1. Introduzione
Il concetto di “idea di scuola” rappresenta per Massimo Baldacci in Per un’idea di scuola il principio unitario che permette di pensare la questione formativa in rapporto alla sua epoca storica. Esso può manifestarsi in due modalità distinte e spesso in conflitto. Esiste un’idea informale, riflesso dell’ethos sociale dominante e del senso comune, spesso non pienamente consapevole ma carica di implicazioni ideologiche e vi è un’idea formale, elaborata in modo riflessivo e critico, capace di condurre a esiti più avanzati. Sebbene nella storia abbiano spesso inciso di più le idee informali per la loro pervasività, i veri snodi assiali, i momenti di trasformazione duratura del sistema scolastico, sono stati legati proprio alla messa a punto di idee formali tradotte in riforme organiche. Nel panorama italiano post-unitario, dopo la legge fondativa Casati del 1859, solo due riforme possono essere considerate realmente organiche e portatrici di un’idea formale precisa: la Riforma Gentile del 1923 e, in misura diversa, l’unificazione della scuola media del 1962. La riforma di Gentile, di matrice reazionaria prima ancora che fascista, incarnava un’idea di scuola chiusa e fortemente selettiva, strutturata per riprodurre le gerarchie sociali separando nettamente la formazione delle classi dirigenti da quella delle classi subalterne. Il dopoguerra vide inizialmente una fase di grande immobilismo, con la questione scolastica affossata nella palude del centrismo, come emerse dall’inchiesta Gonella (1947-1949) che rinviò qualsiasi soluzione strutturale. In questo periodo l’idea di scuola rimase prevalentemente implicita, specchio del conformismo dominante. Una svolta significativa avvenne a partire dalla metà degli anni ‘50, con l’apertura di una lunga stagione di battaglie per l’innovazione democratica, ispirata ai principi costituzionali. Il frutto più importante di questa stagione, guidata dai governi di centrosinistra, fu l’istituzione della scuola media unica nel 1962, l’unica vera riforma di struttura del sistema, gravida di conseguenze per il progresso culturale e democratico del Paese. A questa seguirono altri provvedimenti cardine, come l’istituzione della scuola materna statale nel 1968, la legge 517 del 1977 sulla programmazione e la valutazione, i Decreti Delegati (in particolare il D.L. 416/1974 sulla gestione sociale) e i nuovi programmi e ordinamenti per la scuola elementare (1985, 1990) e per la materna (1991). Questi interventi, pur di portata a volte più circoscritta, disegnavano nel complesso un’idea di scuola democratica e inclusiva.
Negli ultimi decenni il sistema è stato invece soggetto a una permanente tensione tra tentativi di riforma e controriforma da parte degli schieramenti alternati al governo. Il ministro Berlinguer, durante il primo governo Prodi, tentò una riforma organica delle strutture con una strategia gradualista, avanzando per provvedimenti mirati che fossero tasselli di un disegno complessivo. Questo tentativo fu però interrotto dal ritorno al governo della destra nel 2001 che ne abrogò gli elementi. La visione della destra sulla scuola era già stata sintetizzata da Berlusconi nel 1994 nelle celebri “tre I”: Impresa, Inglese, Internet. Questo slogan, al di là della sua schematicità, veicolava un’idea funzionalista ed economicista della scuola vista come un’appendice del sistema economico, chiamata a formare il capitale umano necessario, modernizzata negli strumenti (inglese e internet) ma privata di una vera modernità culturale ed emancipativa. Una visione in netto contrasto con le “tre C” (Comunità, Cultura, Conoscenza) care alla parte più consapevole del mondo scolastico.
Il compito di tradurre pedagogicamente lo spirito delle “tre I” in una riforma concreta toccò al ministro Moratti che si avvalse dell’opera del professor Bertagna. Il nucleo concettuale di questa operazione fu il principio di “personalizzazione”, interpretato in modo specifico per connettere la formazione del produttore con la retorica della centralità della persona, particolarmente sensibile agli ambienti di ispirazione cattolica. In questa accezione personalizzare significava valorizzare le specifiche potenzialità di ciascuno, le quali, una volta sviluppate, avrebbero definito la vocazione professionale individuale. Questo modello, però, deliberatamente escludeva il concetto di “individualizzazione”, ossia l’idea illuminista e democratica che tutti debbano raggiungere le stesse competenze di base per l’esercizio della cittadinanza. La personalizzazione alla Bertagna risultava così unilaterale, incline ad attribuire le disuguaglianze a doti naturali piuttosto che a disparità sociali e a privilegiare la formazione del produttore su quella del cittadino. Pur criticabile, si trattava comunque di un’idea formale di scuola. Moratti non si limitò a varare la riforma ma lanciò una potente offensiva culturale (corsi di aggiornamento, convegni, pubblicazioni) per conquistare l’egemonia nel mondo della scuola. Tuttavia incontrò una resistenza organizzata e attiva da parte di associazioni, sindacati e pedagogisti che diede vita a una vera e propria “guerra di trincea” culturale, bloccando il compimento del disegno egemonico.
Con l’avvicendarsi al ministero del ministro Gelmini la strategia della destra mutò radicalmente. Scomparve qualsiasi tentativo di proporre un’idea organica e formale di scuola. L’azione si caratterizzò per una serie di provvedimenti eterogenei e apparentemente sconnessi (ritorno al grembiulino, al maestro unico nella primaria, al voto in condotta), giustificati dal richiamo a una “sana tradizione” e a una scuola “seria e meritocratica”. Queste mosse, accompagnate da pesanti tagli alle risorse, sembravano avere un duplice obiettivo: creare effetti mediatici per distogliere l’attenzione dai suddetti tagli e parlare direttamente alle frange più tradizionaliste dell’opinione pubblica, scavalcando il dibattito specialistico. In sostanza si rinunciava a una guerra di posizione sul terreno delle idee formali per condurre un attacco sul terreno delle idee informali e dei pregiudizi di senso comune. Questo crepuscolo dell’idea esplicita di scuola, proseguito con i ministri Profumo e Carrozza, lascia la politica scolastica in una pericolosa deriva, priva di una bussola per orientare le scelte.
Per comprendere a fondo questo crepuscolo è necessario collocarlo entro il filo conduttore della storia scolastica italiana. Interpretazioni come quelle di Borghi e Barbagli aiutano a delineare il contenuto del conflitto. Borghi identifica due tradizioni: una autoritaria, prevalente, tesa a riprodurre le gerarchie sociali separando la formazione dei ceti, e una democratica, minoritaria, volta a una crescita culturale per tutti. Barbagli, da una prospettiva sociologica, legge le vicende scolastiche come un conflitto tra gruppi sociali per il controllo della mobilità sociale, attuato attraverso meccanismi di selezione strutturale (come i “binari morti” o la professionalizzazione precoce). La storia della scuola italiana può dunque essere vista come un conflitto permanente tra forze moderate/conservatrici e forze progressiste, dove la posta in gioco è il controllo dell’egemonia culturale e dei meccanismi di mobilità sociale. Le radici di questo conflitto affondano nelle debolezze della borghesia italiana post-risorgimentale, spesso propensa a compromessi con le vecchie élite agrarie e a uno sviluppo protetto, assumendo un carattere conservatore e autoritario.
La selezione si è storicamente realizzata in varie forme: per evasione dall’obbligo, per canalizzazione precoce (binari morti), per bocciature esplicite (denunciate da don Milani) e, oggi sempre più, per selezione implicita (promozioni senza reale padronanza delle competenze). La forma del conflitto, come suggerito da Bertoni Jovine e rielaborato attraverso la categoria gramsciana, è quella di una guerra di posizione. Non si tratta solo di uno scontro legislativo ma di una battaglia culturale che si svolge nelle sovrastrutture della società civile (scuola, editoria, media, convegni) per conquistare il consenso e orientare le convinzioni di chi fa scuola. È una guerra di assedio reciproco, dove le riforme durature sono quelle preparate da un orientamento culturale favorevole. In questa luce l’azione di Moratti rappresentò un tentativo di vincere questa guerra con una massiccia offensiva propagandistica che però fu contenuta dalle solide trincee culturali progressiste.
Il crepuscolo attuale rappresenta quindi un mutamento di strategia in questa guerra di posizione. Abbandonato il fronte delle idee formali, si attacca il sistema scolastico progressista alle spalle, sul terreno dei pregiudizi comuni, delegittimandone le conquiste e isolandolo culturalmente e socialmente. L’obiettivo non è più egemonizzare il mondo della scuola con un’idea ma accerchiarlo con il consenso di un’opinione pubblica disorientata, fiaccandone il morale con tagli e precariato. Il rischio gravissimo è che questo tramonto dell’elaborazione esplicita lasci campo libero all’affermazione definitiva di cornici di pensiero implicite di stampo economicista e funzionalista, proprie della destra, che diventino l’orizzonte non contestato del discorso sulla scuola. Per questo una ripresa del movimento progressista non può prescindere da una rinnovata e urgente battaglia delle idee, dalla critica di quelle cornici e dalla proposta di una nuova idea formale di scuola, all’altezza delle sfide contemporanee e capace di riprendere il cammino interrotto dell’emancipazione culturale di massa.
Per Baldacci l’idea di scuola si lega al principio educativo. Per affrontare questa problematica è preliminare chiarire perché un’istituzione formalmente deputata all’istruzione debba essere considerata anche “educativa”. La distinzione tra istruzione ed educazione è di natura concettuale ma nella pratica concreta della scuola l’educazione accompagna sempre e si produce in modo collaterale all’istruzione. Durante l’acquisizione di conoscenze e abilità disciplinari si apprendono parallelamente, in modo implicito, abitudini mentali ed emotive più astratte e trasversali. Questo intreccio inestricabile porta alla nozione di “istruzione educativa”, già presente nel pensiero di Herbart.
