1. Hai partecipato alla rivista Primo Maggio che univa storia orale, conricerca e marxismo
eterodosso. Quali furono i limiti e i punti di forza di questo approccio? Perché oggi sembra
essersi persa questa contaminazione? In particolare, come mai nelle organizzazioni di
sinistra si è smesso di fare inchiesta?
Dopo la mia uscita da Potere Operaio (ottobre-novembre 1970) ho ritenuto che il sistema di pensiero operaista potesse essere applicato a diverse singole discipline, in particolare a quella che io praticavo: la storiografia. Altri, Alberto Magnaghi per esempio, lo avrebbe fatto nei confronti della scienza del territorio e dell’urbanistica, Paolo Deganello nei confronti del design ecc.. Oggi queste esperienze sono studiate a livello internazionale. “Primo maggio” ebbe scarsi riconoscimenti dal mondo degli storici, fu percepita come rivista politica, tranne alcune eccezioni. Un riconoscimento come metodo specifico d’indagine storica, quello della “storia militante”, lo ebbe soltanto negli anni 2000 da parte di un docente della Cattolica, Damiano Palano. Naturalmente l’operaismo non era l’unica fonte di ispirazione, prima di noi la rivista americana “Radical America” aveva già fatto molti passi avanti in termini di “storia militante”. Con l’ingresso in redazione di Cesare Bermani (1975) si ebbe l’innesco con la storia orale. Eppure tutto questo non sarebbe stato sufficiente a determinare la “diversità” di “Primo Maggio”. L’elemento qualificante è quello di aver scelto come editore distributore la Libreria Calusca di Primo Moroni, che era il punto di riferimento di tutto il movimento “diffuso”, quello che non faceva riferimento ai gruppi extraparlamentari (Lotta Continua, Avanguardia Operaia, marxisti-leninisti ecc.). Era sicuramente una situazione borderline, ma proprio per questo lì si coglievano i movimenti sotterranei, la cultura underground (si pensi al movimento dei cyberpunk e degli hacker). Quindi un osservatorio privilegiato in momenti come quello del ’77 per esempio. Anche se molti di noi erano nell’Università – io ero professore incaricato e assistente di ruolo all’Università di Padova – il riferimento alla Calusca ci metteva al riparo da qualunque forma di establishment. Ci esponeva ovviamente anche a dei rischi, come quello di essere considerati appartenenti all’area della lotta armata. Quando sono iniziate le grandi retate e le carceri si sono riempite di militanti, “Primo maggio” era una delle riviste più richieste dai carcerati. Moroni mi parlava di circa 500 copie a numero che lui spediva dietro le sbarre. Oggi non credo che la tradizione della storia militante sia andata completamente dispersa, si pensi per esempio a una rivista come “Zapruder”; e non penso nemmeno che fare inchiesta sia uscito di moda, anzi. “Primo maggio” è diventata un riferimento insostituibile della cultura anni. Anche per i suoi collegamenti internazionali, soprattutto con Stati Uniti e Germania. I migliori americanisti italiani, da Cartosio a Portelli, da Fasce a Gambino, sono stati collaboratori di “Primo maggio”. In Germania quando negli anni ’80 Karl Heinz Roth e Angelika Ebbinghaus fonderanno la “Stiftung zur Sozialgeschichte”, che oggi dopo 39 anni è uno dei maggiori centri di studio del nazismo, prenderanno come riferimento l’approccio operaista alla storiografia. E in Italia si pensi alla Fondazione “Luigi Micheletti” di Brescia ed al lavoro del suo massimo storico, Pier Paolo Poggio. Ma non dobbiamo dimenticare nemmeno la Fondazione Lelio Basso, l’ISSOCO, a Roma o la Fondazione Feltrinelli a Milano. Tutti luoghi dove “Primo maggio” una traccia l’ha lasciata. Dopo la mia espulsione dall’Università, inizi anni ’80, la rivista fu diretta fino alla fine da Cesare Bermani con il valido appoggio di Bruno Cartosio. Penso che anche alcuni ambienti sindacali, come quello della Fondazione Sabatini, abbiano guardato a “Primo maggio” come una fonte importante di metodo e di contenuti. Per non parlare de “Il Manifesto” giornale, o della stessa rivista “Sapere” diretta da Giulio Maccacaro e della rivista “Medicina Democratica”. Tra i collaboratori della rivista ci sono persone che hanno occupato posti di prestigio e di responsabilità, Lapo Berti funzionario dell’Antitrust addetto ai rapporti con il Parlamento, Marcello Messori, docente alla LUISS, Presidente del gruppo Ferrovie dello Stato, Presidente della Fondazione Di Vittorio e altri. Oggi alcuni dei fondatori di “Primo maggio” ancora in vita scrivono on line sul sito www.officinaprimomaggio.eu.
