Attraverso il libro collettivo Boris Vian, bâtisseur de langages indagheremo l’uso del linguaggio nelle opere di Boris Vian.
Nicole Bertolt, nella sua veste di direttrice del patrimonio di Boris Vian e rappresentante della Cohérie Boris Vian, riflette sulla molteplicità di approcci critici che l’opera di Vian continua a generare, sottolineando come, nonostante gli studi già compiuti, esistano ancora prospettive inesplorate e nuove interpretazioni da scoprire. Bertolt ha utilizzato una metafora cardiaca per descrivere l’evoluzione della ricezione dell’autore. Il primo cuore è quello fisico di Vian, malato ma pulsante di creatività, il secondo è rappresentato dalla cerchia di collaboratori, guidati da Ursula Vian, che hanno dedicato anni a far emergere l’opera dall’oblio, il terzo, più sfuggente e concettuale, risiede nella casa di Cité Véron, luogo simbolico dove Bertolt stessa ha lavorato, trasformandolo in un crocevia internazionale per studiosi e appassionati.
Particolare attenzione è stata dedicata al ruolo cruciale dell’accademia nel garantire la trasmissione dell’eredità vianesca alle nuove generazioni. Secondo Bertolt l’università rappresenta il ponte necessario affinché i giovani possano accedere non solo ai testi più noti, come L’Écume des jours o Le déserteur, ma anche alla complessità poliedrica di un autore che sfugge a qualsiasi categorizzazione. Il linguaggio di Vian, con le sue sfumature ironiche, le invenzioni lessicali e la carica vibratoria, richiede un approccio aperto, capace di accogliere anche l’incomprensione come parte del processo interpretativo. Guy Laforet ha approfondito la questione del linguaggio ripercorrendo le tappe che hanno portato Vian da autore controverso a classico della letteratura francese. Cita le parole profetiche di Raymond Queneau, il quale già nel 1953, nella prefazione a L’Arrache-cœur, annunciava l’inevitabile affermazione di Vian nel panorama letterario. Questa previsione si è concretizzata con l’ingresso nella prestigiosa collana della Pléiade e anche attraverso la pubblicazione delle opere complete in quindici volumi da parte di Fayard, le numerose traduzioni internazionali e la proliferazione di studi accademici. Laforet ha poi fatto un sapiente riferimento al convegno di Cerisy-la-Salle del 1976, momento fondativo per la critica vianesca, ricordando con affetto figure chiave come Noël Arnaud, François Caradec e Jacques Bens, quest’ultimo autore di un saggio seminale che analizzava per la prima volta in modo sistematico le peculiarità linguistiche dell’autore.
Bens ritiene che ogni tentativo di spiegare un’opera letteraria è destinato a fallire, se non a trasformarsi in una sorta di maledizione che ne svuota il significato. Ciò che rimane possibile è solo l’indicazione di alcune osservazioni evidenti poiché ciò che va oltre queste evidenze appartiene a una sfera personale, un dialogo intimo e non verbalizzato tra il lettore e l’autore. La poesia, in particolare, si colloca in un territorio inaccessibile all’analisi razionale, un dominio in cui le parole si fanno tramite di un’esperienza che trascende la logica ordinaria. L’arte, e soprattutto la poesia, sfugge a ogni sistematizzazione critica poiché il suo potere risiede proprio nella capacità di evocare senza spiegare, di suggerire senza definire.
Ogni scrittore, in misura maggiore o minore, è costretto a reinventare il mondo sia perché la complessità della realtà sfugge alla capacità rappresentativa del linguaggio, sia perché la scrittura diventa lo strumento per esorcizzare i propri demoni interiori. Ciò che emerge è una vasta gamma di approcci, dalla fedeltà quasi documentaristica al reale fino alla costruzione di universi completamente immaginari, al punto che si potrebbe classificare un autore proprio in base alla coerenza del suo mondo narrativo. Al di là delle differenze superficiali, che possono spaziare dal naturalismo più crudo alla fiaba più fantastica, tutti gli scrittori operano all’interno di un sistema logico riconoscibile, sostanzialmente governato dalle leggi aristoteliche di causa ed effetto. Anche l’introduzione di elementi magici o soprannaturali non mette in discussione questo sistema ma lo sposta semplicemente su un piano diverso. I tappeti volano, le scarpe coprono sette leghe in un passo, gli uomini si trasformano in animali ma tutto ciò avviene all’interno di una struttura narrativa che rimane fondamentalmente razionale. Una volta accettato il presupposto fantastico nulla di ciò che accade può davvero sorprenderci perché la logica interna del racconto rimane coerente con se stessa. In L’Écume des jours, dice Bens, Boris Vian costruisce un universo che sfugge a questa regola. Il suo mondo è sì coerente ma le sue leggi non sono immediatamente comprensibili e questa opacità genera nel lettore un senso crescente di inquietudine. I personaggi si muovono in questo spazio con naturalezza, come se fosse l’unico possibile, mentre il lettore avverte che qualcosa di indefinibile mina le certezze della logica ordinaria. Ciò che rende questo mondo perturbante è proprio il fatto che, pur essendo governato da regole precise, queste regole non sono mai del tutto esplicitate, lasciando aperta la possibilità che accada l’imprevedibile. Eppure,i personaggi non sembrano turbati da questa ambiguità, anzi, il loro comportamento è così vicino al