nella città come in un contesto sociologico esteriore ma l’hanno pensata, portando la vita urbana nel regno del linguaggio e del concetto. Il focus si concentra quindi sulla città antica greco-romana, matrice delle società occidentali, generalmente esito di un sinecismo, ovvero della riunione di più villaggi e tribù. Questa unità superiore permette lo sviluppo della divisione del lavoro e della proprietà fondiaria senza distruggere completamente la proprietà collettiva della terra, dando vita a una comunità gerarchica in cui una minoranza di cittadini liberi esercita il potere su donne, bambini, schiavi e stranieri, configurando quella che Marx definirà una “democrazia della non-libertà”. La separazione tra città e campagna si erge come una delle prime e fondamentali divisioni del lavoro, corrispondendo alla scissione tra lavoro materiale e intellettuale, e di conseguenza, tra il naturale e lo spirituale. Alla città compete il lavoro intellettuale: l’organizzazione, la direzione, la politica e l’elaborazione del sapere teorico. Da queste contrapposizioni nascono grandi simbolismi. La campagna incarna l’immagine della natura e dell’innato mentre la città diventa il luogo dello sforzo, della volontà, della soggettività e della contemplazione. Il logos trionfa nella città greca come simbolo luminoso di una ragione ordinatrice. Eppure il filosofo e la filosofia tentano di recuperare o creare una totalità, rifiutando queste separazioni. Il logos, come suggerito da Heidegger, è insieme raccogliere, mettere al sicuro, parlare e disvelare. La città, associata alla filosofia in questo logos nascente, raccoglie le ricchezze del territorio, le attività disperse, le persone, il parlato e lo scritto, rendendo simultaneo ciò che nella campagna si distribuisce secondo cicli e ritmi. L’opera della città si concentra e si compie nell’opera dei filosofi che raccolgono opinioni, opere e luoghi urbani per pensarli simultaneamente in una totalità, portando così la città alla luce teorica.
Con il Medioevo europeo, che rinasce dalle campagne dopo il crollo dell’Impero Romano, il quadro muta radicalmente. La filosofia è subordinata alla teologia e non medita più sulla città. Il filosofo-teologo riflette sulla doppia gerarchia della società feudale, la proprietà terriera e l’organizzazione corporativa urbana, senza riconoscere il proprio legame con la città, nonostante l’ascesa del razionalismo accompagni lo sviluppo del capitalismo e delle città stesse. È con Hegel, all’apice della filosofia speculativa e sistematica, che il rapporto viene rielaborato. Per Hegel l’unità immediata tra l’Idea e la “Cosa perfetta”, la città-stato greca, si è irrimediabilmente spezzata nel divenire storico. Nella società moderna è lo Stato a subordinare gli elementi, inclusa la città, che diventa un sottosistema all’interno di un sistema filosofico-politico più ampio. In Hegel filosofia e “reale” non sono più esterni, la filosofia si realizza nel reale (lo Stato razionale) e il reale diventa razionale, in un’identità che si compie storicamente. Il filosofo, in questo sistema, perde la sua indipendenza e si integra come un funzionario pubblico. Marx accetta da Hegel l’idea fondamentale del compimento della filosofia e della fine della sua indipendenza ma ne rovescia le conclusioni. Non sarà nello Stato borghese e attraverso la burocrazia che la filosofia si realizzerà, bensì attraverso il proletariato, la cui missione storica è duplice: distruggere la società borghese costruendone un’altra e al tempo stesso abolire la speculazione filosofica alienante per realizzare il progetto filosofico dell’essere umano, mettendo fine alle separazioni. L’incontro tra razionale e reale avverrà dunque in un’altra società.
Il rapporto contemporaneo tra filosofia e città appare ambiguo. Filosofi eminenti come Bachelard, con le sue pagine sulla casa, o Heidegger, con le sue meditazioni sul tempio greco, non attingono i loro temi centrali dalla città, preferendo metafore di una vita primaria e anteriore, come i “pastori dell’essere” o i “sentieri boschivi”. Il pensiero cosiddetto esistenziale si basa sulla coscienza individuale piuttosto che sulla realtà storica e sociale. Ciononostante non è affatto detto che la filosofia abbia esaurito il suo compito. È perfettamente concepibile una descrizione fenomenologica della vita urbana o una semiologia della realtà urbana che corrisponda, per la città attuale, a ciò che fu il logos per la città greca. I pensatori che si ergono esplicitamente a “filosofi della città”, con l’intento di ispirare architetti e urbanisti e di ricollegarsi a un umanesimo tradizionale, spesso mancano di ampiezza. Questi filosofi, discorrendo sull'”essenza” della città come “spirito”, “forza vitale” o “tutto organico”, finiscono per condurre a un vicolo cieco, compiendo un’operazione ideologica che estrapola illegittimamente dal parziale al globale, idealizzando spesso la città antica e travisandone la reale natura che era di esclusione per la maggior parte dei suoi abitanti.
Parallelamente le scienze sociali frammentarie, come storia, economia, demografia, sociologia, si costituiscono nel XIX secolo contro la filosofia, spezzettando la realtà per analizzarla. Ognuna di queste discipline apporta un contributo alla conoscenza della città ma il dilemma che ne risulta è insormontabile. Si ha un concetto di totalità globale e vuoto, di sapore filosofico mentre si hanno contenuti positivi ma sparsi, privi di un concetto unificante. Gli stessi specialisti, quasi inevitabilmente, reintroducono di soppiatto rappresentazioni globali, spesso di tipo organicista o evoluzionista, credendosi semplici scienziati mentre sono, in realtà, filosofi inconsci. La pianificazione urbana, in quanto pratica sociale che tenta di farsi globale, sembra poter offrire una via d’uscita a questa impasse, a patto però di sottoporla a un esame critico che ne smascheri le componenti ideologiche.
La pianificazione come ideologia è un fenomeno preciso e pericoloso. Nata dalla crisi della città capitalistica, essa formula tutti i problemi sociali in termini spaziali, trasponendo la storia e la coscienza in dimensioni spaziali. In questa visione emerge una “patologia dello spazio”: il pianificatore si crede un “medico dello spazio”, in grado di distinguere spazi sani, generatori di salute mentale e sociale, da spazi malati e di concepire uno spazio sociale armonioso e normalizzante. Questa ideologia, che procede per riduzione ed estrapolazione, si impone con metodi terroristici in nome di una presentata scientificità e rigore. Per cogliere la specificità della città occorre abbandonare le vecchie rappresentazioni organiciste, evoluzioniste e continuiste che ne hanno mascherato la natura. La città è fondamentalmente un’opera, più vicina a un’opera d’arte che a un semplice prodotto materiale. Se si può parlare di produzione della città, si tratta della produzione e riproduzione degli esseri umani da parte degli esseri umani, piuttosto che di oggetti. La sua “oggettualità” è paragonabile a quella di un libro o di un linguaggio, un sistema semiotico che aspetta di essere decifrato. Essa funziona come una mediazione cruciale tra l’ordine “vicino” delle relazioni immediate (la famiglia, il vicinato, le corporazioni) e l’ordine “lontano” della società globale, con le sue grandi istituzioni (lo Stato, la Chiesa), i suoi codici legali e la sua cultura. La città è il luogo in cui l’ordine lontano si proietta, si inscrive e si rende visibile sul terreno dell’immediatezza, prescrivendo e significando. Tutto ciò per essere compreso richiede una ricostruzione del contesto, di ciò che sta sotto (la vita quotidiana, l’inconscio urbano) e di ciò che sta sopra (le istituzioni, le ideologie). Distinguere tra la “città” come fatto pratico-materiale e architettonico e l'”urbano” come realtà sociale fatta di relazioni può essere utile ma è un’operazione rischiosa che non deve portare a una separazione metafisica.
La storia urbana è segnata da discontinuità e rotture, non da una continuità armoniosa. Processi globali come l’industrializzazione o l’affermazione del capitalismo competitivo trasformano la città ma non in modo meccanico. Lo fanno permettendo a gruppi sociali di appropriarsi dello spazio, di inventare modi di vivere, di scolpire l’ambiente urbano. Attraverso le metamorfosi le forme urbane possono trasformarsi in funzioni all’interno di nuove strutture, come nel caso della piazza mercantile medievale che, spogliata delle sue relazioni storiche, viene riscoperta dai pianificatori moderni come “centro commerciale”. Si sono succedute diverse formazioni urbane: la città orientale legata al modo di produzione asiatico, la città antica schiavistica, la città medievale come teatro dello scontro tra borghesia nascente e feudalesimo e infine la città capitalistica, commerciale e industriale. Ogni formazione ha conosciuto un’ascesa, un apogeo e un declino ma i suoi frammenti sono stati riutilizzati in formazioni successive. Nei periodi critici, quando la crescita spontanea della città ristagna, emerge regolarmente un “pensiero pianificatore” che fonde l’ansia filosofica per la totalità con schemi divisori per lo spazio urbano, confondendo questa ansia con la razionalità e l’organizzazione. Alla luce di questa complessa analisi, Lefebvre propone diverse definizioni complementari e non esaustive di città, ciascuna che illumina un aspetto diverso. Una prima definizione la vede come una proiezione della società sul terreno, non solo sul sito fisico ma a un livello specifico, percepito e concepito dal pensiero. Questa definizione va integrata considerando che ciò che si proietta non è solo un ordine sociale ma anche tempi e ritmi, facendo della città una composizione musicale oltre che un testo scritto. Una seconda definizione la concepisce come l’insieme delle differenze tra le città, enfatizzando le particolarità. Una terza definizione, più legata alla vita quotidiana, la vede come la pluralità e simultaneità di modi di abitare e di vivere la vita urbana. Altre determinazioni, come quella della città come “luogo del desiderio” o come luogo che accelera i processi storici e funge da sito delle rivoluzioni, devono essere ugualmente considerate. Oggi la città moderna, divenuta un concentrato di centri decisionali, non è più il luogo passivo della concentrazione di capitali poiché organizza e intensifica attivamente lo sfruttamento di tutta la società, intervenendo essa stessa come un mezzo di produzione.