2. Hai più volte sostenuto che quando si parla di anni ‘70 la narrazione degli “anni di piombo” è finita per prevalere su quella delle lotte operaie e dei movimenti sociali. Chi è interessato a rafforzare nell’opinione pubblica questa lettura di quel decennio e come possiamo ricostruire una storia degli anni ’70 che valorizzi le esperienze di lotta dei lavoratori di quel periodo e le trasformazioni sociali?
Sarebbe necessario fare un accurato lavoro di ricostruzione del modo in cui è stata affrontata la storia degli anni ’70. In sintesi penso che si possa parlare di due fasi nettamente distinte. La prima è stata quella della rimozione e della damnatio memoriae e potremmo circoscriverla agli anni ’80. Nel sindacato, per esempio, la storia degli anni ’70 diventò un vero e proprio tabù. Vietato parlarne, cancellazione della memoria. E in un certo senso questo ha coinvolto anche i reduci. La sconfitta è stata così bruciante, che si preferiva non parlarne. Poi è nata l’analisi del fenomeno terroristico come materia accademica (si pensi agli studi di Donatella dalla Porta). Quando le cose passano per l’accademia perdono subito il loro sangue, diventano asettiche. Questo ovviamente ha liberato i reduci, in particolare quelli della lotta armata, dal loro silenzio e hanno cominciato a proliferare le memorie, le interviste televisive, le partecipazioni ai dibattiti, tutto all’insegna “chiudiamo un’epoca”, all’insegna della pacificazione. In due direzioni opposte, gli uni dicevano “abbiamo lottato, abbiamo perso, ma era giusto quello che abbiamo fatto” e gli altri “ci siamo illusi, abbiamo commesso un sacco di cazzate, eravamo patetici come rivoluzionari”. Ambedue si concludevano però alla stessa maniera: capitolo chiuso. La fase che stiamo attraversando ora è quella invece della “politica della memoria”. Il ricordo degli anni ’70 serve a fare politica, in particolare alla destra e quindi gli “anni di piombo” diventano un paradigma. Ma ci sono anche delle novità, prendono la parola le vittime e talvolta sono quelle che offrono i contributi più interessanti, si pensi al libro della figlia di Guido Rossa (2006), a quello di Benedetta Tobagi (2010) o al breve testo sugli anni ’70 del figlio di Aldo Moro, Giovanni (2011), che affrontano la complessità di quel periodo e quindi si sottraggono alla “vulgata” degli “anni di piombo”. Nella letteratura della fase più recente, terzo decennio del 2000, il punto di vista è sempre quello delle avanguardie o, meglio, del personale politico. Quindi rimangono in ombra proprio certi fenomeni di massa, tranne il femminismo. Rimane in ombra il protagonismo operaio, che pure molti aspetti ha in comune con il femminismo. La donna allora scoprì se stessa come donna e l’operaio scoprì se stesso come soggetto con una propria autonomia dal ciclo produttivo, come persona. Questo però ripropone l’interrogativo: il sindacato, ora, come li vede quegli anni? Finora ha preferito non affrontare la questione, ma secondo me, non può più continuare ad eluderla. E questo potrebbe contribuire a riportare in primo piano il protagonismo operaio degli anni ’70 e a ricordare a tutti che senza quel protagonismo non avremmo avuto le grandi riforme, prima di tutto quella del Servizio Sanitario Nazionale. Sono state le lotte di milioni di uomini e donne contro la nocività in fabbrica che hanno portato in primo piano il problema della salute e quindi della salute per tutti. E’ il sindacato, secondo me, che deve uscire dall’equivoco: come giudica oggi gli anni ’70? Li giudica come puri “anni di piombo”? E in tal modo cancella un capitolo fondamentale della propria storia? E in tal modo cancella le speranze, i desideri, le proposte di milioni e milioni di suoi militanti che hanno lottato? Se il sindacato non farà una scelta in tal senso, la rivendicazione di un protagonismo operaio sarà fatta solo da singoli studiosi, da singole iniziative, non diventerà strumento di una “politica della memoria”, premessa per una rinascita di una Sinistra degna di questo nome. Quindi tutto si tiene insieme: senza una “politica della memoria” coerente non c’è nessuna ripresa di una politica contro lo sfruttamento capitalistico. Oggi sono tutti bravi a essere antifascisti contro Giorgia Meloni e quello che ella rappresenta. Ma non esiste antifascismo senza anticapitalismo. Non si può gridare “W la Resistenza” il 25 aprile e poi pagare la gente che lavora 5 euro l’ora, mantenendola in un eterno stato di precarietà. Per fortuna che Mattarella si è ricordato per il 1 maggio di dire qualcosa sulla piaga dei bassi salari. Elly Schlein non ha ritenuto necessario pronunciarsi, anzi, aspetto ancora di sentire una parola che sia una, da parte sua, contro Confindustria e le politiche padronali. Avrebbe potuto almeno riprendere le parole pronunciate da papa Francesco poco prima di morire: “Il lavoro precario uccide. Uccide la dignità, uccide il futuro, uccide la speranza. È inaccettabile che ci siano lavoratori poveri, persone che, pur lavorando, non riescono a vivere con dignità. Questo è sfruttamento, non è economia”.
