Utilizzando il volume di Italo Insolera e Paolo Berdini Roma moderna. Due secoli di storia urbanistica intendiamo ricostruire la storia urbanistica di Roma dal secondo dopoguerra ad oggi.
- Lo sviluppo urbano di Roma negli anni ‘50
Il trauma del primo bombardamento di Roma il 19 luglio 1943, con le bombe che distrussero delle case popolari a San Lorenzo e colpirono la Città Universitaria e la basilica di San Lorenzo, segnò la fine violenta di un’illusione collettiva: quella che la guerra, nonostante le sue avvisaglie come le file per i viveri e le statue imballate, avrebbe risparmiato la città eterna per merito della presenza del Papa. Questa fragile convinzione fu spazzata via in poche settimane dalla caduta del fascismo il 25 luglio, dall’armistizio dell’8 settembre e dal problematico sbarco alleato ad Anzio, riducendo Roma, nonostante il formale riconoscimento di “città aperta”, alle condizioni di un centro di retrovia, dove gli autobus cessarono di funzionare e il commercio si spostò progressivamente dai negozi alla borsa nera tollerata sui marciapiedi. Con l’arrivo degli Alleati il 4 giugno 1944 e l’insediamento dell’amministrazione militare americana guidata da Charles Poletti si aprì la lenta e complessa transizione verso il dopoguerra. Un problema immediato e cruciale fu la struttura amministrativa della città: il Governatorato, creazione giuridica del fascismo, era chiaramente incompatibile con un sistema democratico. Il governo Bonomi avviò studi per un ordinamento provvisorio ma si optò infine, con un decreto del 17 novembre 1944, per sopprimere il Governatorato e riassoggettare Roma alla legge comunale generale del 1915, una scelta che non era priva di rischi data l’arretratezza di quella normativa. In questo contesto il principe Filippo Andrea Doria Pamphilj, uno dei rari aristocratici antifascisti, divenne il primo sindaco della Roma liberata, rimanendo in carica fino alle prime elezioni democratiche del dicembre 1946.
Parallelamente alla transizione amministrativa si avviò una profonda revisione critica della politica urbanistica fascista. Il piano regolatore del 1931, concepito per imprimere a Roma “l’orma indelebile della nuova civiltà fascista”, era evidentemente anacronistico. Inoltre gli anni di guerra e borsa nera avevano costretto i romani a riscoprire e percorrere interamente la loro città, dalle rovine di San Lorenzo alle borgate più lontane, creando una consapevolezza nuova e un bisogno di prossimità che aveva stravolto i rigidi schemi sociali prebellici. In questo clima la Commissione urbanistica comunale, in una relazione del 25 novembre 1946, dichiarò esplicitamente superata l’impostazione del piano del ’31, ponendo per la prima volta il traffico al primo posto delle priorità e abbandonando le sistemazioni ispirate a una “falsa grandiosità”. Un gruppo di urbanisti fu incaricato di studiare un piano di arterie di scorrimento rapido, introducendo il principio innovativo di un piano aperto, con strade tangenziali che lambissero la città senza chiuderla in una circonvallazione anulare.
Questo slancio riformatore si scontrò con potenti interessi costituiti. L’Istituto Nazionale di Urbanistica (Inu) denunciò l’inadeguatezza del piano del ’31, dei suoi 118 piani particolareggiati e del regolamento edilizio, individuando nel nodo della proprietà fondiaria e nella mancanza di una politica economica delle aree il problema chiave. Si aprì un dibattito tecnico-amministrativo, abilmente sfruttato dai grandi proprietari terrieri che nel 1953 risultavano possedere superfici immense: Romolo Vaselli oltre 10 milioni di mq, i Lancellotti 7,2 milioni, la Società Generale Immobiliare 6,7 milioni e così via. In un convegno cruciale all’Unione Romana Ingegneri Architetti figure come Virgilio Testa e Plinio Marconi sostennero con argomenti tecnici la necessità di mantenere in vita la legge del 1932 e di proseguire con i piani particolareggiati, facendo decadere qualsiasi ragione ideologica di rottura. La proposta di Ludovico Quaroni, che invitava a redigere nuove leggi prima di un nuovo piano, rimase inascoltata. Il risultato fu che, fino alla scadenza formale del piano nel 1965, si continuò a produrre una valanga di piani particolareggiati e varianti (si passò da 118 a 167 piani e circa 250 varianti) che perpetuavano e aggravavano le tendenze anteguerra: aumento delle altezze, aumento della densità, riduzione del verde, assenza di coordinamento. L’amministrazione Rebecchini portò avanti l’attuazione del piano fascista, completando opere simbolo come via della Conciliazione e aprendo via Gregorio VII che comportò lo sventramento di via Giulia e avviò l’espansione speculativa verso ovest. Anche la nuova stazione Termini, progettata prima della guerra, fu completata per il Giubileo del 1950, perdendo l’occasione per un arretramento che avrebbe permesso un riassetto funzionale dell’intera area. Nel frattempo Roma era alle prese con una colossale emergenza abitativa. La popolazione era esplosa, passando da 1.155.722 abitanti nel 1936 a 1.651.754 nel 1951, con un’immigrazione post-bellica di oltre 360.000 persone. Il censimento del 1951 rivelava che 106.497 alloggi mancavano all’appello, il 6,6% delle abitazioni erano baracche e il 21,9% delle famiglie viveva in coabitazione. A fronte di questa immane richiesta lo Stato intervenne principalmente attraverso l’Ina-Casa, istituita con la legge Fanfani del 1949, che realizzò a Roma nove quartieri, per un totale di 54.433 vani, come il Tiburtino (progetto di Ridolfi e Quaroni) e il Tuscolano, dando una forma architettonica razionalista alla periferia est. L’iniziativa privata rimase dominante agendo secondo due linee: la saturazione e trasformazione dei quartieri esistenti (come ai Parioli, dove le palazzine soppiantarono i villini, stravolgendone l’ambiente) e l’urbanizzazione di nuove aree periferiche prive di servizi, i cui costi ricadevano in gran parte sul Comune. I grandi interventi pubblici funsero da volano per la speculazione privata. I terreni dei Gerini e dei Lancellotti, ad esempio, videro il loro valore moltiplicarsi da 1000-3000 lire al mq a 20.000-25.000 lire al mq dopo la costruzione dei quartieri Ina-Casa.
Il risultato di questa assenza di pianificazione fu un’espansione caotica e iper-densa, specialmente nel settore est tra Prenestina e Appia, dove per otto chilometri si susseguivano ininterrottamente “canyon” di case intensive, con densità che in alcune zone, come attorno a via Santa Maria Ausiliatrice, raggiungevano i 1219 abitanti per ettaro, privi di parchi e servizi. La legge del massimo sfruttamento finì per contrabbandare una parvenza di vita cittadina, con negozi e cinema, a scapito del benessere fisico e psichico degli abitanti. Anche l’espansione a ovest, verso Monteverde e oltre il Gianicolo, e a nord, con i quartieri signorili di Monte Mario e della Camilluccia costruiti dalla Società Generale Immobiliare, replicò questo modello, offrendo un comfort privato di lusso ma un comfort urbanistico collettivo pressoché nullo. Ai margini di questa città del cemento persistette in modo cronico e drammatico il problema delle baracche. Nel 1957 si censivano ufficialmente 54.576 persone che vivevano in 28 accantonamenti, 24 borghetti e 356 nuclei di baracche, da quelle lungo la Nomentana e la ferrovia Roma-Firenze a quelle annidate negli archi degli acquedotti al Mandrione. Questa periferia miserabile, descritta nel film Il Tetto di De Sica, rappresentava l’altra faccia e la conseguenza diretta di uno sviluppo urbano lasciato in balia della speculazione più sfrenata, dove le baracche scomparivano solo per far posto a case in cui gli ex baraccati non potevano permettersi di abitare, ricomparendo poco più in là, in un ciclo senza fine.