A riguardo del rapporto tra i due termini, Antonio Gramsci offre una critica decisiva affermando che insistere troppo sulla loro separazione è stato il grave errore della pedagogia idealista. Nella sua visione sostenere che l’istruzione non sia anche educazione equivarrebbe a considerare il discente una mera passività, un “meccanico recipiente” di nozioni astratte, cosa che è assurda. L’istruzione implica sempre un’elaborazione attiva da parte dello studente e, in questa attività, essa non è solo istruzione ma diventa anche educazione. Di conseguenza, attraverso l’istruzione non si apprendono solo contenuti nozionistici, collateralmente si impara a elaborare il sapere, si educa la mente ad apprendere o, in termini più semplici, “si impara a studiare”. Gramsci illustra questo meccanismo con l’esempio pregnante dello studio del latino nella scuola classica. Tale studio non aveva come fine primario l’apprendimento della lingua in sé ma serviva ad abituare i fanciulli a un determinato metodo di studio, a una disciplina mentale. Attraverso la consuetudine con le lingue classiche il giovane acquisiva un’intuizione storicista del mondo e della vita che diventava una “seconda natura”, una spontaneità del pensiero. Questo risultato educativo emergeva come effetto indiretto e collaterale dell’istruzione: “educava perché istruiva”. Il rischio, avverte Gramsci, è proprio quello di sciogliere questo nesso organico. Una scuola che cercasse di essere direttamente e retoricamente educativa, distaccandosi dalla serietà dell’istruzione, finirebbe per essere vana e poco seria, fallendo anche sul piano educativo.
Da queste considerazioni si può cogliere il valore formativo dei saperi che si realizza nel lungo termine attraverso la strutturazione di specifiche abitudini cognitive, le formae mentis descritte da Gardner, cioè mentalità da storico, da matematico, da scienziato, legate ai diversi campi del sapere. È cruciale evitare una visione platonica che consideri questo valore come intrinseco alla disciplina stessa. Come osserva Dewey, esso è piuttosto l’esito di un certo modo di praticare e insegnare quella disciplina. Porre l’attenzione su questi effetti formativi d’insieme e di lungo periodo significa appunto mettere a tema la questione del principio educativo della scuola, cioè interrogarsi sulla direzione unitaria e sull’esito finale complessivo del percorso scolastico.
Per affrontare questa questione metodologicamente Baldacci si rivolge a due pensatori fondamentali del Novecento: John Dewey e Antonio Gramsci. La loro attualità non risiede tanto nei contenuti specifici dei loro principi educativi, legati alla loro epoca storica, quanto nella lezione di metodo che offrono. Questa lezione si caratterizza per due tratti essenziali: il primo è la ricerca di un principio unitario e unificante, capace di dare una prospettiva omogenea e coerente all’intera formazione scolastica, il secondo è il carattere storico-relativo di tale principio che non viene dedotto da un’astratta metafisica dell’uomo ma da un’analisi concreta dell’esperienza e dei bisogni sociali del proprio tempo.
Dewey, nella sua opera Democrazia ed educazione, definisce il proprio principio educativo attraverso il nesso inscindibile tra il metodo sperimentale delle scienze e lo spirito democratico. Per il filosofo americano il metodo scientifico, basato sulla verifica empirica e sulla libera discussione delle ipotesi, è di per sé promotore di democrazia, in quanto applicabile anche ai problemi sociali. Viceversa, una società democratica, garantendo la libera discussione, rappresenta la condizione ottimale per l’applicazione dell’”intelligenza” alla soluzione dei problemi collettivi. L’educazione, quindi, deve formare l’abito mentale all’uso di questo metodo dell’intelligenza che è un effetto collaterale dell’intera organizzazione scolastica, dal sistema didattico all’impostazione dei saperi. Per Dewey non si tratta di conformare i giovani a un modello ideale predefinito ma di liberare e potenziare la loro intelligenza, dotandoli delle abitudini mentali necessarie per affrontare e risolvere autonomamente i problemi futuri.
Anche per Gramsci il compito fondamentale della scuola è promuovere una democrazia sostanziale ma la sua prospettiva si concentra sulla funzione egemonica della formazione. La democrazia, per lui, non significa solo migliorare la qualifica del lavoratore ma garantire che ogni “cittadino” possa potenzialmente diventare “governante”, ovvero sia posto nelle condizioni intellettuali e tecniche per farlo. La scuola deve quindi formare persone capaci di pensare, studiare, dirigere o controllare chi dirige. Questo obiettivo ambizioso richiede un “nuovo umanesimo” che superi la vecchia dicotomia tra cultura umanistica per i dirigenti e addestramento pratico per i subalterni. Il nuovo percorso formativo deve connettere l’asse tecnico-scientifico (la “tecnica-scienza”) con quello storico-umanistico, necessario per sviluppare una visione critica del mondo. Solo questa sintesi, secondo Gramsci, può evitare di produrre meri specialisti e formare invece dirigenti nel senso pieno (specialista + politico).
La convergenza metodologica tra i due autori sul carattere unitario e storicizzato del principio educativo porta però a una potenziale antinomia quando si scende nel concreto della loro epoca, segnata dall’industrialismo. Entrambi pongono in relazione il principio educativo con questo contesto ma con esiti diversi. Gramsci, come ha evidenziato Manacorda, lega la questione alla risposta culturale dell’”americanismo” alle esigenze produttive del fordismo. Per il pensatore sardo le generazioni adulte hanno il diritto-dovere di “conformare” i giovani alle esigenze di sviluppo delle forze produttive, orientandoli al futuro (in un’ottica non passivamente adattiva ma dinamica). Il principio educativo assume così, in generale, il valore di un “principio di conformismo” inteso come adesione a un movimento storico progressivo. Dewey, pur riconoscendo il legame con l’industrialismo, pone l’accento in modo diametralmente opposto: il compito non è conformare ma formare abitudini intelligenti che permettano ai giovani di affrontare in modo autonomo e critico i problemi posti da quel medesimo contesto industriale.
Questa divergenza rivela la tensione tra emancipazione e conformismo che il principio educativo deve sempre mediare. In ogni caso, la lezione fondamentale di Dewey e Gramsci è che un principio educativo deve essere pensato in relazione all’”uomo concreto” della sua epoca, non a un’astratta essenza umana. La realtà storico-sociale odierna, contrassegnata dalla fase post-industriale e dall’economia della conoscenza, non è più quella dell’industrialismo fordista. Pertanto i loro principi sostantivi non sono meccanicamente trasferibili. Ciò che resta imprescindibile è l’esigenza da loro indicata: la necessità di elaborare un’idea organica e coerente di scuola, ancorata a un principio educativo unitario e storicamente informato. La rimozione di questa esigenza dal dibattito pubblico italiano rischia di far andare alla deriva l’intero sistema scolastico, privato di una bussola che ne orienti in modo omogeneo e consapevole la missione formativa.
2. Capitale umano o sviluppo umano? Verso un nuovo principio educativo
Baldacci si propone di tradurre operativamente l’impostazione storico-concreta del principio educativo, ereditata da Dewey e Gramsci, in un quadro analitico chiaro per definire l’idea di scuola. Il punto di partenza è la nozione di “uomo concreto”, non astratto, colto attraverso le sue fondamentali forme di funzionamento sociale: è produttore e consumatore di beni materiali e immateriali ma queste attività si realizzano all’interno di una comunità segnata dalla divisione del lavoro e dall’interdipendenza. Pertanto l’uomo concreto è inscindibilmente anche cittadino. Da questa angolazione il problema formativo diventa quello di formare l’individuo in quanto produttore, consumatore e cittadino, una prospettiva complementare ma più pertinente per analizzare la funzione sociale della scuola rispetto a un approccio basato su dimensioni ideali come la formazione intellettuale o etica. Questo porta a identificare i due grandi ambiti di proiezione della formazione, cioè il lavoro e la democrazia, esattamente come sancito dall’articolo 1 della Costituzione italiana.
Per articolare il principio educativo in rapporto a questi ambiti è necessario prima mettere a fuoco i costrutti della formazione scolastica stessa. Per rendere concreto il discorso la formazione può essere ricondotta a processi di apprendimento ma per non schiacciarla sulla mera istruzione occorre distinguere diversi livelli. Gregory Bateson fornisce uno schema utile, distinguendo tre livelli. L’apprendimento di primo livello, o proto-apprendimento, consiste nell’acquisire conoscenze (il sapere che) e abilità (il saper fare) relative ai saperi disciplinari. Questo livello riguarda l’istruzione. L’apprendimento di secondo livello, o deutero-apprendimento, è un cambiamento del modo di apprendere che porta alla formazione di abiti mentali durevoli, disposizioni stabili che modellano la mentalità e il carattere della persona, come propensioni a ragionare o ad agire in certi modi. Questo livello riguarda l’educazione. Il rapporto tra i due livelli è collaterale e indiretto. Gli abiti mentali non si formano in momenti separati ma si strutturano parallelamente e nel lungo periodo attraverso il modo in cui si apprendono conoscenze e abilità. Questo spiega il concetto di “istruzione educativa”: l’educazione è il portato di medio-lungo termine di un certo assetto dell’istruzione. La pervicacia di questi abiti mentali, che Dewey considera l’esito più durevole della scuola, li rende il vero oggetto del principio educativo, il quale deve interrogarsi sul “guardaroba mentale” di cui la scuola deve dotare l’individuo.