3. Almeno a partire dagli anni ‘90 hai iniziato ad occuparti del lavoro autonomo di seconda generazione. Sul tema abbiamo alcune questioni da porti. Se il freelance è sia “capitale” (investe in attrezzature) che “lavoro” (vende il proprio tempo), come si può definire la sua posizione di classe? Tradizionalmente noi abbiamo inteso il lavoratore autonomo come un soggetto il cui sfruttamento è autoinflitto nel tentativo di rimanere sul mercato e non retrocedere al rango di proletario. Questa lettura però mostra molti limiti dal momento in cui, come spesso hai affermato, non possiamo definire il lavoratore autonomo di seconda generazione come un’impresa personale che è una narrazione funzionale alla negazione dei diritti di questa categoria di lavoratori. Quali aspetti della teoria marxista, allora, vanno aggiornati per comprendere meglio questi lavoratori?
Direi che Marx non ci aiuta sulla questione del lavoro autonomo e quindi lasciamolo da parte. Non è un caso che i primi che si sono occupati di queste figure sono dei sociologi dell’epoca di Weimar di estrazione cattolica. Molto meglio è partire dai giorni nostri, il che vuol dire l’ultimo mezzo secolo. Le prime analisi che ho letto, quando non avevo ancora fatto la scelta di essere un professionista freelance, erano di sociologi dell’Università di Oldenburg, nel 1982/83, quando vivevo e insegnavo a Brema. Le due città sono vicine, ci mettevo mezz’ora di treno per andare a Oldenburg. Mi sono messo in contatto e ci siamo scambiati un po’ di pareri. Poi mi sono trasferito a Parigi e lì ho incontrato dei ricercatori freelance che avevano cominciato a pensare a un’associazione di tipo sindacale di gente come loro. Sicchè, tornato in Italia e messa in piedi una microsocietà di consulenza con un altro partner, presa la Partita Iva, incominciato a tastare il mercato, ho iniziato una specie di auto-osservazione. Annotavo tutte le condizioni di lavoro nelle quali mi capitava di trovarmi giorno per giorno. Sicché decisi di farmi un piccolo programma di ricerca. E per prima cosa andai a cercare le fonti nella sociologia weimariana, tedesca e austriaca, non solo Theodor Geiger, di estrazione cattolica, ma anche Emil Lederer, austromarxista. Così sono nati i due saggi pubblicati nel volume di autori vari Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia (1997). Mi chiedete: “qual è la posizione di classe del lavoratore autonomo”? Che c’entra? L’importante è sapere quali sono le differenze nel rapporto sociale tra lavoratore autonomo e lavoro dipendente. E ce ne sono tante e di enorme rilevanza, a cominciare dal fatto che uno riceve un salario (netto) e che l’altro è pagato a fattura (lordo). Uno sa che alla fine del mese si troverà dei soldi in tasca e l’altro non sa quando verrà pagato, malgrado sul contratto – quando c’è un contratto – ci siano scritti dei termini di pagamento. E infatti i pagamenti ritardati sono una delle piaghe di questa condizione lavorativa. Verso il 2005/2006, sono entrato in contatto con ACTA, che allora si chiamava Associazione Consulenti Terziario Avanzato (oggi ha assunto il nome di Associazione dei Freelance), e da lì ho cominciato a cercare contatti all’estero, trovando finalmente un interlocutore fondamentale nella Freelancers Union americana, mezzo milione di soci. Essi considerano una delle loro più significative vittorie quella di esser riusciti a far passare una legge al City Council di New York per cui un freelance che non viene pagato da un committente per lungo tempo può fare ricorso presso l’ente pubblico e portarlo in giudizio con l’assistenza del Consiglio, soprattutto se è un committente recidivo. E questa legge, che ora cercano di estendere ad altre grandi città, si chiama Freelance isn’t free Act. All’inizio ACTA ha trovato delle resistenze nel mondo dei sociologi del lavoro e nei sindacati. Invece ha subito trovato un’ottima intesa coi giuslavoristi. Non so quanto sia utile oggi porsi problemi di carattere teorico, se il lavoratore autonomo è capitale variabile oppure capitale circolante e simili. Per capire bene la natura di queste figure è molto più utile seguire le loro azioni di autotutela, le loro battaglie per i diritti previdenziali e assistenziali, perché proprio dal mondo dei freelance stanno di nuovo emergendo certi orientamenti culturali che hanno segnato la storia del movimento operaio, come il mutualismo. Proprio in queste settimane con un gruppo di lavoratori intellettuali di ACTA, attivi nel mondo dei media, abbiamo ripreso i rapporti con i freelance americani sulla tematica del mutualismo. Sono tra i più acerrimi avversari di Trump e giustamente dicono che non basta resistere, bisogna sviluppare una società parallela diversa, bisogna avere alternative. E’ chiaro che noi siamo consapevoli di rappresentare una minoranza del lavoro autonomo in Italia, la grande maggioranza, commercianti, agricoltori, ordinisti ecc. rappresentano la “prima” generazione, ma loro stanno diminuendo e noi, di seconda generazione, stiamo crescendo e abbiamo come riferimento previdenziale la Gestione Separata dell’INPS (sulla frammentazione delle diverse Casse si veda l’Appendice del mio opuscolo “Alcune note sui ceti medi e l’estremismo di destra” edito da Asterios). Coi sindacati oggi i rapporti sono tranquilli ma finché loro continueranno a confondere le problematiche del precariato con quelle dei freelance sarà difficile lavorare insieme.