L’indagine sulla fenomenologia urbana, nella sua duplice natura di morfologia fisica e sociale, si presenta come un’impresa analitica che esige il ricorso all’intero spettro degli strumenti metodologici a nostra disposizione: forma, funzione, struttura, livelli, dimensioni, testo, contesto, campo e totalità, scrittura e lettura, sistema, significato e significante, linguaggio e metalinguaggio, istituzioni. Tuttavia è fondamentale riconoscere fin dall’inizio l’intrinseca ambiguità di questo vocabolario analitico poiché nessuno di questi termini può ambire a una purezza rigorosa o a una definizione univoca, essendo piuttosto caratterizzato da una polisemia inevitabile che riflette le diverse prospettive disciplinari. Specificamente per il teorico urbano, ad esempio, la forma viene concettualizzata come la forma della simultaneità, come il campo privilegiato degli incontri e degli scambi, un’accezione che richiede a sua volta una profonda chiarificazione. Analoga complessità investe il termine funzione, la cui analisi deve essere articolata su tre piani distinti: le funzioni immanenti alla città stessa, le funzioni che la città esercita in relazione al suo territorio circostante e, infine, le funzioni che ogni singola città svolge all’interno del tutto sociale, ovvero il suo ruolo specifico nella divisione tecnica e sociale del lavoro tra diverse città, nelle varie reti di relazioni e nelle gerarchie amministrative e politiche. Una simile stratificazione concettuale si applica anche alla nozione di struttura che deve essere distinta nella struttura interna di ogni città (morfologica, sociale, topologica e topica), nella struttura urbana della società nel suo complesso e, infine, nella struttura sociale delle relazioni città-campagna. Questo intrico di determinazioni analitiche parziali genera inevitabilmente una confusione e rende estremamente arduo il compito di una concezione globale e sintetica. Spesso questa complessità dialettica viene nascosta da opposizioni termine a termine, come quella semplificatoria tra campagna, città e società statale che occulta le più profonde e conflittuali relazioni dialettiche tra questi tre termini. È quindi assolutamente necessario introdurre una distinzione operativa tra diversi livelli di realtà e di analisi, livelli che non dovranno essere né separati né confusi, ma dei quali si dovranno mostrare con precisione le articolazioni e le disarticolazioni, le proiezioni reciproche e i differenti nessi.
Il livello più alto, quello globale della struttura sociale, si ritrova contemporaneamente al di sopra e all’interno della città, una collocazione che non semplifica affatto l’analisi. La struttura sociale esiste concretamente nella città, si rende apparente, significa un ordine preciso. Inversamente, la città è una parte costitutiva del tutto sociale. Essa rivela, perché contiene e incorpora in una materia sensibile, le istituzioni e le ideologie dominanti. Edifici di rappresentanza come palazzi reali, imperiali o presidenziali sono parte integrante della città ma essi non coincidono perfettamente con le istituzioni o con le relazioni sociali dominanti, pur essendo da queste ultime agiti e divenendo rappresentazione della loro efficacia sociale e della loro presenza. Per elucidare questo concetto con un caso concreto Henri Lefebvre parla dell’ordine sociale a Parigi che è rappresentato al livello più alto dal Ministero dell’Interno e al livello specifico dalla prefettura di polizia e dai commissariati di quartiere, senza dimenticare le varie agenzie di polizia che operano sia a livello globale che nell’ombra sotterranea. Allo stesso modo, l’ideologia religiosa è significata al livello più alto dalla cattedrale e dalle sedi delle grandi organizzazioni ecclesiastiche e al livello specifico dalle chiese di quartiere e dai presbiteri, investimenti locali della pratica religiosa istituzionalizzata. A questo suo livello specifico la città si manifesta come un “gruppo di gruppi”, caratterizzata da una doppia morfologia, pratica-sensibile o materiale da un lato e sociale dall’altro. Essa possiede un codice di funzionamento incentrato attorno a istituzioni particolari, come il municipio con i suoi servizi, le sue reti informative e i suoi poteri decisionali. Su questo piano la struttura sociale si proietta ma ciò non esclude fenomeni unici alla città specifica e le più diverse manifestazioni della vita urbana. Paradossalmente a questo livello la città è composta da spazi non abitati e persino inabitabili: edifici pubblici, monumenti, piazze, strade, grandi o piccoli vuoti, dimostrando così in modo inequivocabile che l’habitat non costituisce da solo la città e che essa non può essere definita da questa funzione isolata. Scendendo al livello ecologico, quello dell’abitare e della vita quotidiana, l’abitazione diventa essenziale. La città avvolge questo spazio di vita privata, fungendo da forma che incanala le reti di informazione e la comunicazione degli ordini, imponendo così l’ordine lontano, quello della struttura globale, all’ordine vicino della quotidianità. Esistono due approcci metodologici possibili per analizzare questa gerarchia: il primo procede dal più generale al più specifico, dalle istituzioni alla vita quotidiana, scoprendo così la città come una mediazione specifica e relativamente privilegiata mentre il secondo inizia da questo piano intermedio e costruisce il generale identificando gli elementi e le significazioni di ciò che è osservabile nell’urbano, procedendo così dall’osservabile e dal privato per raggiungere la vita quotidiana nascosta, con i suoi ritmi, le sue occupazioni, la sua organizzazione spazio-temporale, la sua cultura clandestina e la sua vita sotterranea. A ciascuno di questi livelli si definiscono delle isotopie in relazione dialettica con le eterotopie. Ad esempio, l’opposizione tra edilizia sociale e case di proprietà costituisce un’eterotopia significativa. Anche gli spazi al livello specifico possono essere classificati secondo il criterio isotopia-eterotopia, con la città nel suo complesso che rappresenta l’isotopia più ampia che abbraccia e si sovrappone agli altri sottoinsiemi spaziali, al tempo stesso subordinati e costitutivi. Una tale classificazione per opposizione non deve escludere l’analisi dei livelli, né quella del movimento del tutto con i suoi aspetti conflittuali, prime fra tutte le relazioni di classe. Al livello ecologico, quello dell’abitare, si costituiscono insiemi significanti, sistemi parziali di segni, dei quali il “mondo della casa unifamiliare” offre un caso particolarmente interessante. La distinzione tra livelli, ciascuno dei quali implica a sua volta livelli secondari, è di massima utilità per comprendere, ad esempio, come in Francia i “valori della casa unifamiliare” diventino il punto di riferimento della coscienza sociale e il termine di paragone per gli altri tipi di abitazione. Solo l’analisi delle relazioni di inclusione-esclusione, di appartenenza o non-appartenenza a uno spazio particolare della città permette di avvicinarsi a questi fenomeni di grande importanza per una teoria della città.
Sul suo piano specifico, la città possiede la capacità di appropriarsi di significati politici, religiosi e filosofici preesistenti. Li afferra per “dirli”, per esporli attraverso la voce degli edifici, dei monumenti ma anche delle strade e delle piazze, degli spazi vuoti, della teatralizzazione spontanea degli incontri che in essa hanno luogo, senza dimenticare le festività e le cerimonie con i loro luoghi appropriati e designati. Accanto alla scrittura monumentale, esiste anche l’enunciazione, ancora più importante, dell’urbano, enunciazioni che parlano della vita e della morte, della gioia o del dolore. La città ha questa capacità che la rende un tutto significante. Per Henri Lefebvre è cruciale sottolineare che la città non compie questo compito in modo gratuito o libero, non le viene richiesto. Sotto forma di significato, sotto forma di simultaneità e di incontri, sotto forma, infine, di un linguaggio e di una scrittura “urbani” la città impartisce ordini. L’ordine lontano viene proiettato nell’ordine vicino. Sul suo piano la città realizza un’unità, o meglio, un sincretismo, dissimulando e velando le rivalità e i conflitti tra questi diversi imperativi e li traduce in istruzioni per l’azione, in una gestione del tempo, stipulando una meticolosa gerarchia di luoghi, momenti, occupazioni e persone. Inoltre rifrange questi imperativi in uno stile, nella misura in cui esiste una genuina vita urbana, stile che si caratterizza come architettonico e si associa all’arte e allo studio degli oggetti d’arte.