nostro da renderli immediatamente riconoscibili, quasi familiari. La chiave di questo universo risiede nel linguaggio stesso. A differenza di altri autori, che costruiscono mondi attraverso la narrazione, Vian sembra scoprirli, come se il linguaggio contenesse già in sé tutte le possibilità del reale. In questo senso la sua opera può essere letta come un’esplorazione delle potenzialità nascoste della parola che non si limita a descrivere il mondo ma lo genera. Per farlo Vian adotta tre strategie principali. La prima consiste nel prendere alla lettera le espressioni idiomatiche: un’”ordinanza” viene eseguita con una ghigliottina da ufficio, un uomo “piantato” mette radici, una scala “svanisce” davvero sotto i piedi di chi la percorre. La seconda strategia è quella delle “demi-créations”, ovvero parole esistenti modificate lievemente (“chevéche” o “chuiche”) o utilizzate in un senso distorto (“alérions” per indicare uccelli). La terza è la creazione pura e semplice di neologismi che possono designare oggetti reali (“députodrome”) o concetti del tutto nuovi (“pianocktail”). A queste si potrebbe aggiungere una quarta categoria, quella del gioco di parole, che però spesso si sovrappone alle altre tre, rendendo difficile una classificazione netta. Ciò che trasforma questi esperimenti linguistici in qualcosa di più di un semplice divertissement è la progressiva consapevolezza che il gioco nasconde una profonda angoscia. Quello che all’inizio sembra un esercizio di stile si rivela, pagina dopo pagina, una trappola metafisica, in cui il linguaggio, elevato a divinità, si rivela capace di plasmare, oltre alla narrazione, la stessa percezione del reale. La domanda che sorge spontanea è se ci troviamo di fronte a un mistero (un evento incomprensibile, privo di una chiave interpretativa univoca) o a una mistificazione (un evento altrettanto incomprensibile ma deliberatamente costruito per disorientare). Nel caso di Vian la risposta non è scontata poiché la sua scrittura sembra oscillare tra queste due polarità. Da un lato, è possibile che alcuni meccanismi narrativi sfuggano allo stesso autore, generando significati non previsti, dall’altro è altrettanto plausibile che ogni ambiguità sia calcolata, parte di un disegno più ampio volto a destabilizzare le certezze del lettore. In L’Écume des jours questa ambivalenza si manifesta in ogni elemento della trama. Il nenufaro che cresce nei polmoni di Chloé può essere letto come una metafora della tubercolosi e come un evento perfettamente coerente con un mondo in cui i fiori spuntano tra le crepe dei marciapiedi. La casa di Colin che si restringe progressivamente può simboleggiare il crollo psicologico di un uomo travolto dalla malattia della persona amata ma al tempo stesso è un fenomeno che non stupisce in un universo dove le scale possono svanire e le cravatte rifiutarsi di essere annodate. Persino la scena in cui Colin fa crescere cannoni da fucile seminati in terra sterile, un’immagine che potrebbe alludere all’assurdità della guerra, si inserisce perfettamente in una realtà dove i bambini vengono sgozzati in vetrine propagandistiche. Ogni evento possiede dunque una doppia natura: simbolica, nel senso che rimanda a un significato ulteriore, e drammatica perché è funzionale alla logica interna del racconto. Questa ambiguità strutturale è ciò che rende l’opera di Vian così perturbante. La mente umana cerca istintivamente certezze ma qui ogni tentativo di interpretazione univoca è destinato a fallire. Forse la soluzione migliore è abbandonare l’ossessione del significato e abbracciare il mistero perché è proprio in esso che risiede la poesia. Un altro aspetto che colpisce rileggendo L’Écume des jours è la purezza quasi adolescenziale dei suoi personaggi. Pur essendo adulti Colin, Chloé e gli altri protagonisti conservano una freschezza emotiva che li rende vulnerabili e al tempo stesso straordinariamente autentici. Le loro reazioni, dallo stupore alla disperazione, sono sempre intense, prive della cinica rassegnazione che spesso caratterizza l’età matura. Questa purezza è una forma di resistenza alla corruzione del mondo, un rifiuto delle convenzioni sociali che si esprime attraverso azioni concrete. Questa stessa purezza li rende vittime designate del destino. A differenza dei personaggi de L’Automne à Pékin, che affrontano le avversità con ironia e distacco, i protagonisti de L’Écume des jours subiscono passivamente il loro tragico epilogo. La loro identità quasi intercambiabile, Colin, Chloé, Alise e gli altri potrebbero scambiarsi i ruoli senza alterare la trama, accentua l’impressione di un destino ineluttabile che li travolge come una forza naturale. L’opera di Vian è anche un tributo alla musica jazz e alla Patafisica, la “scienza delle soluzioni immaginarie” che influenzò profondamente la sua visione del mondo. Cercare in essa una morale o un messaggio univoco è un’operazione vana. Come scrive lo stesso Vian in una nota inedita, la vita si divide in due fasi: quella in cui ci si preoccupa di sé stessi e quella in cui si affrontano i veri guai, quando si smette di pensare solo alla propria sopravvivenza. Forse, in fondo, è proprio questa la lezione più profonda della sua scrittura dice Bens, accettare l’ambiguità, vivere nel dubbio e trovare nella poesia, non nelle spiegazioni, la risposta alle domande più urgenti.