4. Ritieni che i sindacati abbiamo fallito nel sindacalizzare questi lavoratori? Se sì, si tratta di un problema di struttura (per esempio, spesso questi sindacati sono nati per gli operai di fabbrica) oppure di mentalità (incapacità di leggere le trasformazioni del postfordismo oppure considerare tutti i lavoratori autonomi degli evasori fiscali)?
Penso che i problemi di struttura e di mentalità abbiano pesato assai nello scarso interesse dei sindacati confederali per questo settore della forza lavoro. Ma anche la perenne confusione tra precarietà e autonomia. Non sono la stessa cosa, anzi. Gli autonomi sono precari per scelta, mentre i precari in genere aspirano alla stabilizzazione, sono due atteggiamenti molto diversi. La nostra esperienza con ACTA ha visto diverse fasi del nostro rapporto con il sindacato, in particolare con la CGIL e il Nidil. Da una prima fase di forte rifiuto si è passati a una fase di dialogo. C’è da dire anche che nella galassia del lavoro autonomo c’è un abisso tra i commercianti e i coltivatori diretti e le partite Iva iscritte alla Gestione Separata dell’INPS. E poi ci sono gli ordinisti. Tra questi tre mondi ci sono differenze enormi. E il sistema ha fatto di tutto per aggravarle, si pensi ai diversi trattamenti previdenziali, così come ho cercato di descriverli nell’Appendice al mio libro “Alcune note sui ceti medi e l’estremismo di destra”. Prendi la questione dell’evasione fiscale. I professionisti iscritti alla GS dell’INPS lavorano per aziende, i committenti sono aziende, quindi il freelance deve fatturare per forza. Chi lavora per le persone private in genere chiede al cliente “Vuole fattura? Le costa di più”. E può lavorare in nero. Sono quelli di “prima generazione”. Apposta ho chiamato i freelance “di seconda generazione”. Ma ci sono altri elementi che hanno reso difficile il rapporto coi confederali. Noi eravamo per esempio d’accordo nella richiesta di salario minimo fissato per legge, la CGIL in particolare ha sempre detto di no, perché dicevano che c’era il rischio d’indebolire la contrattazione collettiva. Arrivata la Meloni, hanno cambiato idea. Mah. Comunque io noto un certo cambiamento all’interno sia della CGIL che della CISL, un cambiamento in positivo. Nella CGIL le differenze tra Federazioni sono eclatanti, tra FIOM e altre, per esempio. Nella CISL il dissenso verso la linea vergognosa di Sbarra [oggi sostituito da Fumarola senza cambiamenti N.d.A] mi sembra che cominci a farsi sentire.
Come ACTA noi percorriamo ormai terreni tutti specifici alla condizione dei freelance, trovando alleanze e sollecitazioni sul piano internazionale, soprattutto con gli Stati Uniti (la Freelancersunion) o con grandi realtà mutualistiche europee. Questo ci obbliga a lavorare per gruppi professionali specifici. Le problematiche di chi lavora nello spettacolo sono diverse da quelli che lavorano nella consulenza e così via. C’è un grande lavoro da fare, purtroppo la disponibilità a fare coalizione è scarsa, l’individualismo di chi parla solo col proprio cellulare è un cancro della società. Vincere l’individualismo porta dei vantaggi enormi, anche nel rapporto col mercato.
5. Analizzando una realtà come ACTA mi viene da chiederti quanto conta oggi l’autorganizzazione orizzontale dei lavoratori (penso anche ai riders che usano i social per coordinarsi nei loro tentativi di sciopero) rispetto ai modelli sindacali classici? Oppure può esserci una coordinazione tra questi modelli di lotta?