Da queste premesse scaturisce il grande interesse, teorico e pratico, della semiologia della città. La città riceve ed emette messaggi che possono essere o non essere compresi, cioè codificati o decodificati. Pertanto essa può essere affrontata con concetti derivati dalla linguistica: significante e significato, significazione e senso. Ciononostante non è senza le più grandi riserve e senza precauzioni che si può considerare la città come un sistema unico di significazioni e di sensi, quindi di valori. La semiologia non esaurisce la realtà pratica e ideologica della città. Una teoria che riduca l’urbano a un puro rapporto “significante-significato”, separandolo dalla sua base morfologica e dalla pratica sociale ed estrapolando dalle significazioni effettivamente percepite, tende verso un’ideologia e non è priva di una grande ingenuità. Se è vero che un villaggio Bororo significa e che la città greca è piena di significato, dovremmo forse costruire vaste città Bororo piene di segni di Modernità? O restaurare l’agorà con il suo significato al centro della città nuova? La feticizzazione del rapporto formale “significante-significato” comporta inconvenienti ancora più seri: essa accetta passivamente l’ideologia del consumo organizzato o vi contribuisce. Nell’ideologia del consumo e nel consumo “reale” il consumo di segni gioca un ruolo crescente, senza reprimere il consumo di “puri” spettacoli, senza attività e partecipazione. La pubblicità dei beni di consumo diventa il mezzo principale del consumo stesso, tendendo a incorporare l’arte, la letteratura, la poesia e a soppiantarle usandole come retorica. In questa logica ogni “oggetto”, ogni “bene” si scinde in una realtà e in un’immagine, quest’ultima divenuta parte essenziale del consumo. Si consumano segni tanto quanto oggetti: segni di felicità, di soddisfazione, di potere, di ricchezza, di scienza, di tecnologia. La produzione di questi segni è integrata nella produzione globale e gioca un ruolo integrativo maggiore. Il segno è comprato e venduto, il linguaggio diventa valore di scambio. Sotto l’apparenza dei segni e delle significazioni in generale, sono le significazioni di questa società che vengono consegnate al consumo. Conseguentemente chi concepisce la città e la realtà urbana come un sistema di segni le consegna implicitamente al consumo come integralmente consumabili: come valore di scambio allo stato puro. Trasformando i luoghi in segni e valori, la pratica materiale in significazioni formali, questa teoria trasforma anche in puro consumatore di segni colui che li riceve.
L’analisi semiologica deve operare distinzioni fondamentali tra molteplici livelli e dimensioni. Esiste l’enunciato della città: ciò che accade e ha luogo nella strada, nelle piazze, nei vuoti, ciò che lì viene detto. Esiste il linguaggio della città: le particolarità specifiche di ogni città che si esprimono nei discorsi, nei gesti, nell’abbigliamento, nelle parole e nell’uso delle parole da parte degli abitanti. Esiste il linguaggio urbano che si può considerare come un linguaggio di connotazioni, un sistema secondario e derivato all’interno del sistema denotativo. Infine esiste la scrittura della città: ciò che è iscritto e prescritto sui suoi muri, nella disposizione dei luoghi e nei loro collegamenti, in breve, l’uso del tempo nella città da parte dei suoi abitanti. L’analisi semiologica deve anche distinguere tra livelli semiologici elementari come quello dei semantemi o elementi significanti (linee dritte o curve, scrittura, forme elementari di ingresso, porte e finestre, angoli…), quello dei morfemi o oggetti significanti (edifici, strade…) e, infine, quello degli insiemi significanti o super-oggetti, di cui la città stessa è l’esempio massimo. È necessario studiare separatamente come viene significato il globale (la semiologia del potere), come viene significata la città stessa (la semiologia propriamente urbana) e come vengono significati i modi di vivere e di abitare (la semiologia della vita quotidiana). Non si può confondere la città così come essa afferra ed espone significazioni provenienti dalla natura, dalla campagna e dal paesaggio (l’albero, per esempio) con la città come luogo di consumo di segni. Sarebbe confondere le festività con il consumo ordinario.
Non bisogna dimenticare le dimensioni della significazione. La città ha una dimensione simbolica: monumenti ma anche vuoti, piazze e viali che simboleggiano il cosmo, il mondo, la società o semplicemente lo Stato. Ha una dimensione paradigmatica perché implica e mostra opposizioni, l’interno e l’esterno, il centro e la periferia, l’integrato e il non integrato alla società urbana. Possiede, infine, anche la dimensione sintagmatica, cioè la connessione degli elementi, l’articolazione delle isotopie e delle eterotopie. Al suo livello specifico la città si presenta come un sottosistema privilegiato proprio perché è in grado di riflettere ed esporre gli altri sottosistemi e di presentarsi come un “mondo”, un tutto unico, nell’illusione dell’immediato e del vissuto. In questa capacità risiede precisamente il fascino, la tonicità e la tonalità specifica della vita urbana ma l’analisi dissipa questa impressione e svela un numero di sistemi nascosti nell’illusione dell’unità. L’analista non ha il diritto di condividere questa illusione e di consolidarla mantenendosi a un livello puramente urbano, deve invece scoprire i tratti di una conoscenza più ampia.
Non abbiamo terminato di inventariare i sottosistemi di significazioni che l’analisi semiologica può portare alla comprensione della città. Se consideriamo il settore della proprietà abitativa e quello dei nuovi complessi di edilizia sociale, sappiamo già che ciascuno di essi costituisce un sistema parziale di significazioni e che un altro sistema, il quale li sovradetermina entrambi, si stabilisce a partire dalla loro opposizione. È così che i proprietari di piccole case percepiscono e concepiscono se stessi nella “finzione” dell’habitat e a loro volta i grandi complessi stabiliscono la logica dell’habitat e si percepiscono secondo questa razionalità coercitiva. Nello stesso tempo e in un sol colpo il settore della proprietà abitativa diventa il riferimento in base al quale l’habitat e la vita quotidiana vengono apprezzati. Tra i sistemi di significazioni quelli degli architetti meritano la massima attenzione critica. Spesso capita che uomini di talento credano di essere al centro della conoscenza e dell’esperienza mentre restano al centro di sistemi di scrittura, di proiezioni su carta, di visualizzazioni. Tendendo a loro volta verso un sistema di significazioni che spesso chiamano “pianificazione” non è impossibile che gli analisti della realtà urbana, raggruppando i loro fatti frammentari, costituiscano un sistema di significazioni alquanto diverso che possono battezzare a loro volta pianificazione, mentre ne lasciano la programmazione alle macchine. L’analisi critica dissipa così il privilegio del vissuto nella società urbana.
Henri Lefebvre indaga anche il rapporto città-campagna, un tema iperutilizzato e spesso deviato nella dicotomia “natura e cultura”, che coinvolge tre termini la cui relazione dialettica è nascosta sotto opposizioni binarie. La natura, in sé, sfugge alla presa dell’azione razionale, alla dominazione e all’appropriazione. Essa “è” ciò che fugge, raggiungibile solo attraverso l’immaginario. La campagna, al contrario, è il luogo della produzione e delle opere: la produzione agricola genera prodotti mentre il paesaggio è un’opera, lentamente modellata dalla terra e legata originariamente ai gruppi che la occupano da una reciproca consacrazione, poi desacralizzata dalla città. La vita urbana include mediazioni originali tra città, campagna e natura, come il villaggio, i parchi e i giardini, che non possono essere compresi senza simbolismi e rappresentazioni ideologiche e immaginarie della natura e della campagna. Questo rapporto è storicamente variabile. Nel feudalesimo occidentale la lotta di classe tra il signore territoriale e la città mercantile in rinascita ha generato dinamismo storico mentre in un ipotetico “feudalesimo islamico” l’assenza di questo conflitto ha prodotto un urbanismo raffinato ma privo di futuro. Oggi il rapporto sta cambiando profondamente. Nei paesi industrializzati, il vecchio sfruttamento della campagna da parte della città come centro di accumulazione capitalistica cede il passo a forme più sottili di dominazione, con la città che diventa centro decisionale e di apparente associazione. La città in espansione attacca la campagna, la corrode e la dissolve, non senza effetti paradossali: la vita urbana penetra la vita contadina, spossessandola delle sue caratteristiche tradizionali e i villaggi si “ruralizzano” perdendo la loro specificità contadina, allineandosi alla città pur resistendo. Henri Lefebvre ipotizza così la creazione di un “tessuto urbano” generalizzato, a volte indicato con il neologismo “rurbano”, in cui la città assorbe la campagna e vi si perde. La teoria può contestare questa concezione di una fusione confusa. L’opposizione tra “urbanità” e “ruralità” si accentua piuttosto che dissiparsi mentre l’opposizione città-campagna si attenua. C’è uno slittamento dell’opposizione e del conflitto. La contraddizione città-campagna, parte della divisione sociale del lavoro, è inoltre lungi dall’essere risolta. Il suo superamento non può essere concepito come una neutralizzazione reciproca ma deve passare attraverso l’invenzione di nuove forme urbane, come città policentriche, centralità differenziate e rinnovate o centralità mobili. La scomparsa della centralità non è né teoricamente auspicabile né praticamente necessaria. La domanda cruciale è: quali forme sociali e politiche, quale teoria, realizzeranno sul terreno una centralità e un tessuto rinnovati, liberati dalle loro degradazioni?
