Critica della Wertkritik. Risposta ad Afshin Kaveh

Premessa

Questo scritto è una risposta, su sollecitazione del mio amico Afshin Kaveh, a un suo articolo apparso su l’Anatra di Vaucanson. Si tratta infatti di una elaborazione di alcune critiche che mi è capitato di rivolgergli nelle nostre discussioni. Da queste critiche locali ho deciso di ricavare uno scritto più articolato di critica alla Wertkritik, su quelli che secondo me sono i suoi limiti interni e che a mio avviso la rendono una teoria poco “praticabile”. La speranza è quella di accendere un dibattito che in Italia fatica a prendere piede.

Se infatti in Germania, Francia e Brasile la Wertkritik è ormai un argomento comune nel dibattito a sinistra, in Italia la “critica del valore” è stata relegata ai margini di un dibattito già di per sé specialistico. Non c’è da sorprendersi in merito. Lo stato pietoso dell’editoria comunista in Italia è sotto gli occhi di tutti. Mentre fiumi di inchiostro continuano ad essere spesi per il buon Gramsci, per Berlinguer e per il PCI, all’appello mancano testi fondamentali del dibattito marxista internazionale. Pensiamo alla completa assenza dei testi di J. B. Foster, autore fondamentale in materia ecosocialista. O pensiamo alla mancanza di Capitalism di Anwar Shaikh, forse il testo più importante di economia marxista scritto dopo il Capitale. Se non fosse stato per l’azione lungimirante di Bellofiore poi, chissà se avremmo mai avuto la traduzione di La Scienza del Valore di Heinrich.

In merito a questo scritto, credo che per onestà intellettuale sia importante specificare che io non sono un esperto della Critica del Valore. Oltre ai vari articoli che ho letto (naturalmente Kaveh, ma anche Hemmens, Frola, Jappe e Wolf Bukowski) gli scritti che conosco sono principalmente Il Collasso della Modernizzazione di Robert Kurz e il Manifesto contro il Lavoro del Gruppo Krisis, di cui facevano parte lo stesso Kurz assieme a Norbert Trenkle e Ernst Lohoff prima della rottura. Nonostante questa mia conoscenza molto limitata, credo di aver individuato dei temi ricorrenti e condivisi su cui mi sento di discutere. Spero poi che delle risposte a miei eventuali strafalcioni possano contribuire ad arricchire il dibattito.

Come Pensare il Rapporto fra Teoria e Prassi?

Pregi e limiti dell’articolo di Kaveh

L’articolo di Kaveh si inserisce all’interno di un dibattito che in Francia ha già da tempo preso il via. I critici del valore francese infatti stanno cercando da tempo di tradurre la wertkritik in una pratica politica coerente coi suoi presupposti categoriali. Dopo un preciso e puntuale riassunto delle caratteristiche del capitalismo che la Wertkritik considera salienti, Kaveh cerca di farla dialogare con la tradizione del municipalismo libertario. Il punto di aggancio sono le molte analogie concettuali fra il Manifesto contro il Lavoro e l’elaborazione teorica municipalista, come la contrapposizione di una forma assembleare multilivello allo Stato, le istanze ecologiche e in generale la ricerca di una vita ricca di senso contro l’impersonalità e l’atomizzazione dei rapporti sociali.

Una critica che a questo punto si potrebbe fare riguarda le specifiche difficoltà in cui incapperebbe una società municipalista (p. es. la lentezza del processo decisionale, la manipolazione dei processi deliberativi ecc.). Non è però questa la via che voglio intraprendere, perché sono convinto che ci sia una questione di principio che è molto più importante. Il punto è che il modo in cui viene svolta questa ricerca di “una forma per un contenuto” è poco convincente.

Infatti, il rischio di basarsi su analogie concettuali fra elaborazioni teoriche per proporre una prassi politica è quello di perdere di vista i soggetti che la politica la fanno per davvero all’interno di processi oggettivi. E sono proprio questi processi oggettivi che scandiscono le “fasi” interne al modo di produzione (“fasi” che mai contraddicono il funzionamento generale del sistema, ma che lo colgono nel concreto).

Elementi fondamentali di una teoria della transizione

Se ho ragione, gli elementi fondamentali per ragionare su una possibile transizione sia economica che politica sono sostanzialmente tre.

Il primo è l’avere un modello generale del modo di produzione considerato: le sue categorie fondamentali, come questo pone i suoi presupposti e si riproduce, quali sono i suoi limiti interni e i suoi punti di frizione che fanno scorgere un suo possibile superamento e perché questo superamento è desiderabile. Questo non significa che meccanicamente e pacificamente il modo di produzione considerato trapasserà in altro. Se questo è in grado di riprodursi, di porre continuamente i suoi presupposti, anche dopo essersi scontrato coi suoi limiti interni, non c’è crollo e non c’è evoluzione spontanea.

Il secondo è l’avere, se non proprio una cronistoria delle fasi del modo di produzione che fino ad ora si sono succedute, quantomeno un modello della fase specifica in cui questo si trova attualmente. Se abbiamo questo, abbiamo contezza dei processi oggettivi e dei soggetti storici che della fase sono protagonisti, e ciò non è altro che una concretizzazione storica e empirica del modello generale. I processi oggettivi determinano quali sono i soggetti storici di volta in volta a pesare di più sulla riproduzione del sistema, e assieme ai loro rapporti di forza determinano i vincoli realistici alla loro prassi.

Per la prospettiva di transizione, i soggetti storici fondamentali sono quelli contemporaneamente necessari e subalterni al sistema per la sua riproduzione. Se questi intuiscono la loro importanza e percepiscono la loro posizione come ingiusta, se capiscono che finché il sistema dura saranno sempre subalterni, se si aggregano e si organizzano per sfidare la classe dominante sul piano economico, politico e militare, allora ha inizio la transizione. Questa è la lotta di classe (perlomeno vista dalla prospettiva della classe subalterna), e questa lunga catena di “se” dovrebbe servire a far capire quanto questo processo sia una sperimentazione continua. Involuzioni corporativistiche e disarticolazioni dovute all’azione egemonica o alla repressione dei soggetti storici dominanti sono sempre possibili.