Un costrutto cruciale per il secondo livello è quello di competenza. Nata in ambito professionale, la competenza è la capacità di usare conoscenze e abilità in un campo per agire efficacemente in contesti non banali e risolvere problemi, rompendo l’incapsulamento scolastico del sapere. La sua struttura è complessa e sinergica. Essa include il sapere (conoscenza), il saper fare (abilità) e il saper pensare (abiti di pensiero regolati sulle logiche del campo). Quando questi aspetti sono separati, degenerano (in erudizione sterile, abilità meccanica, logicismo astratto). Quando mobilitati insieme, si fecondano. Proprio per questa integrazione di componenti di primo e secondo livello la competenza ha un livello logico superiore e un tempo di formazione medio-lungo e va quindi collocata tra i costrutti del secondo livello. La scuola, tuttavia, non può fornire il profilo pragmatico specifico di una professione. Il suo compito è dare alle competenze un’autentica base trasferibile, prevenendo l’incapsulamento anche attraverso strumenti come stage e tirocini.
Bateson descrive anche un apprendimento di terzo livello che è la capacità di modificare gli abiti mentali precedentemente strutturati quando diventano inadeguati al mutare del contesto. È un processo disagevole, di crisi, ma se ripetuto può generare un abito astratto di terzo livello, ovvero l’abitudine a cambiare i propri abiti, ossia la flessibilità mentale. Questo livello, una sorta di meta-educazione, completa il sistema organicamente interconnesso: l’istruzione (livello 1) produce nel tempo gli esiti educativi (livello 2), i quali a loro volta retroagiscono sul processo istruzionale ma quando questi diventano inadeguati possono attivarsi processi di riapprendimento (livello 3).
Equipaggiati con questo schema di costrutti (conoscenze e abilità di primo livello, competenze e abiti mentali di secondo livello, flessibilità di terzo livello), Baldacci si appresta a impostare il problema del principio educativo per la scuola odierna mettendo a confronto due grandi paradigmi politico-economici extrapedagogici, quello del capitale umano e quello dello sviluppo umano. Il paradigma del capitale umano, dominante, vede la scuola funzionalisticamente come un pezzo del sistema socio-economico, il cui compito è produrre lo stock di conoscenze, competenze e abiti mentali (il “capitale”) da impiegare nei processi produttivi per aumentare produttività, crescita economica e competitività, specialmente in un’economia globalizzata fondata sulla conoscenza. Pur avendo il pregio di riconfermare la scuola come agenzia d’istruzione e cultura, questo paradigma presenta limiti gravi: una valutazione costi-benefici che trascura i benefici sociali non economici (civiltà, democrazia), il rischio, soprattutto nella sua accezione “larga” (credentialism), di ridurre la scuola a un’agenzia ideologica che forma una mentalità funzionale alla cultura d’impresa manageriale e autoritaria, confliggendo con la formazione del cittadino democratico e l’essere spesso inscritto in una cornice neoliberista che promuove una competizione tra scuole e studenti secondo logiche di mercato, con effetti perversi sul clima educativo e sulla coesione sociale.
Il paradigma alternativo dello sviluppo umano focalizza invece la formazione del cittadino e una concezione più ampia di benessere e libertà. Una formazione scolastica equilibrata non può centrarsi unilateralmente su un solo costrutto (conoscenza o competenza) né accettare acriticamente la cornice del capitale umano. Il vero problema del principio educativo è tracciare una cornice culturale omogenea che dia senso organico alla formazione. La prospettiva che emerge è quella di una sintesi critica. Bisogna assimilare gli aspetti storicamente oggettivi e progressivi del paradigma del capitale umano (la centralità di conoscenze e competenze) ma rinquadrarli entro una cornice teorica più ampia, orientata allo sviluppo umano integrale e alla formazione del cittadino democratico, per rispondere in modo organico alla duplice esigenza di formare l’individuo per il lavoro e per la democrazia.
Il paradigma del capitale umano, nella sua versione neoliberista, rappresenta attualmente il quadro dominante a cui si stanno conformando le politiche formative a livello globale, configurando il sistema d’istruzione come un apparato funzionale e subordinato alle esigenze dell’economia, dove l’essere umano è essenzialmente visto come un mezzo per la produzione e la crescita economica. Pur senza aver ancora intaccato questa supremazia, negli ultimi decenni ha progressivamente acquisito attenzione e rilievo un paradigma alternativo e non velleitario: il paradigma dello sviluppo umano. Elaborato principalmente grazie al contributo fondamentale del premio Nobel per l’economia Amartya Sen e della studiosa di filosofia politica Martha Nussbaum, questo approccio fa propria la critica umanistica al modello dominante ma costruisce una prospettiva positiva e articolata. In questa nuova cornice viene radicalmente superata l’idea di una subordinazione funzionale dell’istruzione all’economia, prospettando piuttosto una convergenza tra l’esigenza formativa intrinseca alla scuola e il senso più profondo della società umana.
L’idea cardine di questo paradigma, così come formulata da Sen, è che lo sviluppo di un Paese non può essere ridotto alla mera crescita del Pil o dei redditi individuali. Tali elementi, sebbene importanti, possiedono un carattere esclusivamente strumentale e non possono quindi costituire il fine ultimo dello sviluppo. Al contrario, lo sviluppo deve essere concepito come un processo di espansione delle libertà sostanziali degli esseri umani. È cruciale sottolineare il riferimento a libertà plurali e sostanziali, non a un’astratta libertà formale, bensì a specifiche e concrete possibilità di scelta e realizzazione, ossia all’effettiva capacità di perseguire e realizzare ciò che si considera rilevante per la propria vita. L’uomo non è un mezzo ma il fine della produzione stessa, trattato kantianamente come un fine in sé, da preservare da ogni strumentalizzazione. Le libertà sostanziali sono dunque contemporaneamente lo scopo dello sviluppo, la sua componente costitutiva e il mezzo attraverso cui realizzarlo, in un circolo virtuoso. Una peculiarità di questo approccio è riconoscere che tale espansione delle libertà ha anche riflessi positivi sullo sviluppo economico stesso. La nozione di libertà sostanziale si collega a due concetti centrali nell’opera di Sen: i “funzionamenti”, intesi come gli stati dell’essere e del fare che una persona può desiderare, e la “capacitazione” (capability) che rappresenta l’insieme dei possibili funzionamenti che una persona è effettivamente in grado di realizzare. L’insieme delle capabilities determina il reale campo di scelta di un individuo tra modi di vita alternativi e lo sviluppo umano è tanto più elevato quanto più questo ventaglio di opportunità è ampio e include gli elementi a cui la persona attribuisce valore, rendendo la capacitazione il costrutto centrale del paradigma.
Per coglierne appieno la rilevanza in ambito formativo è necessario un rapido confronto con approcci alternativi, quali l’utilitarismo e le dottrine deontologiche. L’utilitarismo classico, con il suo nucleo nella massimizzazione dell’utilità collettiva (aggregata o media), si concentra sull’accrescimento della ricchezza sociale come presupposto del benessere. Questo approccio è indifferente alle modalità distributive, il che può portare a disparità significative senza risolvere i problemi di giustizia sociale. In campo educativo l’utilitarismo approda alla cosiddetta “crestomazia”, un apprendimento finalizzato all’utile, vedendo nella formazione della capacità di generare reddito un fattore chiave per la felicità individuale e collettiva. In tal modo esso si mostra coerente col paradigma del capitale umano, accettando la realtà socio-economica esistente e adattandovi l’individuo, con esiti poco coerenti con le sue stesse premesse liberali. Le dottrine deontologiche, d’altro canto, partono dalla priorità dei diritti e dalla questione della giustizia distributiva. Esemplare è l’approccio di John Rawls e del suo “principio di differenza”, secondo cui sono ammissibili solo quelle disuguaglianze che migliorano la condizione dei più svantaggiati. Da questa prospettiva lo sviluppo civile si misura dalla riduzione delle disuguaglianze, non dalla crescita economica. In ambito formativo ciò si traduce nell’idea dell’istruzione come diritto di cittadinanza e in una tensione inclusiva che impegna la scuola a garantire a tutti il raggiungimento delle conoscenze e competenze fondamentali, anteponendo le esigenze dei più deboli, in un’ideale consonanza con l’insegnamento di Don Milani.
La tensione tra questi due approcci, tra l’utilità collettiva e i diritti individuali, tra l’accrescimento della “torta” sociale e la sua equa ripartizione, è stata affrontata da Ralf Dahrendorf. Egli propone l’idea del progresso umano come espansione della libertà, legandola al concetto di chances di vita (opzioni di scelta) che dipendono dalla combinazione di due fattori: la disponibilità di provisions (beni e risorse) e la sussistenza di entitlements (diritti d’accesso). La carenza di uno dei due limita le opportunità individuali. Sen, pur riconoscendo il valore di questa sintesi, ne individua l’insufficienza. Possedere diritti e risorse non basta, è essenziale la capacità personale di avvalersi di quei diritti per accedere alle risorse e, a parità di risorse possedute, di convertirle in effettivi “funzionamenti”. Persone diverse, infatti, possono trasformare lo stesso paniere di beni in realizzazioni di vita molto differenti. L’approccio basato sulle mere chances di vita risulta quindi inadeguato se non integrato nel più comprensivo quadro delle capabilities.