Tracciando ipoteticamente un asse astratto che va da zero urbanizzazione a una urbanizzazione totale, è possibile localizzare dei punti critici, delle rotture e discontinuità. Molto presto sull’asse, vicino all’inizio, si situa la città politica (realizzata nel modo di produzione asiatico) che organizza e domina un ambiente agrario. Poco oltre, appare la città commerciale che inizialmente relega il commercio alla sua periferia (eterotopia di fiere e mercati) per poi integrarlo pienamente in una struttura sociale basata sugli scambi. Arriva poi un punto critico decisivo, situato in Europa occidentale attorno al XVI secolo, dove l’importanza dell’agricoltura arretra di fronte all’ascesa della produzione artigianale e industriale, del mercato, del valore di scambio e di un capitalismo nascente. Segue l’avvento della città industriale, con l’emigrazione di popolazioni contadine disaggregate verso la città. La società urbana è annunciata molto dopo che la società nel suo insieme si è inclinata verso l’urbano. Poi arriva il periodo in cui la città in espansione prolifera, produce periferie lontane (sobborghi) e invade la campagna. Paradossalmente in questo periodo di crescita smisurata la forma della città tradizionale esplode. Questo doppio processo (industrializzazione-urbanizzazione) produce un doppio movimento: esplosione-implosione, condensazione-dispersione. È proprio attorno a questo punto critico che si situa l’attuale problematica della città e della realtà urbana.
I fenomeni che si dispiegano attorno a questa situazione di crisi sono estremamente complessi. Oggi il pensiero sociologico, la strategia politica e la cosiddetta pianificazione tendono a saltare dal livello dell’abitare (livello ecologico, dominio dell’architetto) al livello generale (quello della pianificazione territoriale, della produzione industriale globale), tralasciando il livello specifico della città e dell’urbano. La mediazione viene messa tra parentesi e il livello specifico è omesso. Le ragioni di questo sono significative e legate in primo luogo alla disgregazione del punto critico. La pianificazione razionale della produzione, la pianificazione territoriale, l’industrializzazione e l’urbanizzazione globale sono aspetti essenziali di quella che una tradizione marxista con inflessioni riformiste chiama la “socializzazione della società”. Questa prospettiva, continuista ed evoluzionista, insiste sugli scambi quantitativi di merci e mette tra parentesi la differenza qualitativa cruciale tra valore d’uso e valore di scambio. In questa logica gli scambi mercantili livellano e allineano a sé le comunicazioni dirette che non passano attraverso le reti e le istituzioni esistenti. La risposta rivoluzionaria volontaristica a questo riformismo è la tesi della rottura radicale. Per Henri Lefebvre la tesi della “socializzazione della società” assume un altro significato, più profondo e incompleto, se si osserva che essa si riferisce in realtà all’urbanizzazione della società. La moltiplicazione e complessificazione degli scambi non può aver luogo senza l’esistenza di luoghi e momenti privilegiati di incontro che si liberino dai vincoli del mercato, senza che la legge del valore di scambio sia padroneggiata. Fino ad allora la cultura si dissolve, diventando oggetto di consumo, e i segni della città, della gioia e della felicità, vengono consegnati al consumo senza una pratica sociale effettiva che permetta all’urbano di entrare nella vita quotidiana.
Il paradosso di questa situazione critica è che la crisi della città è mondiale, pur presentandosi con cause pratiche e ragioni ideologiche diverse a seconda dei regimi politici e dei paesi. Nei paesi sottosviluppati le baraccopoli sono un fenomeno caratteristico, nei paesi a capitalismo avanzato è la proliferazione della città in “tessuto urbano” e sobborghi a porre il problema mentre nei paesi socialisti era la crescita urbana pianificata ad attirare manodopera dalle campagne, causando sovraffollamento. Per Lefebvre una crisi mondiale dell’agricoltura e della vita contadina tradizionale accompagna, sottende e aggrava una crisi mondiale della città tradizionale. La difficoltà teorica e pratica maggiore deriva dal fatto che l’urbanizzazione della società industriale non avviene senza la disintegrazione di ciò che chiamiamo ancora “la città”. Poiché la società urbana si costruisce sulle rovine della città, come afferrarne la portata e le molteplici contraddizioni? Questo è il punto critico. La distinzione tra i tre livelli (processo globale di industrializzazione e urbanizzazione, scala specifica della città, modi di vivere e condizioni della vita quotidiana nell’urbano) tende a offuscarsi, così come la distinzione tra città e campagna. Questa differenza è più che mai cruciale per evitare confusioni e combattere le strategie che trovano l’opportunità di disintegrare l’urbano nella pianificazione industriale e/o residenziale.
L’urgenza della questione abitativa ha nascosto e ancora nasconde i problemi della città. I pianificatori, più attenti all’immediato, hanno subordinato questi problemi all’organizzazione generale dell’industria. Attaccata sia dall’alto che dal basso, la città è associata all’impresa industriale, diventa un dispositivo materiale atto a organizzare la produzione, controllare la vita quotidiana dei produttori e il consumo dei prodotti. Ridotta a dispositivo, estende questa gestione ai consumatori e al consumo, serve a regolare, a sovrapporre, la produzione di beni e la distruzione dei prodotti con quell’attività divorante, il “consumo”. La città non ha, non ha mai avuto significato se non come opera, come fine, come luogo di godimento libero, come dominio del valore d’uso. Oppressa da vincoli e imperativi di un “equilibrio” restrittivo, non è più che lo strumento di un’organizzazione che, per di più, non è in grado di consolidarsi. In passato la ragione aveva la sua sede, la sua casa, nella città. Oggi la razionalità sembra essere lontana dalla città, al di sopra di essa, su scala nazionale o continentale. Il razionalismo burocratico statale e quello dell’organizzazione industriale vanno nella stessa direzione. Si impone un funzionalismo semplificatore e l’organismo scompare sotto le spoglie dell’organizzazione, tanto che l’organicismo dei filosofi appare come un modello ideale. Gli statuti delle “zone” urbane sono ridotti a una giustapposizione di spazi e funzioni sul terreno. L’omogeneità schiaccia le differenze originate dalla natura (il sito), dall’ambiente contadino (il territorio), dalla storia. La città, o ciò che ne resta, è costruita o riorganizzata come una somma o una combinazione di elementi, producendo un sentimento di monotonia. L’urbano ha perso i tratti dell’opera e dell’appropriazione. Solo i vincoli sono proiettati sul terreno, in uno stato di permanente dislocazione. Dal punto di vista abitativo, l’uso massiccio dell’automobile e l’influenza dei mass media hanno staccato individui e gruppi dal sito e dal territorio. Il quartiere e il distretto si sfaldano, le persone si muovono in uno spazio che tende verso un’isotopia geometrica, pieno di istruzioni e segnali, dove le differenze qualitative di luoghi e momenti non contano più.
Per Lefebvre questa analisi critica esige un’aggiunta decisiva. Attribuire la crisi della città a una razionalità ristretta, produttivista ed economicistica e a una pianificazione centralizzata preoccupata soprattutto della crescita, alla burocrazia statale e d’impresa, non è scorretto. Tuttavia questo punto di vista non va molto oltre l’orizzonte del razionalismo filosofico più classico, quello dell’umanesimo liberale. Chi vuole proporre la forma di una nuova società urbana rafforzando questo nucleo, l’urbano, che sopravvive nelle fessure dell’ordine pianificato e programmato, deve andare oltre. Se si vuole concepire un “uomo urbano” non più legato all’immagine dell’umanesimo classico l’elaborazione teorica ha il dovere di affinare i concetti. Fino ad ora, in teoria come in pratica, il doppio processo di industrializzazione e di urbanizzazione non è stato padroneggiato. Gli insegnamenti incompleti di Marx e del pensiero marxista sono stati fraintesi. Per Marx stesso l’industrializzazione conteneva la sua finalità e il suo significato, dando poi luogo alla dissociazione del pensiero marxista in economicismo e filosofismo. Marx non mostrò (e ai suoi tempi non poteva) che l’urbanizzazione e l’urbano contengono il significato dell’industrializzazione. Non vide che la produzione industriale implicava l’urbanizzazione della società e che la padronanza dei potenziali industriali richiedeva una conoscenza specifica concernente l’urbanizzazione. La produzione industriale, dopo una certa crescita, produce l’urbanizzazione, fornendole condizioni e possibilità. La problematica si sposta e diventa quella dello sviluppo urbano. Le opere di Marx contenevano indicazioni preziose sulla città e particolarmente sulle relazioni storiche tra città e campagna ma non pongono il problema urbano. Ai tempi di Marx solo il problema della casa fu sollevato e studiato da Engels. Il problema della città è immensamente più grande di quello della casa nella nostra società. I limiti del pensiero marxista non sono stati realmente compresi. La “socializzazione della società”, fraintesa dai riformisti, ha impedito la trasformazione urbana. Non si è capito che questa socializzazione ha come essenza l’urbanizzazione. Cosa è stato “socializzato”? Consegnandoli al consumo, i segni. Segni della città, della vita urbana, come i segni della natura e della campagna, come quelli della gioia e della felicità, consegnati al consumo senza una pratica sociale effettiva che permetta all’urbano di entrare nella vita quotidiana. La vita urbana si scontra con i bisogni solo con riluttanza, attraverso la povertà dei bisogni sociali della “società socializzata”, attraverso il consumo quotidiano e i suoi propri segni nella pubblicità, nella moda, nell’estetismo. A questo nuovo momento dell’analisi si concepisce così il movimento dialettico che porta le forme, i contorni, i determinismi e i vincoli, le servitù e le appropriazioni verso un orizzonte turbato.