Ma anche in caso di ipotetica vittoria in una determinata regione del mondo, questa sarebbe una vittoria iniziale e solo parziale senza considerare il terzo elemento fondamentale della transizione. I soggetti storici non più subalterni devono porsi la questione della riproducibilità del sistema che andranno a creare, devono cioè chiedersi: come possiamo fare in modo che il modo di produzione che andremo a instaurare riesca a porre da sé i propri presupposti senza ricorrere necessariamente a rapine, guerre, violenze politiche, e senza fare riferimento al carattere di qualche dittatore o alla buona volontà degli agenti in gioco? La risposta a questa domanda sarà inevitabilmente condizionata dalla composizione sociale e politica del blocco vincente. Si può ragionevolmente presumere, per esempio, che i lavoratori dipendenti abbiano un’idea diversa di socialismo rispetto a dei soci-lavoratori in autogestione.

Senza risolvere la questione del nuovo sistema si rischia di retrocedere rapidamente al modo di produzione che si voleva superare, con l’unico risultato di rendere ancora più invisa la causa rivoluzionaria. Ecco perché non solo non disdegno parlare delle “ricette dell’osteria dell’avvenire”, ma lo ritengo addirittura necessario. Questo non significa che io sia d’accordo col costruire castelli in aria. Ciò accadrebbe se le suddette “ricette” fossero proposte in maniera avulsa dagli altri due elementi fondamentali (il modello generale e la lotta di classe). Ragionare su tutti questi ci costringe invece a pensare in maniera dinamica e complessa sia al modo di produzione considerato che al processo di transizione e ci impedisce di pensare in maniera utopistica, fuori dal contesto sociale in cui ci troviamo e dalle sue potenzialità.

Riformulazione delle domande sulla Wertkritik

Stabiliti questi parametri, possiamo tornare alla domanda che Kaveh si è posto circa la “forma per il contenuto” della Wertkritik e renderla più specifica, articolandola in 4 punti:

  1. Come pensa la Wertkritik il modello generale del modo di produzione capitalistico?
  2. Qual è il modello proposto dalla Wertkritik sull’attuale fase del modo di produzione capitalistico?
  3. In base a questi modelli, quali sono i soggetti storici che la Wertkritik individua come capaci di operare la transizione?
  4. Questi soggetti storici che sistema sono in grado di creare attraverso la loro pratica?

Brevemente, per quanto riguarda il primo punto la Wertkritik riprende Marx ma ne modifica a livello sostanziale alcuni concetti-chiave. Per il punto 2., la Wertkritik propone una teoria del crollo basata sugli effetti della rivoluzione microelettronica (la fine della compensazione fra sostituzione di vecchi lavori con capitale fisso e espansione dei mercati, che permetteva una rioccupazione di lavoro precedentemente espulso). Il punto 3. e 4. sono invece i più “rarefatti” del paradigma teorico. Il punto del dibattito francese (e dell’articolo di Kaveh) sta proprio nel rinforzare i punti 3. e 4. a partire dai presupposti teorici della Wertkritik.

La tesi che però io voglio dimostrare di seguito è che ciò è impossibile: proprio a causa dei presupposti teorici della Wertkritik è impossibile pensare una prassi politica conseguente. Si tratta, per me, di un “contenuto senza forma”, di una teoria costitutivamente indeterminata a livello politico. Il testo principale che utilizzerò per dimostrare questa tesi è il Manifesto contro il Lavoro, che poi è il testo più citato da Kaveh nel suo articolo.

In quanto segue mi occuperò solo dei punti 1., 3. e 4. Tralascio il secondo punto perché gli stessi autori (perlomeno quelli del Gruppo Krisis) hanno fatto autocritica su alcune affermazioni, e prima di lanciarmi nella critica vorrei leggere i risultati di questa rielaborazione.1“Cominciamo con alcune osservazioni sullo sviluppo economi-co in senso stretto. Potrebbe forse sembrare, dal punto di vista dei nudi dati empirici, che nel Manifesto ci siamo spinti un po’ troppo oltre con la frase secondo cui “la vendita della merce ‘forza-lavoro’ sarà nel ventunesimo secolo tanto ricca di prospettive quanto nel ventesimo la vendita di diligenze”. Rimane tuttavia valida senza riserve l’affermazione centrale della teoria della crisi, per la quale la terza rivoluzione industriale ha portato a una espulsione assoluta del lavoro vivo dalla produzione di valore e ha avviato una crisi fondamentale di valorizzazione del capitale. È vero che la domanda di lavoro su scala globale non è crollata in modo così massiccio come suggerirebbe la frase citata del Manifesto; in alcune regioni in piena espansione, soprattutto in Cina e nel sud-est asiatico, sono stati creati persino nuovi posti di lavoro di massa. Ma questo non smentisce l’affermazione per la quale la base per la valorizzazione del capitale si è sempre più ristretta. L’enorme crescita economica in queste regioni, come in alcuni centri capitalistici, è in gran parte dovuta al gigantesco accumulo di capitale fittizio sui mercati finanziari transnazionali, che tiene in vita la dinamica economica mondiale da diversi decenni. (…) Pensavamo che la “simulazione da capitalismo da casinò della società del lavoro”, come la chiamavamo allora, avrebbe presto raggiunto i suoi limiti. Tale valutazione era errata. Anche il grande crollo dei mercati finanziari globali del 2008, che ha indubbiamente rappresentato un passaggio qualitativo nel lungo processo di crisi e ha spinto l’economia globale sull’orlo dell’abisso, ha potuto essere nuovamente assorbito. Con massicci programmi di salvataggio economico e bancario e una politica monetaria estremamente flessibile, i governi e le banche centrali sono riusciti a rilanciare l’accumulazione guidata dai mercati finanziari – anche se i costi per molti paesi, soprattutto nell’Europa meridionale, sono stati enormi.” (pp. 132-3)