Il problema è quello della contrattazione collettiva. Fino a un anno fa secondo la normativa europea i lavoratori autonomi non potevano farla. Giuridicamente come si giustificava questa roba? La UE considerava gli autonomi delle imprese. Quindi l’impresa individuale veniva equiparata a una multinazionale, se un gruppo di imprese individuali si coalizzavano per contrattare collettivamente venivano considerate un trust e quindi un possibile pericolo di distorsione del mercato. Come un’assurdità del genere abbia potuto resistere per tanti anni senza che nessuno sollevasse obiezioni – a partire dalle stesse associazioni di lavoratori indipendenti – dà la misura di quanto l’ideologia neoliberale fosse un dogma assoluto che nessuno osava mettere in discussione. Poi qualcosa si è mosso quando sono nate le piattaforme, allora timidamente la UE ha cominciato a dire: “beh, questa norma non vale per i lavoratori che dipendono da piattaforme, perché in fin dei conti sono dei finti autonomi, sono dipendenti, tant’è vero che molte corti sia in Europa che in USA lo hanno riconosciuto. Noi come ACTA abbiamo denunciato l’assurdità della posizione europea ma di fatto non abbiamo mai tentato di realizzare una contrattazione collettiva. Finché sono arrivati tanti soci che lavorano come collaboratori esterni di case editrici e hanno provato a costruirne una. E hanno ottenuto il plauso…dell’Antitrust! “Fate bene, andate avanti!” Loro che non hanno mai mosso un dito per cancellare quella norma. Oggi il gruppo di questi lavoratori è aumentato tanto dentro ACTA, che hanno costituito una sezione a parte, Redacta, che sta facendo riunioni in tutta Italia molto partecipate. Lo stesso sindacato non ha mai affrontato questo problema con la UE, che io sappia il Nidil se n’è sempre fregato. Il problema del sindacalismo dei freelance è a) che non possono scioperare, b) che sono sparsi sul territorio, come fai a metterli insieme fisicamente? Quindi Internet, il sito, diventano lo strumento fondamentale per creare un minimo di coalizione. Il rapporto col sindacato continua ad essere nullo, non si litiga più ma in sostanza nessuno ha bisogno dell’altro, ci si ignora a vicenda. Tutto il contrario negli USA dove le Trade Unions hanno appoggiato la Freelancersunion, hanno sostenuto le loro rivendicazioni e l’approvazione della legge che considerano la loro vittoria più importante, il Freelance isn’t free ACT, secondo il quale i City Council di grandi città, a cominciare da New York, possono intervenire anche in giudizio per sostenere la richiesta di freelance che non vengono pagati dal loro committente. Su cosa si concentra allora l’azione di ACTA? Soprattutto su questioni riguardanti i diritti previdenziali, per esempio il sussidio di maternità, le malattie degenerative, la lungodegenza. Noi paghiamo fior di soldi alla Gestione Separata, che difatti è largamente in attivo, e invece di restituirci dei servizi li usa per ripianare i deficit delle gestioni di lavoratori dipendenti. Come si possono unire le lotte quando per i sindacati confederali gli autonomi non esistono?
6. Un altro tema di cui ti sei lungamente occupato sono i porti. In che modo la crisi finanziaria del 2008 ha cambiato per sempre il rapporto tra banche e armatori? Quali modelli alternativi di finanziamento potrebbero emergere in futuro per evitare cicli di sovraccapacità e debito insostenibile?
Una cosa è l’attività portuale, altra cosa l’attività armatoriale. Sono talmente diverse che spesso sono in conflitto tra loro. L’armatore, quando arriva in un porto, vuole andarsene il prima possibile, quindi vuole che i portuali lavorino più in fretta, con bello e cattivo tempo, manipolando merci comuni o merci pericolose. I portuali invece hanno tutto l’interesse a non ammazzarsi di lavoro, a non farsi male, a non rovinarsi la schiena o i polmoni. Sia quando caricano e scaricano navi full container, navi ro ro, sia quando lavorano su navi di merce varia tradizionale o navi rinfusiere. Le navi sono di tante tipologie e ogni tipologia rappresenta per un portuale un ambiente di lavoro diverso. Teoricamente i portuali hanno un potere di negoziazione molto forte. Se si fermano, la nave non parte. Per questo c’è sempre più la tendenza da parte degli armatori di gestire anche i porti. I cosiddetti “terminalisti puri” stanno scomparendo. In particolare dopo che si è affermato il gigantismo navale, che tra i suoi scopi, appunto, oltre a quello di raggiungere economie di scale, è quello di toccare il minor numero possibile di porti lungo l’itinerario. Se uno mi chiedesse qual è il lavoro più faticoso, più rischioso, quello del portuale o quello del marittimo, non avrei dubbi a rispondere: il lavoro di bordo. Se non altro per la ragione molto semplice che, accanto a un gruppo di armatori che tratta i propri equipaggi secondo certe regole sindacali, oggi c’è un numero imprecisato di navi dove le condizioni di lavoro a bordo rasentano la schiavitù. Questo non accade nei porti, sia perché in molti casi sono segmenti di un demanio pubblico, sia perché un porto dove la gente muore di fame, si ammala e vive nella totale incertezza del posto di lavoro, non serve agli armatori. Inoltre i porti, non dimentichiamolo, sono infrastrutture strategiche dal punto di vista militare. Pensiamo a quel che è successo con la Via della Seta. Attenzione anche a non fare confusione con i problemi della finanza. Una cosa è l’alta finanza in generale, quella che nel 2008 ha conosciuto il crack della Lehmann Brothers, altra cosa è quel comparto iperspecializzato della marine money cioè della finanza dello shipping, che ebbe nel 2012 uno scossone memorabile di cui fece le spese soprattutto la Germania, allora leader mondiale della finanza dello shipping e oggi praticamente sparita a favore di cinesi, giapponesi e asiatici in genere (Singapore, Malesia….). Per spiegarmi: un colosso come Blackrock non ha nulla da dire nella finanza dello shipping. Quando la nave gigante “Ever Given” del famoso armatore taiwanese s’incagliò nel Canale di Suez e bloccò il traffico per una settimana, chi andò a trattare il risarcimento dei danni con l’Autorità egiziana del Canale? La società di leasing giapponese che aveva finanziato la costruzione della nave. Non l’armatore-proprietario. Gli eccessi di capacità non hanno nulla a che fare con i problemi della finanza, sono gli alti e bassi tipici del settore dell’armamento. Nel 2027 è previsto un picco. Stessa cosa con i noli. C’era un periodo che trasportavano quasi gratis un container da 40 piedi da La Spezia a Shanghai, poi è arrivato il Covid, quello stesso container sulla stessa tratta poteva costare anche 10 mila dollari e le compagnie marittime hanno accumulato liquidità stratosferiche. Adesso i noli sono di nuovo in discesa. E chissà dove andranno, la Cina ha problemi enormi di produzione, l’Europa non se ne parla, il resto lo fanno i dazi di Trump. I soldi si fanno ormai solo con le guerre, con i bitcoin o con le terre rare.
7. I porti rientrano nella macrocategoria della logistica che va assumendo una sempre maggiore centralità nel capitalismo contemporaneo. Alcuni marxisti ritengono che la sfera della circolazione sia anche produttrice di valore, contrariamente a quanto sosteneva Marx nel Capitale. I lavoratori della logistica possono sfruttare i punti di strozzatura del settore in cui operano per danneggiare gravemente il capitalismo. Lo abbiamo visto in molti casi in questi ultimi quindici anni, penso ad esempio al blocco del porto di Oakland nel 2011 da parte dei lavoratori e degli attivisti del movimento Occupy Wall Street. Ritieni che questa categoria di lavoratori possa sostituire il ruolo nelle lotte svolto dai metalmeccanici nel fordismo? Ad esempio in Italia i facchini della logistica sembrano, come hai scritto in alcuni saggi, gli unici a non fare lotte puramente difensive (forse con l’eccezione dell’ex GKN che però mi sembra una storia maggiormente legata a quella delle imprese recuperate) o corporative.
I lavoratori dei trasporti in genere hanno un potere d’interdizione formidabile. Poche altre categorie, finora, sono state in grado di paralizzare un intero paese, un’intera economia, quanto i lavoratori dei trasporti che scioperano compatti. Da qui l’assoluta miopia di un capitalismo che li ha sfruttati al punto da creare un vero e prorio labor shortage in categorie come i marittimi o i camionisti. C’è sempre meno gente disposta ad andare per mare nei ruoli decisivi, capitani, direttori di macchina, soprattutto sempre meno disposta a passare la vita in mare, dopo cinque anni, massimo dieci, vogliono sbarcare. All’Accademia Nautica di Trieste – dove sono membro del comitato tecnico-scientifico – tocchiamo con mano che la disponibilità a passare una vita sulle navi sta quasi sparendo, pur conservando il mestiere del navigante ancora intatto il il suo fascino. L’Associazione mondiale degli armatori stima che tra qualche anno mancheranno 150 mila ufficiali di coperta. Per non parlare dei camionisti. Sempre più difficile trovarli, in particolare nel long haul. Ma chi ha più voglia di fare migliaia di chilometri dormendo in cabina nelle piazzole di sosta con l’incubo che ti rubino il carico e il committente che non ti paga da tre mesi? Da qui i vaneggiamenti sui veicoli o i natanti a guida autonoma. Possibili su brevi distanze protette o su operazioni di cabotaggio, ma improponibili su un traffico autostradale di lunga distanza o per una navigazione oceanica. Spostando ora il discorso sulla logistica distributiva, quella dello home delivery, mi sembra molto difficile che la categoria dei facchini o dei driver possa assumere la forza e il valore simbolico che hanno avuto gli operai dell’auto o della metalmeccanica in genere. Tra la catena di montaggio e l’algoritmo c’è una bella differenza in termini di controllo sul lavoro, in termini di disciplinamento della forza lavoro. I lavoratori della logistica distributiva hanno fatto notevoli passi avanti in questi anni, se pensiamo a cos’era un magazzino di Amazon qualche anno fa. Ma il problema deve essere spostato dal piano dei settori merceologici a quello delle filiere. E’ lì, nella struttura d’impresa, nel sistema degli appalti e subappalti che si consolida “la discesa agli inferi” verso la simil-schiavitù. Parlare di lotte non semplicemente difensive secondo un quadro mentale che riproduce il modello fordista ci porta fuori strada. La filiera è per definizione un modello post-fordista. Il che non significa che una lotta d’attacco sia improponibile. Basta guardare alla lotta contro le navi della morte dei portuali genovesi, che poi si è allargata alla questione della Palestina e si è imbarcata sulla flotilla sumud. All’inizio erano dei semplici presidi per denunciare che regolarmente delle navi scalavano il porto di Genova per imbarcare armi e materiali bellici destinati ai teatri di guerra del Medio Oriente, poi è finita che quelle navi sono arrivate e sono dovute ripartire senza un determinato carico, perché i portuali si rifiutavano d’imbarcarlo. Più che distinguere nettamente tra lotte offensive e difensive, occorre accettare che ogni lotta può trasformarsi, evolversi, in diverse direzioni. E’ da conservare come principio fondamentale il carattere intrinsecamente dinamico della lotta. Quando tocca il problema del lavoro non può, non potrà mai, essere una guerra di posizione.
8. Recentemente ti sei occupato dei ceti medi in Italia in relazione all’ascesa dell’estrema destra al potere. Come mai questa destra, anche se non maggioritaria nel paese, continua ad avere un consenso granitico? Se non redistribuisce ricchezza (a parte condoni e politiche morbide sull’evasione) e non ha un’idea di politica economica alle spalle che non sia seguire le direttive dell’austerità europea, come mantiene il consenso? Bastano veramente il nazionalismo e la retorica xenofoba?
In verità di ceti medi mi occupo intensamente dai primi anni ’90, quando ho iniziato il discorso sui “lavoratori autonomi di seconda generazione”. Se noi prendiamo in considerazione anche quelli di “prima generazione”, commercianti e coltivatori diretti, e poi i professionisti inquadrati negli ordini, arriviamo in Italia a una massa di 5 milioni e mezzo di persone. Che “la sinistra”, quando esisteva, non ha mai preso in considerazione, liquidandoli coi soliti luoghi comuni: evasori fiscali e basta. Se poi pensi che questa stessa “sinistra” dai tempi di Togliatti ha sostenuto che la conquista dei ceti medi era un suo obiettivo strategico, puoi capire facilmente con quanta superficialità abbia affrontato il problema. Poi questa “sinistra” è scomparsa, dal crollo del Muro di Berlino in poi penso che si possa dire che in Italia non è più esistito un partito che aveva tra i suoi principi fondamentali l’equa distribuzione del reddito. Perché per me questo è il limite da cui inizia un territorio politico, un modo di pensare e di agire che possiamo chiamare “di sinistra”. Fatti i conti, dalla costituzione del primo governo Prodi in poi (1996) quelli che sono stati definiti governi di coalizione di centro-sinistra hanno iniziato a smantellare le tutele che lo Statuto dei Lavoratori aveva instaurato, penso al “pacchetto Treu”, e sono andati avanti così fino al Jobs Act e oltre. I governi Berlusconi e soprattutto i cosiddetti “governi tecnici” hanno fatto il resto e l’Italia è diventata il paese con i salari più bassi dell’Europa occidentale, la precarietà del lavoro più devastante, forme sempre più preoccupanti di simil-schiavitù e fuga dei cosiddetti “talenti”. E ti meravigli della vittoria di Fratelli d’Italia, cioè di un partito che rivendica le sue radici nella repubblica di Salò? Ti meravigli che lo votino operai, giovani disoccupati o quelli invischiati nei “lavoretti”? A Fratelli d’Italia è bastato avere il 16% degli aventi diritto al voto per vincere, perché la gente – e in particolare quelli, come me, che hanno ancora dei principi ben radicati di giustizia sociale – non sono più andati a votare. L’astensionismo ha fatto vincere l’estrema desta.
Aggiungi che la Meloni ha un indubbio talento politico, aggiungi una situazione internazionale molto complicata dove lei si destreggia abbastanza pragmaticamente, e capirai facilmente che il suo governo non è il peggio di quello che ci poteva succedere. Nel frattempo il ceto medio, quello che Bagnasco chiamava “un minestrone di classi”, si è spappolato. The crisis of the middle class è uno dei luoghi comuni della sociologia americana ed è uno dei fenomeni più dirompenti delle politiche neoliberali e della globalizzazione. Ma non dimentichiamo un piccolo particolare: l’estrema destra governa l’Italia dal 2022, ma le regioni chiave del paese, Lombardia e Veneto, sono governate dalla destra (Berlusconi e Lega) da trent’anni. E le tre componenti della coalizione di centro-destra si assomigliano molto, malgrado certi attuali scazzi interni. Cioè sono identiche nei principi di fondo (nazionalismo e xenofobia) ma soprattutto ben rappresentano il capitalismo italiano. Dietro Fratelli d’Italia c’è Mediobanca e Blackrock, mica solo la Santanché. C’è il capitalismo della rendita di Berlusconi e di Benetton, mica solo i balneari. C’è l’industria di stato, Leonardo, Fincantieri, la lobby delle armi, oggi sulla cresta dell’onda nella UE e negli USA. Per mantenere il potere basta e avanza. La coalizione di centro-sinistra cosa ha fatto in questi anni? Sulla questione del lavoro ha semplicemente tradito i principi cui dice d’ispirarsi, si è concentrata solo sui cosiddetti “diritti civili” (genere, ambiente, politicamente corretto….) e ha trascinato in questa deriva anche il sindacato. Adesso però con la questione della Palestina il Paese sembra risvegliarsi, ha uno scatto di dignità, i giovani escono dalla loro passività. Troppo presto per dire “rinasce una sinistra” però l’aria sta cambiando, è inutile negarlo.
9. Un’ultima domanda. Da lavoratore e attivista sindacale mi interrogo spesso su quale strada il sindacato dovrebbe intraprendere per rinnovare la propria prassi. Uno degli autori che più mi hanno stimolato in queste riflessioni è Kim Moody che da almeno una trentina di anni propone il modello del social-movement unionism. Sostiene che la crisi della classe lavoratrice mondiale, segnata dalla globalizzazione neoliberista e dall’adozione dei metodi di produzione snella, impone ai sindacati di abbandonare tanto il modello tradizionale di “business unionism” quanto le vecchie forme di sindacalismo burocratizzato, subordinato alla logica della collaborazione con il capitale. Il rinnovamento del sindacato passerebbe da una trasformazione radicale della missione e della pratica sindacale. Il sindacato deve diventare un veicolo di organizzazione autonoma e combattiva della classe lavoratrice nel suo complesso, capace di unire la battaglia sui luoghi di lavoro a quella nei quartieri, nelle comunità e sulla scena politica, adottando una visione esplicitamente di classe e orientata a mobilitare non solo gli iscritti ma l’intero proletariato. Per via di questo dialogo serrato tra lavoratori e movimenti, questo teorico venne ripreso anche da Toni Negri nella sua elaborazione dello sciopero sociale. Te cosa ne pensi? Potrebbe essere una strada da seguire?
Non conosco gli scritti di Moody se non superficialmente. Se il suo messaggio è quello del social-movement unionism ha ragione ma, se ci pensi, dice una cosa scontata. E’ ovvio che nel momento in cui scompare la forma-partito dall’orizzonte della “sinistra” è solo il sindacato che può creare una mentalità non subalterna totalmente alla cultura dominante. Perché il sindacato, anche nella forma che ha assunto in Italia, di sindacato dei servizi, sindacato-patronato, offre comunque ai lavoratori occasione per capire che gli interessi tra capitale e lavoro sono divergenti e quindi che è necessaria la negoziazione, che è una forma di contrapposizione. Anche il peggiore sindacato passa per momenti di conflittualità. Quindi, sia pure in maniera mediata, contribuisce a quella formazione politica, che una volta era compito del partito assolvere. Trovo coerente per esempio che, per le ragioni che ho esposto nella risposta alla domanda precedente, ci siano operai che votano Meloni e continuano ad essere iscritti alla CGIL. Non votano più centro-sinistra perché i maggiori partiti di questa coalizione hanno rinunciato da tempo a difendere gli interessi dei lavoratori, anzi, come abbiamo visto, hanno attivamente collaborato a rendere peggiore la condizione dei salariati, esasperando le forme di flessibilità. Rimangono all’interno del sindacato perché almeno in quella sede trovano occasioni per essere difesi e non abbandonati completamente a se stessi. Del resto, per convincersi che questo è un comportamento assai diffuso, basta osservare la crescita quantitativa dei sindacati di base. Ciò dimostra una disponibilità al conflitto, all’antagonismo, che viene praticato anche se nel chiuso della cabina elettorale quelle persone votano per l’estrema destra. Avanti dunque con il social-movement unionism, ma non basta, io credo che bisogna guardare dentro ai recenti movimenti scatenati dall’indignazione per la politica di genocidio israeliana. Sono convinto che in parte la Palestina è solo un pretesto per far uscire tutta la frustrazione e il senso d’impotenza che questi decenni di politiche neoliberali hanno provocato in tutte le persone che ritengono sia giusto poter vivere con i proventi del proprio lavoro. Poi ci sono mille altre sollecitazioni e motivazioni, ovviamente, c’è la presenza ormai significativa di figli o nipoti d’immigrati, nati e cresciuti in Italia, c’è la spinta caritatevole, puramente umanitaria, ma c’è anche il desiderio di molti giovani di uscire dallo stato d’ignoranza cui sono stati tenuti o di proteggersi dal bombardamento mediatico di notizie manipolate, per creare invece un proprio sguardo sulle cose. Insomma c’è una spinta all’autoformazione.