Proprio l’analisi di Bens ha offerto a Laforet lo spunto per addentrarsi nell’officina linguistica di Vian, caratterizzata da tre procedimenti principali: l’uso spiazzante del linguaggio letterale (come nella scena grottesca dell’esecuzione dell’ordinanza medica di Chloé alla ghigliottina), la creazione di parole ibride (antiquitaire o chuiche) e l’invenzione pura (pianocktail o députodrome). A questi si aggiunge una quarta categoria, più sfuggente, costituita da frasi enigmatiche che resistono a qualsiasi decifrazione univoca, diventando veri e propri nodi concettuali. Laforet ha sottolineato come questi giochi linguistici nascondano una feroce critica sociale, in linea con la sensibilità patafisica che vede nel comico e nel tragico due facce della stessa medaglia. Il discorso si è poi spostato sulle provocazioni che Vian stesso ha rivolto al mondo della critica, dalle invettive contenute nella postfazione a Les Morts ont tous la même peau (dove definisce i critici “dei vitelli” incapaci di approcci oggettivi) alle riflessioni amare del Journal à rebrousse-poil sull’incapacità del pubblico di accettare veramente l’innovazione. Questi passaggi sono il segno di una coerenza radicale con i principi esposti nel Traité de Civisme, dove Vian sogna una “poetica” capace di coniugare creatività e impegno.
La studiosa Allison Durand indaga invece il linguaggio animale nell’opera di Boris Vian, analizzando come lo scrittore francese abbia elaborato una vera e propria poetica della comunicazione non-umana che trova il suo fondamento teorico nel concetto derridiano di animots, termine che fonde mirabilmente “animale” e “parola” per suggerire l’idea di una parola vivente, animata, autonoma. Attraverso un’analisi testuale puntuale che spazia dai romanzi maggiori come L’Écume des jours e L’Arrache-cœur fino alle opere minori e alla produzione poetica, Durand dimostra come Vian attribuisca agli animali un vero e proprio linguaggio articolato, complesso e per molti versi alternativo a quello umano. Questa particolare concezione del linguaggio animale si manifesta in Vian attraverso molteplici livelli espressivi. Innanzitutto, sul piano fonico e lessicale, Vian elabora un repertorio di suoni e neologismi che mimano le voci animali ma che al tempo stesso le trascendono, trasformandole in elementi di una nuova lingua. Esempi emblematici sono il verbo “zonzonner”, derivato dall’onomatopea “zonzon” (ronzio) che nelle pagine de L’Écume des jours descrive il volo delle bestiole nel sole o il termine “brouzillon”, fusione di “bourdon” e “grillon” che dà vita a un insetto immaginario la cui comparsa interrompe una scena quotidiana con una nota di fantasia surreale. Ancora più significativo è il caso dell'”ouapiti”, creatura fantastica descritta dal cane Senatore in L’Herbe rouge con tratti volutamente paradossali (“verde, con aculei rotondi e che fa plop quando lo si getta in acqua”), che diventa emblema di un desiderio puro e di una felicità ingenua contrapposta alla razionalità corrotta degli umani. L’originalità dell’approccio vianiano al linguaggio animale non si limita alla pura invenzione lessicale. Vian sviluppa infatti una vera e propria teoria della comunicazione animale che si articola su diversi piani complementari. C’è la dimensione sonora e musicale, profondamente influenzata dalla passione dell’autore per il jazz, che trasforma i versi animali in vere e proprie composizioni musicali. Gli uccelli di Vian, ad esempio, interpretano melodie umane. Nel poema Chatterie intonano spiritual creoli mentre nell’incipit de L’Automne à Pékin un uccello suona Les Bateliers de la Volga con delle lattine vuote, dimostrando persino un sorprendente senso autocritico quando sbaglia una nota. Questa musicalità animale rappresenta una forma di resistenza alla banalità del linguaggio umano, elevando i suoni naturali a espressione artistica. Durand mette in luce come Vian attribuisca agli animali una straordinaria capacità di comunicazione non verbale, attraverso gesti, posture ed espressioni che spesso ricalcano quelle umane in un gioco di specchi deformanti. La celebre vache qui rit, ispirata all’iconografia pubblicitaria di Benjamin Rabier, diventa ne L’Arrache-cœur una macabra caricatura: una testa mozzata, privata degli occhi e del naso, che ride beffardamente, trasformando un simbolo commerciale in un’immagine di violenza assurda. Allo stesso modo, la crocifissione di un cavallo, punito