Critica del Concetto di Lavoro nella Wertkritik

Lo slittamento concettuale della Wertkritik

Partiamo dalla questione del modello generale del modo di produzione capitalistico. Su questo, la Wertkritik riprende in particolare il Marx dei primi quattro capitoli del primo Libro del Capitale.2Questo focus, come vedremo, è un elemento problematico. Andrebbero fatti però dei distinguo fra Trenkle e Lohoff da una parte (che rispetto al Manifesto contro il Lavoro hanno approfondito parecchio il concetto di capitale fittizio) e Kurz dall’altra, che mi sembra quasi “intrappolato” in questi capitoli. Viene posto l’accento in particolare sui concetti di merce, valore, lavoro e soggetto automatico come ha mostrato Kaveh nel paragrafo “Che cos’è il capitalismo?“. Tuttavia, rispetto a Marx, c’è uno slittamento fondamentale proprio negli ultimi due concetti. Se nel Marx maturo3quello post-1857, in cui il progetto di critica dell’economia politica prende definitivamente il via il concetto di lavoro è un’astrazione valida per ogni epoca storica, la Wertkritik ci dice invece che si tratta di un concetto valido solo per il modo di produzione capitalistico4Il lavoro non va identificato in alcun modo con il fatto che gli uomini modificano la natura e hanno relazioni tra di loro. Fino a quando gli uomini esisteranno, essi produrranno vestiti, nutrimento e molte altre cose, alleveranno i loro figli, scriveranno libri, discuteranno, si dedicheranno al giardinaggio, faranno musica e altro ancora. Ciò è banale e va da sé. Non è invece scontato che la semplice attività umana, il puro “dispendio di forza-lavoro”, il cui contenuto non si tiene in alcuna considerazione e che è totalmente indipendente dai bisogni e dalla volontà degli interessati, venga elevata a un principio astratto che domina le relazioni sociali. Nelle antiche società agrarie esistevano molteplici forme di dominio e di dipendenza personale, ma non la dittatura dell’astrazione “lavoro”. Le attività legate al processo di trasformazione della natura e alle relazioni sociali certo non erano autonome, ma neppure sottomesse a un astratto “impiego di forza-lavoro”, ed erano inserite piuttosto in un complesso sistema di regole basato su prescrizioni religiose e tradizioni sociali e culturali con obblighi reciproci. Ogni attività aveva il suo tempo specifico e il suo luogo specifico; non esisteva alcuna forma di attività astrattamente universale. Fu proprio il moderno sistema produttore di merci, che ha come fine in sé l’incessante trasformazione dell’energia umana in denaro, a far nascere una sfera particolare, “separata” da qualsiasi altra relazione, astratta da ogni contenuto. Quella del cosiddetto lavoro è una sfera di attività eterodiretta, incondizionata, irrelata, meccanica, separata dal resto del tessuto sociale, una sfera che obbedisce a un’astratta razionalità finalistica “aziendale” che non tiene conto dei bisogni. In questa sfera separata dalla vita, il tempo cessa di essere tempo vissuto, profondamente sentito; diventa semplice materia prima, che deve essere utilizzata nel modo migliore: “il tempo è denaro”. (Manifesto Contro il Lavoro, p. 40). In un certo senso, quello che accade nella Wertkritik è l’identificazione totale fra valore e lavoro, e quindi fra capitale e lavoro. Inoltre, il concetto di “soggetto automatico” prende una piega che definirei meccanica.

Ciò che a prima vista sembra una mossa innocua è in realtà un passaggio fondamentale in termini epistemologici e politici. Innanzitutto, cambia completamente il modo di “modellizzare” la produzione in generale e il capitalismo rispetto a Marx. Il concetto di lavoro viene strappato dalla produzione in generale e il suo significato finisce per coincidere in pieno con quello di “lavoro astratto”. Al concetto di lavoro in generale subentra un vago concetto di attività, mentre il concetto di lavoro concreto semplicemente sparisce.5In merito, Jappe scrive: “Le società precapitalistiche non conoscevano neanche il concetto di “lavoro”, né quello di “economia”. Le attività produttive facevano parte dell’insieme della vita sociale e non erano organizzate come una sfera a parte. Perciò il concetto di “lavoro” e quello di “lavoro astratto” sono in realtà identici. Il lavoro, anche quello cosiddetto “concreto”, costituisce sempre un’astrazione che isola un aspetto della vita umana dal suo contesto, opponendo le attività produttive alla riproduzione domestica, alla cultura, al gioco, ai riti ecc. Non si può perciò opporre il “buon” lavoro concreto al “cattivo” lavoro astratto, perché possono solo esistere come le due facce dello stesso “lavoro”. La produzione di più valori d’uso possibili può essere altrettanto tautologica quanto quella di valore di scambio”. (p. 17) A parte il fatto che il lavoro domestico rientra a pieno titolo nel concetto di lavoro, non vedo quale sarebbe il problema di separare alcuni tipi di attività da altre: definire non è il ruolo dei concetti?Questa revisione è giustificata con un argomento concentrato sull’etimologia e la storia dei concetti:

È incontestabile che gli uomini abbiano sempre prodotto cose e idee per vivere, nutrirsi, studiare e divertirsi. Ma questo implica forse che il concetto sovrastorico e universale di “lavoro” sia adatto a definire questo insieme di attività? Il “lavoro” è un’astrazione, una parola la cui generalità presuppone una poliedricità di significati. Karl Marx, il cui rapporto con un concetto “positivo” di lavoro non è esente da contraddizioni, sosteneva da un lato che il lavoro appare “in questa sua astrazione solo come categoria della società più moderna”. Contemporaneamente difendeva tuttavia la valenza sovrastorica di questa generalità indeterminata, essendo dell’opinione che il lavoro fosse, per così dire, un’astrazione “razionale”, che “esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società”. (…) Ma questo corrisponde a verità? Un’astrazione razionale dovrebbe essere un “concetto superiore” generale e sensato, da applicarsi a cose differenti dal punto di vista qualitativo ma che si trovano comunque tutte su un piano determinato. (…) Anche passeggiare, giocare a scacchi o leggere romanzi sono attività umane, senza che normalmente vengano definite come “lavoro”. Dove si può porre il limite senza però introdurre un elemento di arbitrarietà? Per fare chiarezza è necessario determinare più precisamente il particolare carattere sociale del concetto astratto di lavoro. Storicamente l’universalità sociale del concetto di lavoro in quanto tale non è poi tanto evidente. In effetti, molte culture fondate sulla caccia, sull’allevamento o sull’agricoltura non conoscevano alcun concetto di lavoro astratto in grado di abbracciare attività diversissime tra loro. E questo non certo perché tali culture difettassero di capacità di astrazione. In esse sarebbe apparso del tutto irragionevole, e persino folle, riunire attività come andare a caccia e coltivare piante, cucinare e allevare bambini, curare le malattie e praticare riti cultuali sotto un unico concetto astratto di “attività in genere”. In queste società arcaiche (per quanto esse siano ricostruibili o ne esistano dei resti) c’erano spesso differenti concetti di attività, ciascuno valido per i differenti ambiti della vita, per gli uomini e per le donne, per diversi gruppi sociali o abilità (contadini, artisti, guerrieri ecc.), che non corrispondevano in alcun modo al moderno concetto universale di lavoro. Quando e in quale contesto è sorto dunque questo concetto astrattamente generale dell’attività economica e sociale? In diversi idiomi la radice della parola “lavoro” è riconducibile a un significato che contrassegna individui in stato di minorità, dipendenti o schiavi. Pertanto il “lavoro” originariamente non era un’astrazione neutrale e razionale bensì sociale: è l’attività di coloro che hanno perso la propria libertà. Qualsiasi cosa facciano queste persone, che sia spaccarsi la schiena in miniera o nelle piantagioni, cucinare i pasti in casa come domestici, accompagnare i bambini a scuola o fare aria alla padrona, si tratta sempre dell’attività di persone definite come servi. L’esistenza in quanto servo incarna il contenuto dell’astrazione “lavoro”. In questo senso, come astrazione socialmente limitata, il concetto di lavoro non poteva in alcun modo possedere il carattere di una forma di attività socialmente generale e tanto meno essere determinato positivamente. Non sorprende che il concetto di lavoro nell’antichità avesse assunto il significato collaterale di sofferenza e infelicità (come in latino). La sofferenza della persona attiva in senso negativo è “vacillare sotto un carico gravoso” (laborare). (…) Non l’attività in quanto tale era disonorevole, e neppure il lavoro manuale, ma la sottomissione dell’uomo ad altri uomini o ad una “professione”.