Dopo il 1945 l’attività edilizia a Roma rimase ancorata alla legislazione e agli strumenti amministrativi del periodo fascista, creando l’illusione di una continuità senza traumi tra il regime e la Repubblica. In realtà il panorama era profondamente mutato, come dimostrò una serie di episodi crescenti d’importanza che rivelarono l’emergere di forze sociali, culturali e politiche prima inesistenti o inesprimibili, con cui qualsiasi azione urbanistica doveva ormai fare i conti. Il primo segnale di questo nuovo clima si ebbe tra l’autunno del 1951 e l’estate del 1952 con la vicenda di via Vittoria. Il piano del 1931 prevedeva uno sventramento radicale della zona e, nonostante il nuovo piano particolareggiato del 1951 avesse ridotto le demolizioni, si trattava pur sempre di un’operazione distruttiva dall’Augusteo a via Veneto. Il principio della conservazione integrale del centro, tuttavia, si era ormai radicato scatenando la reazione della stampa. Il 19 luglio 1952 un gruppo di intellettuali fece appello al Consiglio superiore dei Lavori pubblici che il 2 agosto sospese il piano, salvando via Vittoria e scongiurando il pericolo che simili sventramenti potessero avvenire per ordinaria amministrazione, come era accaduto due anni prima a via Giulia. Il secondo episodio, di portata più ampia, ebbe per protagonista via Appia Antica a partire dall’autunno del 1953. Il piano del 1931 prevedeva vincoli generici e ampiamente violabili. Il 20 dicembre 1952 la Commissione provinciale per la tutela delle bellezze naturali estese il vincolo all’intero panorama ma senza effetto retroattivo, il che non impedì gli abusi già perpetrati. La stampa, con articoli di Cederna su Il Mondo e una serie di interviste su Il Giornale d’Italia, tenne alta l’attenzione. Il 2 aprile 1954 il ministro della Pubblica Istruzione insediò una commissione per un piano paesistico, presieduta da Umberto Zanotti-Bianco, mentre l’assessore comunale Storoni promosse una variante al piano particolareggiato n. 141 che prevedeva la “completa trasformazione” della zona del “Domine Quo Vadis”, variante approvata dopo una lunga lotta il 9 novembre 1954. Mostre nella Protomoteca e a Palazzo Venezia tentarono di sensibilizzare l’opinione pubblica ma il piano paesistico definitivo, quando divenne legge, si rivelò incredibilmente meno vincolante del previsto. A differenza di via Vittoria la battaglia per l’Appia non si concluse con una vittoria netta però mise in luce l’impegno di forze multiple e l’ampio orizzonte del dibattito. Il terzo episodio, ancor più dirompente, fu il processo Immobiliare-Espresso, scatenato da una campagna giornalistica di Manlio Cancogni sul settimanale diretto da Arrigo Benedetti a partire dall’11 dicembre 1955. Articoli dal titolo emblematico come “Capitale corrotta = nazione infetta” e “Cicicov in Campidoglio” accusavano il sindaco democristiano Salvatore Rebecchini di gravissime responsabilità amministrative e di essere il rappresentante di una clamorosa corruzione a vantaggio della Società Generale Immobiliare. Cancogni attinse a piene mani dai verbali del Consiglio comunale, citando le ammissioni dell’assessore Storoni sull’impotenza del Comune di fronte alla pressione dell’interesse privato e sull’aumento del valore delle aree fabbricabili a Roma fino al 1000%, un incremento sproporzionato rispetto a Milano e Genova, di cui il Comune non aveva tratto alcun beneficio. La Società Generale Immobiliare, accusata di aver trasformato Monte Mario in un feudo dove i regolamenti erano interpretati allegramente e le varianti al piano erano sempre a suo vantaggio, querelò per diffamazione i due giornalisti. Dopo un processo di trenta udienze la prima sentenza assolse gli imputati per insufficienza di prove ma in appello furono condannati per diffamazione. La prima sentenza riconobbe che l’Immobiliare era stata “enormemente beneficiata” da una variante che le aveva fruttato miliardi e che esistevano “acquiescenza e soggezione” dei funzionari comunali verso i grandi enti. Sebbene Rebecchini fosse solo un testimone, la sua carriera politica ne uscì distrutta: non si ripresentò alle elezioni del 1956, sostituito da Umberto Tupini. A lui e alle sue amministrazioni venne addossata la responsabilità di non aver guidato la più grande espansione di Roma, avendo accettato il permanere degli strumenti fascisti, ritardato il nuovo piano regolatore e trattato lo sviluppo urbano caso per caso, con un controllo inefficiente e succube delle pressioni private. La fine della carriera di Rebecchini coincise con la comparsa del quarto episodio: il progetto dell’albergo Hilton. L’accordo tra la catena alberghiera e l’Immobiliare per costruire un albergo da 6 miliardi di lire su un’area di 51.700 mq a Monte Mario risaliva al 4 dicembre 1954. L’Istituto di urbanistica si oppose, sostenendo che l’edificio avrebbe alterato irrimediabilmente il paesaggio collinare. Portato in Consiglio comunale il 6 febbraio 1956, nel pieno della campagna dell’Espresso, il progetto fu trattato con una precipitazione che costò a Rebecchini la poltrona. Ripresentato due anni dopo dal nuovo assessore Ugo D’Andrea e approvato il 23 settembre 1958 i lavori iniziarono nell’estate del 1960 e la mole dell’albergo si rivelò, alla fine, un danno paesaggistico anche peggiore del previsto. Il quinto episodio, Tor di Nona, ebbe inizio nel 1957 nel centro rinascimentale. Il piano del ’31 prevedeva demolizioni ma le proteste degli ordini professionali e, successivamente, della stampa, unitamente alla resistenza popolare agli sfratti, bloccarono l’operazione. Il sindaco Tupini insediò una commissione mentre la Sovrintendenza e l’Inu redassero una proposta innovativa per un “progetto pilota” di risanamento conservativo che classificava gli edifici in base al loro valore e forniva indicazioni precise su rilevamenti, finanziamenti e metodi di attuazione. Questo piano pionieristico fu accantonato e solo decenni dopo sarebbero iniziati modesti lavori di restauro.
Il sesto episodio riguardò villa Ada. Questa vasta area verde, vincolata a parco privato dal piano del ’31, fu destinata a parco pubblico con un decreto del 30 giugno 1954 ma solo la parte di 32 ettari toccata all’erede maschio passò al Comune. I restanti 84 ettari, di proprietà delle eredi femminili, rischiarono una lottizzazione che avrebbe privato la città di un polmone verde fondamentale. Al Convegno dell’Inu a Lucca del 1957 il sovrintendente Ceschi sottolineò come la dotazione di verde per abitante a Roma fosse scesa da 4,2 a 2,8 mq, ben al di sotto del minimo di 6 mq. Anche se alla fine villa Ada fu aperta tutta al pubblico pochi giorni dopo un nuovo episodio, il settimo, riaccese l’allarme sulla distruzione del verde: villa Chigi. Nonostante il vincolo paesistico del ministero della Pubblica Istruzione e il voto unanime del Convegno di Lucca, il 10 dicembre 1957 il Consiglio comunale, con i voti di Democrazia Cristiana e estrema Destra, approvò il progetto del principe Chigi che prevedeva la lottizzazione di gran parte del parco. Durante il dibattito l’assessore Lupinacci affermò che “la difesa della proprietà privata viene prima della difesa del verde” mentre il consigliere Cattani denunciò, con calcoli alla mano, che il proprietario avrebbe ricavato un utile di oltre un miliardo e seicento milioni dalle aree edificabili. Il progetto fu poi respinto dal Consiglio superiore delle Antichità e belle arti e si arenò ma il parco rimase privato. In questa vicenda emerse per la prima volta con energia l’opposizione dei proprietari frontisti che si sentivano truffati avendo pagato un prezzo elevato per le loro proprietà proprio perché affacciate sul parco. Questi sette episodi, tra il 1951 e il 1957, trasformarono l’urbanistica da questione tecnica a protagonista assoluta della cronaca e della vita civica romana. Se nelle elezioni del 1948 era un accenno platonico, in quelle del 1960 il piano regolatore, l’espansione e il traffico divennero l’argomento principale di tutti i programmi. L’opposizione chiedeva a gran voce la revisione del piano appena compilato e la Democrazia Cristiana riconosceva ormai che l’assessorato all’Urbanistica era l’assessorato chiave. La coscienza urbanistica era ormai un fatto acquisito poiché tutti avevano compreso che la qualità della vita nei decenni a venire sarebbe dipesa dalle scelte sul nuovo piano regolatore.
La storia di questo nuovo piano fu lunga e complessa. Ufficialmente avviata il 20 marzo 1953 con la creazione di un Ufficio speciale, era stata preceduta il 12 ottobre 1951 dall’approvazione di alcuni criteri generali che miravano a una città amministrativa con quartieri compenetrati nella campagna, il centro storico conservato integralmente e la creazione di zone direzionali. Per redigere il piano furono insediati una grande commissione di 79 membri e un Comitato di elaborazione tecnica (CET). Questa struttura, che confondeva i poteri tecnici, esecutivi e legislativi, si rivelò inefficace e la grande commissione si sciolse nella primavera del 1958 senza aver espresso un giudizio sul progetto di piano che il CET e l’Ufficio speciale avevano redatto e presentato il 15 novembre 1957. Quel piano si basava su tre principi: arrestare l’espansione a “macchia d’olio”, creare un “asse attrezzato” a est per decentrare le funzioni e differenziare le densità edilizie. Pur non essendo rivoluzionario, era un piano organico che faceva scelte precise. Fu criticato e infine respinto dalla maggioranza democristiana e dai suoi alleati che gli opposero la mancanza di una visione territoriale più ampia e le troppe limitazioni alla speculazione. La Giunta comunale avocò così a sé la responsabilità e produsse un nuovo piano, approvato dal Consiglio comunale il 24 giugno 1959 dopo un dibattito durato mesi. Questo piano della Giunta accentuava la struttura concentrica, potenziava l’espansione verso l’Eur e il mare e lasciava indeterminato il quadro delle espansioni nell’Agro Romano, avvicinandosi alla “Variante” del 1942, il piano-ombra delle grandi società immobiliari. Il dibattito fu aspro e ideologico, al punto che Il Messaggero condannò l’operato dell’amministrazione. Sebbene il piano fosse stato approvato, le elezioni del 1960 sancirono la sconfitta politica dei suoi principali sostenitori, come il capogruppo democristiano Lombardi, e la richiesta di una sua revisione divenne centrale nei programmi di tutti i partiti, compresa una parte della Democrazia Cristiana. I veri vincitori, in quei dieci anni di gestazione, furono coloro che, nell’assenza di un piano vincolante avevano potuto continuare a determinare lo sviluppo della città secondo logiche private mentre la struttura di Roma andava trasformandosi in modo irreversibile.
- Gli anni ‘60 tra espansione e abusivismo
La grande espansione di Roma nel decennio 1950-60 portò alla luce, in proporzioni di estrema gravità, quattro problemi fondamentali: il traffico, la carenza di verde pubblico, l’emergenza scolastica e l’inadeguatezza dei trasporti pubblici. L’aumento della popolazione non agì solo in modo diretto ma moltiplicò gli effetti di queste criticità. Per quanto riguarda il traffico, gli anni tra il ’50 e il ’60 segnarono un picco nell’indice di motorizzazione, un fenomeno che avrebbe di per sé sconvolto la circolazione anche a parità di abitanti. I provvedimenti adottati fino al 1960 furono esclusivamente settoriali e localizzati, dettati dall’empirismo e dalla necessità di sciogliere i maggiori ingorghi, come l’istituzione del “quadrilatero di scorrimento” nel centro nel 1954 o l’apertura di sottopassaggi pedonali. Questi interventi, presi singolarmente, raramente risolvevano il problema specifico e, quando lo facevano, spesso lo spostavano semplicemente in altre zone, aggravando un’impostazione di fondo sbagliata: far passare un volume di traffico crescente in una città strutturata per esigenze di residenza e commercio, dove lo “stare” è prioritario rispetto all'”andare”. Anche il problema parcheggi fu affrontato solo con palliativi come la limitazione del tempo di sosta, del tutto insufficiente.
Le crisi del verde e delle scuole, simili e con la stessa origine, furono esacerbate dal progressivo arrivo all’età scolare dei nati nel boom demografico del dopoguerra. La crisi scolastica, un problema di quantità e di ubicazione delle aule rispetto alle nuove zone di espansione, si manifestò a cascata dalle elementari fino all’università. La popolazione giovane, principale fruitrice dei parchi, si trovò così a soffrire di una doppia privazione. L’unico nuovo parco creato negli anni ’50 fu villa Ada, di 66 ettari, all’estremità nord della città. Il verde pubblico pro capite crollò a soli 2 metri quadrati per abitante, una cifra miserabile se paragonata alle altre capitali europee, rendendo Roma la capitale più povera di verde. Questi due elementi, scuola e verde, sono fondamentali secondo la sociologia moderna per trasformare un agglomerato di case in una comunità. La loro assenza o cattiva ubicazione rappresentò quindi una carenza quantitativa e un danno qualitativo irreparabile per il tessuto sociale. Anche il settore dei trasporti pubblici peggiorò progressivamente, mostrando palesemente la mancanza di una pianificazione urbanistica. La massa di persone che dipendeva dai mezzi pubblici era maggiore che altrove, data la povertà di biciclette e il fatto che motorini e automobili non fossero accessibili a tutti, specie per la categoria numericamente rilevante e soggetta a spostamenti come i muratori.
In questo scenario complesso un attore dotato di una forza straordinaria emerse come protagonista assoluto: l’E42/Eur. Dopo un periodo di commissariamento seguito alla caduta del fascismo, nel 1951 la guida fu affidata a Virgilio Testa, l’unica persona che da vent’anni aveva le idee chiarissime sul suo destino: diventare il futuro centro di Roma, come preconizzato dal piano-ombra del 1942. Grazie ai provvedimenti e ai finanziamenti statali stanziati tra il 1937 e il 1951 l’Eur era proprietario di vastissimi terreni espropriati il cui valore potenziale era diventato enorme. Oltre a questa ricchezza godeva di uno status legale ed economico speciale, essendo praticamente un organismo a sé, fuori dal piano regolatore, soggetto a un regime commissariale che gli permetteva di avere leggi e regolamenti propri, facendo gravare su altri enti gli oneri e tenendo per sé i guadagni. La tenacia di Testa fu l’elemento chiave che guidò la rinascita dell’Eur attraverso tappe precise: il prolungamento della via Cristoforo Colombo fino alle sue porte sotto la prima amministrazione Rebecchini nel 1950, il trasferimento della Fiera di Roma nell’area nel 1953, occasione in cui furono completate fogne e illuminazione e l’acqua tornò a zampillare nelle fontane, mostrando per la prima volta ai romani i terreni pronti per un quartiere residenziale, l’inaugurazione della nuova strada Pontina e il prolungamento della Colombo al mare che fecero dell’Eur un passaggio obbligato per i fine settimana e, punto di svolta decisivo, l’arrivo della metropolitana nel 1955 che attirò i primi uffici staccati del Comune, poi interi ministeri ed enti parastatali. Con gli impiegati arrivarono bar, negozi, abitazioni e il Palazzo dei Congressi divenne sede di assemblee politiche. Quando anche gli uffici urbanistici del Comune si trasferirono all’Eur il suo ruolo di protagonista dell’espansione di Roma era ormai un fatto compiuto.
L’ultima e più significativa tappa di questa ascesa coincise con le Olimpiadi del 1960. Invece di dislocare i nuovi impianti sportivi in varie zone della città per fungere da centri di quartiere dopo i Giochi, una scelta che sarebbe stata particolarmente utile nella popolosa e carente periferia est, si decise di costruire la maggior parte di essi all’Eur: il Palazzo dello Sport, il Velodromo, la Piscina delle Rose e altri campi nella zona delle Tre Fontane, completando l’area con un lago artificiale. La ragione di questa ubicazione “strana” non fu solo legata all’amministrazione dell’Eur o al desiderio di far carico a Stato e CONI delle spese ma fu resa possibile dalla legge speciale Pella del 1953. Questa legge, teoricamente un riconoscimento del concorso dello Stato agli oneri di capitale, nella pratica fornì al Comune di Roma mezzi finanziari eccezionali e generici (tre miliardi annui e 55 miliardi in mutui) senza vincolarli all’attuazione di un piano regolatore. Fu uno strumento legislativo arretrato che, svincolando le opere dalla pianificazione, permise di realizzare rapidamente e spesso malamente un “piano delle Olimpiadi” fatto di interventi non coordinati.
Le opere di questo “piano” furono molteplici e dagli esiti contraddittori. Oltre agli impianti sportivi all’Eur si realizzò il Villaggio Olimpico al Flaminio, un quartiere di 1348 appartamenti. Fu creata la via Olimpica, lo scorrimento ovest previsto dal piano-ombra, che però spezzò in due villa Doria Pamphilj, fu costellata di curve a gomito e favorì l’espansione a ovest, contro le indicazioni del piano. Contemporaneamente si costruirono o progettarono altre strade ispirate al concetto opposto: nuovi “raggi” di penetrazione verso il centro, come il viadotto di corso Francia di Pier Luigi Nervi a nord e due ponti a nord-est che convogliarono ulteriore traffico sulle consolari dirette al cuore della città, congestionando quartieri già saturi. A ovest fu progettata un’autostrada veloce per collegare i quartieri della Società Generale Immobiliare a Monte Mario, un’opera che avrebbe annullato il verde residuo e convogliato traffico su viale Mazzini. In centro il sottopassaggio di Porta Pinciana e i sottovia ai lungotevere crearono frammenti di arterie veloci pericolosamente vicini al nucleo storico, attirando nuovo traffico e provocando, insieme alla strage di alberature secolari, l’ostilità dell’opinione pubblica. Infine l’aeroporto intercontinentale di Fiumicino fu l’emblema dell’intervento settoriale e frammentario, costruito senza un adeguato collegamento viario e ferroviario che sarebbe arrivato solo molti anni dopo.
Il “piano delle Olimpiadi”, quindi, seguì una precisa idea conduttrice, ovvero utilizzare i soldi straordinari per creare una serie di opere che avrebbero obbligato qualsiasi futuro piano regolatore ad accettare le linee guida del piano-ombra del ’42, basate cioè sulla dislocazione dei grandi patrimoni fondiari privati come motore dell’espansione cittadina. In questo modo si precluse qualsiasi altra scelta urbanistica alternativa. La responsabilità fu enorme perché si posero le premesse affinché la politica urbanistica continuasse a essere quella dei grandi proprietari e degli enti immobiliari, un malcostume che divenne l’unica vera, radicata tradizione di Roma capitale, una tradizione di “presunzione e pigrizia retorica e provincialismo, ignoranza e scetticismo”.
A partire dalla fine degli anni ‘60 del Novecento il volto di Roma viene plasmato da quattro fenomeni di portata epocale che ne avrebbero definitivamente alterato l’assetto urbano e sociale. La città assiste a un profondo mutamento della sua struttura industriale, con la progressiva dismissione di un tessuto produttivo già di per sé debole, un processo accompagnato dalla terziarizzazione della prima periferia storica che a sua volta inizia a subire quel processo di spopolamento che aveva già investito il centro storico. Si tenta anche di ridurre i numerosi nuclei di baracche attraverso un incremento della costruzione di alloggi popolari mentre l’intero territorio è investito da un imponente fenomeno di abusivismo edilizio, una piaga di dimensioni senza pari nel resto d’Italia.
Il declino industriale si manifesta nonostante una vivace conflittualità operaia che porta in città, attraverso lunghi cortei di tute blu, parole d’ordine come “sciopero” e “occupazione”. Marchi come Fatme e Autovox o l’occupazione della fabbrica Apollon diventano familiari ai romani, introducendo dinamiche tipiche delle città del Nord. Questo attivismo non muta il corso di un declino inesorabile, alimentato da fenomeni di decentramento verso le aree della Cassa del Mezzogiorno come Pomezia e dalla dismissione di siti produttivi in attesa di sfruttarne il valore fondiario, come nel caso storico della Serano vicino Porta Maggiore, e da crisi più generali del sistema italiano che riducono sostanzialmente la forza dell’industria romana al solo comparto edilizio.
Questa marginalizzazione dell’industria è ancor più evidente se confrontata con l’impetuosa crescita del settore terziario. In assenza di una pianificazione che indirizzasse questa domanda verso zone direzionali dedicate, il terziario si riversò nel centro storico, provocandone una progressiva terziarizzazione che divenne una delle principali fonti di domanda edilizia. I clienti di questa nuova metropoli provenivano in massa dalla Roma storica: dal centro, dai quartieri ottocenteschi, da quelli sorti tra le due guerre e persino da quelli degli anni ‘50 e ‘60. La città generava così un circolo vizioso, rinnovando le condizioni della rendita fondiaria sia nei quartieri che si abbandonavano sia in quelli nuovi di cui si aveva bisogno. Il risultato fu uno spopolamento drammatico: tra il 1951 e il 1971 la popolazione del centro storico si più che dimezzò e la sua composizione sociale mutò radicalmente con la trasformazione di abitazioni povere e medie in residenze di prestigio. Dopo il 1970 il fenomeno si estese a macchia d’olio ai quartieri fuori le mura, nati per ospitare la popolazione in crescita e ora trasformati in uffici, spesso attraverso un semplice cambio di destinazione d’uso all’interno degli stessi fabbricati.
Le dimensioni di questa città degli uffici erano del tutto inimmaginabili negli anni ‘60 durante la redazione del piano regolatore. Una delle scelte più nefaste di quel piano del 1962 riguardò proprio i quartieri ottocenteschi, alcuni classificati come zona B2 che consentiva un aumento dei volumi esistenti del 30%, altri come zona C che prevedeva un ridimensionamento. L’applicazione di queste norme avrebbe potuto distruggere tutta la città costruita dopo il 1870. L’intenzione originale del Comitato per l’Edilizia Economica e Popolare e dell’Inu era invece di “saltare” queste zone, creando all’esterno un “asse attrezzato” e nuovi centri propulsori per una città non più radiocentrica per poi decongestionare e ristrutturare le aree storiche. Invece prevalsero le logiche della rendita. Inizialmente le norme favorirono demolizioni e ricostruzioni per sfruttare al meglio spazi e altezze. In seguito divennero più convenienti le trasformazioni interne. I valori offerti dal mercato degli uffici erano talmente superiori a quelli residenziali che la velocità di trasformazione divenne incompatibile con i tempi della burocrazia, aprendo la strada all’abusivismo. Così quei quartieri rimasero quasi identici nelle facciate e nella rete viaria ma completamente mutati nel loro ruolo urbano, diventando la sede di quelle funzioni direzionali che avrebbero dovuto essere relocate, continuando a soffocare la città.
In quegli stessi anni i romani presero coscienza di vivere in una città ricca di baracche. Non si trattava di piccoli nuclei storici ma di intere bidonville in crescita. I dati, peraltro sottostimati, mostrano che nel 1968 vivevano in baracca 62.351 persone in 16.506 nuclei familiari, un aumento rispetto alle 54.576 persone in 13.703 nuclei del 1957. Dall’estate del 1969 i baraccati avviarono occupazioni metodicamente organizzate di palazzi in demolizione e di nuovi edifici periferici, dando simbolicamente fuoco alle proprie baracche per segnare una rottura col passato per poi essere sistematicamente sgomberati dalla polizia all’alba. Sebbene alcune famiglie trovassero sistemazione in dormitori, alberghi di massa o case popolari, la popolazione dei baraccati si rinnovava in continuazione. Un colpo di grazia alle baracche fu inferto verso la fine del decennio dalla realizzazione in soli tre anni del grande quartiere pubblico di Tor Bella Monaca che ospitò molte famiglie. A metà degli anni ‘70 la demolizione dei borghetti fu completata, resa possibile anche dall’azione di denuncia sociale di figure come don Roberto Sardelli che operava nel borghetto dell’Acquedotto Felice. Questa riduzione durò poco, forse un solo decennio, perché a partire dagli anni ‘90 i fenomeni di globalizzazione portarono a una nuova vitalità degli alloggi precari, abitati questa volta da immigrati da paesi poveri, baracche più nascoste, diffuse e prive di quei minimi requisiti di socialità che avevano caratterizzato le esperienze precedenti.
Sarebbe però un errore credere che le baracche esaurissero il fenomeno della Roma abusiva. Al contrario, dagli anni ‘60 in poi, tutto sembrò poter essere costruito abusivamente, perfino dalle stesse aziende municipalizzate in zone archeologiche. La forma più violenta e significativa di abusivismo fu la costruzione di interi quartieri abitativi. Il meccanismo era semplice: i lottizzatori tracciavano strade e spianavano il terreno, distruggendo spesso un patrimonio archeologico inestimabile e ancora sconosciuto. Poi ottenevano acqua e luce da Acea ed Enel, enti che all’epoca non erano tenuti a verificare il rispetto del piano regolatore. A quel punto il terreno poteva essere venduto a prezzi da area fabbricabile e il lottizzatore scompariva. Gli acquirenti, spesso poveri o immigrati ma anche cittadini della classe media in grado di onorare mutui, si trovavano intrappolati in un “giro” di trafficanti che proponevano costruzioni “senza piano regolatore”, “col piano” o “col vincolo archeologico” approfittando dell’impossibilità pratica per i cittadini di districarsi nella complessa burocrazia comunale.
Le dimensioni quantitative di questo fenomeno sono sconcertanti. Nel 1962, durante la redazione del PRG, si individuarono 44 nuclei abusivi su 3.800 ettari per 200.000 abitanti. Nel 1968 se ne registrarono altri 22 (396 ettari), nel 1970 altre 46 (circa 1.300 ettari) e nel 1976 si stimava complessivamente che 11.500 ettari fossero stati abusivamente lottizzati, con circa 415.000 vani. La produzione annua di vani abusivi esplose: da 7-8.000 prima del 1960 si passò a 15.500 all’inizio degli anni ‘60, per schizzare a 54.000 all’inizio degli anni ‘70. Tra il 1972 e il 1978 nacquero altre 40 lottizzazioni. I tentativi di perimetrazione del Comune furono un inseguimento continuo. Nell’aprile 1976 si parlò di 3.150 ettari e 219.000 abitanti, nel luglio 1977 si salì a 82 nuclei, 4.430 ettari e 289.000 abitanti. Infine, con la variante al PRG del 28 luglio 1978, si arrivò a 84 nuclei per 4.700 ettari, con 252.000 abitanti insediati e 130.000 previsti. L’abusivismo intanto scavalcò i confini comunali, espandendosi in un hinterland che arrivava ad Aprilia, Pomezia, i Castelli Romani e Zagarolo, senza alcun piano di coordinamento.
La risposta delle istituzioni non fu il governo del territorio ma la sua sanatoria. Dietro la forte spinta delle borgate romane si avviò una copiosa produzione legislativa. Nel 1977 la Regione Lazio approvò la prima legge di sanatoria edilizia della storia d’Italia che però non fu promulgata. Seguirono leggi regionali nel 1980 e nel 1983 finché, nel marzo 1985, fu approvata la prima legge nazionale di condono edilizio (legge 47/1985) che sanava gli abusi commessi fino al 1° ottobre 1983. Questo diede inizio all’era dei “recuperi urbanistici” e dei “condoni”, trasformando l'”abusivo condonato” in uno status giuridico permanente e in un tipo edilizio riconoscibile e rispettato che di fatto annullò la già scarsa pianificazione degli anni ‘60.
Il processo di sanatoria continuò incessante. Nel 1997, con la Deliberazione n. 92, il Comune individuò altri 55 nuclei abusivi da sanare sulla scia della legge nazionale 662/1996 per altri 30.000 abitanti e 2.000 ettari compromessi. Questi nuclei, insieme ad altri 21 individuati nel 2000, furono inseriti nella cosiddetta “Variante delle certezze”. In un paradosso estremo, per questi nuclei non fu eseguita una perimetrazione ma si affidò ai consorzi degli stessi abusivi il compito di predisporre le varianti urbanistiche, lasciando cioè ai trasgressori il futuro della città finché la Regione Lazio non impose di definire almeno i perimetri.
Urbanisticamente il passaggio dalla città “abusiva” a quella “condonata” non significò un “recupero”. Questa enorme massa edilizia, distribuita a pioggia nella periferia, nulla aveva di ciò che si intende per “città”. I pochi interventi di recupero, come quartieri pubblici o centri servizi, invece di integrarsi, si ponevano come elementi “diversi” e contrapposti, accentuando la disgregazione. I grandi piani alternativi, come i parchi archeologici dei Fori, dell’Appia Antica e di Veio o le infrastrutture come le metropolitane e lo Sdo, non si realizzarono. Il “recupero” delle 84 zone abusive (classificate “O” nel 1978) fu una macchina amministrativa gigantesca e fallimentare: oltre 500 tecnici esterni lavorarono ai piani ma la maggior parte di essi fu approvata solo a cavallo dell’anno 2000, oltre vent’anni dopo. Allo stesso modo, per le 76 zone della “Variante delle certezze”, a oltre dieci anni dalla sua adozione, nessun piano era stato approvato. In questo contesto la denuncia di don Sardelli nel 2007, “Per continuare a non tacere”, suonava identica a quella di quarant’anni prima. L’abusivismo, tanto giustificato e tollerato, ha così sfigurato e compromesso per sempre il futuro di Roma, creando una metropoli condonata ma non recuperata dove i tempi insostenibili della pianificazione coincidono con i tempi insostenibili di una città incapace di unificazione urbana e sociale.
- Gli anni ‘70 e ‘80 di Roma
La celebrazione del centenario del 20 settembre nel 1970 fu caratterizzata da una straordinaria modestia, segnata dall’assenza di grandi esposizioni, mostre o convegni di rilievo, a differenza di quanto avvenuto per altre ricorrenze nazionali nel passato, come il cinquantenario del Regno nel 1911 o il ventennale del fascismo nel 1942. Persino la proposta di Italia Nostra di realizzare il Parco archeologico dell’Appia Antica come opera commemorativa non fu accolta. Le cause di questa sordina furono multiple: una generale antipatia degli italiani verso la capitale, la preoccupazione di urtare la sensibilità del Vaticano con una celebrazione dal forte carattere laico, l’eco ancora vicino delle contestazioni del ’68 e ’69 che avevano scosso le istituzioni e un malessere generale verso una possibile retorica stantia sul Risorgimento, in mancanza di un ripensamento originale dei fatti del 1870.
In netto contrasto con questa staticità celebrativa, il periodo fu segnato da importanti innovazioni strutturali nella pubblica amministrazione, con l’istituzione delle circoscrizioni e della Regione. Le circoscrizioni, nate per decentrare il potere comunale e avvicinarlo ai cittadini, furono il frutto di anni di discussioni e di pressioni dal basso. A Roma, dopo l’approvazione del Consiglio comunale l’11 febbraio 1972, la città fu divisa in venti circoscrizioni, i cui consigli erano inizialmente formati da membri designati dai partiti in base ai risultati elettorali. Questo processo di decentramento fu sancito a livello nazionale con una legge due anni dopo. La spinta per questa riforma era venuta dai numerosissimi comitati di cittadini e associazioni di base nati negli anni ’60 al di fuori dei canali politici tradizionali che avevano prima denunciato in veri e propri “cahiers de doléances” le gravissime carenze della città, dalle scuole con tripli turni agli ospedali insufficienti, dai quartieri senza fognature alla cronica mancanza d’acqua, e poi erano passati ad azioni dirette, come l’occupazione di aree per ottenerne l’esproprio a parco pubblico o l’autocostruzione di campi sportivi.
Sia le circoscrizioni che la Regione rivelarono ben presto i loro limiti. La loro creazione non fu basata su alcuno studio territoriale o socio-geografico. A Roma, in particolare, la suddivisione in venti “pezzi” fu fatta in modo arbitrario, collocando gli uffici in edifici comunali casualmente ricadenti in quelle aree, spesso lontani dal centro della vita dei quartieri e mal serviti dai trasporti. Il risultato fu che queste nuove istituzioni, invece di rafforzare la partecipazione civica e i poteri locali, divennero spesso una macchinosa, pesante e complicata serie di burocrazie incrociate che finirono per esautorare e avviliare ulteriormente sia la politica che i cittadini.
In questo contesto di rimescolamento delle competenze si fece strada l’esigenza di rivedere il piano regolatore del 1962. Nel febbraio 1973 l’amministrazione comunale nominò una commissione di cinque persone, rappresentative dei quattro partiti della maggioranza, in un chiarissimo esempio di “lottizzazione partitica” che non si celava dietro pretesti di competenza tecnica. Le loro proposte, rielaborate, furono adottate dal Consiglio comunale nell’agosto 1974 ma dovettero affrontare il lungo iter di approvazione della neonata Regione che le ratificò solo nel marzo 1979, quando ormai altre varianti erano già in cantiere.
Parallelamente la società civile e parti significative della Chiesa avviarono un profondo ripensamento sulla questione urbana. Nel 1974 il vicariato di Roma promosse un convegno su “La responsabilità dei cristiani di fronte alle attese di giustizia e di carità”, un titolo modificato per insistenza di don Luigi Di Liegro per includere il concetto di giustizia accanto a quello di carità. In quell’occasione Giuseppe De Rita descrisse la città come una “spappolata estraneazione nel quotidiano” e una “marmellata sociale” condannata all’assenza di una guida pubblica. Critiche che trovarono eco in papa Paolo VI, il quale, in una lettera, parlò dei “nuovi proletariati” che si accampano nelle periferie come una “cintura di miseria”. Si avviò così un distacco della Chiesa romana dalla Democrazia Cristiana, con Paolo VI che si mostrò severo verso le amministrazioni capitoline.
In questo clima fiorirono le comunità di base, come quella di San Paolo fuori le mura guidata dall’abate Giovanni Franzoni che nella sua lettera pastorale “La terra è di Dio” individuò nella proprietà privata dei suoli la condizione necessaria per la speculazione capitalista. All’Acquedotto Felice don Roberto Sardelli fondò la scuola 725 in una baraccopoli, sull’esempio di don Milani, mentre a Prato Rotondo don Gerardo Lutte conduceva una sistematica opera di denuncia. Tredici sacerdoti pubblicarono una “Lettera ai cristiani di Roma” per denunciare le ingiustizie urbane.
Il cambiamento politico arrivò con le elezioni del 20 giugno 1976 che portarono a una forte avanzata del Partito Comunista Italiano e all’elezione di Giulio Carlo Argan a sindaco. Argan dichiarò subito la sua intenzione di privilegiare la cultura e un’urbanistica di “contenimento” e “recupero dell’esistente”, contrapponendosi alla “massa adiposa” della città e alla grande industria dell’edilizia, la cui materia prima era Roma stessa. La sua amministrazione e quella del suo successore, Luigi Petroselli (dal settembre 1979), segnarono una cesura con il passato. Petroselli, in particolare, fu memorabile per aver abolito via della Consolazione che divideva in due il Foro Romano, per aver pedonalizzato piazza del Colosseo e per aver lanciato il progetto della grande zona archeologica centrale, chiudendo al traffico domenicale via dei Fori Imperiali. Sotto la sua giunta l’assessore Piero Della Seta portò avanti con straordinario impegno il “Piano per il recupero della periferia”, un progetto unificante che, attraverso la posa di centinaia di chilometri di reti idriche e fognarie, cercava di riscattare le borgate e sanare ciò che era stato illegalmente costruito. La Sinistra al governo si trovò ad affrontare una contraddizione di fondo: ereditava e tentava di correggere un piano regolatore che aveva sempre avversato, scegliendo la via di gestirlo e modificarlo dall’interno piuttosto che demolirlo. Questo approccio, unito alla filosofia di “fare bene ciò che gli altri avevano fatto male”, si rivelò insufficiente per il compito immane di recuperare una periferia abusiva di proporzioni uniche nel mondo occidentale. Le contraddizioni emersero in pieno quando lo stesso Partito Comunista non sostenne appieno le coraggiose iniziative di Petroselli per i Fori e, con la sua morte prematura, progetti come la chiusura domenicale dei Fori furono abbandonati, segnando la fine di un generoso tentativo di delineare un diverso modello di sviluppo.
Il decennio degli anni ’80 si apre, invece, con una vera e propria rivoluzione copernicana nel governo del territorio italiano, segnata da un provvedimento della Corte Costituzionale che ne compromette irrimediabilmente i fondamenti. Con la sentenza n. 5 del 25 gennaio 1980 la Corte demolisce il pilastro su cui era stata costruita la disciplina urbanistica delle grandi riforme, dichiarando illegittima una norma della legge per la casa, la n. 865 del 1971, e mettendo in crisi anche la stessa legge di riforma urbanistica del 1977, nota come legge Bucalossi. Il cuore della sentenza risiede nell’affermazione che, non essendo stata operata una limpida separazione tra lo ius aedificandi, il diritto di costruire, e il diritto di proprietà, quest’ultimo incorpora di per sé la facoltà di edificare. La conseguenza pratica e drammatica per le pubbliche amministrazioni fu che gli indennizzi per l’esproprio di terreni destinati a servizi pubblici e verde dovettero essere corrisposti ai valori di mercato, rendendo economicamente proibitivo per i Comuni acquisire aree per funzioni collettive.
Questo sconvolgimento giuridico, che spostava l’asse dell’intervento urbano a netto vantaggio della proprietà privata, produsse un acceso dibattito tra urbanisti e giuristi ma trovò del tutto impreparata la classe politica, incapace di coglierne le profonde implicazioni. Il ritardo nel comprendere la nuova era è esemplificato dalla seconda conferenza urbanistica cittadina, svoltasi a Palazzo Braschi tra il 26 e il 29 marzo 1981, pochi mesi prima della morte del sindaco Luigi Petroselli. In quell’assemblea, dedicata al futuro della città, assessori, tecnici e parlamentari non fecero alcun cenno a quanto accaduto poco più di un anno prima. L’assessore all’Urbanistica Lucio Buffa, ad esempio, citò con soddisfazione il vincolo di 5000 ettari di territorio prima destinato all’edilizia, con un taglio di previsioni abitative pari a circa 400.000 abitanti, senza rendersi conto che lo strumento dell’esproprio, necessario a realizzare quei servizi, era stato di fatto reso inutilizzabile e che l’unica via d’uscita sarebbe dovuta essere un provvedimento legislativo nazionale per ripristinare un equilibrio.
Gli anni ’80 divennero così il palcoscenico di una transizione epocale verso il declino del governo pubblico delle città e il progressivo trasferimento di prerogative dal settore pubblico a quello privato. L’amministrazione comunale, sebbene continuasse a predisporre programmi di edilizia pubblica, a tentare di attuare il Sistema Direzionale Orientale e a recuperare il centro storico, vide questi progetti perdere progressivamente incisività ed efficacia, offuscando una visione complessiva della città. Un raggio di luce fu l’approvazione della “Variante di salvaguardia”, un provvedimento fondamentale per la tutela del territorio nato dall’instancabile opera di sensibilizzazione di Italia Nostra e del suo vicepresidente romano, Antonio Cederna, che con lo slogan delle “aree irrinunciabili” riuscì ad aprire un varco all’interno della maggioranza capitolina del pentapartito, spingendo alla redazione di uno strumento che, nonostante lo svuotamento di alcuni contenuti e i lunghi tempi per l’approvazione, si rivelò efficace nella difesa dell’ambiente.
Un’altra cruciale battaglia in difesa dei diritti dei cittadini fu combattuta dalle associazioni per la riconferma dei vincoli urbanistici. La sentenza della Corte costituzionale, infatti, aveva stabilito che i vincoli preordinati all’esproprio non potessero durare più di cinque anni. Giunti alla scadenza nella seconda metà del decennio, i proprietari dei terreni, sulla base di un articolo della legge sulla casa del 1971, avrebbero potuto ottenerne l’edificazione. L’allarme lanciato dall’Inu e da Italia Nostra sui primi progetti presentati su quelle aree fu fondamentale: se non ci fosse stata quella pressione la gran parte di quei territori sarebbe stata edificata. Fu quindi elaborata una variante di piano regolatore, “Verde e servizi”, che ripristinava i vincoli, esercitando un diritto che la Corte non aveva negato ai Comuni, quello di una loro motivata conferma.
In questo periodo storico si affermava a livello globale l’ideologia neoliberale di Ronald Reagan e Margaret Thatcher che propugnava la limitazione delle prerogative pubbliche a favore dell’iniziativa privata. In Italia un primo ed emblematico segnale fu l’approvazione nel febbraio 1985 della prima legge di condono edilizio. Tuttavia, in una dialettica ancora presente, pochi mesi dopo, ad agosto, venne approvata la legge 431 Galasso, la più organica legge di tutela del paesaggio che l’Italia abbia mai avuto che tutelava categorie omogenee di beni e obbligava le Regioni alla redazione di piani paesistici.
Un risultato di rilievo politico di quegli anni fu l’approvazione della proposta di legge “Roma Capitale” presentata da Antonio Cederna, eletto come indipendente nelle liste del PCI, che racchiudeva obiettivi ambiziosi come il Parco archeologico dei Fori Imperiali e la fine dell’espansione urbana. La progressiva perdita di credibilità dell’urbanistica romana fu causata anche da errori e incertezze interne allo schieramento progressista alla guida della città. Un primo errore fu la scelta, nei primi mesi del 1983, di un gigantesco progetto di espansione che prevedeva, attraverso il piano di edilizia residenziale pubblica (Peep) e il programma poliennale di attuazione (Ppa), più di 500.000 nuovi vani, senza una visione intercomunale. Questo progetto ruppe il consenso con le associazioni ambientaliste, in particolare con Italia Nostra, che pubblicò un durissimo documento di condanna, al quale il Comune replicò con toni altrettanto radicali, in un botta e risposta che rivelò l’impossibilità di un dialogo costruttivo, con il Campidoglio che si rifiutò persino di partecipare a un seminario organizzato dall’associazione.
Un secondo episodio, cronologicamente precedente, risale al 28 febbraio 1981, quando il quotidiano del PCI, L’Unità, pubblicò un articolo contro i progetti del sindaco Petroselli per via dei Fori Imperiali, rompendo dopo anni il generale consenso sulla proposta. Pochi mesi dopo, in commissione urbanistica, fu un membro iscritto al PCI a rinviare l’approvazione del progetto per via dei Fori, chiedendo modifiche su dettagli marginali come alcune passerelle, senza comprenderne la dimensione strategica. Questo episodio segnalò un atteggiamento autolesionista all’interno della maggioranza, dove si privilegiava il “distinguo” e il dissenso fine a se stesso, smarrendo l’efficacia dell’azione di governo.
Il terzo e forse più grave episodio riguardò la nascita della seconda università di Roma, Tor Vergata. Dopo vent’anni di rinvii l’ateneo non nacque nell’area pubblica di 600 ettari a essa destinata ma in un edificio privato acquistato per 16,5 miliardi di lire con fondi del Credito per le opere pubbliche: un ex motel di proprietà di Enrico Nicoletti, tesoriere della Banda della Magliana, situato nella borgata abusiva della Romanina, priva di servizi. Questo fatto dimostrò con drammatica evidenza come la criminalità organizzata fosse in grado di condizionare lo sviluppo urbano, interloquendo con il potere pubblico. Il sindaco Ugo Vetere, pur denunciando l’accaduto, passò alla storia come il primo cittadino durante il cui governo si spostò un’università negli interessi della malavita.
Questa condotta incerta e contraddittoria della Sinistra romana ebbe un prezzo politico. Nelle elezioni amministrative del luglio 1985 la Democrazia Cristiana, insieme ai partiti di centrosinistra, riconquistò il governo della città con il sindaco Nicola Signorello. Sul piano economico le grandi aree urbane assunsero un ruolo fondamentale e si affermò l’uso sistematico dell’istituto della “concessione” che affidava a società private l’intero ciclo realizzativo di grandi opere. Al Consorzio Intermetro, formato da grandi imprese, fu affidato il prolungamento della linea A della metropolitana (inaugurata il 10 febbraio 1980), il Consorzio Tor Bella Monaca, formato dalle principali imprese costruttrici, ottenne la concessione per costruire il grande quartiere pubblico su 180 ettari di terreni di proprietà del conte Vaselli e la realizzazione dell’Università di Tor Vergata fu infine affidata, dopo una gara internazionale e il fallimento della Società Generale Immobiliare, a un consorzio di imprese capofila la Vianini.
La pianificazione strategica lasciò il posto a interventi straordinari e spesso slegati da una visione d’insieme. Il Campionato mondiale di calcio del 1990, a trent’anni dalle Olimpiadi, fu l’occasione per una sommatoria di opere senza un disegno organico. Furono potenziate e realizzate tre stazioni ferroviarie (Vigna Clara, Farneto e Ostiense) che, costate miliardi di lire, furono chiuse poco dopo l’evento, dimostrando la loro inutilità al di fuori della contingenza sportiva. L’unica realizzazione urbanistica rilevante fu la “cittadella dei giornalisti” a Saxa Rubra, poi riconvertita in un centro RAI. Anche progetti cruciali come il sottopasso dell’Appia Antica, necessario per il Sistema Direzionale Orientale, presentato dall’Italstat (società pubblica poi travolta da Tangentopoli), naufragarono per le critiche dell’opposizione che temeva si privilegiasse lo sviluppo dei terreni della società senza garanzie per l’intero progetto. Mentre si poteva ancora avviare una politica territoriale coordinata, si scelse ancora una volta di privilegiare il quadrante nord della città, segnando il definitivo tramonto di un’urbanistica pubblica e pianificata.
- Dagli anni ‘90 alla crisi economica del 2007-2008
La cultura urbanistica italiana negli anni ‘90 visse una profonda trasformazione i cui effetti continuano a segnare il governo del territorio. L’Inu, per decenni punto di riferimento culturale, divenne il termometro di questo cambiamento. Dalla presidenza di Edoardo Salzano, che si concluse nel 1991 con un congresso fallimentare sulle sue tesi per ridare all’urbanistica un ruolo centrale nel governo pubblico del territorio, si passò alla breve e contrastata presidenza di Gianluigi Nigro. La vera svolta si consumò nel 1992 con le dimissioni di Nigro e dell’intera Giunta e l’ascesa alla presidenza di Giuseppe Campos Venuti che avviò un nuovo corso aprendo decisamente le porte delle città agli interessi economici privati, un cambiamento di paradigma che Campos Venuti avrebbe poi incarnato nella sua successiva esperienza a Roma.
Proprio nella capitale il decennio si aprì con il tentativo di portare a compimento alcuni provvedimenti di grande rilievo, come la “Variante di salvaguardia” e la “Variante verde e servizi” e la costruzione della Terza Università nel quadrante Ostiense, progetto che ebbe in Biancamaria Tedeschini Lalli il suo punto di riferimento. A questi si affiancò l’ambizioso progetto del Sistema Direzionale Orientale per il quale nel 1991 un consorzio di imprese chiamò a redigere il “Progetto direttore” tre architetti, Lucio Passarelli, Paolo Portoghesi e Pierluigi Spadolini, e un urbanista, Edoardo Salzano. Il terremoto di Tangentopoli spazzò via questa possibilità, chiudendo per sempre un’esperienza che avrebbe potuto segnare innovativamente il panorama culturale del Paese.
Il 17 febbraio 1992, con l’arresto di Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, ebbe inizio l’inchiesta Mani pulite che sconvolse il sistema politico italiano. In una coincidenza singolare lo stesso giorno il Parlamento approvò la legge n. 179 del 1992, nota come legge Botta-Ferrarini, che introduceva per la prima volta i “programmi urbanistici complessi”, aprendo ufficialmente la fase ideativa del piano urbanistico all’iniziativa privata. Il Paese sprofondò in un periodo di gravissima instabilità, segnato dalla crisi economica e monetaria sotto il governo di Giuliano Amato e da una sanguinosa offensiva della mafia, culminata nelle stragi di Capaci (23 maggio 1992) e via D’Amelio (19 luglio 1992), dove persero la vita i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le loro scorte e successivamente negli attentati di via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993), via Palestro a Milano (27 luglio 1993) e contro le basiliche di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano a Roma.
In questo clima il 29 aprile 1993 salì al governo Carlo Azeglio Ciampi, il primo presidente del Consiglio non “politico” della storia repubblicana. Il suo esecutivo approvò una riforma epocale: l’elezione diretta dei sindaci. Nata per garantire continuità amministrativa e porre fine alla stagione dei veti e dei ricatti che aveva paralizzato le amministrazioni, questa legge rafforzò enormemente la figura del primo cittadino, svincolandolo da molti controlli formali e di merito, come quelli esercitati dai Comitati regionali di controllo. Mani pulite produsse tre effetti dirompenti sul governo delle città: l’indebolimento dei consigli comunali, la cui durata poteva essere troncata dalle dimissioni del sindaco, la disintegrazione degli uffici pubblici, con la creazione di amministrazioni parallele come società pubbliche di progettazione (esemplare la società Risorse per Roma, nata nel 1995 per vendere il patrimonio immobiliare pubblico) e la messa in discussione delle tutele, in particolare del ruolo delle Soprintendenze, come dimostrò la feroce polemica del sindaco Rutelli contro il soprintendente archeologico Adriano La Regina che nel 1998 aveva imposto un vincolo sull’area di Tor Marancia, da Rutelli bollato come “sconfinamento inaccettabile” di un tecnico che voleva “fare la politica urbanistica del comune”.
Tangentopoli arrivò a Roma all’inizio del 1993, travolgendo la giunta di centrosinistra guidata da Franco Carraro. Un sistema di corruzione basato sugli appalti delle aziende municipalizzate venne alla luce, portando all’arresto di sei esponenti dei cda e, in successione, degli assessori all’Urbanistica Carmelo Molinari e al Patrimonio Edmondo Angelè, nonché dell’ex assessore democristiano Antonio Gerace, definito il padrone incontrastato dell’urbanistica romana. Dopo le dimissioni di Carraro il prefetto Alessandro Voci fu nominato commissario, aprendo la strada alle elezioni anticipate che l’8 dicembre 1993 portarono all’elezione di Francesco Rutelli che sconfisse al ballottaggio Gianfranco Fini.
Rutelli si presentò con un programma dal titolo eloquente, “Una rivoluzione urbanistica”, che denunciava l’inadeguatezza di un Piano Regolatore Generale superato, inadatto e reso irriconoscibile dalla mancata attuazione delle sue previsioni principali, come lo Sdo, e da una miriade di varianti. Nonostante il clima di crisi la sua amministrazione conseguì importanti conquiste. In ambito ambientale, con l’ausilio della Regione Lazio guidata da Piero Badaloni, furono istituiti parchi e riserve naturali che vincolarono i territori a più elevata fragilità ambientale e furono aperti parchi urbani attesi da anni, come villa De Santis e il Parco di Tor Pignattara, aggiungendo oltre 4000 ettari di verde al patrimonio cittadino. Riprese vigore il progetto per la via Appia Antica, con Antonio Cederna nominato presidente del Parco regionale nel 1995 e l’istituzione dell’isola pedonale domenicale nel 1997. In tema di mobilità fu ideata la “cura del ferro” da Walter Tocci, un piano basato su sette direttrici di trasporto su rotaia che portò, nel febbraio 1994, a un accordo con le Ferrovie dello Stato e all’inaugurazione della linea tramviaria 8, ancora oggi considerata una delle risposte più efficaci alla mobilità romana. Infine si registrò un ampliamento del sistema museale, con la riapertura nel 1997 del museo di villa Borghese, dell’Antiquarium Palatino e del museo di palazzo Altemps e l’inaugurazione nel 1998 del museo delle Terme di Diocleziano a palazzo Massimo. Parallelamente a questi successi per Roma ebbe inizio una profonda involuzione culturale. Si affermò il metodo del “pianificar facendo”, uno slogan che esplicitava un approccio dialettico che dal generale scendeva al particolare e viceversa, avviando progetti strategici attraverso procedure innovative come i programmi di riqualificazione e il progetto urbano. Questo approccio si concretizzò nella “Variante delle certezze”, uno strumento che, se da un lato era coerente con la cultura ambientale dei decenni precedenti, confermando i tagli edificatori e aumentando le tutele dell’Agro Romano, dall’altro introduceva l’istituto della “compensazione urbanistica”. Questo principio, che riconosceva un “diritto edificatorio” e permetteva di trasferire su altri terreni le cubature cancellate per esigenze di tutela paesaggistica, sancì di fatto l’accettazione dell’intangibilità della rendita immobiliare, abbandonando l’urbanistica pubblica a favore di una visione privatistica.
L’emblema di questa involuzione fu la vicenda di Tor Marancia, un comprensorio di oltre 200 ettari destinato dal 1965 a un quartiere di due milioni di metri cubi. Il 22 settembre 1997 il Consiglio comunale approvò il progetto di lottizzazione redatto dall’architetto Gregotti per conto dei proprietari. Le vibranti proteste di Antonio Cederna spinsero la Soprintendenza di Adriano La Regina ad avviare la procedura di vincolo archeologico, perfezionata con decreto ministeriale il 16 ottobre 1998. La reazione del sindaco Rutelli fu durissima ma il Comune, con la “Variante delle certezze”, consentì di trasferire altrove le cubature previste, di fatto utilizzando la compensazione urbanistica come soluzione per “risolvere” il caso. Le previsioni edificatorie del quartiere di Tor Marancia furono così redistribuite in sedici diverse zone della città attraverso accordi tra proprietari, cancellando la coerenza del disegno urbano e sancendo la fine dell’urbanistica pubblica.
A livello nazionale le prime elezioni politiche post-Tangentopoli nel 1994 portarono al governo Silvio Berlusconi, il cui partito, Forza Italia, aveva cavalcato lo slogan “padroni a casa propria”. Nella legge finanziaria di quell’anno fu inserito il secondo condono edilizio per gli immobili abusivi costruiti entro il 31 dicembre 1993, un chiaro segnale di abbandono delle politiche di governo del territorio. A Roma questo si tradusse nel sanatorio di 76 nuclei abusivi. Anche la Sinistra, quando fu al governo, abbracciò questa concezione privatistica. Nel 2006 il ministro dello Sviluppo economico del secondo governo Prodi, Pierluigi Bersani, approvò il provvedimento “Liberalizzazioni” che consentiva ai proprietari di attività commerciali di decidere in piena autonomia, contribuendo al degrado dei centri storici.
Il processo di privatizzazione a Roma si manifestò in altri provvedimenti emblematici. I “Punti verde qualità”, approvati con delibera comunale n. 169 del 1995, affidavano 59 aree comunali a società private per la valorizzazione, un esperimento fallito che causò un ammanco di bilancio di almeno 200 milioni di euro per le fideiussioni. Nel 2000 il Comune privatizzò il 20% del servizio di trasporto pubblico, affidando il collegamento con le periferie alla società Tpl, chiudendo dopo ottant’anni un’esperienza storica di gestione pubblica.
Anche la tutela del centro storico, vanto della cultura italiana, fu erosa. L’incarico a Richard Meier di ricostruire la teca dell’Ara Pacis, assegnato dal sindaco Rutelli, procedette nonostante il parere negativo del ministero per i Beni culturali e le proteste circoscritte, a dimostrazione di un appannamento del dibattito culturale. A piazza dell’Esedra, uno dei due palazzi gemelli di Gaetano Koch fu sopraelevato per ricavare una piscina, alterando per sempre l’armonia volumetrica della piazza. Alla Casina Valadier furono installate vetrate abusive e parte di villa Borghese fu privatizzata. Nel 2006 l’idea di un parcheggio da 726 posti sotto la terrazza del Pincio fu scongiurata solo da una mobilitazione di Italia Nostra e intellettuali. In via Giulia la realizzazione di un parcheggio interrato affidato a un privato portò alla costruzione di un muro di cinque metri che deturpa il luogo.
Contro ogni logica di decentramento si assistette a un’ulteriore centralizzazione delle funzioni statali nel centro storico, con nuovi uffici ministeriali e del Parlamento in aree preziose, aumentando il traffico. Fu completamente abbandonato il grandioso progetto del Parco Archeologico Centrale, un’idea geniale di urbanisti e archeologi. Un timido tentativo di pedonalizzazione di via dei Fori Imperiali nell’agosto 2004 si risolse in un nulla di fatto. In questo scenario di appannamento della visione complessiva il 27 agosto 1996 morì Antonio Cederna, un protagonista insostituibile nella denuncia dei misfatti e nella definizione di proposte per una città migliore, scomparendo proprio nel momento in cui la sua critica diventava fastidiosa anche per il mondo progressista e l’urbanistica pubblica veniva di fatto cancellata.
La storia urbanistica di Roma negli anni che precedono l’approvazione del Piano Regolatore Generale del 2008 è segnata da un progressivo svuotamento della pianificazione pubblica a favore di una logica privatistica e speculativa, il cui strumento principale diventa l'”accordo di programma”. Introdotto con la legge di riforma delle amministrazioni locali del 1990, questo istituto, nato per agevolare le decisioni su progetti di interesse generale, si trasforma ben presto nel grimaldello per variare con facilità le previsioni urbanistiche. L’era degli accordi di programma prende avvio sotto la Giunta pentapartito del sindaco Franco Carraro con due casi emblematici: la realizzazione del ministero della Sanità al Parco dei Medici e dell’autoporto di Ponte Galeria nel 1991. Nel primo caso, un terreno di 17 ettari vicino alla Magliana, destinato a servizi pubblici e con il vincolo preordinato all’esproprio scaduto, viene trasformato in un progetto per uffici privati e aree commerciali per circa 400.000 metri cubi. La motivazione della pubblica utilità viene fatta derivare da una semplice lettera del ministro della Sanità De Lorenzo che esprimeva una generica “presa d’atto”, violando il principio di veridicità dell’azione amministrativa. Nonostante le denunce di Italia Nostra e il successivo ritiro del ministero, l’edificio viene ultimato e oggi ospita uffici privati. Il secondo caso, l’autoporto di Ponte Galeria, prevedeva un intervento di 2,6 milioni di metri cubi su 160 ettari e suscitò fortissime opposizioni. Lo stesso futuro sindaco Francesco Rutelli, da ministro dell’Ambiente, ne firmò la sospensione. Una volta eletto sindaco Rutelli continuò la battaglia ma una sentenza del TAR del Lazio, a cui si erano rivolti i promotori, estese alle opere di iniziativa privata il procedimento previsto dall’articolo 27, equiparando di fatto pubblico e privato in nome del principio di economicità ed efficienza. Questa sentenza, del 23 dicembre 1994, legittimò la ripresa dei lavori e aprì la strada a una lunga serie di varianti urbanistiche approvate attraverso accordi di programma.
Negli anni successivi, mentre era al lavoro la commissione coordinata da Giuseppe Campos Venuti per redigere il nuovo piano regolatore, una cascata di grandi interventi modificò il volto della città senza un ragionamento complessivo. La crisi economica della compagnia di bandiera Alitalia fu sfruttata per giustificare una variante che trasformò i terreni della sua sede, destinati a “Servizi privati vincolati”, in un quartiere residenziale e una zona alberghiera. Nel 1997, su terreni privati, fu realizzata la nuova Fiera di Roma a Ponte Galeria e fu approvato un nuovo grande quartiere residenziale a Bufalotta, un’area originariamente destinata dal PRG ad autoporto. Per rendere più veloce la procedura il progetto Bufalotta fu inserito negli Interventi di riqualificazione previsti dalla legge per Roma Capitale. Sempre nel 1999 iniziarono l’iter approvativo per l’ospedale Campus Biomedico a Trigoria e per un porto turistico a Ostia Lido mentre il PRG del 1965 lo prevedeva sul litorale nord di Fiumicino. Nel 2000 prese il via il “Polo tecnologico” lungo la via Tiburtina. A queste decisioni si aggiunsero 21 convenzioni urbanistiche rilevanti. Un altro provvedimento ambizioso fu il Programma di recupero urbano del 1993 che selezionò 11 ambiti in 15 quartieri periferici. Tuttavia, complice la crisi finanziaria che di lì a poco sarebbe esplosa, le opere pubbliche per le periferie furono poche e marginali mentre molte iniziative private furono portate a termine, decretando il palese fallimento dell’urbanistica concertata.
In occasione del Giubileo del 2000 Roma tornò sotto i riflettori globali. Il sindaco Rutelli fu nominato commissario straordinario per gli interventi giubilari, affiancato da Guido Bertolaso, e venne realizzato un grande sistema stradale per collegare l’Università di Tor Vergata, scelta per l’incontro con i giovani, oltre alla ristrutturazione di molte piazze del centro storico. Il successo dell’evento inaugurò per Roma la stagione della globalizzazione, con l’arrivo di grandi gruppi alberghieri internazionali come Marriott, Hyatt e Cendant che si contendevano un mercato di oltre trenta milioni di presenze annue. Questo flusso si concentrò quasi esclusivamente nel centro storico, dove al 2001 vivevano meno di 100.000 abitanti, trasformando l’area in un luogo di consumo turistico, con un’offerta commerciale orientata a ristorazione e souvenir che produsse una ricchezza gigantesca ma anche un degrado inarrestabile del tessuto urbano. Esplose anche il settore dei centri commerciali. In poco più di dieci anni ne furono realizzati circa cento, cancellando la piccola distribuzione e creando una città accessibile solo in automobile che spegneva la vita di quartiere. La gestione commissariale del Giubileo perfezionò anche meccanismi per aggirare i vincoli storici e archeologici, come nel caso del parcheggio sotto la collina di Propaganda Fide, i cui scavi portarono alla distruzione dei reperti della villa di Agrippina nonostante i pareri negativi delle Soprintendenze.
Con le elezioni del 2001 e la vittoria di Silvio Berlusconi si aprì una nuova fase di deregulation urbanistica. Fu approvata una legge per agevolare la vendita del patrimonio immobiliare pubblico, ebbe luogo il terzo condono edilizio dopo quelli del 1985 e 1994, e nel 2005 fu proposta la legge “Lupi” che avrebbe cancellato il governo pubblico del territorio affidandolo ai proprietari, abolito i diritti collettivi ai servizi pubblici e limitato la tutela del paesaggio. Solo lo scioglimento del Parlamento nel 2006 ne evitò l’approvazione. Nel 2004 fu approvato il Codice dei Beni culturali ma, a dieci anni dalla sua entrata in vigore, solo Puglia e Toscana avevano approvato i piani paesaggistici, mostrando la difficoltà delle Regioni a governare il territorio.
Intanto a Roma, con l’elezione di Walter Veltroni a sindaco nel 2001, si confermò l’obiettivo di approvare il nuovo piano regolatore ma si assistette a una lunga serie di revisioni e all’approvazione di ulteriori accordi di programma. Questa fase fu caratterizzata dalla privatizzazione di importanti complessi immobiliari pubblici. Nel 2001 fu annunciata la nascita del “Covent garden” romano sugli ex Mercati generali ostiense, di proprietà comunale. Nel 2003 si avviò il “Campidoglio 2” per riunire gli uffici comunali nel quadrante Ostiense, finanziato vendendo altri immobili pubblici. Nel 2005 si variarono le previsioni urbanistiche al Flaminio per un intervento in via Guido Reni, venduto a Cassa depositi e prestiti. Nel 2006 partì la variante per il “Museo marino virtuale” che cancellava parte del parco del laghetto dell’Eur, e si decise la demolizione del Velodromo Olimpico, un gioiello architettonico, per far posto a un albergo e un polo sportivo privato. La demolizione avvenne nel 2008, definita da Renato Nicolini un “crimine contro la storia”. Nel 2007 fu avviato il progetto “Città dei bambini” sull’area dell’ex Fiera di Roma e fu venduto e demolito l’ex pastificio Costa a Porta Portese, con una ricostruzione che alterò violentemente il tessuto urbano attraverso compensazioni urbanistiche. In questi anni l’amministrazione Veltroni approvò 32 accordi di programma o convenzioni, configurando una città casuale e frammentata, i cui numerosi piani di zona contribuirono a un’ulteriore disorganizzazione. Questa fase storica vide addirittura cancellata la nozione di “casa popolare” a favore del concetto di “alloggio sociale” che, come notato da Paolo Rosa, non riuscì a rispondere alle esigenze dei più poveri.
Il 12 febbraio 2008 fu finalmente approvato il nuovo Piano Regolatore Generale che presentava due novità sostanziali e contraddittorie. La prima era un dimensionamento ipertrofico, con previsioni edificatorie salite a circa 70 milioni di metri cubi, in grado di ospitare circa 400.000 nuovi abitanti, nonostante l’Istat avesse certificato che tra il 1981 e il 2001 oltre 240.000 romani avevano lasciato la città per l’hinterland a causa degli alti costi immobiliari, creando un esercito di pendolari. La seconda novità era l’individuazione di “aree di riserva edificatoria” in zona agricola, da utilizzare per compensazioni urbanistiche, di fatto un regalo alla proprietà fondiaria. Il piano disegnava un modello di città basato su 18 “centralità” sparse e sconnesse ma fu lo stesso Comune, nel tempo, a cancellarne molte. A Bufalotta, 1.036.000 metri cubi di volumetrie terziarie furono mutate in residenziali. A Ponte di Nona, un’area destinata a servizi pubblici generali (“M1”) divenne un centro commerciale con 3500 posti auto, descritto da Marco Lodoli come un quartiere anonimo e periferico. Il polo ex-Alitalia alla Magliana fu infine destinato ad abitazioni nel 2018 e l’area del sistema direzionale orientale a Pietralata, l’unica confermata, fu proposta per lo stadio dell’As Roma, cancellando la centralità. Delle 18 centralità solo due, il polo universitario di Tor Vergata e quello di Ostiense, si realizzarono con criteri di urbanistica pubblica. Nel frattempo, lungo l’asse per Fiumicino, attraverso una serie di varianti, si era creato un vero e proprio sistema direzionale lineare privato.
In questo periodo si consolidò anche l’aggressione al patrimonio architettonico pubblico attraverso la “valorizzazione immobiliare” permessa da una legge del 2001. Il Museo Geologico, voluto da Quintino Sella, fu venduto e subì un “restauro” che ne alterò l’aspetto. Le Torri del ministero delle Finanze all’Eur, vendute a Cassa Depositi e Prestiti, furono abbandonate dopo un progetto di demolizione di Renzo Piano, scongiurato dalle denunce di Renato Nicolini, e lo Stato continuò a pagare affitti passivi per i suoi uffici. L’edificio del Poligrafico e Zecca dello Stato in piazza Verdi fu dismesso, venduto e sopraelevato di due piani. Anche la Regione Lazio partecipò a questa cultura, chiudendo e tentando di vendere ospedali storici come San Giacomo (poi riaperto per sentenza) e il Forlanini o vendendo palazzo Nardini.
Si affermò inoltre la cultura della “straordinarietà” per affrontare i problemi urbani, come la candidatura alle Olimpiadi del 2004 e i Mondiali di nuoto del 2009 che servirono per autorizzare deroghe e ampliamenti per centri sportivi privati mentre lasciarono incompiute opere pubbliche come la piscina di Tor Vergata, su cui erano già stati spesi oltre 300 milioni.
Prima del 2008 si parlava di un “modello Roma” per la crescita economica trainata dal mercato immobiliare. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 rappresentò uno spartiacque, interrompendo bruscamente questa fase e rivelando la fragilità di un’economia basata sulla speculazione edilizia. La crisi mise in luce anche lo squilibrio delle convenzioni urbanistiche: mentre gli edifici privati venivano costruiti e venduti, le opere pubbliche promesse molto spesso non venivano realizzate. A piazza dei Navigatori il sottovia sulla Cristoforo Colombo non fu mai costruito, il Parco di Tor Marancia fu aperto solo per un decimo della sua estensione, a Tor di Quinto la stazione ferroviaria e la nuova sede del municipio non furono potenziate, all’Alberone il mercato rionale non fu completato, al deposito ATAC di via della Lega Lombarda la biblioteca pubblica non fu mai costruita. La caduta del governo Prodi nel 2008 portò a elezioni anticipate e, dopo quindici anni di centrosinistra, fu eletto sindaco Gianni Alemanno, segnando l’inizio di una nuova fase per una città lasciata più frammentata, degradata e privata del suo patrimonio pubblico da un’urbanistica che aveva abdicato al suo ruolo di guida.
- Da Mafia capitale in poi
La crisi di Mafia Capitale non fu un evento improvviso ma l’esito di un lungo processo di degenerazione del sistema politico, economico e culturale di Roma, le cui radici affondano in scelte urbanistiche precise. Il terremoto finanziario del 2007-2008 fornì il pretesto per un cambio di passo decisivo. Nel marzo 2009 il Governo Berlusconi lanciò il “Piano Casa”, presentato come una misura per rilanciare l’economia attraverso l’ampliamento di ville e case unifamiliari. In realtà questo provvedimento inferì un colpo mortale all’urbanistica, legalizzando di fatto una prassi abusiva già ampiamente diffusa nella capitale, come se, si legge nel libro, “un tecnico esperto nel più volgare abusivismo romano avesse suggerito al presidente del Consiglio dei ministri l’emanazione di un provvedimento legislativo che prevedesse di esportare il modello abusivo romano sull’intera scala nazionale”. Il piano consentiva di alterare i tessuti urbani consolidati, permettendo sopraelevazioni e ampliamenti che mutavano il disegno originario degli edifici e cancellavano i giardini. Questa deriva trovò un terreno fertile a Roma, dove la cultura dell’abusivismo, dalle sopraelevazioni alla chiusura di balconi e logge, era già endemica, trasformando soffitte, terrazze e attici in alloggi aggiuntivi in un clima di sostanziale impunità. Il “Piano Casa” nazionale, inviato alla Conferenza delle Regioni il 17 marzo 2009, innescò una rincorsa al rialzo tra le amministrazioni locali che non solo non rifiutarono le linee guida ma le esasperarono, con alcune Regioni che arrivarono ad aumenti di cubatura fino al 50% e a consentire la riconversione residenziale di immobili industriali ovunque. L’urbanistica cessò di essere l’orizzonte culturale per affrontare i problemi della città, sostituita da norme ritagliate esclusivamente sulla proprietà edilizia, considerata l’unico motore di sviluppo. A Roma, il “Piano Casa” fu approvato con Delibera comunale n. 23/2010 e, in piena continuità, la Regione Lazio approvò la legge sulla “Rigenerazione urbana” (L.R. 7/2017) che introdusse ulteriori deroghe. Il Piano Regolatore del 2008 stesso permise di applicare queste deroghe al patrimonio storico, con conseguenze devastanti per quartieri come quello Trieste e per le aree di Gino Coppedè.
In assenza di una visione organica per la città, l’amministrazione del sindaco Gianni Alemanno perseguì la strategia degli “eventi straordinari”, lanciando la candidatura ai Giochi Olimpici del 2020, un indirizzo ereditato dalle giunte Rutelli e Veltroni. Nel novembre 2011 il nuovo Governo tecnico di Mario Monti, al culmine della crisi finanziaria, bocciò l’avventura olimpica ritenendo insostenibile l’impegno di bilancio, stimato intorno ai 4 miliardi di euro. Questi eventi eclatanti servivano a mascherare la fitta serie di iniziative private portate avanti in continuità con il quindicennio precedente. Nonostante il Centrodestra avesse votato contro il PRG del 2008, una volta eletto, Alemanno ne perpetuò la cultura degli accordi di programma. Esempi emblematici furono il fallito progetto del Waterfront di Ostia Lido, il quale prevedeva la sostituzione di tessuti a bassa densità, e la sostituzione del programma di recupero per Tor Bella Monaca con un “piano integrato” che prevedeva la demolizione e ricostruzione di gran parte del quartiere, finanziata da un nuovo insediamento di 10.000 abitanti e 200.000 metri cubi nella tenuta agricola Vaselli, una proposta che suscitò polemiche e fu poi abbandonata.
Andarono invece a buon fine piani di edilizia residenziale “sociale” in aree periferiche e sconnesse, come Pian Saccoccia (B49), situato in aperta campagna oltre il Grande Raccordo Anulare, sulla strada per il lago di Bracciano. Questi interventi, insieme ad altri quartieri Peep come Monte Stallonara e Castel Verde, versavano in stato di degrado per mancanza di programmazione delle risorse pubbliche, con strade incomplete e carenza di servizi come fognature e illuminazione. La crescita urbana disordinata e frammentata è indicata come la causa principale del debito mostruoso del Comune di Roma che si attestava intorno ai 10 miliardi di euro, un macigno che impediva investimenti in infrastrutture e servizi, costringendo i cittadini a costi più elevati e a una qualità della vita in declino.
Il cuore operativo di questo sistema fu la “compensazione urbanistica”, il cardine del PRG del 2008. Nei cinque anni del Centrodestra furono approvati 33 accordi di programma in variante, di cui almeno la metà alimentati da questo meccanismo che di fatto faceva sì che la città non rispondesse più a un disegno unitario ma solo agli equilibri e alle convenienze tra proprietari fondiari. L’esempio di via Longoni, approvato nel 2014 ma iniziato sotto le amministrazioni Veltroni e Alemanno, è illuminante. Un proprietario di un’area di 8,4 ettari a Settebagni, destinata a case unifamiliari con giardino e tutelata dal Codice dei Beni culturali, ottenne con la “Variante delle certezze” diritti edificatori per 15.600 mq da “compensare” altrove. Queste volumetrie furono poi trasferite su un lotto di 3,6 ettari in via Longoni, originariamente destinato a servizi pubblici. Attraverso una trattativa opaca, in cui il proprietario di Settebagni riuscì a non cedere l’area al demanio comunale e a non subire decurtazioni, offrendo in cambio un corrispettivo in denaro, la superficie utile da realizzare a via Longoni lievitò fino a quasi 11.000 metri quadrati. Questo gigantesco commercio di volumetrie e terreni, privo di trasparenza, creò l’humus perfetto per l’infiltrazione di faccendieri, procacciatori d’affari e funzionari corrotti, come emerse drammaticamente dalle intercettazioni ambientali nell’inchiesta sullo stadio della Roma che rivelarono un vorticoso scambio di favori, incarichi e consulenze legate agli immensi incrementi di rendita immobiliare generati dalle varianti.
L’inchiesta “Mondo di mezzo”, svelata dalla Procura di Roma il 2 dicembre 2014, portò alla luce il baratro in cui versava la vita pubblica capitolina. Gli arresti furono bipartisan e colpirono esponenti di rilievo come Luca Odevaine (capo di gabinetto di Veltroni), Luca Gramazio (capogruppo in Regione del centrodestra), Mirko Coratti (presidente dell’assemblea capitolina del Pd) e, nel mondo delle imprese, Salvatore Buzzi, legato alla Sinistra, e Massimo Carminati, esponente di Destra, snodo tra malavita e imprese. L’immagine di Roma fu devastata a livello internazionale. Il sindaco Ignazio Marino, eletto nel giugno 2013 con il 63,9% dei voti contro il 36,1% di Alemanno, apparve inizialmente intenzionato a segnare una discontinuità ma la sua azione fu irrimediabilmente compromessa dagli arresti. Un secondo filone d’inchiesta, nel giugno 2015, portò all’arresto del presidente del municipio di Ostia, Andrea Tassone (Pd), e allo scioglimento per mafia del municipio stesso il 28 agosto 2015. La fine di Marino fu decretata dallo stesso Partito Democratico che gli tolse la fiducia con una sfiducia siglata in uno studio notarile, un fatto inedito che sottolineava la crisi istituzionale. La magistratura, nelle sentenze di primo grado e in Cassazione (ottobre 2019), pur non riconoscendo l’aggravante mafiosa, confermò pienamente l’impianto accusatorio.