per aver seguito il proprio istinto naturale, mette in scena una crudeltà grottesca che critica l’ipocrisia morale della società umana. Uno degli aspetti più innovativi dell’analisi di Durand riguarda la funzione dialogica attribuita agli animali nell’universo vianiano. Attraverso un’attenta disamina di testi come Bonjour chien e Conte de fées à l’usage des moyennes personnes, la studiosa dimostra come Vian attribuisca agli animali la capacità di rispondere agli umani e spesso di farlo con superiore ironia e intelligenza. Il cavallo Sthène, che evolve da un linguaggio onomatopeico (il suo iniziale “HouynHouynHouyn” è un chiaro riferimento ai cavalli razionali dei Viaggi di Gulliver) a un eloquio umano pieno di sarcasmo, rappresenta forse l’esempio più compiuto di questa inversione di ruoli. Analogamente, il cane di Une grande vedette che trasforma l’espressione “temps de chien” in “temps d’homme” compie un’operazione linguistica che è al tempo stesso comica e profondamente sovversiva, suggerendo che la vera brutalità appartiene agli umani. Esiste anche una dimensione politica e storica del linguaggio animale in Vian. In opere come Blues pour un chat noir, dove un gatto reduce dalla Resistenza racconta di essere stato deportato a “Buchenkatze” (crudele gioco di parole su Buchenwald), o in L’Arrache-cœur, dove la valchiria bovina allude alle vittime dei conflitti mondiali, gli animali diventano veicoli di una denuncia radicale che usa l’assurdo e il grottesco per rappresentare l’orrore storico. La studiosa evidenzia come in questi casi il linguaggio animale assuma una funzione catartica, trasformando il trauma in rappresentazione artistica. Particolarmente illuminante è l’analisi di quelle figure animali, come le maliette (uccelli che cantano in perfetti accordi musicali) o le lumette (creature simili a lumache che lasciano scie iridescenti), che trascendono la semplice funzione narrativa per diventare metafore poetiche di un altrove fantastico. Queste creature, insieme alle souris danzanti de L’Écume des jours, rappresentano forse la più alta espressione della poetica vianiana: entità linguistiche che abitano lo spazio liminale tra reale e immaginario, tra suono e senso, tra vita e rappresentazione.
Guy Lavorel ci conduce in un viaggio analitico attraverso due opere teatrali fondamentali di Boris Vian, Série blême e Les Bâtisseurs d’empire, rivelando come queste rappresentino una critica radicale e una rielaborazione innovativa del linguaggio teatrale. L’analisi si sviluppa come un flusso continuo di osservazioni che intrecciano temi, stile e contesto storico-letterario, mostrando come Vian abbia fatto del linguaggio il vero protagonista della sua drammaturgia. La riflessione parte dal contesto culturale degli anni ’50, quando Vian, già noto per opere come J’irai cracher sur vos tombes, si avvicina al teatro con una precisa intenzione polemica. Lavorel sottolinea come l’autore francese vedesse nel suo tempo una preoccupazione fondamentale: smascherare quelli che chiamava “les escrocs du verbe”, i truffatori della parola, coloro che praticano quella “démagogie verbale” fatta di discorsi vuoti e manipolatori. Questo impegno etico si traduce in una sperimentazione linguistica che raggiunge il suo apice proprio nelle due opere analizzate. In Série blême, scritta nel 1952 ma pubblicata postuma, Vian costruisce un universo teatrale che è già di per sé una sfida alle convenzioni. Lavorel dedica particolare attenzione alla scelta formale dell’alessandrino, metro classico per eccellenza della poesia francese, qui utilizzato in modo provocatorio per veicolare un linguaggio volgare e argotico. Questo contrasto stridente tra forma elevata e contenuto basso crea un effetto di straniamento che costringe lo spettatore a interrogarsi sulla natura stessa della comunicazione. Il personaggio di James Monroe, criminale e scrittore insieme, incarna questa contraddizione. Egli cerca disperatamente il silenzio, arrivando a strappare la lingua al suo servo Machin ma è costretto a confrontarsi con un flusso inarrestabile di parole vuote. Lavorel analizza con precisione il personaggio di Machin, inizialmente muto e poi improvvisamente verboso, che diventa emblema della crisi della comunicazione. Quando finalmente parla, lo fa citando fonti popolari come l’Almanach Vermot o Jules Verne, in un flusso di coscienza che è parodia del linguaggio colto ridotto a puro rumore di fondo. L’episodio