Manifesto Contro il Lavoro, pp. 82-4

Mi sia permesso di contestare questo modo di ragionare. Il fatto che le società precedenti a quella capitalistica non conoscessero questi concetti non ci dice nulla sulla loro validità nel definirle. Anche i concetti di modo di produzione, di forze produttive e di rapporti di produzione non esistevano prima che Marx li creasse, creazione avvenuta in epoca capitalistica. Vuol dire forse, per questo, che è sbagliato definire modo di produzione, ad esempio, quello schiavistico o quello feudale?

Lo stesso Marx nei Grundrisse si è interrogato sulla pertinenza di questo modo di ragionare, e lo ha fatto prendendo ad esempio proprio il concetto di lavoro in generale. Ed è proprio al passaggio dei Grundrisse che i wertkritici fanno riferimento in maniera polemica nella citazione. Direi quindi che è utile riprenderlo.

Marx contra Wertkritik

Nel testo, Marx mostra lo sviluppo storico-concettuale che il lavoro ha avuto nell’economia politica borghese, e loda Adam Smith per aver individuato nel lavoro in generale una fonte di ricchezza. Ma a Marx questo non basta. Egli cerca soprattutto il punto di massimo sviluppo a livello pratico della categoria, e lo trova negli Stati Uniti. Infatti, è in questa società che gli individui passano con facilità da un lavoro all’altro, e con ciò si sviluppa pienamente l’indifferenza verso un lavoro determinato:

L’indifferenza verso un genere di lavoro determinato presuppone una totalità molto sviluppata di generi di lavoro reali, nessuno dei quali domini piú sull’insieme. Cosí le astrazioni piú generali sorgono solo dove piú ricco è lo sviluppo concreto, dove un elemento appare come l’elemento comune a molti, comune a tutti. Allora esso cessa di poter essere pensato solo in forma particolare. D’altro canto, questa astrazione del lavoro in generale non è soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori. L’indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società nella quale gli individui passano con facilità da un lavoro all’altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito, quindi indifferente. Non solo nella categoria, ma nella realtà il lavoro qui è divenuto il mezzo per la creazione della ricchezza in generale, e come determinazione ha cessato di concrescere con gli individui in una dimensione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella piú moderna forma di esistenza delle societă borghesi, gli Stati Uniti. Solo qui diviene per la prima volta praticamente vera l’astrazione della categoria «lavoro», «lavoro in generale», lavoro sans phrase che è il punto d’avvio dell’economia moderna. Quindi l’astrazione piú semplice, che l’economia moderna colloca al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare però praticamente vera in questa sua astrazione solo come categoria della società piú moderna.

Grundrisse, pp. 38-9

Da questa citazione vediamo che Marx è d’accordo con i wertkritici nel dire che il lavoro in generale nelle società precedenti a quella capitalistica non era “valido” (era un fenomeno che quando esisteva era marginale rispetto alla media). Potrebbe sembrare quindi che attraverso l’esempio di una società moderna come quella statunitense, egli voglia consideriare il lavoro una categoria completamente capitalistica, non generale. Invece è proprio nella realizzazione pratica della categoria di lavoro in generale in un modo di produzione più complesso che Marx individua, allo stesso tempo, identità e differenze fra il modo di produzione capitalistico e quelli precedenti. E lo fa senza cedere all’appiattimento antistorico tipico degli economisti borghesi:

Questo esempio del lavoro rivela con assoluta evidenza come anche le categorie piú astratte, sebbene siano valide – proprio a causa della loro astrazione – per tutte le epoche, in ciò che vi è di determinato in questa astrazione stessa sono tuttavia il prodotto di condizioni storiche e hanno piena validità soltanto per e all’interno di tali condizioni. La società borghese è l’organizzazione storica piú sviluppata e differenziata della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti, la comprensione della sua articolazione, permettono quindi in pari tempo di comprendere l’articolazione e i rapporti di produzione di tutte le forme di società scomparse, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui in parte in essa sopravvivono ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in essa era solo accennato ha assunto significati compiuti ecc. L’anatomia dell’uomo fornisce una chiave per l’anatomia della scimmia. Gli accenni a momenti superiori nelle specie animali inferiori possono invece esser compresi solo se la forma superiore stessa è già nota. L’economia borghese fornisce quindi la chiave di quella antica ecc. In nessun caso però procedendo come fanno gli economisti, i quali cancellano ogni differenza storica e in tutte le forme di società vedono sempre le forme borghesi. Si possono comprendere il tributo, le decime ecc. se si conosce la rendita fondiaria. Ma non si deve identificare questa con quelli. Poiché inoltre la società borghese stessa è soltanto una forma di sviluppo antitetica, certi rapporti delle forme precedenti in essa si troveranno spesso solo del tutto atrofizzati, o addirittura travestiti. Ad esempio la proprietă comunale. Se è quindi vero che le categorie dell’economia borghese possiedono una validità per tutte le altre forme di società, ciò va preso solo cum grano salis. Esse possono contenere quelle forme in modo sviluppato, atrofizzato, caricato ecc., sempre con una differenza essenziale. La cosiddetta evoluzione storica si fonda generalmente sul fatto che l’ultima forma considera quelle trascorse come gradini che portano a essa e, poiché solo raramente e in condizioni molto particolari essa è in grado di criticare se stessa, – naturalmente qui non stiamo parlando di periodi storici che si autopercepiscono come epoche di decadenza, – le interpreta sempre in modo unilaterale. La religione cristiana fu in grado di contribuire alla comprensione obiettiva delle mitologie precedenti solo quando la sua autocritica fu in una certa misura, per cosí dire δυνάμει, conclusa. Cosí l’economia borghese pervenne alla comprensione di quella feudale, antica, orientale, non appena ebbe inizio l’autocritica della società borghese.