Per un’analisi più precisa del concetto di capability è fondamentale il contributo di Martha Nussbaum, la quale distingue tra tre livelli. Le capacità innate sono le facoltà biologiche comuni alla specie umana, come quella del linguaggio. Le capacità interne sono gli stati interni della persona che costituiscono condizioni sufficienti per esercitare determinate funzioni, tra queste rientrano in modo cruciale le competenze apprese attraverso l’esperienza e la formazione scolastica, intese come la capacità di agire efficacemente sulla base di conoscenze, abilità e abiti di pensiero. Infine le capacità combinate (o capabilities) sono il risultato della connessione tra capacità interne e condizioni esterne favorevoli, ovvero proprio le chances di vita di Dahrendorf, comprendenti sia le provisions che gli entitlements. Le capacitazioni si definiscono quindi come la combinazione tra la disponibilità di adeguate chances di vita e il possesso delle capacità interne (in particolare le competenze fondamentali) necessarie per convertire tali chances in effettivi funzionamenti. In termini formali: Capacitazioni = f (Chances di vita, Competenze fondamentali).
Questa impostazione trasforma radicalmente il senso della formazione scolastica delle competenze. Non si tratta più di acquisire uno stock di competenze da investire come capitale intellettuale per incrementare la produttività ma di costruire un sistema di competenze in grado di convertire le opportunità di vita di cui si dispone in reali libertà sostanziali, espandendo così la possibilità concreta di realizzare il tipo di esistenza che si ritiene valida. L’istruzione viene sottratta a ogni subordinazione eteronoma al sistema socio-economico. Il suo fine diventa dotare gli individui degli strumenti (le competenze) per espandere e realizzare le libertà di cui godono come persone e cittadini. Ciò non esclude che le competenze possano anche giocare un ruolo strumentale come capitale intellettuale ma tale ruolo è subordinato e funzionale all’obiettivo primario dello sviluppo delle libertà, in quanto l’aumento del reddito personale e della ricchezza sociale rientra tra i fattori (provisions) che compongono le chances di vita.
Sia Sen che Nussbaum identificano nella democrazia il quadro socio-politico più adeguato per promuovere le capabilities. Sen critica la visione secondo cui la democrazia sia un lusso per paesi ricchi, sostenendo invece che bisogni economici e libertà politiche sono strettamente interconnessi. La discussione pubblica democratica aiuta a concettualizzare i bisogni, rende i governanti più responsivi e garantisce diritti d’accesso e all’istruzione. Nussbaum, dal canto suo, denuncia una crisi mondiale dell’istruzione, causata dall’allineamento generalizzato al paradigma del capitale umano che mira a formare produttori efficienti e docili invece che cittadini critici e attivi. Per un’istruzione per la democrazia è, secondo lei, indispensabile preservare uno spazio centrale per i saperi umanistici e artistici (letteratura, storia, filosofia, arte), fondamentali per sviluppare empatia, consapevolezza storica, pensiero critico, capacità argomentativa e immaginazione, tutte qualità vitali per una comunità democratica. L’analisi di Nussbaum presenta un’equazione forse troppo schematica che associa unilateralmente i saperi tecnico-scientifici alla formazione del produttore e quelli umanistici alla formazione del cittadino, trascurando il potenziale democratico anche delle prime.
Il paradigma dello sviluppo umano costituisce dunque l’alternativa più organica al capitale umano, ripristinando il principio kantiano dell’uomo come fine e convergendo con l’esigenza formativa intrinseca della scuola, collegandola a una filosofia politica centrata su democrazia e cittadinanza. Un’adozione unilateralmente esclusiva non è né realistica né desiderabile. La formazione di competenze che incrementano la produttività risponde a un’esigenza oggettiva dell’economia della conoscenza e ignorarla condannerebbe la scuola all’irrilevanza sociale. Il superamento del paradigma del capitale umano deve quindi avere un carattere conservativo, integrandone le acquisizioni cruciali entro il quadro più ampio e prioritario dello sviluppo umano. Ciò implica due operazioni fondamentali: a) conferire un significato ulteriore, democratico e umano, alla formazione delle competenze tecnico-scientifiche del produttore, b) pensare la formazione di tutte le competenze (umanistiche incluse) in modo coerente con la prospettiva dello sviluppo umano.
Per quanto riguarda il punto (a), è necessario superare l’unilateralità dell’analisi di Nussbaum. Le competenze scientifico-tecnologiche hanno infatti un alto valore per la cittadinanza democratica. Esse sono essenziali per comprendere problemi sociali complessi (come quelli ambientali), contrastando il rischio di una deriva tecnocratica. L’atteggiamento scientifico (antidogmatismo, pubblicità delle prove, argomentazione razionale) è strettamente affine allo spirito democratico e alla sua pratica discorsivo. Un lavoratore dotato di tali competenze, se formato in un’ottica democratica, può legittimamente aspirare a partecipare alle decisioni sull’organizzazione del lavoro, estendendo l’ethos democratico alla sfera economica.
Riguardo al punto (b), formare competenze nella cornice dello sviluppo umano significa legarle all’espansione delle libertà sostanziali. Le competenze (come capacità interne) sono la condizione per convertire diritti formali in accesso effettivo e risorse in funzionamenti ma il loro ruolo non si ferma qui. Competenze elevate permettono anche di comprendere i limiti dei diritti esistenti e di avanzare in modo razionale richieste per la loro espansione, migliorando così le stesse chances di vita esterne. L’incremento di produttività derivante da competenze rafforzate contribuisce ad ampliare il volume di risorse sociali disponibili per una ripartizione più equa, senza la quale i diritti rischiano di essere formali. È cruciale, però, non confondere i piani. Nell’ottica dello sviluppo umano l’aumento della produttività e del Pil è solo un obiettivo intermedio e strumentale, un mezzo per migliorare le condizioni esterne delle capabilities, non il fine ultimo. La crescita economica è positiva solo se si traduce in una riduzione delle disuguaglianze e in un’espansione delle libertà reali per tutti.
Il principio educativo, quindi, deve essere ancorato ad un’idea di uomo fondata nella concretezza storica e sociale, definita dalle sue funzioni fondamentali: il lavoro, il consumo e la partecipazione alla comunità politica. Questo principio deve scaturire da un’attenta analisi storica della realtà sociale, osservata attraverso le lenti dei paradigmi teorici appropriati. L’analisi di Baldacci si concentra su due delle tre funzioni, tralasciando per motivi di spazio quella del consumatore, e si propone di interrogare la realtà del lavoro e della vita politica per ricavarne gli elementi utili a definire il principio formativo del produttore e del cittadino. Il percorso per ciascuno di questi due aspetti si articola in tre momenti consecutivi: in primo luogo, la messa a fuoco di categorie teoriche capaci di interpretare il relativo ambito sociale (il lavoro, la democrazia), in secondo luogo, una sommaria analisi storico-sociale di tale ambito e, infine, il tentativo di definire alcuni lineamenti del principio educativo corrispondente.
Il lavoro è presentato come l’attività volta a produrre i beni necessari per soddisfare i bisogni umani che spaziano da quelli naturali legati all’esistenza a quelli spirituali connessi alla qualità della vita. Come categoria teorica, però, il lavoro possiede un carattere profondamente problematico e ambivalente, mostrando un duplice volto: uno “luminoso” che coincide con la realizzazione dell’essere umano e uno “oscuro” che lo trasforma in una condanna e in una fonte di immiserimento. Questa ambivalenza trova una significativa espressione nel pensiero di Hegel. Nelle sue riflessioni jenesi sulla filosofia dello spirito Hegel sottolinea come il lavoro costituisca un atto razionale che implica l’apprendimento di una forma universale, ossia la regola intrinseca a ogni attività lavorativa. Richiamandosi anche alle dottrine di Adam Smith non ignora il carattere freddo e meccanico assunto dal lavoro nelle fabbriche, mediato dall’uso delle macchine. Nonostante questo, nella Fenomenologia dello spirito, Hegel attribuisce al lavoro un valore antropogenico decisivo perché è proprio attraverso l’attività lavorativa che l’uomo diviene pienamente sé stesso in quanto la coscienza giunge a se stessa nel lavoro. A questa visione il giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 muove una critica radicale, rimproverando a Hegel di aver colto solo l’aspetto positivo. Nella realtà dell’economia capitalista, sostiene Marx, il lavoro si presenta in una forma degradante. Con l’avvento della proprietà privata dei mezzi di produzione e della divisione del lavoro si determina una netta separazione tra proprietari e salariati, trasformando il lavoro in un ambito di dominio e sfruttamento. Il lavoro perde qualsiasi potenzialità antropogenica e degenera in un’esperienza di alienazione e immiserimento spirituale. È qui che Marx elabora la cruciale categoria di lavoro alienato. Distingue la produzione umana, che può avvenire in libertà e secondo le leggi della bellezza, dalla produzione animale, dettata dal puro bisogno. Nel lavoro capitalista questa libertà creativa viene soppressa. L’oggetto prodotto viene sottratto al lavoratore, diventando qualcosa di estraneo e indipendente da lui. La stessa attività lavorativa diventa estranea poiché l’uomo non può affermare la propria intelligenza e creatività ma è costretto a eseguire operazioni forzate e stereotipate. Questa duplice estraneazione produce un lavoro che mortifica l’umanità dell’individuo, riducendolo a livello animale sia durante l’attività lavorativa sia nei suoi bisogni che si degradano perdendo ogni connotato spirituale. L’emancipazione, per il giovane Marx, postula quindi il superamento della divisione del lavoro e della proprietà privata, ovvero l’approdo al comunismo.