La vita urbana, la società urbana e l’urbano, staccati da una pratica sociale particolare dalla loro base morfologica semi-distrutta, e alla ricerca di una nuova base, questi sono i contesti del punto critico. L’urbano non può essere definito né come attaccato a una morfologia materiale (sul terreno, nel pratico-materiale), né come in grado di staccarsene completamente. Non è un’essenza atemporale, né un sistema tra altri sistemi o al di sopra di altri sistemi. È una forma mentale e sociale, quella della simultaneità, del raduno, della convergenza, dell’incontro (o piuttosto, degli incontri). È una qualità nata da quantità (spazi, oggetti, prodotti). È una differenza, o piuttosto, un insieme di differenze. L’urbano contiene il significato della produzione industriale, così come l’appropriazione contiene il senso del dominio tecnico sulla natura, quest’ultimo diventando assurdo senza il primo. È un campo di relazioni che include notevolmente la relazione del tempo con lo spazio. Come luogo del desiderio e legame dei tempi, l’urbano potrebbe presentarsi come significanti il cui significato stiamo cercando (cioè “realtà” pratico-materiali che permetterebbero, con un’adeguata base morfologica e materiale, di realizzarlo nello spazio). Mancando un’adeguata elaborazione teorica, il doppio processo (industrializzazione-urbanizzazione) è stato reciso e i suoi aspetti separati, per essere quindi consegnati all’assurdo. Afferrato da una razionalità superiore e dialettica, concepito nella sua dualità e nelle sue contraddizioni, questo processo non potrebbe mettere da parte l’urbano. Al contrario, lo comprende. Pertanto ciò che dovrebbe essere incriminato non è la ragione ma un particolare razionalismo, una razionalità ristretta, e i suoi limiti. Il mondo della merce ha la sua logica immanente del denaro e del valore di scambio generalizzato senza limiti. Una tale forma, quella dello scambio e dell’equivalenza, è indifferente verso la forma urbana, riduce la simultaneità e gli incontri a quelli degli scambiatori e il luogo di incontro a dove il contratto o quasi-contratto dello scambio equivalente è concluso: il mercato. La società urbana, privilegiando uno spazio, ha una logica diversa da quella della merce. È un altro mondo. L’urbano si basa sul valore d’uso. Questo conflitto non può essere evitato. Al massimo la razionalità economica e produttivista cerca di spingere oltre ogni limite la produzione di prodotti (oggetti scambiabili di valore di scambio) sopprimendo l’opera. Questa razionalità produttivista si spaccia per conoscenza mentre contiene una componente ideologica legata alla sua stessa essenza. Forse è solo ideologia, valorizzando i vincoli, quelli che vengono dai determinismi esistenti, quelli della produzione industriale e del mercato dei prodotti, quelli che vengono dal suo feticismo della politica.
In seguito Henri Lefebvre sviluppa una profonda riflessione epistemologica sulla natura ambigua e polisemica di termini cardine come “forma”, “funzione” e “struttura”. Questa vaghezza semantica funziona spesso come un comodo alibi per una assenza di pensiero critico, permettendo a un’apparente profondità di mascherare una sostanziale povertà intellettuale. Per dissolvere questa ambiguità propone un percorso che, paradossalmente, passa attraverso il massimo dell’astrazione. È solo attingendo alla logica formale e alle strutture logico-matematiche, intese non come fini a sé stesse ma come strumenti per cogliere il loro legame con il “reale”, che si può giungere a definizioni trasparenti. Questo percorso, però, non è accessibile a tutti: richiede una “cultura” specifica che permetta di abitare quelle frontiere perturbanti dove il concreto e l’astratto, la conoscenza scientifica e l’espressione artistica, la matematica e la poesia, simultaneamente si distinguono e si uniscono. La teoria delle forme che ne risulta è dunque vicina a una teoria filosofica della conoscenza ma se ne distanzia perché tiene conto delle proprie condizioni storiche e si fonda su un complesso apparato logico-matematico. Per rendere concretamente comprensibile questo approccio Lefebvre adotta un metodo induttivo, partendo dall’analisi di una forma socialmente riconosciuta e codificata: il contratto. Pur nella sua varietà di contenuti (dal matrimonio al lavoro fino alla vendita), il contratto presenta un tratto comune e formale, ovvero la reciprocità di un impegno socialmente istituito. Questa reciprocità, una volta messa alla prova della realtà, si rivela per lo più fittizia. Nel dovere coniugale o nel rapporto tra datore di lavoro e operaio l’uguaglianza formale sancita dal contratto maschera e legittima una sostanziale disuguaglianza. Queste “finzioni”, però, hanno una potentissima esistenza sociale, in quanto diventano la base per la codificazione delle relazioni, come nel codice civile. Allo stesso modo il pensiero riflessivo, con i suoi contenuti disparati, dà vita a domini come la scienza e l’arte che pur nella loro diversità condividono una forma logica comune. È qui che emerge il paradosso centrale della forma: nel distaccarsi dal contenuto per diventare pura e intelligibile essa perde la sua esistenza reale. Il culmine della comprensione del reale, la chiave per penetrarlo e trasformarlo, si pone così al di fuori di esso. L’analisi, rompendo l’unità indissolubile di forma e contenuto, rivela una relazione dialettica e conflittuale. Il pensiero riflessivo tende a ipostatizzare le forme in essenze pure e assolute mentre la pratica empirica si accontenta di attestarsi sull’opacità immediata dei contenuti. La ragione dialettica, invece, coglie il movimento per cui i contenuti traboccano continuamente dalla forma che li contiene e la forma è al contempo l’unico accesso per comprenderli.
La forma possiede dunque una doppia esistenza, mentale e sociale. La forma contrattuale esiste mentalmente come logica della reciprocità e socialmente come regolatrice di innumerevoli situazioni. La forma logico-matematica ha un’ovvia esistenza mentale però cela la finzione di un uomo puramente teorico, disincarnato. La sua esistenza sociale, invece, è massiccia e si manifesta in tutte le attività di conteggio, classificazione, pianificazione e programmazione che organizzano la società. Da questa riflessione Henri Lefebvre elabora una griglia analitica delle forme, uno schema che va dal più astratto al più concreto, presentando per ciascuna forma questa doppia dimensione. Si parte dalla Forma Logica (mentalmente: il principio di identità A=A, il vuoto tautologico che è il nucleo di ogni proposizione, socialmente: le convenzioni della comprensione ma anche il verbalismo, la retorica vuota e i circoli viziosi della burocrazia che si auto-riproduce svuotandosi di contenuto). Si passa alla Forma Matematica (mentalmente: identità e differenza, ordine e misura, socialmente: distribuzioni, classificazioni spaziali e temporali, schedulazioni, tutto ciò che sottomette il qualitativo al quantitativo). Segue la Forma del Linguaggio (mentalmente: coerenza e capacità di significazione, socialmente: coesione sociale, ritualizzazione e codificazione formale delle relazioni). La Forma dello Scambio (mentalmente: confronto e equivalenza, socialmente: il valore di scambio e la forma merce, come analizzato da Marx). La Forma Contrattuale (mentalmente: reciprocità, socialmente: codificazione giuridica dei rapporti sociali). La Forma dell’Oggetto Pratico-Materiale (mentalmente: equilibrio e simmetria percepiti come proprietà oggettive, socialmente: l’anticipazione e la richiesta di questo equilibrio negli oggetti, dalle case agli utensili). La Forma Scritta (mentalmente: fissazione sincronica del divenire, ricorsività, socialmente: accumulo del sapere ma anche potere costrittivo della lettera, lotta dello spirito contro il prescritto, del divenire contro il reificato). Infine, giungiamo al cuore del discorso: la Forma Urbana. Mentalmente essa è definita dalla simultaneità mentre socialmente è l’incontro e la concentrazione in un luogo privilegiato di tutto ciò che esiste nell’ambiente: beni, attività, ricchezze, prodotti. La società urbana è quindi il luogo eletto dove l’opera e il prodotto possono incontrarsi.