Ibidem

Il modo di ragionare di Marx è a mio avviso qualitativamente migliore di quello della Wertkritik. Egli non si limita a fare un’astrazione mentale del generale che accomuna i particolari (come i wertkritici lo accusano di fare), ma mostra dove a livello pratico questa generalità diviene effettuale. Da qui e solo da qui può formulare dei concetti astratti. È questa la famosa “salita dal concreto all’astratto”, propedeutica alla “ridiscesa dall’astratto al concreto”. E nel fare questo il corpo a corpo è sia con le categorie della scienza che studia l’oggetto considerato, sia con la sua storia. A differenza dei wertkritici, non si ferma né ad indagare l’etimologia della parola “lavoro”, né prende per buona l’ideologia delle società precedenti di cui il termine era carico.

Il nesso lavoro-ricchezza e i cortocircuiti della Wertkritik

Oltre alle considerazioni di metodo, a me pare che, nella foga della critica del lavoro, la Wertkritik si perda proprio il nesso fra lavoro in generale e creazione di ricchezza. E su questa elisione non ci si può mettere una toppa parlando di “attività”. Quello di attività è infatti un concetto troppo generico, ci rientrano il produrre patate come il mangiare patate. Eppure la prima attività produce ricchezza, la seconda attività consuma ricchezza. Da questa elisione nascono insomma dei veri e propri cortocircuiti concettuali, come possiamo vedere in diverse citazioni. Pensiamo ad esempio a questa:

Non cesserà ogni attività quando scompariranno gli obblighi del lavoro. Però ogni attività avrà un carattere diverso quando non sarà più incanalata in una sfera tautologica e desensualizzata di tempi continui astratti, ma potrà seguire la propria misura del tempo, variabile a seconda degli individui, e sarà integrata in rapporti di vita personali; quando, anche in grandi forme organizzative della produzione, i soggetti stessi ne determineranno il corso, invece di essere determinati dal diktat della valorizzazione aziendale. (…) Noi non vogliamo dire che così ogni attività diventerà un piacere. Alcune lo saranno di più, altre di meno. Naturalmente ci sarà sempre qualcosa di necessario, che deve essere fatto. Ma chi dovrebbe spaventarsene, se la vita non ne sarà più completamente divorata? Prevarrà comunque tutto ciò che si potrà fare per libera scelta. Infatti, essere attivi è un bisogno tanto quanto oziare. Nemmeno il lavoro è riuscito a cancellare interamente questo bisogno, ma lo ha strumentalizzato a suo favore e se lo è succhiato da vero vampiro. Gli avversari del lavoro non sono fanatici di un attivismo cieco né di un cieco far niente. Ozio, attività necessarie e attività liberamente scelte dovranno essere conciliate in un rapporto sensato, che si realizzerà a seconda delle esigenze e dei contesti vitali. Una volta sottratte ai vincoli concreti del lavoro, le moderne forze produttive potranno estendere enormemente il tempo libero disponibile per tutti.

Manifesto Contro il Lavoro, p. 76, grassetto mio

Concentriamoci un attimo sulle frasi che ho evidenziato. Prima si dice che “essere attivi è un bisogno tanto quanto oziare”, ed è quindi qualcosa di necessario; poi però si distingue fra attività necessarie ed ozio. Il problema sta allora nello specificare cosa sono queste fantomatiche “attività necessarie”. Mangiare e dormire sono attività necessarie, nel senso che se un essere umano non le svolge si “autidistrugge”. Eppure non mi sembrano essere queste le attività che i wertkritici hanno in mente. Mi pare evidente che abbiano in mente proprio le attività socialmente necessarie a produrre ricchezza, che servono cioè alla società per riprodursi organicamente. Data la contraddizione logica che abbiamo individuato, con che termine possono essere riassunte queste attività se non proprio quello di lavoro?

A mio avviso però, il peggior risultato di questo cortocircuito è contenuto in questo passo:

Il permanente bisogno finanziario dell’economia di guerra condusse, nelle società civili, all’ascesa dei capitalisti commerciali e monetari, dei grandi accumulatori di denaro e dei finanziatori di guerre. Ma anche la nuova organizzazione degli eserciti in quanto tale dette impulso alla forma mentis capitalistica. Gli antichi guerrieri agrari si trasformarono in “soldati”, cioè in beneficiari del “soldo”. Essi furono i primi “lavoratori salariati” moderni che dovevano riprodurre la propria esistenza completamente attraverso paghe in denaro e consumo di merci. E perciò non combattevano più per obiettivi ideali ma soltanto per denaro. Per loro era indifferente chi uccidevano, a patto che la paga fosse buona; e divennero così i primi rappresentanti del “lavoro astratto” (Marx) per il moderno sistema produttore di merci. Essi furono del resto anche i primi a poter diventare “disoccupati”. Se non c’era più denaro nelle casse dei principi, diminuivano i “posti di lavoro” nell’esercito. Molti fucilieri e artiglieri vittime delle dimissioni di massa finivano letteralmente sulla strada, diventando temuti vagabondi, briganti e assassini occasionali. Per i capitani e i condottieri dei “soldati” contava procurarsi del bottino attraverso saccheggi, per poi trasformarlo in denaro. Però l’output del bottino doveva essere maggiore dell’input dovuto ai costi della guerra. Era un impulso decisivo per la nascita della moderna razionalità economica e aziendale. All’alba della nuova epoca la maggior parte dei generali e dei capi mercenari impiegavano in modo lucroso il loro bottino-denaro e partecipavano al capitale commerciale e finanziario. All’inizio del capitalismo non troviamo così il pacifico commerciante, il risparmiatore laborioso e il produttore ingegnoso, ma il loro esatto contrario: se i soldati come artigiani sanguinari delle armi da fuoco furono i prototipi dei moderni lavoratori salariati, allora condottieri e caporioni “che facevano quattrini” furono i prototipi della moderna classe imprenditoriale e della sua “attitudine al rischio”.