Questa critica fondata sull’alienazione presenta dei limiti per la pedagogia del lavoro. Evidenziare che il lavoro ha una potenzialità formativa positiva pervertita dalle condizioni capitaliste non offre una soluzione pedagogica pratica ma spinge piuttosto verso misure compensative esterne al lavoro stesso, come la pedagogia del tempo libero. Nel frattempo la realtà della formazione nell’economia politica borghese riflette fedelmente la divisione del lavoro. Un sistema scolastico gerarchizzato separa le scuole professionali (per il personale esecutivo) dalle scuole di formazione estesa (tecniche e generali, per i quadri direttivi e dirigenziali). Questa struttura entra però in crisi con le trasformazioni produttive. Nella fase fordista (dagli anni ‘50 agli anni ‘70 in Italia), si assiste alla spinta verso l’operaio massa, non qualificato e addetto a compiti semplici e ripetitivi, mettendo in contraddizione un’istruzione professionale che forma teoricamente lavoratori specializzati con una domanda di versatilità o addirittura di genericità. La pedagogia del tempo libero, che cerca di contrastare l’alienazione coltivando l’umanità fuori dall’orario di lavoro, rimane ambigua perché, pur avendo motivazioni solide, rischia di essere funzionale al sistema capitalista, ricreando semplicemente la disponibilità psico-fisica del lavoratore per il turno successivo. Una reale modifica richiederebbe una drastica riduzione del tempo di lavoro che nel quadro capitalista appare utopica.
Per uscire da questa impasse Baldacci propone uno spostamento teorico dalla categoria del lavoro alienato a quella del lavoro astratto, adoperata dal Marx maturo. Nel Capitale Marx analizza la duplice natura della merce: come valore d’uso (che soddisfa un bisogno) e come valore di scambio (che alimenta il mercato). Di conseguenza anche il lavoro ha un doppio lato, come lavoro concreto (che produce specifici valori d’uso) e come lavoro astratto (che produce il mero valore di scambio, indifferente al contenuto specifico del bene). Il lavoro astratto, quindi, è il lavoro sociale in generale, colto nel suo essere finalizzato allo scambio di mercato, ed è la sostanza del lavoro nel capitalismo. Il rapporto tra lavoro alienato e lavoro astratto può essere interpretato in due modi. Una linea continuista che li identifica, vedendo nell’astrazione la condizione per l’alienazione, e una linea discontinuista che li distingue, sostenendo che la categoria del lavoro astratto del Marx maturo rappresenta una novità teorica rispetto al concetto giovanile di alienazione. Quest’ultima era fondata su un’essenza umana fissa (libertà e creatività) che viene perduta. A partire dall’Ideologia tedesca Marx abbandona questa idea di essenza atemporale per una visione in cui l’uomo si fa nella storia attraverso i modi di produzione. La categoria del lavoro astratto coglie dunque la realtà storica del lavoro nel capitalismo, indipendentemente da un paradiso perduto da riconquistare.
Pur senza aderire a una rottura epistemologica netta, Baldacci propone di distinguere (senza separare) le due categorie. Il lavoro alienato segnala una contraddizione interna e un’esperienza di sofferenza, il lavoro astratto descrive la forma sociale generale che il lavoro assume storicamente. Comprendere questa forma significa analizzare le sue metamorfosi. Marx, nell’Introduzione alla Critica dell’economia politica, spiega che il lavoro astratto non è una mera astrazione concettuale ma è diventato un tipo di lavoro reale nella società moderna, caratterizzata dalla mobilità del lavoro. Gli individui sono spinti a passare frequentemente da un settore all’altro e a loro non è richiesto di essere specialisti ma di essere lavoratori in astratto. Marx distingue tra due tipi di astrazione: quella del “barbaro”, che è mera forza lavoro generica e non qualificata, utilizzabile per operazioni semplici, e quella del “civilizzato” che corrisponde a un lavoratore versatile, capace di dedicarsi a tutto. Questa versatilità, che trova una prima espressione nelle scuole politecniche, rimane però spesso confinata a una mera adattabilità esecutiva, funzionale alla divisione tecnica del lavoro, senza comprendere le componenti scientifiche e intellettuali che dominano il processo produttivo.
Di fronte a questa unilateralità il principio educativo proposto da Marx è la formazione dell’uomo omnilaterale che superi la separazione tra lavoro manuale e intellettuale. Questo significa unire istruzione intellettuale, formazione politecnica e lavoro fisico per formare un individuo padrone delle conoscenze scientifiche inerenti al lavoro e quindi capace di comprenderlo e controllarlo. Da questa impostazione Baldacci ricava l’idea di una gerarchia di forme d’astrazione del lavoro. Un primo livello è la forza lavoro generica (non qualificata). Un secondo livello è il lavoratore esecutivamente versatile. Un terzo livello, superiore, è quello del professionista intellettualmente flessibile che possiede una padronanza generale dei fondamenti scientifici. Questa progressione accompagna lo sviluppo delle forze produttive. Con la transizione alla fase postfordista e all’economia fondata sulla conoscenza si assiste a una trasformazione radicale. La produzione non è più guidata da un paradigma tecnico-scientifico stabile e dominante ma è soggetta a cambiamenti rapidi, continui e spesso a rotture paradigmatiche. La capacità cruciale non è più solo la padronanza di un insieme di conoscenze generali ma la flessibilità cognitiva, ossia la capacità di apprendere continuamente nuovi paradigmi e, soprattutto, di “disimparare” i vecchi, modificando gli abiti mentali cristallizzati. Si tratta di un salto al livello logico più alto dell’astrazione che riguarda la plasticità stessa della mente. Marx, nel Frammento sulle macchine dei Grundrisse, aveva intuito questa svolta, prevedendo che con l’automazione la ricchezza dipenderà sempre più dal sapere sociale generale (il General Intellect) che diventa forza produttiva diretta.
Il principio educativo per il produttore, quindi, deve essere ricavato da questa tendenza oggettiva. La domanda cruciale è se sia razionale conformare la formazione a questo tipo umano dotato di intelligenza generale e flessibile. La posizione di Gramsci, che sostiene il diritto-dovere della società di conformare le nuove generazioni alle esigenze produttive dell’epoca, sembra opporsi a quella di Dewey che vede l’educazione come liberazione dell’intelligenza. Nel contesto dello sviluppo sotto il General Intellect le due posizioni tendono a convergere perché conformare a un tipo umano flessibile significa proprio liberare e potenziare l’intelligenza. Per realizzare questo è necessario un radicale superamento della separazione tra scuole tecniche e scuole di formazione generale, verso una scuola secondaria superiore unitaria e fortemente deprofessionalizzata che coltivi intenzionalmente abiti mentali astratti come l’abito riflessivo e scientifico. La specializzazione professionale dovrebbe essere rimandata a corsi post-secondari e alla formazione permanente, essenziale per prevenire la cristallizzazione delle mentalità.
Questo principio educativo ideale si scontra con una contraddizione interna all’attuale organizzazione del lavoro. Le nuove forme di direzione, ispirate al paradigma manageriale della gestione delle risorse umane, hanno superato in parte le forme autoritarie del taylorismo, enfatizzando l’autonomia, la responsabilità e il benessere del lavoratore. Questa autonomia è spesso mutilata poiché riguarda principalmente i mezzi mentre gli obiettivi restano fissati in modo autocratico dall’impresa. Questo divario, unito a una formazione in servizio che spesso si riduce a un indottrinamento alla cultura aziendale, crea un meccanismo colpevolizzante e non sfrutta appieno l’intelligenza generale che si vorrebbe formare. La contraddizione sta dunque nella mancanza di democrazia economica laddove le premesse intellettuali per essa ci sarebbero.
La riflessione sulla democrazia e la formazione del cittadino di Baldacci si articola a partire dalla distinzione tra un uso descrittivo e uno valutativo del concetto stesso di democrazia. Dal punto di vista descrittivo, storicamente definita come governo del popolo in contrapposizione alla monarchia e all’aristocrazia, la democrazia contemporanea si caratterizza soprattutto per l’opposizione sistematica all’autocrazia o dittatura, dove il criterio distintivo diventa il grado di libertà degli individui. Questa opposizione fondamentale permette di delineare una prima, cruciale differenza tra il cittadino, titolare di diritti e doveri in un regime democratico, e il suddito, soggetto prevalentemente a obblighi in un regime autocratico. I tratti essenziali dell’ideale democratico, come delineati da autori quali Robert Dahl, postulano una partecipazione allargata a tutti, effettiva e attiva, supportata da un’informazione adeguata che consenta la formazione di un’opinione autonoma. Per Baldacci questa è la dimensione ideale mentre la democrazia reale ne costituisce spesso una realizzazione imperfetta.
Passando al piano valutativo, la democrazia si rivela la forma di governo preferibile in quanto, seguendo la lezione di Amartya Sen, costituisce il contesto sociopolitico più adatto allo sviluppo umano, in grado di promuovere libertà sostanziali e non meramente formali. Questo valore deriva dalle implicazioni dell’ethos democratico che incoraggia il dialogo, la tolleranza, l’apertura alla diversità, uno spirito inclusivo, ugualitario e solidale. Come aveva già intuito John Dewey la democrazia non è riducibile a un meccanismo di governo ma rappresenta primariamente un modo di vita associata, una forma di convivenza in cui la crescita umana si realizza pienamente proprio attraverso la partecipazione attiva alla direzione della comunità. Questo valore normativo, che in Italia trova il suo cardine nella Costituzione, deve guidare l’azione delle istituzioni, scuola inclusa, nel promuovere e cercare di espandere costantemente la sfera democratica. Il divario tra l’ideale e il reale, pur inevitabile, non deve banalizzare il discorso sulla democrazia a retorica ma deve anzi costituire la tensione permanente verso cui orientare gli sforzi collettivi.
Per comprendere le ragioni di questo scarto, Baldacci compie un’analisi della realtà della democrazia rappresentativa nell’attuale fase storica, evidenziandone le profonde crisi. Il modello liberal-democratico, che affida a rappresentanti eletti le funzioni legislative ed esecutive, si reggeva storicamente sul ruolo dell’opinione pubblica, su un’informazione libera e sulla mediazione dei partiti di massa che organizzavano la partecipazione e la formazione del consenso. Il funzionamento ottimale di questo modello presupponeva un adeguato livello d’istruzione diffuso e il superamento della distinzione tra una formazione per le classi dirigenti e una per i ceti subalterni, formando tutti i cittadini come potenziali dirigenti in grado di controllare e giudicare chi governa. La mancata piena realizzazione di questi presupposti spiega già in parte l’incrinatura del modello. Oggi tale crisi si è approfondita per una serie concatenata di fattori: la globalizzazione economica e l’affermazione del neoliberismo hanno creato potentati economico-finanziari multinazionali sottratti a qualsiasi controllo democratico e capaci di condizionare le politiche degli Stati nazionali, si sono formati imperi mediatici, spesso controllati dalle stesse forze plutocratiche, che monopolizzano l’informazione e manipolano l’opinione pubblica. A ciò si aggiunge, specificamente per il contesto italiano, lo spostamento del baricentro informativo dalla stampa scritta, la quale favorisce pause e riletture, al flusso continuo e meno riflessivo della televisione e dei social. La crescente complessità tecnica dei problemi sociali induce poi una delega a caste tecnocratiche mentre l’aggravarsi delle disuguaglianze socio-economiche, prodotto delle politiche neoliberiste, mina alla base l’equità delle opportunità formative. Infine, i partiti hanno abbandonato le forme organizzative strutturate e il radicamento territoriale per un rapporto episodico e mediatico con gli elettori, concentrato sui periodi elettorali.
La conseguenza di questa crisi è una metamorfosi della cittadinanza, il cittadino attivo e riflessivo cede il passo a un cittadino passivo e superficiale, ridotto al ruolo di consumatore politico che sceglie in modo emotivo ed epidermico tra offerte elettorali, basandosi su un’informazione spettacolarizzata. Di fronte a questo scadimento diventa indispensabile individuare le condizioni per rilanciare una cittadinanza critica, consapevole e disponibile all’impegno. Alcune di queste condizioni, come riportare sotto controllo democratico i potentati economico-finanziari e mediatici, richiedono concertazioni politiche internazionali e non sono riconducibili direttamente alla formazione ma la questione formativa riemerge con forza anche in relazione a queste sfide. Si pensi all’invito a contrapporre alla manipolazione mediatica l’informazione policentrica della rete, la quale, pur con i suoi limiti e rischi (come la sovrabbondanza di dati e la disinformazione), genera a sua volta nuovi bisogni formativi, come la capacità di selezionare fonti, valutarne l’attendibilità e incrociare le informazioni.
Accanto a interventi di politica macro, sono dunque essenziali esperienze che rivitalizzino la partecipazione dal basso. I modelli di democrazia partecipativa e deliberativa, sperimentabili a livello di governi locali, propongono di affiancare alla rappresentanza forme di coinvolgimento diretto dei cittadini in decisioni di rilevanza comunitaria, attraverso dibattiti assembleari ben informati. Queste prassi, oltre a produrre presumibilmente decisioni migliori e più legittimate, promuovono competenze civiche specifiche: la capacità argomentativa, l’ascolto, la tolleranza verso opinioni diverse, costituendo così un dispositivo di formazione permanente del cittadino. Anche qui, però, la dimensione formativa preliminare è cruciale poiché a trarre pieno profitto da tali esperienze sono tendenzialmente coloro che già possiedono un certo bagaglio d’istruzione e padronanza discorsiva, rischiando altrimenti di acuire le disuguaglianze di partecipazione.
La formazione del cittadino si rivela quindi una condizione necessaria, anche se non sufficiente, per la qualità della vita democratica. Nella democrazia rappresentativa il cittadino è chiamato a svolgere almeno due compiti fondamentali, cioè controllare i governanti ed esprimere segnali di consenso o dissenso oltre a partecipare, attraverso le associazioni, al processo democratico contribuendo all’elaborazione di proposte. Per assolverli deve possedere un insieme complesso di conoscenze (su un ampio spettro culturale per comprendere problemi complessi), competenze (logico-linguistiche, storiche, scientifiche per decodificare le informazioni) e, soprattutto, abiti mentali coerenti con l’ethos democratico, ad esempio orientamento al dialogo, tolleranza, apertura alla diversità. Come chiarito dal paradigma dello sviluppo umano di Sen, l’acquisizione di queste competenze (capabilities) deve però essere accompagnata da adeguate chances di vita, risorse e diritti di accesso, il che richiede un’azione politica volta a garantire eque opportunità per tutti.
La formazione del cittadino è dunque un processo permanente che si alimenta attraverso la stessa partecipazione attiva alla vita democratica. Per poter partecipare in modo proficuo è necessario possedere un livello iniziale d’istruzione. La scuola ha quindi il compito cruciale di fornire questa formazione iniziale ma non attraverso l’aggiunta di una materia specifica (come l’educazione civica, pur auspicabile), bensì perseguendo un meta-obiettivo, un esito di lungo termine dell’intera esperienza scolastica. Le conoscenze e le competenze necessarie sono infatti trasversali alle discipline e gli abiti mentali si strutturano collateralmente al loro apprendimento. Per fondere questi elementi in un’unità coerente non basta una somma di saperi, serve che l’intero contesto scolastico funzioni come un crogiolo democratico. Esperienze come l’autogoverno delle classi, pur con i loro limiti (la necessità di fasi di autoritarismo dinamico e l’imprescindibile competenza tecnica del docente), possono contribuire. Il contesto democratico è dato dall’insieme: dallo spirito di dialogo, dalla regolazione dei conflitti attraverso la discussione, dalla legittimazione della conoscenza tramite ragioni e prove, da un atteggiamento critico e scientifico, da inclusività, cooperazione e tolleranza. È in un simile ambiente che, a lungo termine, si struttura la prima mentalità del cittadino.
Riguardo al principio educativo specifico Baldacci opera una sintesi tra diverse posizioni. Martha Nussbaum lega la formazione del cittadino a quella umanistica, ponendo al vertice lo spirito critico socratico. Gramsci, con una visione più equilibrata, insiste sulla necessità di formare il cittadino come potenziale dirigente attraverso sia la cultura tecnico-scientifica che quella storico-umanistica, sottolineando però il ruolo prioritario di quest’ultima per la dimensione propriamente politica. Dewey, infine, stabilisce un nesso profondo tra l’ethos democratico e l’abito scientifico inteso come pensiero riflessivo, empirico, intersoggettivo e auto-correttivo. Integrando queste prospettive il principio educativo per la formazione del cittadino deve ricomporre la frattura tra le due culture. A un primo livello (complementarità delle conoscenze), umanistico e scientifico forniscono chiavi interpretative complementari per problemi complessi (pensiamo alla questione ambientale). A un secondo livello (complementarità delle mentalità), si coltivano congiuntamente l’attitudine critico-umanistica e il pensiero riflessivo-scientifico, evitando unilateralità. A un terzo livello, l’esposizione prolungata a entrambi i tipi di ragionamento previene la cristallizzazione di abiti mentali rigidi, favorendo un’intelligenza generale, astratta e flessibile, indispensabile sia al cittadino per comprendere e deliberare su problemi complessi, sia al produttore negli scenari dell’economia della conoscenza.
Questa convergenza ideale tra formazione del cittadino e formazione del produttore verso l’uomo completo si scontra però con una contraddizione persistente: la carenza di democrazia economica. Nonostante progressi normativi, l’impresa rimane un’istituzione fondamentalmente autocratica e gerarchica. Le filosofie manageriali del coinvolgimento concedono autonomia solo sui mezzi, non sugli obiettivi. Una democratizzazione più avanzata, verso forme di co-determinazione che includano i lavoratori nella definizione di obiettivi e organizzazione, non sarebbe solo giusta ma, come intuì Gramsci, potrebbe accrescere la produttività attraverso l’auto-disciplina. La scuola, ispirandosi al valore costituzionale della democrazia, ha il compito impegnativo di preparare i presupposti culturali e mentali per questa espansione democratica in ogni sfera, formando sia il cittadino come potenziale dirigente politico, sia il lavoratore come potenziale dirigente d’impresa. Dare a tutti una “formazione da dirigente” non garantisce che tutti lo diventino ma dota ciascuno degli strumenti per contribuire al processo decisionale, controllare i rappresentanti e alimentare la propria formazione permanente.
3. Il paradigma di scuola di Baldacci
Il concetto di piano strutturale si riferisce all’organizzazione del percorso formativo complessivo in una serie di gradi e cicli scolastici tra loro interconnessi e in continuità. La scuola dell’infanzia deve essere considerata a pieno titolo il primo segmento di questo sistema e non un semplice servizio socio-educativo. Un suo curricolo ben strutturato può portare a traguardi di sviluppo fondamentali per tutti gli apprendimenti successivi. L’istituzione della scuola materna statale nel 1968 fu una riforma cruciale ma la sua portata rimane limitata. Data la disomogeneità degli ambienti sociali di provenienza dei bambini è necessario completare questa riforma prevedendo l’obbligatorietà della scuola dell’infanzia, almeno per l’ultimo anno ma preferibilmente per l’ultimo biennio, e adottando tutte le misure per la sua piena generalizzazione sul territorio nazionale. Questo intervento è indispensabile per creare un’utenza d’ingresso alla scuola primaria più omogenea e meglio equipaggiata dei prerequisiti fondamentali, approssimando così una parità delle opportunità formative iniziali e rimuovendo quegli svantaggi cognitivi e culturali che penalizzano alcuni bambini fin dall’inizio.
La scuola primaria, a sua volta, non deve essere vista come limitata a un’astratta educatività ma deve essere intitolata a una forte alfabetizzazione di base che costruisca una solida piattaforma per gli apprendimenti disciplinari. Ciò richiede la promozione della padronanza sia degli strumenti culturali tradizionali, come leggere e scrivere, sia di quelli elettronici legati ai nuovi media, favorendo l’emergere di competenze e abiti mentali specifici. Si tratta anche di introdurre il bambino alle forme cognitive proprie dei due assi culturali fondamentali, quello storico-linguistico e quello matematico-scientifico, garantendo conoscenze fondamentali e l’avvio alla costruzione di competenze in questi domini. Per tutelare questo nesso tra educazione e istruzione non bastano adeguati curricoli, è essenziale anche una corretta articolazione delle figure di docenza. Il maestro unico è un grave regresso poiché un singolo docente difficilmente può padroneggiare entrambi gli assi culturali. È invece necessario prevedere insegnanti specializzati in un asse culturale, pur dotati di una preparazione pluridisciplinare, per elevare la qualità dei processi di alfabetizzazione culturale. Un’organizzazione didattica efficiente potrebbe articolarsi su moduli di due docenti su due classi parallele o consecutive, dove ciascun docente insegna la propria area disciplinare su due classi, mantenendo il rapporto di un docente per classe senza aggravi di spesa, e aprendo eventualmente a dotazioni aggiuntive per interventi individualizzati.
La scuola media costituisce il segmento nel quale il nesso educazione-istruzione si ristruttura a partire da un’istruzione pienamente articolata nei differenti saperi disciplinari. La sua unificazione è stata la più importante riforma di struttura della Repubblica, cruciale per la democratizzazione e per evitare un precoce e subalterno avviamento professionale. Il suo compito è garantire a tutti le conoscenze e competenze fondamentali dei diversi saperi e permettere a ciascuno di orientarsi consapevolmente nella scelta della scuola secondaria superiore. Essa incontra notevoli difficoltà nell’assolvere questi compiti, difficoltà che hanno una triplice radice. In primo luogo, una non piena adeguatezza dei livelli di alfabetizzazione prodotti dalla scuola primaria, specialmente nell’area matematico-scientifica, che richiede la specializzazione disciplinare dei docenti e l’adozione del modulo didattico sopra descritto. In secondo luogo, vi è un deficit di cultura didattica nei docenti secondari, spesso poco sensibili alla necessità di garantire a tutti gli apprendimenti basilari attraverso pratiche individualizzate. Infine una certa rigidità del curricolo che per svolgere una vera funzione orientativa dovrebbe prevedere, accanto a una parte comune obbligatoria, alcune parti opzionali, permettendo all’alunno di personalizzare il proprio percorso in senso umanistico o scientifico ma sempre evitando una separazione tra direzione intellettuale e pratica.
Per la scuola secondaria superiore si prospetta la necessità di una svolta decisiva verso una deprofessionalizzazione, rafforzando le sue valenze formative e culturali generali in linea con le esigenze di un’economia della conoscenza e di una democrazia cognitiva. È necessario superare, o quantomeno ridurre sensibilmente, la distinzione tra scuole di cultura, come i licei, e scuole di formazione professionale che riflette una anacronistica separazione tra la formazione dei ceti dirigenti e di quelli subalterni. La formazione del cittadino e del produttore esige invece la preparazione di tutti gli individui come potenziali dirigenti. Occorre pertanto una scuola secondaria unitaria che, pur articolandosi in indirizzi diversi, mantenga un’area comune trasversale dedicata ai due assi culturali fondamentali, garantendo standard formativi comuni in termini di materie, monte orario e traguardi culturali. Questa base culturale comune deve assicurare una formazione completa. In coerenza con l’indirizzo scelto la scuola secondaria deve anche promuovere una specifica forma di mentalità, umanistica o scientifica, come fondamento delle scelte future. In questa fase storica appare ragionevole distinguere tra obbligo scolastico, da limitare ai sedici anni, e obbligo formativo, esteso ai diciotto anni e realizzabile anche nella formazione professionale. Questo perché l’utenza in ingresso è ancora resa disomogenea dalle debolezze dell’alfabetizzazione di base e dalle disuguaglianze sociali. Raggiungere una parità degli esiti a sedici anni deve essere una prima tappa verso un obbligo scolastico esteso ai diciotto che richiederà un irrobustimento dell’istruzione primaria e media. La secondaria dovrebbe inoltre essere integrata a valle da corsi post-diploma professionalizzanti per chi non prosegue gli studi universitari.
Il discorso si estende poi al piano didattico, definito come l’insieme di misure per realizzare gli obiettivi della scuola. Rispetto ai traguardi curricolari due sono le misure fondamentali: l’integrazione di individualizzazione e personalizzazione e la combinazione di trasmissione culturale e pratiche di ricerca. L’individualizzazione mira a garantire a tutti il possesso delle conoscenze e competenze fondamentali per la cittadinanza attiva mentre la personalizzazione permette a ognuno di sviluppare le proprie specifiche potenzialità e inclinazioni professionali. Sono misure complementari e il loro equilibrio va riferito all’intero percorso. Nei primi gradi prevale l’esigenza dell’individualizzazione mentre nei gradi secondari si realizza un equilibrio con la personalizzazione che nella media serve per l’orientamento e nella superiore si esprime attraverso l’area di indirizzo specifica. L’uguaglianza perseguita dall’individualizzazione non è assoluta ma di soglia. Tutti devono raggiungere certi livelli minimi, oltre i quali è legittimo che ciascuno eccella in campi diversi. La personalizzazione, a sua volta, va liberata da un’interpretazione naturalistica e deterministica delle doti personali, vedendo le inclinazioni come il risultato fluido di un’interazione complessa tra fattori genetici, ambientali e scelte personali. La seconda misura didattica cruciale è la combinazione della trasmissione delle conoscenze, necessaria per conservare il patrimonio culturale, con l’introduzione alle pratiche di ricerca specifiche dei vari saperi. Impegnare gli alunni nella soluzione di problemi e nella produzione di elaborati propri di ciascun dominio culturale permette di sviluppare competenze, abiti mentali e una forma d’intelligenza flessibile, capace di affrontare contesti problematici mutevoli che è l’esito collaterale di lunga durata dell’esperienza di differenti tipi d’indagine.
Il piano istituzionale riguarda l’identità della scuola come agenzia formativa e la questione della sua natura democratica. Storicamente si è passati dal tentativo fascista di fare della scuola un apparato ideologico gerarchico e autoritario a un processo di democratizzazione avviato con la Repubblica ma spesso contrastato. Il movimento del 1968 e i Decreti delegati, in particolare il DL 416/1974, posero le basi per l’idea della scuola come comunità democratica, aperta alla partecipazione sociale, sebbene la pratica si sia scontrata con ostacoli e delusioni. Questo paradigma rimane l’unico consono a un paese democratico, in coerenza con gli scopi costituzionali della scuola. Negli ultimi decenni a questo paradigma si è contrapposto un tentativo di cambiamento radicale che propone la metafora della scuola come azienda, giustificata da esigenze di efficienza e produttività. Se un innesto di alcuni strumenti della logica d’impresa può essere utile per superare una gestione puramente burocratica, la sostituzione della cornice comunitaria con quella aziendalista è fuorviante e pericolosa. Un’azienda è un’organizzazione strumentale e monocratica che ripristina rapporti gerarchici e rischia di compromettere il carattere democratico della gestione, favorendo un verticismo decisionista del dirigente-manager. Ciò potrebbe nascondere un tentativo di formare docili produttori piuttosto che cittadini critici. In opposizione a questa deriva la scuola deve essere concepita come una comunità democratica, come teorizzato da Dewey, dove il principio della democraticità informa tutti i livelli, da quello educativo a quello organizzativo. L’efficienza non è un valore in sé ma un vincolo all’interno di un processo decisionale che deve rimanere democratico e partecipato. In questa cornice la funzione essenziale del dirigente scolastico non è manageriale ma pedagogica. Il suo compito è favorire la crescita degli insegnanti attraverso un rapporto pedagogico, stimolandone una partecipazione attiva e consapevole al processo democratico-deliberativo. Solo così l’autonomia scolastica diventa autodeterminazione della comunità e il dirigente si trasforma nel catalizzatore e animatore di questo processo, puntando all’efficacia formativa che è l’anima stessa dell’istituzione scolastica.
Il piano deontologico rappresenta la dimensione etico-pubblica della scuola, vista come istituzione il cui agire deve ispirarsi a criteri di giustizia, ponendo quindi il problema fondamentale di una scuola giusta. Nell’attuale epoca caratterizzata dall’egemonia neoliberista il concetto di meritocrazia si è imposto come uno spettro che permea tutte le sfere sociali, incluso il sistema formativo. Per affrontare questa questione è necessario esaminare il problema del merito mettendolo in relazione con una costellazione concettuale più ampia che incorpora capacità, bisogni e diritti. Il merito si colloca all’incrocio di due principi cardine: l’equità e l’efficienza. La nostra organizzazione sociale non può prescindere da nessuno dei due poiché un’efficienza priva di equità genera una società opulenta ma ingiusta mentre un’equità svincolata dall’efficienza condurrebbe solo a una miseria distribuita in modo imparziale. L’obiettivo è piuttosto quello di raggiungere un ragionevole benessere, equamente diffuso, che funga da base per adeguate opportunità di vita per tutti.
In tale quadro il merito viene proposto sia come fattore di efficienza sistemica, sia come criterio di giustizia distributiva. Premiarlo appare dunque come un atto giusto e, simultaneamente, funzionale a garantire l’efficienza del sistema. Se la struttura sociale è organizzata per compensare adeguatamente il merito, si incentivano gli individui a impegnarsi per sviluppare le proprie capacità e fornire prestazioni di qualità. Parallelamente sembra giusto che ciascuno riceva una ricompensa proporzionale al merito acquisito attraverso impegno e capacità dimostrate. Questa, in sintesi, è la concezione comune che necessita però di un’analisi teorica approfondita, in particolare mettendo a confronto due criteri di giustizia: il merito e il bisogno. Il “merito” consiste nell’aver reso una prestazione adeguata, guadagnandosi per questo un riconoscimento. Esso non coincide con la capacità astratta ma con la capacità concretamente dimostrata nell’esecuzione di un compito, includendo quindi anche la dimensione dell’impegno profuso. Il “bisogno”, nel suo significato ordinario, è legato alla mancanza di qualcosa di necessario o opportuno. Una sua teoria è complessa poiché i bisogni hanno un’evoluzione storica e non possono essere limitati alle sole necessità naturali elementari ma devono includere anche esigenze umane superiori, come il bisogno di consumi culturali essenziali per la qualità della vita. La giustizia sociale può adottare come criterio tanto il merito quanto il bisogno ed entrambi colgono aspetti parziali della nostra intuizione di giustizia, suggerendo l’opportunità di una loro combinazione.
Rispetto a questo dibattito, le teorie socialista e liberale non sono rigidamente schierate su fronti opposti. Un classico riferimento è Karl Marx che nella Critica del programma di Gotha assegna i due criteri a fasi storiche distinte. Nella prima fase della nuova società, anche superato il capitalismo, la distribuzione rimane legata al merito, secondo il principio “a ciascuno secondo il suo lavoro”, un’uguaglianza di tipo anti-livellatore e proporzionale alla prestazione, riflettendo una posizione simile a quella di Rousseau che individua la giustizia nei “servizi reali” resi alla collettività. Per Marx questa soluzione permane nell’alveo del diritto borghese, ignorando sia le disparità di capacità individuali che quelle di bisogni, legate ad esempio alle differenze familiari. Solo in una seconda fase, quella propriamente comunista, si potrà realizzare il principio “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Per questa transizione Marx pone tre condizioni stringenti: il lavoro deve diventare esso stesso un bisogno vitale e non una mera necessità, deve realizzarsi uno sviluppo omnilaterale delle forze produttive e, di conseguenza, la ricchezza collettiva deve crescere in modo abbondante. Poiché tali condizioni sono molto impegnative e attualmente non sussistono, una distribuzione puramente basata sul bisogno non è praticabile. Il criterio del merito, inteso come proporzionalità alla prestazione lavorativa, risulta dunque necessario non solo di per sé ma anche come condizione per generare quella ricchezza che poi può essere redistribuita tenendo conto dei bisogni. Sviluppando le posizioni marxiane ne consegue che oggi rispettare il merito è la condizione necessaria per includere meccanismi redistributivi basati sul bisogno, a patto di caratterizzare il merito in senso rousseauiano (come servizio effettivo alla collettività) e di adottare una teoria dei bisogni che vada oltre quelli elementari, includendo anche le esigenze di libero sviluppo della personalità.
Anche all’interno del pensiero liberale si trovano sviluppi analoghi. John Rawls, in Una teoria della giustizia, nega la priorità del merito ed esprime la giustizia attraverso il concetto di equità, formalizzato nel principio di differenza. Tale principio legittima le disuguaglianze distributive solo se, producendo una maggiore ricchezza sociale, migliorano le condizioni dei meno favoriti rispetto a uno scenario di distribuzione egualitaria. Questa posizione può giustificare un sistema che preveda incentivi al merito ma solo se questi sono corretti da robusti meccanismi redistributivi a favore dei più svantaggiati, fornendo così una base teorica per le politiche di welfare. Michael Walzer, in Sfere di giustizia, introduce invece l’idea di “uguaglianza complessa”, secondo cui criteri di giustizia specifici devono regolare sfere sociali distinte, senza che una sfera dominante imponga il proprio criterio alle altre. Il bisogno è il criterio pertinente per l’istruzione di base, dove la scuola deve garantire a tutti competenze fondamentali, mentre il merito diventa pertinente per l’istruzione superiore. Walzer aggiunge che i titoli superiori dovrebbero generare differenze di prestigio nel campo culturale ma non tradursi automaticamente in disuguaglianze economiche o politiche, per evitare che una sfera signoreggi sulle altre.
L’ipotesi complessiva che emerge è quindi quella di adottare il criterio del merito ma corretto e integrato da meccanismi redistributivi basati sul bisogno, essenziali per una compiuta equità sociale e per preservare la coesione della società che verrebbe erosa da un sistema puramente meritocratico che premia pochi e abbandona molti alla miseria. Un’analisi completa non può limitarsi alla sola distribuzione del prodotto sociale ma deve considerare almeno tre livelli interconnessi: la distribuzione delle capacità, la distribuzione dei ruoli produttivi e, appunto, la distribuzione del prodotto.
Per quanto riguarda la distribuzione delle capacità, occorre superare l’idea che siano mere doti naturali, frutto di una “lotteria genetica”. Il vero problema è la costruzione di ambienti formativi in grado di stimolare ottimamente lo sviluppo delle capacità per tutti poiché le disuguaglianze sociali di partenza incidono profondamente su tali possibilità. Non vi è alcun merito nell’essere nati in un contesto avvantaggiato ed è ingiusto che alcuni subiscano i limiti di ambienti sfavoriti. La scuola “giusta”, sull’esempio dell’elaborazione pedagogica di Don Milani, ha quindi il compito primario, soprattutto nell’obbligo, di colmare le disuguaglianze, assicurando a tutti il diritto a una piena formazione e allo sviluppo ottimale delle capacità. Questo è un presupposto fondamentale anche per una meritocrazia autentica che si fonda sull’uguaglianza delle opportunità: se la gara è truccata fin dalla partenza, il risultato non riflette il merito. La scuola dell’obbligo deve quindi tendere a pareggiare le condizioni di partenza. Successivamente, nell’istruzione superiore, come suggerito da Walzer, può e deve valere il criterio del merito per l’accesso a opportunità formative avanzate e selettive, dove contano sia le capacità raggiunte che la dedizione per svilupparle.
Passando alla distribuzione dei ruoli produttivi, cioè all’assegnazione degli impieghi professionali, si supponga di aver realizzato una parità di base e di aver coltivato i talenti attraverso un sistema meritocratico. In un modello ideale meritocratico, l’accesso ai diversi posti di lavoro dovrebbe essere regolato non solo dalla pertinenza delle competenze ma anche dal livello di eccellenza raggiunto, quindi rigorosamente in base al merito personale. Sebbene l’applicazione pura di questo criterio rischi di minare la coesione sociale creando una massa di frustrati, una sua versione controbilanciata da misure di equità può essere uno stimolo all’impegno e una garanzia contro le discriminazioni basate sulla provenienza sociale.
Per la distribuzione del prodotto sociale la ripartizione della ricchezza dovrebbe seguire il criterio del merito, inteso come retribuzione proporzionale al servizio effettivamente reso, ma essere bilanciata da un solido meccanismo redistributivo basato sul bisogno che tenga conto anche delle esigenze di libero sviluppo umano, ad esempio attraverso servizi di educazione permanente.
Per chiarire le implicazioni di queste riflessioni Baldacci contrappone due modelli ideali. Il primo è il modello del merito temperato: la scuola dell’obbligo garantisce le capacità fondamentali a tutti, rimuovendo le disuguaglianze di partenza, i ruoli produttivi sono assegnati rigorosamente in base al merito oggettivo (competenza ed eccellenza), rendendo possibile la mobilità sociale sia ascendente che discendente. Il prodotto sociale viene distribuito secondo il merito ma integrato da una redistribuzione basata su bisogni e diritti. Questo modello promuove efficienza, giustizia e coesione sociale. Il secondo è il modello dei privilegi acquisiti: la scuola dell’obbligo non colma le disuguaglianze, mistificando i vantaggi sociali come meriti naturali, i ruoli produttivi sono assegnati per favoritismi familiari e reti di conoscenza, bloccando la mobilità sociale, la distribuzione della ricchezza avviene in base a rendite di posizione, con meccanismi redistributivi assenti o minimali. Questo modello genera inefficienza, ingiustizia, frustrazione diffusa e disgregazione sociale.
La conclusione è purtroppo che l’Italia assomiglia molto più al secondo modello, affetta da una doppia iniquità perché non si riconoscono adeguatamente i bisogni e non si premiano i veri meriti. Il risultato è una società che non è né giusta né efficiente, dove spesso i privilegi e le rendite di posizione si ammantano di una retorica meritocratica di facciata, mortificando i meriti autentici e rivelando i limiti della vulgata neoliberista. Recuperare un concetto autentico di merito, in dialettica con l’equità, può essere un principio di progresso. Tuttavia è imprescindibile ricordare che qualsiasi sistema meritocratico poggierebbe su basi false se non fosse preceduto da un’equa distribuzione delle competenze. Pertanto il compito primo e irrinunciabile di una scuola giusta è garantire il diritto all’uguaglianza delle opportunità formative, assicurando a tutti, nel ciclo dell’obbligo, le conoscenze e le competenze fondamentali per competere in condizioni di parità. Solo su queste solide fondamenta di equità, il merito autentico può poi essere legittimamente riconosciuto e valorizzato.