in cui James gli strappa la lingua con le tenaglie viene letto come metafora della soppressione di un linguaggio diventato insopportabile nella sua vacuità. L’analisi si sofferma poi sulle note a piè di pagina, elemento spesso trascurato ma fondamentale nella struttura di Série blême. Queste note, che fingono di spiegare l’uso degli alessandrini “bianchi”, aggiungono un ulteriore livello di distacco critico, creando quello che Lavorel definisce un “teatro nel teatro”. La loro ironia sottile ricorda le tecniche usate da Ionesco in La Cantatrice chauve ma con una carica ancora più dissacrante. Passando a Les Bâtisseurs d’empire, Lavorel mostra come Vian approfondisca la sua riflessione sull’incomunicabilità attraverso una struttura allegorica ancora più radicale. La famiglia protagonista, in fuga da un rumore minaccioso e indefinibile (il “schmürz”), sale incessantemente scale verso piani sempre più vuoti, in una metafora dell’ascesa sociale che si rivela un percorso verso il nulla. Lavorel dedica particolare attenzione alle didascalie iniziali che descrivono uno spazio teatrale vuoto, abitato solo da voci senza corpi, anticipando così il tema centrale della pièce: il linguaggio come presenza-assenza, come traccia di un’esistenza che si sta dissolvendo. Il linguaggio dei protagonisti è frammentato, fatto di cliché, discorsi pedanti e liste ossessive di sinonimi. La domestica Cruche, con le sue interminabili enumerazioni diventa emblema di un linguaggio che cerca disperatamente di afferrare la realtà attraverso la moltiplicazione dei significanti ma che in questo modo non fa che allontanarsene ulteriormente. Lavorel sottolinea come i dialoghi tra i personaggi siano costellati di non sequitur e giochi linguistici che smascherano l’arbitrarietà del significato, come nell’esempio del dialogo tra Zénobie e Cruche sul tempo che “passa male”, dove un luogo comune viene trasformato in un nonsense surreale. Particolarmente approfondita è l’analisi del monologo finale del Padre, che Lavorel legge come il culmine della riflessione vianiana sul linguaggio. Mentre cerca di razionalizzare la propria solitudine attraverso termini tecnici (“récapitulation”, “inventaire”), il Padre si rende conto che le parole gli sfuggono, rivelando la loro incapacità di cogliere l’esperienza esistenziale. La presenza del “schmürz”, personaggio muto che rappresenta l’alterità assoluta, completa questa rappresentazione del linguaggio come strumento fallimentare di comunicazione. Lavorel identifica due strategie principali attraverso cui Vian decostruisce il linguaggio teatrale: la parodia e il codice cifrato. La prima è evidente nelle citazioni deformate dei classici (come la parodia di Racine in “Pour qui sont ces serpents qui sifflent sur vos têtes” trasformata in “Le poulouc, ce sournois serpent siffleur de Sfax”) o nel trattamento grottesco di situazioni convenzionali come il matrimonio, descritto dalla Madre con un tono tra il burocratico e il libertino. La seconda strategia si manifesta nell’uso dell’argot, dei neologismi (“chpil”, “schmürz”) e dei riferimenti patafisici (“clinamen”, “orchidée périphérique”) che creano un linguaggio volutamente ostico, quasi un “anti-linguaggio” che sfida la comprensione immediata. Lavorel insiste sul fatto che questa oscurità non è fine a se stessa. Attraverso un’attenta analisi di passaggi specifici, mostra come Vian voglia costruire un “universo parallelo”, un “oltre nuziale della parola” (citando Jacques Bens), in cui il linguaggio diventa materia viva, capace di fondere umano, vegetale e minerale. L’esempio dei “piselli odorosi” nel monologo del Padre viene letto come un momento di fragile tenerezza che emerge dal caos linguistico, dimostrando come Vian cerchi sempre, dietro la provocazione, una purezza espressiva autentica. Vian denuncia in maniera spietata la “demagogia verbale” e la violenza insita nel linguaggio (esemplificata dalla lingua strappata in “Série blême”) mentre cerca ostinatamente una forma di espressione autentica che passa attraverso il gioco, la poesia e la creazione di mondi alternativi. Lavorel cita l’immagine del linguaggio come limone da spremere per estrarne il succo vitale, metafora che ben rappresenta l’approccio vianiano: un teatro “à rebrousse-poil”, controcorrente, che rifiuta ogni convenzione per arrivare a un linguaggio insieme più crudo e più poetico, in cui le parole non descrivono il mondo ma lo reinventano.