Kurz R., La Dittatura del Tempo Astratto, in Manifesto Contro il Lavoro, p. 90

Qui Kurz vorrebbe far passare l’idea che soldati e condottieri siano stati i prototipi, rispettivamente, dei lavoratori salariati e dei capitalisti, e che quindi il rapporto di gerarchia militare sia il prototipo del rapporto di produzione capitalistico. Si tratta di una grandissima sciocchezza. Ogni marxista (ma direi anche ogni economista classico) sa che il lavoro del soldato è un lavoro improduttivo. Si tratta di un lavoro che non produce ricchezza, ma o la consuma in cambio del servizio di protezione, o la sottrae a esterni con la violenza della guerra.

Il capitalismo è invece un modo di produzione che si basa tutto sulla produzione di più ricchezza nella sua forma sociale specifica, ossia attraverso l’estrazione di pluslavoro utile a produrre plusprodotto (l’eccedenza del prodotto totale sul prodotto necessario a riprodurre la classe lavoratrice). Nessuno nega che il capitale abbia sussunto la guerra, o che nel capitalismo non esistano furti di valore, ma qui Kurz cerca un’identificazione che non sta né in cielo né in terra: in un sistema di soli lavoratori-soldati non ci sarebbe plusprodotto, ma solo pura redistribuzione per furto e violenza; il sistema capitalistico invece, per funzionare normalmente, necessita di produrre plusvalore (quindi plusprodotto).

L’ontologizzazione del rapporto di lavoro

Infine, se stiamo all’argomentazione presentata alle pagine 82-84, non è proprio vero che la Wertkritik non ha un concetto di lavoro “generale”. In questo passaggio infatti il concetto di lavoro è identico a quello di sfruttamento. Non lo sfruttamento tipicamente capitalistico (che riguarda l’eccedenza di pluslavoro sul tempo di lavoro socialmente necessario), ma lo sfruttamento inteso in senso generale, ossia come il potere che una classe ha di far lavorare un’altra classe alle sue dipendenze. Il risultato di questo slittamento è la confusione fra un rapporto sociale determinato che riguarda un erogatore (i vari lavoratori sfruttati) e un beneficiario (le varie classi dominanti) con l’oggetto che viene erogato (il lavoro).

Corollario di questa ontologizzazione del rapporto gerarchico di lavoro, che viene fatto coincidere con il lavoro tout court, è l’elisione degli stessi soggetti implicati nel rapporto di lavoro e la loro perdita di agency. Se infatti il destino del lavoro è quello di essere lavoro sfruttato, il rapporto di lavoro non è più un rapporto sociale (e, in quanto tale, potenzialmente conflittuale), ma diventa un processo meccanico.

Questo intendevo quando più sopra ho citato la piega presa dal concetto di “soggetto automatico” in questo quadro concettuale: la Wertkritik ignora completamente sia la capacità egemonica della classe capitalistica, sia la capacità di resistere e di auto-organizzarsi dei lavoratori, i quali non sarebbero altro che “snodi umani di un meccanismo”6Bellofiore R., Le Avventure della Socializzazione, p. 85. Questo problema teorico generale si trasferisce nella concezione della lotta di classe, di cui ora ci occupiamo.

La Lotta di Classe come Critica della Wertkritik

La critica della Wertkritik su Operaismo e Lotta di Classe

Da quello che abbiamo visto fino ad ora, non sorprende che la Wertkritik svaluti completamente la lotta di classe. Su questo aspetto è stimolante leggere le critiche che i wertkritici rivolgono all’operaismo, che potrebbe essere considerato come una sorta di Wertkritik rovesciata:

Le diverse correnti operaistiche, al contrario, si accontentano di semplici gesta alla Robin Hood, mentre il nesso categoriale della società del lavoro si risolve in puri atti di volontà. In questo modo perfino la crisi è soggettivizzata: lo sviluppo delle macchine appare come semplice reazione del capitale contro le “rivolte del lavoro”, come se non esistesse la concorrenza tra capitali ed economie nazionali; e viene perfino parzialmente negata l’ulteriore esistenza del contesto sistemico categoriale attraverso la tesi “che il capitale non ha più alcun interesse alla valorizzazione della forza-lavoro, poiché realizza la creazione di valore attraverso il lavoro oggettivato, cioè le macchine (!), diventando allora la relazione di dominio puramente politica…”. Alla luce di un tale pensiero riduzionistico (qui si riduce tutto all’aspetto soggettivo piuttosto che a quello oggettivo) non vi può essere naturalmente alcuna “crisi della società del lavoro”: il problema si risolve ignorandolo! Senza curarsi della critica categoriale, le diverse correnti operaistiche si sono agganciate a tutti i possibili movimenti, riots e lotte sociali, dai tumulti per il pane nel Terzo Mondo alle lotte dei precari, dalle economie di sussistenza al reddito di esistenza.

Manifesto contro il Lavoro, pp. 116-7

Questa critica all’operaismo ha diversi elementi che mi sento di abbracciare in toto. L’incapacità di pensare un modello generale (e quindi lo schiacciamento delle categorie della critica dell’economia politica sul modello di fase storica), la personificazione del Capitale, la riduzione dell’economia a un puro fatto politico, la cecità nei confronti della concorrenza fra capitalisti e dei suoi effetti sul sistema economico, l’eleggere chiunque faccia un po’ di casino a nuova soggettività rivoluzionaria e transmodale sono tutti aspetti che nell’operaismo purtroppo si trovano a iosa. Eppure ci sono altrettanti elementi di questa critica che proprio che non riesco a digerire e che vengono esplicitati più avanti nel passo:

Viene così dimostrato come l’immanenza al sistema che caratterizza la “lotta di classe” non possa essere superata convertendola in soggettività. Un interesse fatto valere in forma di merce o denaro è già in un modo o nell’altro oggettivato nell’ambito della società del lavoro capitalistica. (…) Non esiste nessuna classe o gruppo sociale determinato che, sulla sola base della sua posizione all’interno della società del lavoro, sia predestinato “in sé” a essere portatore specifico della trasformazione sociale (a cui manca solo di esserne cosciente “per sé”). La storica dimensione “in sé” della classe operaia non risiedeva nella sua capacità di trascendere il sistema, ma al contrario nella sua esistenza (originariamente forzata) come categoria funzionale del capitale. Proprio per questo il movimento operaio, in quanto tale, non poteva essere un movimento contro il lavoro, ma solo un movimento per la sua completa affermazione e per il suo universale riconoscimento. La rottura categoriale con la logica del sistema feticista capitalistico, al contrario, non può per definizione essere contenuta in questo “in sé” o addirittura originarsi quasi automaticamente dalla sua dinamica propria. L’unica “conseguenza automatica” generata dalla contraddizione interna della valorizzazione del capitale è la sua rottura negativa nella “crisi della società del lavoro”. L’oggettività di questa crisi non può però essere cortocircuitata o confusa con un’oggettività presunta del superamento emancipatorio, anche se produce indignazione e disperazione. Il tentativo operaistico di trasformare, attraverso la “posizione” puramente soggettiva, una categoria appartenente al contesto sistemico oggettivato (cioè il concetto di classe) in un’entità in grado di trascendere il sistema e che sussisterebbe assurdamente solo “per sé” (indipendentemente dalla sua forma sociale) è destinato a naufragare. Intendere “lo sviluppo del capitale come variabile delle lotte operaie” significa farsi solo delle illusioni. Al contrario: la lotta in nome del lavoro (lotta di classe, lotta per gli interessi, immanente al sistema) rimane per sua essenza una variabile dello sviluppo capitalistico. La critica del lavoro diventa possibile solo al di là della lotta di classe, come auto-costituzione di un movimento di emancipazione che non pensi e agisca più “all’interno” delle forme di coscienza capitalistiche.

Ivi, pp. 117-8, grassetto mio

Nelle parti evidenziate del passo si dicono sostanzialmente due cose:

  1. che la lotta di classe è una lotta immanente alle logiche del sistema capitalistico, e che l’operaismo è stato fautore di questa lotta immanente
  2. che siccome la classe lavoratrice è funzionale al capitale, internamente al modo di produzione non esistono soggetti che, solo in virtù della loro posizione, possono avviare il processo transmodale

In virtù di questi due punti, la Wertkritik vede nella classe lavoratrice e nel capitale due facce della stessa medaglia e getta a mare la lotta di classe.7 Trovo il seguente passo molto esemplificativo, passo che personalmente mi causa un misto fra mestizia e rabbia tanto per le inesattezze a livello generale quanto per la cecità nei confronti delle lotte di questa fase: “La contrapposizione sociale tra capitale e lavoro è però soltanto la contrapposizione di diversi (anche se diversamente potenti) interessi all’interno del fine tautologico del capitalismo. La lotta di classe fu la forma con cui questi interessi contrapposti si scontrarono sul comune terreno sociale del sistema produttore di merci. Fu un elemento interno alla dinamica di valorizzazione del capitale. Non importa se la battaglia fu combattuta per i salari, i diritti, le condizioni di lavoro o i posti di lavoro; il suo cieco presupposto rimase sempre il dominio del lavoro con i suoi irrazionali princìpi. Dal punto di vista del lavoro, il contenuto qualitativo della produzione è altrettanto trascurabile quanto dal punto di vista del capitale. Quello che interessa è unicamente la possibilità di vendere in maniera ottimale la forza-lavoro. Non è in gioco la determinazione comune del senso e del fine del proprio fare. Se mai c’è stata la speranza di poter realizzare una simile autodeterminazione della produzione nelle forme del sistema produttore di merci, da un pezzo le “forze lavorative” si sono tolte dalla testa questa illusione. Ormai si tratta soltanto di “posti di lavoro”, di “occupazione”, e già questi concetti dimostrano il carattere di fine in sé tipico dell’intera baracca e lo stato di minorità degli interessati. Che cosa si produce, a quale scopo e con quali conseguenze è in fin dei conti indifferente sia per il venditore del bene forza-lavoro sia per il suo acquirente.” (Ivi, p. 42) Peccato che entrambi i punti siano falsi.

Riguardo alla lotta di classe, i wertkritici sembrano ignorare completamente che questa non solo può essere combattuta con diverse intensità, come ha magistralmente mostrato Gramsci nei suoi Quaderni, ma che la lotta di classe più intensa, quella per il passaggio transmodale, in Italia l’hanno combattuta proprio gli operaisti negli anni ’70 (e su questo fanno il paio con gli ordinovisti nel Biennio Rosso). Gli operaisti avranno tanti difetti, ma di sicuro non possono essere accostati a dei semplici socialdemocratici o a qualche sindacalista moderato. Mi sia permesso di citare un passo del Tronti di Operai e Capitale in merito:

Se l’attività del lavoro cessa, cessa la vita del capitale. Una fabbrica ferma è già lavoro morto, capitale in riposo che non produce e non si riproduce. Lo sciopero è, non a caso, forma permanente di lotta operaia e così sua forma primitiva che si sviluppa, ma non si nega. E c’è la forza immane delle cose semplici in questa constatazione elementare: essere lo sciopero cessazione dell’attività da parte del lavoro vivo, sua riduzione a lavoro morto, suo rifiuto così ad essere lavoro; lo sciopero dunque come crollo della distinzione, della separazione, della contrapposizione tra lavoro e capitale, – la più terribile minaccia che possa essere portata alla vita stessa della società capitalistica. Rifiuto dell’attività da parte del lavoro vivo è il recupero di quella sua autonomia che il processo di produzione deve appunto spezzare. E questa è l’altra cosa che il capitale non può sopportare. Esso deve mantenere il lavoro distinto da sé e a sé contrapposto come potenza economica, ma deve contemporaneamente subordinarlo, sotto il suo comando, come potenza politica. Il capitale cioè deve contrapporsi la forza-lavoro senza lasciare autonoma la classe operaia; deve concepire la forza-lavoro stessa come classe operaia, dentro però il rapporto di produzione capitalistico; deve dunque conservare, riprodurre, allargare il rapporto di classe, solo controllandolo. È questo il filo che lega la storia moderna del capitale. Spezzare in un punto il filo di questo controllo è la strategia di oggi della rivoluzione operaia. Una separata autonomia politica dei movimenti di classe delle due parti è tuttora il punto di partenza da imporre alla lotta: di qui, di nuovo, tutti i problemi di organizzazione della parte operaia. Lo sforzo del capitale è di chiudere entro la relazione economica il momento dell’antagonismo, incorporando il rapporto di classe nel rapporto capitalistico, come suo oggetto sociale. Lo sforzo di parte operaia deve all’opposto tendere continuamente a spezzare proprio la forma economica dell’antagonismo; deve avere come obiettivo quotidiano quello di restituire contenuto politico a ogni occasione elementare di scontro; deve quindifar funzionare soggettivamente il rapporto capitalistico nel rapporto di classe,concepire allora il capitale in quanto rapporto di produzione, sempre e solo come un momento della lotta di classe operaia. È per questa via che la stessa attività viva del lavoro, socializzata dal capitale e in esso oggettivata, può essere fatta rozzamente servire a quell’opera di positiva distruzione, che il punto di vista operaio porta materialmente con sé.