Nella società moderna questa simultaneità si intensifica fino a una quasi istantaneità, con comunicazioni accelerate e circuiti informativi che fluiscono da una centralità. Parallelamente si scatena la forza opposta della dispersione. La divisione del lavoro spinta all’estremo genera una segregazione radicale di gruppi sociali, una frantumazione materiale e spirituale. È solo riferendosi alla forma della simultaneità che si può comprendere appieno il fenomeno della dispersione, altrimenti accettata passivamente come un dato di fatto. È questo movimento dialettico e conflittuale tra la forma urbana (simultaneità e incontro) e i suoi contenuti (dispersione e segregazione) a costituire la “problematica” urbana, ponendo la domanda cruciale: prima di chi e per chi si stabilisce questa simultaneità? Chi decide l’assemblaggio dei contenuti della vita urbana?
Lefebvre smaschera la razionalità tecnocratica e pianificatoria dominante. Essa si presenta come un’intelligenza analitica onnipotente, dotata di grandi mezzi e del prestigio della sintesi ma in realtà nasconde precise strategie di classe. Il suo operato è caratterizzato da una ossessione per l’unifunzionale e da una sottomissione del dettaglio minuziosamente inventariato a una rappresentazione fittizia della globalità sociale. Scompaiono così le mediazioni, creando un abisso insormontabile tra un insieme ideologico, spacciato per razionale, e misure tattiche frammentarie. Il risultato di questa proiezione sul terreno di un pensiero analitico non critico è la segregazione che si manifesta in tre modalità: spontanea (dettata da reddito e ideologie), volontaria (con la creazione di spazi separati) e, il caso più insidioso, programmata (attuata sotto la maschera neutrale della pianificazione e del piano). Anche dove esistono tendenze anti-segregazioniste, spesso di ispirazione umanistica o comunitarista, la pratica sociale, guidata da strategie di classe consce o inconsce, tende inesorabilmente alla separazione. Lo Stato e l’impresa privata, pur nei loro conflitti, convergono nel voler appropriarsi delle funzioni urbane distruggendone la forma specifica. La razionalità produttivista sopprime la città a livello globale per poi ricostituirla a livello del consumo controllato e organizzato. Il risultato è un labirinto kafkiano di regolamenti, misure e vincoli, dove l’assurdo di un razionalismo autoritario diventa palese.
Ciò che si para davanti ai nostri occhi è lo “spettro” della città, nel senso quasi letterale del termine. L’analisi sociale ci restituisce gli elementi dissociati e inerti della vita urbana: quartieri-dormitorio senza adolescenti né anziani, vite frammentate in compartimenti stagni (lavoro, trasporto, vita privata, tempo libero), l’essere umano stesso smembrato in percezioni ipertrofiche o atrofizzate. La sintesi di questi frammenti non può essere una semplice ricombinazione operata da uno specialista, sia esso l’architetto, il sociologo o l’urbanista. Nessuno ha questo potere. Solo una prassi sociale collettiva, in condizioni da determinare, può assumersi il compito di ricreare la simultaneità e l’incontro. La società contemporanea vive una contraddizione lacerante perché pratica attivamente l’integrazione attraverso il mercato, la cultura di massa, l’ideologia consumistica e l’azione statale però proietta sul territorio, attraverso la stessa razionalità pianificatoria, la segregazione più spinta, creando ghetti spaziali e temporali (il “ghetto del tempo libero”). L’ossessione per l’integrazione e la partecipazione è il sintomo di una società profondamente incoerente.
In questo scenario si erge la rivendicazione di un diritto alla città. Non si tratta di un diritto di visita o di un nostalgico ritorno alla città storica, ormai ridotta a museo e oggetto di consumo turistico. È piuttosto un diritto trasformato e rinnovato alla vita urbana intesa come opera. Per definirlo occorre comprendere i bisogni sociali profondi, di fondamento antropologico, che la città può soddisfare: i bisogni complementari di sicurezza e avventura, di prevedibile e imprevedibile, di isolamento e incontro, di organizzazione e gioco. Il bisogno specificamente urbano è quello di luoghi qualificati, dove la simultaneità permetta incontri il cui valore non sia mediato dal valore di scambio e dal profitto. La scienza della città, pur necessaria, è insufficiente perché il suo oggetto è in fuga, è una virtualità. Per affrontare questa sfida sono necessari nuovi strumenti intellettuali: la trasduzione, che costruisce un oggetto teorico possibile a partire da un problema reale, e l’utopia sperimentale che studia sul terreno le implicazioni di modelli spaziali e temporali audaci, senza lasciarsi intimidire dall’accusa di irrealismo. È fondamentale un uso non dogmatico dei concetti di struttura, funzione e forma, evitando le derive ideologiche. Una strategia urbana che miri a questo obiettivo non può che dipendere dalla presenza e dall’azione della classe operaia, la principale vittima della segregazione e l’unico soggetto sociale che, contestando la strategia di classe a lei avversa, può farsi carico degli interessi di tutta la società e in primo luogo di tutti coloro che “abitano” realmente, sopportando la miseria di una vita quotidiana alienata e frammentata. Contro di essa sta l’aristocrazia borghese che “non abita” ma trascende la vita quotidiana, spostandosi tra alberghi di lusso e dimore isolate. Il diritto alla città si afferma quindi come la risposta necessaria e radicale a una condizione di disagio abitativo generalizzato, un grido che unisce la richiesta di centralità, incontro e appropriazione della vita urbana come opera collettiva.
2. David Harvey e il diritto alla città
L’ideale dei diritti umani, nonostante occupi un posto centrale nel dibattito politico e etico contemporaneo, si rivela spesso inefficace nel mettere in discussione le logiche egemoniche del liberismo e del neoliberismo. Questo perché i concetti più comuni di diritti sono radicati in un individualismo proprietario che, di fatto, non intacca la preminenza del diritto alla proprietà privata e della ricerca del profitto. Esistono casi in cui i diritti assumono una dimensione collettiva, un’eredità di movimenti come quello operaio o per i diritti civili, che hanno conseguito risultati significativi. È in questo solco che David Harvey, nel libro Il capitalismo contro il diritto alla città. Neoliberismo, urbanizzazione, resistenze, colloca la sua esplorazione di un altro diritto collettivo: il diritto alla città, un concetto che sta conoscendo un rinnovato interesse globale. Questo diritto, ispirato dalle idee di Henri Lefebvre, va ben oltre il semplice diritto di accesso individuale o di gruppo alle risorse urbane. Citando il sociologo Robert Park, Harvey sottolinea che la città rappresenta il tentativo più coerente e riuscito dell’uomo di plasmare il mondo a sua immagine e, di conseguenza, di plasmare sé stesso. La questione di quale città vogliamo è quindi indissolubilmente legata a questioni più ampie: che tipo di persone vogliamo essere, quali rapporti sociali vogliamo coltivare e quale rapporto desideriamo con la natura. Il diritto alla città si configura dunque come il diritto collettivo di cambiare e reinventare la città in modo più aderente ai nostri bisogni più profondi, un diritto umano fondamentale ma tragicamente trascurato.
Per comprendere come esercitare al meglio questo diritto è necessario analizzare la stretta relazione simbiotica tra urbanizzazione e capitalismo. Harvey, riprendendo Marx, spiega che il capitalismo è fondato sulla perpetua ricerca di plusvalore. I capitalisti, spinti dalla concorrenza, sono obbligati a reinvestire continuamente i profitti, generando un’eccedenza di capitale che deve trovare sbocchi per essere assorbito, pena la crisi e la svalutazione. La tesi centrale di Harvey è che l’urbanizzazione abbia storicamente svolto un ruolo attivo e cruciale, insieme ad altri fenomeni come la spesa militare, nell’assorbire queste eccedenze.
Questa dinamica viene illustrata con una serie di esempi storici dettagliati. Il primo è la Parigi del Secondo Impero. Dopo la crisi del 1848 Napoleone III affidò al Barone Haussmann il compito di ristrutturare radicalmente la città. I grandiosi progetti di Haussmann, ispirati a piani utopistici ma realizzati su una scala senza precedenti, assorbirono enormi quantità di capitale e manodopera, stabilizzando temporaneamente la situazione. Per finanziare queste opere furono creati nuovi istituti di credito, in uno stile keynesiano ante litteram. Parigi divenne la Ville Lumière, un centro di consumo e turismo, ma il sistema, basato sul debito, collassò nel 1868 portando alle dimissioni di Haussmann e, infine, alla Comune di Parigi del 1871, un episodio rivoluzionario che esprimeva il desiderio di riprendersi la città da parte degli espropriati. Il secondo esempio è il modello statunitense del dopoguerra. Robert Moses, ispirandosi esplicitamente a Haussmann, applicò su vasta scala alla regione metropolitana di New York un processo di suburbanizzazione massiccia, finanziata con il debito e centrata sulle autostrade. Questo modello, esportato a livello nazionale, assorbì l’eccedenza di capitale e trasformò radicalmente gli stili di vita, stimolando il consumo di beni come automobili ed elettrodomestici. Questo creò anche una crisi urbana: i centri città, svuotati, divennero luoghi di emarginazione e tensioni sociali mentre lo stile di vita suburbano generò malcontento, contribuendo alle rivolte del 1968.
Harvey avanza poi fino alla congiuntura contemporanea, caratterizzata da un’urbanizzazione divenuta ormai globale. Il boom immobiliare negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, Spagna e, in modo diverso, l’impressionante urbanizzazione della Cina, hanno assorbito capitali su scala mondiale. Questo processo è stato reso possibile da innovative (e rischiose) pratiche finanziarie, come la cartolarizzazione dei mutui, che hanno distribuito il rischio a livello globale ma hanno anche incoraggiato comportamenti speculativi, culminati nella crisi dei mutui subprime del 2007-2008. Questa nuova fase di urbanizzazione ha prodotto uno stile di vita urbano basato sulla mercificazione della qualità della vita, sul consumismo e sul turismo, in un’atmosfera di individualismo proprietario neoliberista che genera isolamento e ansia, nonostante l’abbondanza di scelta per chi può permettersela. La conseguenza di questo processo è un pianeta di città sempre più divise e frammentate. La svolta neoliberista ha restaurato il potere di classe delle élite ricche, come dimostrano le crescenti disuguaglianze e la proliferazione di quartieri fortificati e spazi pubblici privatizzati accanto a baraccopoli sovraffollate. In questo contesto gli ideali di cittadinanza e di politica urbana coerente diventano sempre più evanescenti.
L’aspetto più oscuro di questo meccanismo di assorbimento del capitale è la distruzione creativa. L’urbanizzazione capitalista avanza attraverso violenti processi di espropriazione. Harvey cita estesamente Engels che già nel 1872 descriveva come la borghesia risolvesse la “questione delle abitazioni” semplicemente spostando i poveri altrove, un processo che si ripete oggi in forme aggiornate. Dagli sgomberi forzati negli slum di Mumbai, alle demolizioni a Seul, agli espropri di massa in Cina fino alle pressioni speculative sulle favelas di Rio, gli espropriati sono i poveri, gli emarginati, coloro che non hanno potere politico. Harvey mette in guardia contro soluzioni apparentemente progressiste, come la concessione di diritti di proprietà ai poveri (secondo la tesi di Hernando de Soto) o il microcredito promosso dalle istituzioni finanziarie globali. Queste misure, se in alcuni casi possono favorire l’emancipazione individuale, rischiano di distruggere le reti di solidarietà collettiva e di intrappolare le persone in un sistema di debito e di sfruttamento, integrandole in un mercato alla base della piramide a vantaggio delle multinazionali, senza risolvere le cause strutturali della povertà.
La risposta politica a questa situazione, per Harvey, deve essere la rivendicazione di un maggiore controllo democratico sulla produzione e sull’uso dell’eccedenza. Visto che il processo urbano è un canale primario per il suo assorbimento, il diritto alla città si realizza essenzialmente con l’instaurazione di un controllo democratico su come questo surplus viene distribuito e utilizzato attraverso l’urbanizzazione. L’assalto neoliberista degli ultimi decenni ha avuto come obiettivo principale la privatizzazione di questo controllo. Il compito è quindi quello di riformare lo Stato, riportandolo sotto un controllo popolare, per sottrarre il diritto alla città dalle mani delle élite economiche e politiche che oggi lo detengono, come dimostrano gli esempi dei sindaci miliardari o delle grandi università che ridisegnano le città secondo i loro interessi.
Per Harvey la visione di Henri Lefebvre sul diritto alla città prende vita da un vivido contrasto, evocato dalla memoria di un manifesto degli Ecologisti che l’autore incontrò verso la metà degli anni ‘70. Quel manifesto ritraeva una Parigi alternativa e ideale, una città giocosa e vivace, rianimata da una vita di quartiere autentica: balconi fioriti, piazze piene di bambini e persone, botteghe artigiane aperte sul mondo, caffè animati, fontane e un senso di tempo libero da dedicare al piacere della conversazione. Questa immagine idilliaca, seppur forse un po’ edulcorata dal ricordo, si stagliava in un contrasto stridente con la Parigi reale che stava emergendo in quegli anni, una città minacciata dall’invasione dei “giganti” di cemento attorno a Place d’Italie, dalla torre Montparnasse, da progetti di superstrade lungo la rive gauche e dalla proliferazione di squallidi alloggi popolari che disintegravano il tessuto sociale di quartieri un tempo vibranti. Un altro disegno, questa volta di Batellier, rappresentava efficacemente questa trasformazione violenta: una mietitrebbia che schiacciava i vecchi quartieri parigini lasciando dietro di sé una fila ordinata e anonima di Hlm. Era chiaro che Parigi, già dall’inizio degli anni ‘60, era attraversata da una crisi esistenziale. Il vecchio non poteva durare ma il nuovo si presentava già come orribile, squallido e senz’anima. Proprio in questo clima, nel 1967, Henri Lefebvre scrive il suo saggio fondamentale, Il diritto alla città. Per Lefebvre questo diritto è un grido e una richiesta insieme. Il grido è una reazione viscerale al dolore e all’alienazione provocati dalla crisi della vita quotidiana nella città, la richiesta è un vero e proprio imperativo politico a guardare in faccia questa crisi e a costruire un’alternativa urbana che sia significativa, giocosa, ma anche dialettica, conflittuale e aperta al divenire, agli incontri imprevedibili e alla continua ricerca di novità. Sebbene l’opera di Lefebvre possa essere analizzata attraverso le sue influenze filosofiche, Harvey insiste sul fatto che la vera origine di questo pensiero non va cercata solo nell’accademia ma nei sentimenti che nascono dalla strada: il senso di perdita per le demolizioni, l’euforia delle manifestazioni, la speranza portata dai ristoranti vietnamiti sorti in mezzo ai palazzoni popolari o la disperazione cupa delle periferie abbandonate. Lefebvre, che viveva in Rue Rambuteau, era profondamente immerso in questa realtà sensibile. Significativamente,il suo saggio fu scritto prima della “irruzione” del Maggio ’68, un evento di cui Lefebvre colse le potenzialità e di cui, insegnando a Nanterre, favorì in parte l’esplosione e le cui radici urbane sono spesso trascurate a favore di letture più politologiche.
La rinascita dell’idea di diritto alla città negli ultimi decenni non è, quindi, principalmente un tributo all’eredità intellettuale di Lefebvre ma la diretta conseguenza di ciò che sta accadendo nelle strade e nei movimenti sociali urbani di tutto il mondo. Esempi eclatanti sono l’inserimento del diritto alla città nella Costituzione brasiliana del 2001, frutto della forza di movimenti per il diritto all’abitazione durante la democratizzazione del paese, o la nascita della Right to the City Alliance negli Stati Uniti nel 2007, dove gruppi che lottavano separatamente contro senzatetto, gentrificazione e criminalizzazione dei poveri hanno compreso che la loro lotta particolare era in realtà una lotta più ampia per la città. Questi attivisti, spesso ignari del nome di Lefebvre, sono giunti alle sue stesse conclusioni partendo dall’esperienza concreta. La posizione di Lefebvre era anche un’esplicita provocazione al marxismo ortodosso dell’epoca, in particolare al Partito Comunista Francese, che vedeva nel proletariato di fabbrica l’unico soggetto rivoluzionario. Invocando la “classe operaia”, Lefebvre intendeva in realtà un soggetto molto più ampio e frammentato: i lavoratori urbani. Questa intuizione si è rivelata profetica. Nel capitalismo avanzato la classica classe operaia industriale è in larga misura decimata e sostituita da un “precariato” disorganizzato, sottopagato e non garantito. Se un movimento rivoluzionario deve emergere nelle nostre società, sarà questo problematico e disorganizzato precariato a doverne far parte, ponendo il grande problema politico contemporaneo di come unire tali diversità.
Lefebvre non era un nostalgico. Sebbene apprezzasse la visione ludica del manifesto degli Ecologisti, era ben consapevole che la città storica e idealizzata non poteva essere semplicemente ricostituita. Sapeva che le condizioni di vita nella Parigi del passato erano spesso miserevoli e che un cambiamento era necessario. Il problema non era il cambiamento in sé ma il modo burocratico, dirigista e non democratico con cui era stato attuato, imponendo nel paesaggio concreto rapporti di privilegio e di dominio di classe. Lefebvre aveva intuito con grande anticipo un processo epocale: la dissoluzione del divario tradizionale tra urbano e rurale. Vedeva il territorio rurale essere urbanizzato, trasformato in una riserva per il consumo ricreativo (week-end, seconde case) e in una fonte di approvvigionamento per i mercati urbani, in rottura con l’agricoltura contadina di sussistenza. In un mondo che si avviava verso questa urbanizzazione generalizzata, la questione del diritto alla città doveva evolversi nel più ampio diritto alla vita urbana e, infine, nel diritto alla produzione dello spazio. Proprio qui emerge un paradosso cruciale: rivendicare il diritto alla città significa in realtà rivendicare il diritto a qualcosa che non esiste più. Inoltre diritto alla città è un significante vuoto, un contenitore che può essere riempito da significati opposti. Possono rivendicarlo i finanzieri e gli immobiliaristi così come i senzatetto e gli immigrati irregolari. Citando Marx, tra uguali diritti decide la forza, per cui la definizione stessa di questo diritto è oggetto di lotta. La città tradizionale è stata uccisa da uno sviluppo capitalistico dilagante, finalizzato a smaltire l’accumulazione di capitale in eccesso senza curarsi delle conseguenze sociali o ambientali. Il compito politico, quindi, è immaginare e lottare per un tipo completamente diverso di città, un obiettivo che non può essere disgiunto dalla creazione di un vigoroso movimento anticapitalista. Costruire il socialismo in una sola città è impossibile però la città rimane un’incubatrice fondamentale di idee, ideali e movimenti rivoluzionari.
Inseguire il diritto alla città può dunque sembrare un inseguire una chimera ma le lotte politiche sono animate tanto dalle visioni quanto dagli aspetti concreti. La “città” come idea possiede una potente carica simbolica e utopica. La speranza di Lefebvre, in questo influenzato dai situazionisti, risiedeva nel fatto che all’interno della realtà urbana esistono già delle eterotopie, cioè spazi sociali liminali e diversi, ricchi di possibilità alternative che nascono dalle pratiche quotidiane delle persone nel tentativo di dare senso alla propria vita. Questi spazi sono i terreni di coltura del cambiamento. La sua teoria rivoluzionaria prevede il convergere spontaneo di questi gruppi eterotopici in un momento di “irruzione”, spesso simboleggiato dalla riconquista di una centralità, come nelle piazze del Cairo, di Madrid o di Atene, dove per un attimo brilla la possibilità di un’azione collettiva per creare qualcosa di radicalmente diverso. Lefebvre era fin troppo realista e sapeva che ogni momento visionario è fugace e ogni spazio eterotopico rischia costantemente di essere riassorbito dalla isotopia, dall’ordine spaziale dominante del capitalismo e dello Stato. Per questo il diritto alla città non può essere un fine in sé in quanto rappresenta una tappa fondamentale e uno dei percorsi più propizi per un movimento più ampio il cui obiettivo ultimo rimane il rovesciamento dell’intero sistema capitalista.
Per questo motivo nel libro Harvey, prendendo le mosse da un articolo dell’economista Robert Shiller pubblicato sul New York Times nel 2011 in cui si sostiene che la bolla immobiliare scoppiata nel 2007-2008 sia stato un evento raro e atipico destinato a non ripetersi per decenni, contesta con forza questa affermazione, definendola una lettura incredibilmente superficiale della storia del capitalismo e il sintomo di una gravissima lacuna nel pensiero economico contemporaneo. Quel che è più sorprendente, osserva Harvey, è che questo stesso “punto cieco” affligge, seppur per ragioni diverse, anche l’economia politica marxista, tradizionalmente critica verso l’ortodossia borghese. La radice di questa miopia sta nella sistematica sottovalutazione del ruolo dell’urbanizzazione e del mercato immobiliare nei cicli economici. L’economia convenzionale tende a considerarli un’appendice minore, un sottosettore di second’ordine rispetto alle grandi dinamiche macroeconomiche nazionali. Una prova lampante di questa visione distorta è, per Harvey, il World Development Report 2009 della Banca Mondiale che per la prima volta prende in seria considerazione la geografia economica ma solo per promuovere le solite ricette neoliberiste: deregolamentazione dei mercati fondiari e immobiliari, minimizzazione della pianificazione urbana e fiducia cieca nel fatto che convogliare risorse verso poli di crescita “imprenditoriali” avrebbe, nel lungo periodo, beneficiato tutti attraverso un ipotetico “effetto a cascata”. Il rapporto, scritto da economisti senza consultare urbanisti o sociologi, arriva a sostenere che se la Cina avesse concesso l’uso dei terreni alle forze del libero mercato, la sua crescita sarebbe stata ancor più rapida. Harvey osserva con sgomento che questo rapporto è stato pubblicato ben sei mesi dopo il fallimento della Lehman Brothers, eppure continua a esaltare acriticamente la finanziarizzazione del settore immobiliare e i benefici sociali della proprietà della casa, ignorando del tutto il disastro dei mutui subprime e della cartolarizzazione tossica che era sotto gli occhi di tutti. Questa cecità è anche storica. Harvey elenca una serie impressionante di crisi finanziarie precedenti che hanno avuto le loro radici nel mercato immobiliare: il crollo globale del 1973, la fine del boom giapponese nel 1990, la crisi bancaria svedese del 1992, il tracollo del Sudest asiatico nel 1997-1998 e la crisi delle Casse di Risparmio americane del 1987-1990. Sono tutti eventi che gli economisti della Banca Mondiale sembrano aver del tutto rimosso. Perfino Shiller, pur avendo intuito la gravità della bolla in formazione, l’ha considerata un’eccezione anziché un fenomeno sistemico. Harvey controbatte che, sebbene l’epicentro di ogni crisi possa essere regionale (la Florida e la California per gli USA, la Spagna e l’Irlanda per l’Europa), i suoi meccanismi di trasmissione sono ormai globali, come dimostrano le interconnessioni finanziarie.
La critica di Harvey si sposta quindi sul marxismo, accusandolo di aver trascurato l’analisi dei processi urbani, relegandoli a un campo specialistico e non integrandoli nella teoria generale del movimento del capitale. Questo deficit teorico ha una radice nell’impostazione metodologica dello stesso Marx che, nei Grundrisse, decise di concentrarsi sulle leggi generali e astratte della produzione di plusvalore, astraendo volutamente dalle “particolarità” della distribuzione (come interessi, rendite e salari reali) e da fenomeni come la domanda e l’offerta e il consumo. Procedendo nella sua analisi lo stesso Marx si rese conto che il sistema creditizio non era un optional ma una necessità assoluta per la circolazione del capitale, come emerge chiaramente nel secondo libro del Capitale. Il problema è che quando, nel terzo libro, Marx affronta finalmente il credito e l’interesse, è costretto a introdurre proprio quei fattori (domanda/offerta, concorrenza) che aveva inizialmente escluso. È a questo punto, sostiene Harvey, che si apre uno spazio teorico cruciale per comprendere le dinamiche contemporanee che richiede di integrare il credito, il consumo e la concorrenza all’interno delle leggi generali del capitale. La chiave di volta di questa integrazione è il concetto di capitale fittizio. Per Marx non si tratta di una semplice invenzione speculativa ma di una costruzione feticistica che nasconde i veri rapporti sociali sottostanti. Quando una banca presta denaro a uno Stato o a un consumatore per comprare una casa si crea l’illusione che in queste entità si generi valore mentre in realtà l’interesse pagato deve provenire da altrove, tipicamente dalla produzione di plusvalore. Il capitale fittizio trasforma così il mercato immobiliare in un gigantesco circuito di scommesse sui redditi futuri dove il valore di un bene (un terreno, un immobile) è determinato da un processo di capitalizzazione di flussi di reddito attesi, basato su tassi di interesse e di sconto. Questo spiega la natura instabile e spesso fraudolenta di titoli come i mutui cartolarizzati, il cui valore reale diventa impossibile da determinare quando il mercato si inceppa. Harvey sviluppa quindi la sua tesi centrale: l’urbanizzazione è stata, in tutta la storia del capitalismo, un meccanismo fondamentale per assorbire le eccedenze di capitale e di lavoro. Proprio perché si tratta di investimenti a lunghissimo termine, con cicli di rotazione molto lenti, l’urbanizzazione richiede una combinazione letale di capitale finanziario e intervento statale, diventando intrinsecamente speculativa e ciclica. I boom edilizi, alimentati dal credito facile, finiscono per creare le condizioni per crisi di sovraccumulazione ancora più gravi in un secondo momento. Il crollo del settore immobiliare statunitense e il contemporaneo frenetico boom delle costruzioni in Cina non sono che l’ultima manifestazione di questo ciclo globale, non diversamente dai cicli alterni tra Gran Bretagna e Stati Uniti documentati da Brinley Thomas per l’Ottocento.
Harvey scende poi nel dettaglio della crisi dei subprime, descrivendo il perverso intreccio tra produzione e realizzazione nel settore immobiliare. Da un lato le banche finanziano costruttori e immobiliaristi per edificare, dall’altro finanziano gli acquirenti perché comprino ciò che è stato costruito. Con la cartolarizzazione le banche hanno potuto scaricare il rischio di questi prestiti sul mercato secondario, creando una catena di Sant’Antonio speculativa che ha coinvolto anche i ceti più poveri e le minoranze, spinti a indebitarsi per acquistare case i cui prezzi sembravano poter solo salire. Quando la bolla è scoppiata il crollo non ha colpito solo i proprietari ma ha innescato una crisi fiscale per i comuni (che basano le entrate sulle tasse di proprietà) e una drammatica disoccupazione nel settore delle costruzioni, configurando una crisi a tutti gli effetti “urbana”. A questo sfruttamento di tipo speculativo-finanziario Harvey affianca la denuncia delle “pratiche predatorie” urbane, forme di accumulazione per esproprio che colpiscono direttamente i consumatori e i residenti. Attraverso esempi storici come i “land installment contract” a Baltimora, con cui le famiglie afroamericane venivano intrappolate in contratti capestro che le portavano alla perdita della casa dopo anni di pagamenti, o le più recenti truffe dei mutui subprime e i pignoramenti illegali, Harvey dimostra come si realizzi un massiccio trasferimento di ricchezza dai poveri verso il capitale finanziario.