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La figura di Vernon Sullivan, pseudonimo dietro cui si celava Boris Vian, rappresenta una delle più intriganti e complesse sperimentazioni letterarie del secondo dopoguerra francese, un vero e proprio caso di studio che travalica i confini del semplice espediente pseudonimico per trasformarsi in un’autentica operazione metanarrativa. Questo alter ego letterario, nato inizialmente come risposta a un’esigenza contingente, la richiesta dell’editore Jean d’Halluin di un romanzo scandaloso per lanciare la neonata casa editrice Le Scorpion, si evolse ben presto in un sofisticato laboratorio di scrittura attraverso cui Vian poté esplorare i meccanismi stessi della creazione romanzesca, interrogando i confini tra originalità e imitazione, tra letteratura “alta” e di consumo, tra autenticità e mistificazione. Il contesto storico-culturale in cui questa operazione prese forma era particolarmente fecondo per tali sperimentazioni. La Francia del dopoguerra viveva un momento di profonda riflessione sul ruolo e sulle forme del romanzo, divisa tra l’ammirazione per la narrativa americana, percepita come vitale e liberatoria, e il timore per la sua presunta immoralità. In questo clima J’irai cracher sur vos tombes esplose come una bomba letteraria, presentandosi abilmente come la traduzione di un testo americano censurato in patria, opera di un immaginario scrittore afroamericano in fuga dal razzismo. La costruzione di questa finzione editoriale fu così convincente che persino alcuni addetti ai lavori vi credettero, dimostrando quanto l’operazione toccasse nervi scoperti del sistema letterario dell’epoca. Ciò che rende particolarmente interessante l’analisi di questa produzione è la duplice natura del rapporto tra Vian e il suo doppio letterario. Le lettere a Michelle Léglise rivelano un atteggiamento di apparente disprezzo verso questi testi, definiti con termini sprezzanti come “pennzum” o “grosse cochonneries” ma è proprio attraverso questa maschera che Vian condusse alcune delle sue più radicali sperimentazioni linguistiche e narrative. Questa contraddizione apparente cela in realtà una profonda coerenza, il distacco ironico dall’alter ego permetteva a Vian di esplorare territori narrativi altrimenti preclusi, mantenendo al contempo una posizione critica verso la propria creazione. L’analisi stilistica dei romanzi sullivaniani rivela una stratificazione di influenze e riferimenti che vanno ben oltre la semplice imitazione del hard-boiled americano. Se è vero che Vian attinge a piene mani da autori come Faulkner (con echi particolarmente evidenti di Luce d’agosto e Santuario), Cain o Chandler, la sua operazione è sempre di transcodificazione più che di mera ripresa. Prendendo a prestito gli elementi più crudi del noir americano, come la violenza, l’erotismo, il linguaggio diretto, Vian li sottopone a un processo di esasperazione che ne rivela la natura convenzionale, in un gioco metaletterario che anticipa certe operazioni postmoderniste. La questione razziale, centrale in J’irai cracher sur vos tombes, merita un’analisi particolare. A differenza di approcci più retorici come quello sartriano ne La putain respectueuse, Vian affronta il tema attraverso una rappresentazione brutale che rifiuta ogni mediazione ideologica, mostrando la violenza razzista nella sua nuda efferatezza. La scena del linciaggio finale, con la sua narrazione oggettiva e quasi clinica, raggiunge un’intensità tragica che supera di gran lunga molte trattazioni più esplicitamente impegnate sull’argomento. Il successivo sviluppo della produzione sullivaniana, attraverso Les Morts ont tous la même peau, Et on tuera tous les affreux e Elles se rendent pas compte, mostra un’evoluzione significativa nell’uso dello pseudonimo. Inizialmente la mistificazione era essenziale al progetto, tuttavia con il passare del tempo e soprattutto dopo lo scandalo giudiziario, Sullivan diventa piuttosto uno spazio di libertà narrativa, dove Vian può permettersi sperimentazioni sempre più ardite. Particolarmente interessante è il progressivo spostamento verso il pastiche e la parodia, evidente soprattutto in Elles se rendent pas compte, dove i cliché del noir vengono portati all’estremo in una trama che mescola gangsterismo, travestitismo e dipendenza da morfina con un gusto quasi surrealista. La vicenda giudiziaria legata a J’irai cracher sur vos tombes rappresenta un capitolo significativo della biografia vianiana e della storia della censura letteraria in Francia. Il contrasto tra il trattamento riservato a Vian e la difesa appassionata di cui fu oggetto Henry Miller da parte dell’intellighenzia francese (Sartre, Camus, Breton) rivela le gerarchie implicite nel campo letterario dell’epoca, dove la letteratura “impegnata” godeva di uno status privilegiato rispetto alla narrativa di genere, anche quando affrontava temi analoghi. L’analisi del progetto incompiuto On n’y échappe pas, concepito per la Série Noire di Duhamel, offre interessanti spunti per comprendere l’evoluzione del rapporto di Vian con il genere poliziesco. Qui si nota un tentativo di conciliare le esigenze commerciali della collana con una personale rielaborazione dei temi cari all’autore: la violenza della guerra (in questo caso quella di Corea), le dinamiche familiari disturbate, l’erotismo ambiguo. L’incompiutezza dell’opera lascia aperte molte questioni sul possibile sviluppo di questa nuova fase ma mostra comunque un Vian più maturo nel gestire i materiali del noir. Dal punto di vista linguistico la produzione sullivaniana rappresenta un caso esemplare di ibridazione culturale. Vian, grazie alla sua profonda conoscenza dell’inglese maturata attraverso la passione per il jazz e l’attività di traduttore, crea un francese “americanizzato” che non è semplice calco ma reinvenzione espressiva. L’uso dello slang, le costruzioni sintattiche mutuate dall’inglese, il ritmo serrato del dialogo, tutti elementi che contribuiscono a creare un linguaggio narrativo unico, sospeso tra due culture. L’eredità dell’esperimento Sullivan va ben oltre il suo contesto storico. La ricezione critica dell’opera sullivaniana ha conosciuto un’evoluzione significativa nel tempo. Se inizialmente questi testi furono spesso liquidati come semplici esercizi commerciali, la critica più recente (da Rybalka a Lapprand) ne ha messo in luce la complessità e l’importanza nel percorso creativo di Vian. Particolarmente interessante è l’analisi di come questi romanzi dialoghino con la produzione “ufficiale” vianiana, rivelando continuità tematiche e stilistiche spesso trascurate. Sul piano sociologico il fenomeno Sullivan offre un osservatorio privilegiato per comprendere i mutamenti nel gusto del pubblico francese del dopoguerra. Il successo di J’irai cracher sur vos tombes, amplificato dallo scandalo, rivela una certa appetenza per la trasgressione che caratterizzerà sempre più la cultura popolare mentre le successive oscillazioni delle vendite dei romanzi sullivaniani tracciano una mappa delle trasformazioni nel mercato editoriale. L’aspetto forse più affascinante di questa vicenda risiede nella sua irriducibile ambiguità. Vernon Sullivan fu contemporaneamente uno pseudonimo commerciale, un’esperienza narrativa radicale, una provocazione intellettuale, un gioco metaletterario. Questa molteplicità di piani resiste a ogni tentativo di classificazione univoca, costituendo forse il suo tratto più moderno e attuale.
Marc-Henri Arfeux indaga l’essenza poetica di Boris Vian, una qualità che permea non solo le sue opere esplicitamente poetiche ma l’intero corpus della sua produzione letteraria. Arnaud sostiene con convinzione che la poesia di Vian si manifesti forse con maggiore intensità nei suoi romanzi che nelle raccolte di versi, affermazione che trova conferma nell’atmosfera unica di opere come L’Écume des jours e L’arrache-cœur, dove la realtà viene costantemente trasfigurata attraverso un linguaggio visionario. Questi romanzi, particolarmente apprezzati dai surrealisti come Gérard Legrand e Georges Goldfayn già negli anni ‘50 quando erano ancora poco conosciuti, rappresentano esempi paradigmatici di come Vian riesca a fondere il nonsenso e la fantasia più sfrenata con un lirismo sospeso e malinconico, creando mondi narrativi che ricordano per certi aspetti l’universo di Lewis Carroll ma con una carica esistenziale e una profondità emotiva del tutto originali. L’opera poetica di Vian si estende a tutto ciò che ha scritto, dai Cent Sonnets, iniziati nel 1939-40 quando l’autore era ancora giovanissimo, alle Cantilènes en gelée del 1949, fino ai ventitré poemi di Je voudrais pas crever, composti nell’ultimo decennio della sua vita e pubblicati postumi nel 1962. Nei romanzi la dimensione poetica si rivela attraverso un uso innovativo e spregiudicato del linguaggio, dove le immagini surreali si susseguono in un caleidoscopio di suggestioni, i giochi di parole diventano strumenti di conoscenza e le invenzioni lessicali servono a deformare la realtà per coglierne l’essenza più autentica. In Vercoquin et le plancton, ad esempio, Vian descrive un giardino in cui i fiori appena sbocciati lasciano cadere delle “conchiglie” che formano un tappeto scricchiolante sotto i piedi, unendo magistralmente il verbo éclore (sbocciare) all’idea di un guscio che si rompe, in un gioco di doppi sensi tipico del suo stile che trasforma la descrizione in un’esperienza quasi tattile e sonora. In L’Arrache-cœur la rappresentazione di un ruscello dalle acque rosse e opache, paragonate alla “bava del crache-sang” (sputasangue), crea un paesaggio onirico e perturbante che trascende la semplice descrizione naturalistica per diventare metafora di un malessere esistenziale mentre piante immaginarie come le “calamines” e le “brouillouses”, nomi inventati attraverso la fusione creativa di parole esistenti, contribuiscono a costruire un’atmosfera straniante che anticipa temi e atmosfere delle Cantilènes en gelée. Il titolo stesso di questa raccolta rappresenta un perfetto esempio della poetica vianesca, giocando sull’accostamento incongruo tra un genere letterario medievale e una preparazione culinaria, trasformando le cantilène, originariamente componimenti lirici o narrativi del Medioevo, in delicate gelatine da assaporare. Questa operazione linguistica riflette l’approccio di Vian alla poesia come a un banchetto verbale in cui le parole si combinano in modi inattesi, spesso grotteschi o macabri, ma sempre carichi di significato e di una musicalità interna che ne fa delle partiture linguistiche più che semplici testi. I venti poemi che compongono la raccolta spaziano dal tono ironico e giocoso a quello tragico e angosciato, passando attraverso tutte le sfumature intermedie, creando una polifonia di voci che rispecchia la complessità dell’esperienza umana. In Ma sœur, ad esempio, una sorella immaginaria viene consegnata in un paniere come un dono di compleanno, con occhi “come spazzole” e una bocca “a forma di salsa rémoulade”, un ritratto che mescola comicità e inquietudine in proporzioni perfettamente calibrate mentre in La vie en rouge, il legame tra madre e figlio viene rappresentato come un “nastro di carne viva”, in un’immagine di violenza esistenziale che riecheggia temi centrali de L’Écume des jours, dove il nénuphar che cresce nel polmone di Chloé diventa simbolo della fragilità della vita e dell’inevitabilità della sofferenza. L’eros e la morte, due temi fondamentali nella poetica di Vian, vengono trattati con un umorismo nero che ne accentua piuttosto che attenuarne la carica destabilizzante. In Les mers de Chine, poema dedicato a Simone de Beauvoir, l’amore si trasforma in un sadico smembramento, con versi che descrivono il desiderio di “dilaniare” le donne, di “tagliare le loro bocche a strisce” e di “vendere i loro resti in cubetti avvolti in carta gialla e cioccolata”, immagini che uniscono la crudeltà alla quotidianità in un mix disturbante e paradossalmente grottesco. In Premier amour, invece, i rituali del corteggiamento vengono ridicolizzati attraverso una serie di gesti meccanici e assurdi, come la verifica delle tonsille della donna amata per evitare contagi, in una parodia delle convenzioni sentimentali che rivela l’artificiosità dei comportamenti sociali. La morte, altro grande tema della raccolta, appare in poemi come Les araignées, dove anziani sinistri, paragonati a ragni gialli, attendono con un sorriso ambiguo la fine dei bambini o in Le grand passage, che evoca l’immortalità come una soglia invisibile, oltre la quale volano uccelli “senza ali né acqua” (sans ailes ni eaux), in un gioco di parole tipicamente vianesco che unisce assurdità linguistica e profondità metafisica, creando un’immagine insieme comica e profondamente perturbante. La pubblicazione delle Cantilènes en gelée nel 1949, in un’edizione limitata arricchita dalle illustrazioni di Christiane Alanore, rappresenta un momento significativo nella carriera di Vian, mostrandone l’eclettismo e la capacità di muoversi tra generi e registri diversi. La raccolta spazia infatti dalle canzoni popolari reinterpretate in chiave surreale ai giochi di nonsense, dalle riflessioni esistenziali alle parodie letterarie, creando un universo verbale ricchissimo e sfaccettato. Poemi come Les instanfataux e La vraie rigolade deridono i luoghi comuni e le ipocrisie sociali con un linguaggio volutamente triviale e ripetitivo che anticipa certe tecniche del teatro dell’assurdo mentre Les mouches, dedicato a Jean-Paul Sartre, parodia l’esistenzialismo attraverso l’immagine grottesca di uomini che “inculano mosche” (con o senza il loro consenso), in una satira feroce della vanità umana e delle filosofie che pretendono di spiegarla. Il sangue, il sesso e la morte si intrecciano in queste poesie come in un caleidoscopio di immagini che sfidano ogni tentativo di categorizzazione, rivelando la natura ambivalente dell’esistenza umana, sospesa tra il grottesco e il sublime, tra il riso e il grido di disperazione. La “alchimia verbale” di Vian, come la definisce Arfeux, trasforma la realtà in un universo visionario dove ogni parola, ogni gioco linguistico, ogni apparente nonsenso diventa strumento di conoscenza e di rivelazione, invitando il lettore a un banchetto letterario in cui ogni piatto, dolce o amaro che sia, riserva sorprese e illuminazioni.