pp. 204-5

Nel passo si parla di rifiuto del lavoro per il capitale, di spezzare il controllo capitalistico sulla classe operaia, di creare un’autonomia politica fra le classi per favorire il loro antagonismo. Mi paiono tutti concetti che vanno oltre la pura rivendicazione di un equo salario o di una giornata lavorativa più breve. Il testo ci dà anche l’occasione per discutere del secondo punto.

Il concetto di Potere Posizionale come critica dell’indeterminatezza soggettuale della Wertkritik

Esistono dei lavoratori che in virtù della posizione sono capaci, con la loro azione, di bloccare la produzione di plusvalore/plusprodotto (potere posizionale). Magari si tratta di azioni non capaci di trascendere il sistema, ma di sicuro lo possono mettere in crisi

Tronti coglie nella citazione il punto per cui la classe lavoratrice è allo stesso tempo subalterna e necessaria al Capitale. Se ricordate, questo era uno dei parametri che avevo indicato come fondamentali per una teoria della transizione.

Infatti, è l’erogazione di lavoro da parte dei lavoratori che rende “vivo” il Capitale, o meglio, è l’erogazione di pluslavoro (il tempo di lavoro eccedente il lavoro necessario a riprodurre i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice) che produce plusvalore e che si incarna nel plusprodotto. Senza questa erogazione magari può esistere profitto relativo, ma non può esistere nessun profitto positivo complessivo.8 Riprendo qui la distinzione operata da Shaikh nel sesto capitolo del suo capolavoro Capitalism, che egli costruisce sulla base di un passo all’interno di Marx nelle Teorie sul Plusvalore.

Il Capitale ha bisogno insomma di estrarre pluslavoro dai lavoratori, non importa se con mezzi egemonici o con la violenza. E questo varrà sempre, anche se il bacino di lavoratori da cui il Capitale attinge si restringe a causa del ciclo economico. Ma questa estrazione non è per niente un destino (come invece sembra essere per i wertkritici), è un processo che può essere sempre messo in discussione.

Tronti capisce anche che in questa dipendenza risiede la forza potenziale della classe lavoratrice e la sua capacità transmodale. Proprio perché i lavoratori sono assolutamente necessari al Capitale, essi costituiscono allo allo stesso tempo l’elemento necessario (anche se non sufficiente) di ogni blocco sociale che voglia superare il modo di produzione capitalistico. E questo non sulla base di una filosofia della storia destinale, ma sulla base della semplice funzione dei soggetti nel sistema. Ciò significa che diversi soggetti storici all’interno di un sistema sono dotati di un diverso “potere posizionale”.9 Il concetto è ripreso dal libro Labor Power and Strategy di John Womack

A causa della loro struttura categoriale, i wertkritici sono costretti a ignorare tutti questi punti. Lo scotto che pagano è la pura indeterminatezza nell’individuazione dei soggetti che dovrebbero operare il passaggio transmodale. Si parla di “persone”10 “Se l’affermazione del lavoro è andata di pari passo con l’espropriazione totale della persona e delle sue condizioni di vita, la negazione della società del lavoro può consistere soltanto nella riappropriazione, da parte della persona, del proprio nesso sociale con gli altri a un livello storico più elevato.” (p. 71) e di “società”11 “Una prospettiva emancipatoria può consistere solo nell’appropriazione, da parte della società, della riproduzione dell’intera esistenza, non più “mediabile” nel contesto della società del lavoro.” (p. 123), dimenticando che anche i capitalisti sono “persone” e che nella “società” ci sono forze sia rivoluzionarie che reazionarie. La politica viene appiattita sullo Stato e viene rigettata in toto12 Se la fine del lavoro è anche la fine della politica, allora un movimento politico a favore del superamento del lavoro sarebbe una contraddizione in termini. Gli avversari del lavoro rivolgono richieste allo Stato, ma non costituiscono un partito politico, né mai ne creeranno uno. Il fine della politica può essere soltanto quello di conquistare l’apparato dello Stato per andare avanti con la società del lavoro. Dunque gli avversari del lavoro non vogliono occupare i centri nevralgici del potere, bensì metterli fuori uso. La loro battaglia non è politica ma anti-politica. Lo Stato e la politica dell’era moderna sono uniti inseparabilmente al sistema coercitivo del lavoro, e perciò devono scomparire insieme con esso. Le chiacchiere su una rinascita della politica sono soltanto il tentativo di riportare la critica del terrore economico a un rapporto positivo con lo Stato. (pp. 78-9), dimenticando che esiste una politicità che sgorga dalla stessa produzione. Così la prassi non può che fermarsi alla teoria e le armi della critica sono impossibilitate a diventare la critica delle armi.

Bibliografia

  • Gruppo Krisis, Manifesto Contro il Lavoro, Mimesis, Milano, 2023
  • Marx K., Engels F, Opere Complete XXIX (Grundrisse I), Editori Riuniti, Roma, 1986
  • Bellofiore R., Le Avventure della Socializzazione, Mimesis, Milano, 2018
  • Tronti M., Operai e Capitale, DeriveApprodi, Roma, 2013
  • Shaikh A., Capitalism. Competition, Conflict, Crises, Oxford University Press, 2016
  • Womack Jr. J., Labor Power and Strategy, PM Press, 2023

1 Reply to “Critica della Wertkritik. Risposta ad Afshin Kaveh”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *